L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

 

L’immaginazione ermetica IV

Un nuovo culto della bellezza, della fisicità, della creatività congiunta all’eros, unitamente all’irrazionale passione verso la magia, reputata come summa di tutte le scienze, sono gli elementi che abbiamo trovato per dare una spiegazione più esauriente alla nascita di Umanesimo e di Rinascimento.

Sono principi indispensabili per comprendere le Carte della memoria, ovvero i tarocchi della immaginazione creati da Giordano Bruno.

Ma prima è meglio approfondire il pensiero di Ficino e Pico, considerati “maestri” dallo stesso Bruno.

Marsilio Ficino è persona mite, scrupolosa, sensibile, contemplativa, filologo, studioso di filosofia greca sino a giungere al fanatismo. Pare che abbia una curiosa abitudine: quella di parlare con Platone, Plotino, Porfirio, e anche Aristotele come se fossero viventi e a lui presenti. Così gli capita di andare a tavola con i suoi parenti e di lasciare posti simbolici a questi filosofi del passato. (Particolarità questa che aveva anche Giorgio Colli, che addirittura faceva parlare i figli con Platone, secondo quanto afferma Marco, il terzogenito.)

È insomma un uomo caro a tutti, sempre pronto al dialogo, alla discussione franca, alla ricerca senza prevenzioni. I suoi contemporanei dicono sia un piacere sentirlo parlare; tanto la sua cultura è universale. Si esprime correttamente in latino e in greco antico, citando a memoria centinaia di passi dei suoi autori preferiti. Un filosofo dunque che custodisce nel cuore la leggiadria e la soavità dei poeti, degli spiriti sognanti ed entusiastici.

Eppure quest’uomo poco incline alla diatriba, quando fonda l’Accademia platonica, grazie al patrocinio di Lorenzo il Magnifico, è spinto soprattutto da una forza polemica contro gli aristotelici del suo tempo (bisogna anche tenere presente l’opera della cultura ferrarese di quegli anni. Basti citare, per tutti, l’azione di Gustino Veronese che, traducendo e lavorando alla Vita di Platone, promosse violenti attacchi alla tradizione aristotelica).

Che cosa rimprovera Ficino a costoro? Quali motivi lo spingono al diverbio con i seguaci di Aristotele, che in alcuni momenti assume le caratteristiche di una vera e propria rissa intellettuale? Le origini della questione vanno ricercate oltre un secolo prima, allorché gli insegnanti universitari del XIII secolo studiano Aristotele, lo parafrasano, lo chiosano, lo adattano al pensiero cristiano. Un’opera di assimilazione che riesce tanto bene da rendere cattolicamente accettabile anche la filosofia di Averroè, un pensatore di ispirazione aristotelica, ma pur sempre di religione islamica (tale assimilazione fu resa possibile grazie al principio della diversità tra «verità di ragione e verità di fede». Entrambe vere, quindi eterne, quindi fatalmente presenti in Dio. Avendo coincidenza nell’essere supremo, non possono contrastare tra di loro). L’autorità di Aristotele doveva servire agli accademici come una sorta di scudo, dietro il quale poter esercitare liberamente l’uso della ragione.

“Se il greco, fonte di ispirazione di san Tommaso D’Aquino, adopera la mente razionale, altrettanto possiamo fare noi.» Questo, in parole semplicissime, doveva essere stato l’intento degli universitari (tali universitari saranno poi definiti da Giordano Bruno «pedanti», ovvero noiosi e reverenti verso il potere). Purtroppo, con i decenni, avvenne esattamente l’opposto: invece di trasformarsi sul modello aristotelico, strutturarono Aristotele su quello della scolastica più chiusa e intransigente, diventando non più esponenti di una nuova ricerca bensì sostenitori di quella mentalità contro cui volevano esercitare il diritto di critica. Giungendo addirittura alla condanna di ogni pensiero divergente (basti pensare al Cremonini, che pure era un aristotelico tra i più blandi, che fu uno dei firmatari della denuncia di “eresia perniciosa” contro Bernardino Telesio).

In realtà Marsilio e il suo gruppo di umanisti divengono platonici non contro Aristotele, ma per avversione all’aristotelismo scolastico, alla cultura cattedratica, avvertita come ipocrita e soffocante.

«Chi non intende la carica polemica» sostiene Garin «a volte violenta del ritorno a Platone, che diventò un po’ alla volta ritorno a Epicuro, ritorno alla Stoa, ritorno al naturalismo presocratico… e, finalmente, ritorno ad Aristotele logico e fisico contro l’aristotelismo metafisico, ossia contro una fisica fattasi teologia; chi non intende questo significato del platonismo, rischia di non capire nulla della cultura filosofica, e non solo filosofica, dal Quattrocento al Cinquecento.» (Anche gli Aristotelici erano però feroci contro i platonici. Giorgio da Trebisonda, per fare un esempio, avvertì il pericolo rappresentato dai neoplatonici, nei confronti di una presunta “ortodossia” cristiana, e arrivò a formulare una “preghiera” diretta ai martiri cristiani, affinché “disperdessero” i platonici che “risorgevano” in Italia. La preghiera è riportata per intero da Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza, pagg. 88-89). Entriamo allora nella villa di Careggi, dove Ficino traduce gran parte dell’opera non solo di Platone, ma anche e soprattutto di Plotino. Cura personalmente la versione in latino, permettendo poi a vari allievi una nuova formulazione in volgare, affinché le opere dei filosofi greci conoscano la più ampia diffusione possibile.

Nicola Abbagnano ebbe a dirmi un giorno che solo del Simposio, a Firenze, circolavano oltre cinquemila copie. Rapportata all’epoca è una cifra a dir poco sbalorditiva.

 

L’immaginazione ermetica III

In un contesto in cui tutti gli umanisti sono dediti a febbrili ricerche di antichi testi, è ovvio che si aggiungano nuove scoperte. Si reperisce il Corpus hermeticum, ovvero una serie di scritti a carattere magico del II-IV secolo dopo Cristo, ma ritenuti erroneamente molto più antichi dagli umanisti. Soprattutto il Picatrix e il Poimander sempre contenuti nel Corpus, parlano di profonde corrispondenze tra cose, esseri viventi e spiriti, che sono poi traducibili in formule magiche, in incantesimi, talismani, amuleti. Con la parola magicamente ritualizzata è possibile giungere alle divinità stellari, agli spiriti ultimi delle cose, alle idee presenti nella mente di Dio: quia verbum in se habet nigromantiae virtutem (il discorso è la specie più virtuosa della magia) (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 66 e segg.).

Pomponazzi, per esempio, che non può essere citato come un umanista che portò alle estreme conseguenze l’armonica concezione platonica, non nega la magia naturale, anzi accetta gli effetti di qualità e potenze umane ignorate. Per similitudine, seguendo la teoria, delle consonanze, il filosofo si chiede perché se certe erbe, o certi odori, producono effetti terapeutici, non sia possibile per certi uomini agire analogamente.

Perché altresì non accettare che l’immaginazione non si ripercuota sul corpo producendovi modificazioni anche perpetue, come le stimmate? Pomponazzi trova la dimostrazione di questa ipotesi nella notte di tregenda in cui i cittadini dell’Aquila riuscirono con intense preghiere ad allontanare il temporale. Fenomeno spiegabile attraverso un processo fisico analogo a quello che si ottiene suonando le campane a stormo, movimenti e modificazioni dell’aria che spostano le nubi per vibrazioni continue. Garin riporta un commento del filosofo quanto mai appropriato: «La si chiami magia poiché solamente i più sapienti fra gli uomini la capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago in persiano significa sapiente. E per il popolo che si sono introdotti angeli e demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono come bestie… Il linguaggio delle religioni, come dice Averroè nella sua poetica, è simile a quello dei poeti… Tali favole servono a condurci alla verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e ritrarre dal male, come si fa per i bambini con la speranza del premio e la paura della pena (op. cit., pagg. 115-116).

Garin aggiunge una sua personale conclusione, secondo cui quando un sentimento religioso decade, anche gli effetti delle preghiere si attenuano e i miracoli non avvengono più, a comprova degli effetti fisici delle preghiere e dei loro propri corollari (ibidem). Insistendo nella sua tesi Garin afferma che Pomponazzi: «tradusse in forma quasi brutale la teoria della fisicità, empiricamente comprovabile, del culto religioso» (ibidem).

Dunque il buon Pomponazzi, filosofo e umanista tra i più tiepidi nei confronti della magia, si lascia andare ad affermazioni quasi paradossali, spiegando tutto il fenomeno religioso in termini di magia pratica, fisica. Arriva addirittura a fornire una spiegazione “razionale” dei miracoli, che sarebbero legati al mutamento delle religioni, in quanto simili cambiamenti rendono difficile il «trapasso da ciò che è consueto a quel che è sommamente inconsueto, [per far ciò] è necessario che la successione della nuova religione sia accompagnata da miracoli straordinari e stupefacenti. Per questo i corpi celesti all’avvento di una nuova religione devono far venire uomini che facciano i miracoli. Così uomini del genere possono far venire e far scomparire piogge, grandine e terremoti, comandare ai venti e al mare, guarire ogni sorta di malattie, svelare i segreti, predire il futuro e ricordare il passato, andare oltre il comune senso della gente. Altrimenti non potrebbero introdurre nuove religioni e nuovi costumi tanto diversi» (Ibidem).

Abbiamo citato Pomponazzi, che ribadiamo era pure un tiepido nei confronti della magia, per mostrare come ormai tale scientia avesse influenzato nel profondo moltissimi intellettuali dell’Umanesimo.

 

L’immaginazione ermetica I

Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.

 

Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.

Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).

Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.

Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.

Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).

In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.

Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.

Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?

Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.

«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.

 

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

 

Il cerchio magico

Sopra: John William Waterhouse, “Il cerchio magico”, 1886

[…]

La mappa del cielo non è più un quadro ben proporzionato di corpi fisicamente determinati, in posizioni e distanze misurabili, in rapporti numerati, con radiazioni che si assommano o si elidono, che agiscono variamente secondo gli angoli d’incidenza, o le intensità. Ci avvolge un padiglione meraviglioso e terribile, da cui esseri demoniaci, divinità maligne o benevole, con i loro sterminati corteggi, dardeggiano influssi d’ogni sorta, esiziali e vitali. Perfino il «dolce» Petrarca canta: «hec supra horrificis diversa animalia passim / vultibus et variis cernuntur[…] figuris». E qui, nel mondo, bisogna giostrare per neutralizzare, o sviare e trasformare le radiazioni cosmiche, ora facendole convergere e concentrare, se benefiche, ed ora disperdendole, o attenuandole, se malefiche, con l’aiuto di pietre, di anelli, di sigilli, e così via. Non solo: bisogna esorcizzare dèmoni e pregare dèi; bisogna imprigionarli in immagini ingannevoli e seducenti – bisogna entrare, insomma, nel cerchio magico degli spiriti.

Eugenio Garin, “Lo zodiaco della vita “, Laterza, Roma-Bari 1976

 

Il cerchio magico

Sopra: John William Waterhouse, “Il cerchio magico”, 1886

[…]

La mappa del cielo non è più un quadro ben proporzionato di corpi fisicamente determinati, in posizioni e distanze misurabili, in rapporti numerati, con radiazioni che si assommano o si elidono, che agiscono variamente secondo gli angoli d’incidenza, o le intensità. Ci avvolge un padiglione meraviglioso e terribile, da cui esseri demoniaci, divinità maligne o benevole, con i loro sterminati corteggi, dardeggiano influssi d’ogni sorta, esiziali e vitali. Perfino il «dolce» Petrarca canta: «hec supra horrificis diversa animalia passim / vultibus et variis cernuntur[…] figuris». E qui, nel mondo, bisogna giostrare per neutralizzare, o sviare e trasformare le radiazioni cosmiche, ora facendole convergere e concentrare, se benefiche, ed ora disperdendole, o attenuandole, se malefiche, con l’aiuto di pietre, di anelli, di sigilli, e così via. Non solo: bisogna esorcizzare dèmoni e pregare dèi; bisogna imprigionarli in immagini ingannevoli e seducenti – bisogna entrare, insomma, nel cerchio magico degli spiriti.

Eugenio Garin, “Lo zodiaco della vita “, Laterza, Roma-Bari 1976

Microcosmo e Macrocosmo

Sopra: “Santa Ildegarda di Bingen e l’uomo al centro dell’universo”,
miniatura dal “Liber divinorum operum” di Ildegarda di Bingen, 1230, Lucca, Biblioteca Statale

Sappi che sei un altro mondo in miniatura e hai in te Sole e Luna e anche le stelle.

ORIGENE, “Homiliae in Leviticum”, 5,2

I dormienti

Uomo ermetico

Sopra: Giuseppe Arcimboldi, “L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo in veste di Vertumno”, 1590-91

Cari amici,

oggi andiamo nella magica Praga di Rodolfo II con questo celebre dipinto di Giuseppe Arcimboldi, nel quale l’imperatore è rappresentato come Vertumno, la divinità di origine etrusca che personificava il mutamento delle stagioni e presiedeva alla maturazione dei frutti. Gli si attribuiva, inoltre, la capacità di trasmutarsi in ogni cosa.
Non a caso il geniale artista lombardo raffigura le fattezze del sovrano attraverso la composizione antropomorfa dei frutti delle quattro stagioni. In questo modo il Rodolfo-Vertumno rappresenta la sintesi delle energie sia vitali sia psichiche del creato, e il suo corpo diviene un hortus (la radice della parola homo è molto vicina a quella di humus). Questo intreccio tra piano reale e piano immaginale, tra spirito e materia, è fondamentale per comprendere la figura del sovrano, poichè fu uno dei più appassionati esoteristi dell’epoca. Non a caso, anche qui, la figura di Giordano Bruno fu determinante. Vi lascio, a proposito, questo mio vecchio scritto:

Nel marzo del 1588 l’italiano è a Praga dove conosce Rodolfo II. È un incontro fondamentale per entrambi, decisivo per il re, Rodolfo è un appassionato esoterista, ha conosciuto i massimi maestri contemporanei dell’ermetismo ed è felice di poter parlare con il “mago di Nola”, la cui fama è ormai diffusa in tutta Europa. Nel palazzo che prende nome dallo stesso re avviene uno dei dialoghi più suggestivi di quell’epoca. “Ritorno a Platone”, così lo definisce il Turnejser, fedelissimo al filosofo, forse accecato dall’amore. Ugualmente, al di là dell’enfasi, Rodolfo muterà di fatto la intelligenza che può divenire universale, di una memoria edificata sul modello dell’universo, di una immaginazione dilatata sino alle stelle, alle idee eterne e infinite, presenti nella “mente di Dio” (De umbris idearum e Cantus circaeus, Atanòr, cura di G.L.P,  “Introduzione” pag. 24 e 27).

Il principe è come folgorato. Da questo momento farà ricercare tutti i testi di alchimia esistenti, i compendi di ermetismo, i testi neoplatonici, costituendo una biblioteca unica nel suo genere. È una sorta di malia. Da un punto di vista prettamente culturale è un evento foriero di grandi iniziative, sia per la filologia, sia per il nascente sperimentalismo. Politicamente provocherà l’isolamento progressivo di Rodolfo; alla sua morte si scatenerà la lotta per l’investitura che finirà per precipitare l’Europa nella guerra dei trent’anni. (F.A. Yates, L’Illuminismo dei Rosacroce, cit., pag. 65 e segg., dove è esaminata la cosiddetta “questione di Praga”, con la relativa defenestrazione degli ambasciatori della Lega cattolica. I boemi, abituati allo spirito di tolleranza e alle aperture religiose e filosofiche di Rodolfo, non potevano accettare l’idea di essere governati da un fanatico cattolico. «Il problema fu per breve tempo rinviato con l’elezione all’impero e alla corona di Boemia del fratello di Rodolfo, Mattia, vecchio e inetto, che morì presto a sua volta, e dopo di lui non fu più possibile rimandarlo. Le forze della reazione si stavano raccogliendo. Solo pochi anni di tregua vi sarebbero stati prima della ripresa delle guerre di religione. Il candidato più prossimo all’impero e al trono di Boemia era l’arciduca Ferdinando di Stiria, un Asburgo fanaticamente cattolico, educato dai gesuiti e risoluto a sgominare l’eresia. Nel 1617 Ferdinando di Stiria diventò re di Boemia. Fedele alla sua educazione e alla sua natura, egli pose immediatamente fine alla politica di tolleranza religiosa di Rodolfo» (F.A. Yates, op. cit., pag. 23). Questi motivi spinsero i boemi a nominare nel 1619 Federico del Palatinato legittimo successore di Rodolfo, di cui condivideva gli interessi esoterici. Non a caso era stato in Inghilterra e aveva conosciuto gli stessi nobili fedeli all’ermetismo bruniano. L’elezione finirà nel disastro della battaglia della Montagna Bianca, e la perdita della libertà per i boemi e i moravi. Fornirà inoltre l’occasione per la guerra dei trent’anni. Molti storici fanno risalire al mancato intervento dell’Inghilterra, a fianco del Palatinato, la vera motivazione della sconfitta e della futura interminabile guerra. I nobili elisabettiani di ispirazione ermetica avevano infatti consigliato re Giacomo di entrare nello scontro.)

Fondata una biblioteca ermetica, stabiliti due corsi allo Studio, creata una rete di fedeli allievi, Bruno si muove ancora. Le motivazioni non sono quindi da ricercare in un ambiente ostile e respingente, bensì nell’esigenza del filosofo di cercare altri da sensibilizzare alla sua visione teorica e pratica dell’uomo e del suo compito sulla Terra.

Sopra: La Cattedrale di San Vito a Praga, dove riposa l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo

Contemplazione

“Tutto deriva dalla contemplazione ed è contemplazione”.

Plotino

(Hieronymus Bosch, San Giovanni Battista in meditazione, 1489 – 1499)

In cerca di SOPHIA

Sopra: Quentin Varin, “Tabula Cebetis”, 1600-1610, Rouen, Musée des Beaux-Arts

Viaggiatori cari,

oggi vi propongo questa allegoria complessa e articolata del pittore francese Quentin Varin (ca. 1570 – 1634). L’ispirazione è tratta dai contenuti della “Tabula Cebetis”, o “Pinax”, un trattato sulla vita umana attribuito erroneamente al filosofo tebano Cebeto, vissuto tra il V e il IV sec. a.C., ma in realtà probabilmente composto da un neopitagorico del I sec. d.C. Al di là di questo, c’è un messaggio importante in questa raffigurazione… Parliamone insieme.

“Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù”

Sopra: Dosso Dossi, “Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù”, 1523-24 ca.

Amatissimi,

vi propongo oggi questo particolare dipinto del grande pittore Giovanni di Niccolò Luteri, detto comunemente Dosso Dossi (1486? – 1542 ca.), uno dei principali artisti attivi alla corte ferrarese degli Este all’epoca dell’Ariosto.

Caliamoci ora in quell’epoca e nella Ferrara nel primo Cinquecento, e comprendiamo i complessi intrecci allegorici ed esoterici che animano l’opera. Che vi sia un messaggio nascosto, “secreto”? Aspetto le vostre riflessioni.

Marsilio Ficino: “La follia erotica”

Sopra: la cupola del Pantheon a Roma.

Carissime e carissimi,

eccovi l’ultima “follia” di Marsilio Ficino. Aspetto, come sempre, le vostre considerazioni:

Quando finalmente l’anima è stata resa uno, uno, dico, che è nella natura e nell’essenza stessa dell’anima, si ferma per ricondursi subito nell’uno che è al di sopra dell’essenza, cioè  in Dio.
Questo la Venere celeste porta a compimento attraverso l’amore, cioè attraverso il desiderio della bellezza divina  e l’amore appassionato per il bene.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

(vedi la “Follia poetica”; vedi la “Follia sacerdotale”; vedi la “Follia profetica”)

“Io credo che questo brano di Marsilio Ficino non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni, talmente è chiaro il suo significato: l’Amore in terra prelude all’Amore celeste. L’Amore dell’amante è propedeutico all’Amore divino. Ed entrambi, nel pensiero Sufi, l’Amore divino rende possibile l’Amore umano”.

Gabriele

(Grazie per i vostri contributi, tutti di un buon livello psichico). 

Marsilio Ficino: “La follia profetica”

Sopra: John Collier, “Priestess of Delphi”, 1891

Essendo state le singole parti dell’anima ricondotte a un’unica mente, l’anima da molte che era, è resa adesso un’unica cosa.
Ma è necessaria ancora una terza follia che riconduca la mente alla stessa unità, la testa dell’anima.
Questo fa Apollo attraverso la profezia.
Infatti quando l’anima sale nell’unità al di sopra della mente prevede il futuro.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

(vedi la “Follia poetica”; vedi la “Follia sacerdotale”)

“Pallade e il centauro”

Carissime amiche e carissimi amici,

vi propongo ancora un dipinto di Sandro Botticelli, “Pallade e il centauro”, 1482-83 ca. I soggetti mitologici e le scene del grande Maestro si prestano, come sempre, a molti e complessi livelli di lettura. Cosa si cela, secondo voi, in queste figure? Condividiamo le nostre emozioni, sensazioni, intuizioni…

Marsilio Ficino: “La follia sacerdotale”

Sopra: umanisti dell’Accademia neoplatonica. Da sinistra Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Agnolo Poliziano e Demetrio Greco. Affresco di Domenico Ghirlandaio, “Annuncio dell’angelo a Zaccaria”, Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, 1485-90.

La molteplicità infatti resta ancora nell’anima. Interviene allora il mistero legato a Diòniso, che, con espiazioni, sacrifici e ogni forma di culto divino, dirige l’intonazioni di tutte le parti verso la mente, con la quale Dio è adorato. Per cui, essendo state le singole parti dell’anima ricondotte ad un’unica mente, ora l’anima da molte cose diventa un’unica cosa.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

(vedi la “Follia poetica”)

Marsilio Ficino: “La follia poetica”

Giorgione o Tiziano, “Concerto campestre”, 1509 ca.

Oggi entriamo nel primo degi stadi della FOLLIA secondo Marsilio Ficino… aspetto le vostre riflessioni:

L’anima è tutta piena di discordia e dissonanza; quindi per prima cosa è necessaria la follia poetica, che attraverso i toni musicali risvegli ciò che è intorpidito, attraverso la dolcezza dell’armonia plachi ciò che è turbato, e infine attraverso la consonanza delle cose diverse cacci la dissonante discordia e temperi le varie parti dell’anima.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

A proposito di ANIMALI

Animali

Uomo! libero pensatore – ti credi al mondo
solo a pensare, mentre la vita irrompe in ogni cosa:
delle tue forze la libertà dispone,
ma dai consigli tuoi è assente l’universo.

Rispetta nell’animale uno spirito attivo…
È un’anima, ogni fiore, dischiusa alla Natura;
nel metallo riposa un mistero d’amore:
tutto è sensibile; – E tutto ti sovrasta!

(Gerard de Nerval)

Platone sosteneva di amare “gli antichi perché più vicini agli dèi”…
La stessa idea che il rispetto degli animali consista nell’astenersi dall’ucciderli per cibarsene non è moderna, ma molto, molto antica. Il grande filosofo Plutarco condannava con veemenza l’uso di mangiare carne, e l’uso di pratiche crudeli per il solo scopo di ottenere “succulenti manicaretti”. Inoltre, il filosofo di Cheronea esaltava i Pitagorici per il loro rispetto e per la loro compassione verso gli animali. È il caso dei Giainisti, che praticano una forma estrema di non-violenza: rinunciano a cibarsi non solo di carne, ma anche di qualsiasi cosa contenga un principio vitale, come i semi. Tale credo è addirittura più antico del Buddismo (e quindi anche di Plutarco). Il rispetto dei monaci giainisti per la vita è tale che si mettono una pezzuola sulla bocca e procedono con una ramazza per evitare di uccidere senza motivo anche le creature più minuscole. In occidente, a parte rare eccezioni, si ha sempre avuta la presunzione tipica della ratio materialista, che tutto quello che viene ritenuto privo di ragione può essere assolutamente sacrificato agli scopi umani. Questo ad esempio anche la posizione di molti grandi filosofi, compreso Aristotele.
Si giudica tutto in base alla ragione, e quindi in modo razionale, e non in modo ragionevole.
Esiste un filo potente che unisce Buddisti, Giainisti, Pitagorici e Neoplatonici: Psiche, la sua immortalità e la fiducia nella trasmigrazione delle Anime (compresa l’incarnazione in corpi animali o vegetali). Ogni essere partecipa ad un’unica vita universale: «Essere vivi significa essere anime vive. Un animale – e tutti noi siamo animali – è un’anima racchiusa in un corpo» (Elizabeth Costello).

(vi riporto questi pensieri anche se non sono vegetariano, ma mangio comunque pochissima carne)

L’Arte divina

Domenica 10 gennaio alle ore 6:15 circa, andrà in onda su Rai 2 una trasmissione speciale di Inconscio e Magia – Psiche dal titolo “L’Arte divina”, dedicata alla straordinaria figura di Giordano Bruno. Si affronteranno, in particolare, i temi dell’Arte della Memoria e della Magia.Vi lascio con questa illuminazione, eterna e magnifica, del filosofo:

«Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi»

(Giordano Bruno)

Buon fine settimana. Con affetto. Un abbraccio!

REINCARNAZIONE E SOPHIA

Cari amici, il 20 dicembre 2009 (nella notte tra sabato 19 e domenica 20) alle ore 2:00 circa su RAI 1 andrà in onda una trasmissione speciale interamente dedicata ai temi della Reincarnazione e della Sophia. L’iter sarà scandito da contributi letterari e cinematografici e dall’intervento di specialisti del settore, come Gian Carlo Benelli ed Andrea Aromatico. Lo speciale proseguirà e si estenderà interamente nella notte affrontando i misteri legati alla vicenda dei Templari e l’Ermetismo di Giordano Bruno.

Un abbraccio. A presto!

Nell’Interiorità di Anima — “Bellezza”

Queste sono le emozioni che devono sorgere al contatto di ciò che è il bello sensibile: lo stupore, la meraviglia gioiosa, il desiderio, l’amore, e lo spavento accompagnato da piacere. Ma è possibile provare queste emozioni – e l’anima infatti le prova – anche riguardo alle cose invisibili; ogni anima, per così dire, le prova, ma specialmente quella che ne è innamorata.

Plotino, Enneadi, I 6, 4, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

Marsilio Ficino

Ficino, in realtà, è un autore di psicologia, uno psicologo del profondo, si potrebbe dire. Quando il giovane Marsilio fu presentato alla corte dei Medici da suo padre, che era medico di corte, Cosimo il Vecchio osservò che il suo destino sarebbe stato quello di curare l’anima degli uomini, così come quello del padre era di curarne il corpo. E infatti, come scrisse Panofsky, il movimento di idee da lui iniziato esercitò «un’influenza paragonabile soltanto, per ampiezza e intensità, a quella esercitata oggi dalla psicanalisi». Tuttavia a meritare il paragone con la psicanalisi non è soltanto la forza delle idee di Ficino, ma anche il loro contenuto.
«Ficino, che aveva mutuato dalla tradizione neoplatonica molti elementi del suo sistema, la modificò scientemente su un punto decisivo, la posizione centrale dell’anima umana» (Paul Oscar Kristeller). Scrive Ficino: «Questo (l’anima) è il più grande di tutti i miracoli della natura. Tutte le altre cose al di sotto di Dio sono sempre un essere singolo, ma l’anima è tutte le cose insieme… Perciò essa può giustamente essere chiamata il centro della natura, il termine mediano di tutte le cose, la continuità del mondo, il volto di tutto, vincolo e copula dell’universo».
Con il porre l’anima al centro, la filosofia di Ficino diventa psicologica, e Ficino riconosce che la filosofia si fonda sull’esperienza psicologica, ne è modificata e la modifica a sua volta.

James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

L’immaginazione ermetica X

Alla fine del 1585 Giordano Bruno è a Parigi (vedi articolo precedente) e scrive Arbor philosophorum, Figuratio aristotelici phisici auditus, Dialogi due de Fabricii, Mordentis prope divina adinventione, 120 Articuli adversus Peripateticos. Opere con una unica linea conduttrice, la diffusione capillare dell’“arte” e dei princìpi esoterici a essa sottintesi. Anzi, Bruno diventa sempre più “scoperto” e manifesto nelle sue intenzioni. A Cambray sostiene una pubblica disputa contro gli aristotelici, di qualunque tendenza. Insomma il nolano non fa differenze tra cattolici e protestanti, ma tra uomini aperti alle nuove conoscenze, alla tanto vagheggiata unità, e quelli protesi alle “chiusure accademiche”, disposti sempre a trovare differenze e contrasti, per questo tendenti alla prevaricazione e alla guerra (Eugenio Garin ha ampiamente dimostrato, nel suo Umanesimo italiano, come anche Pico della Mirandola condividesse in precedenza tali posizioni, arrivando alla formulazione di un uomo europeo dal destino «comune» per la creazione di un paese «unitario»).

Ancora una volta l’ingenuità del filosofo è sconcertante, infatti esce allo scoperto proprio nel momento in cui i suoi protettori, vicini a Enrico di Navarra, sono caduti in sospetto presso le autorità ecclesiastiche. Qualche mese prima il Guisa ha addirittura accusato Enrico III di eresia con il Manifesto di Peronne, e il cardinale di Lorena ha condannato come “nemico di Iddio” ogni seguace del “partito dei Navarra”. Sarebbe stata ancora una volta più auspicabile una maggiore prudenza, ma Bruno si considera propugnatore di un nuovo modello di vita, consiglia a tutti di rappresentare pittoricamente le immagini della memoria, crede ciecamente nella efficacia di tali pitture, e quindi non può attendere. Le conseguenze sono le solite: deve fuggire (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 318 e segg.).

Nel 1586 arriva in Germania, a Wittenberg, dove s’immatricola nello Studio e dove ottiene una pubblica lettura di filosofia.

Malgrado le difficoltà, le ingiurie, le accuse di magia, forse di stregoneria, le ostilità dei fanatici religiosi, l’ex domenicano raggiunge subito una posizione pubblica di grande prestigio. E dunque evidente, tali incarichi lo attestano, l’esistenza di una rete segreta di amicizie, anche ad altissimo livello sociale. Qualcuno ha addirittura ipotizzato una specie di congrega con rituali e clausole simili alla massoneria; forse è una esagerazione, ma certamente si deve supporre la realtà di persone unite da una ideologia, che permettesse di superare le barriere di nazionalità e di religione (Lucio Battistini, Società e sette segrete nella Europa rinascimentale, Del Graal, pag. 75 e segg.).

Ed ecco infatti una serie di pubblicazioni: De lampade combinatoria, De progressu et lampade venatoria logicorum, Artificium perorandi, Animadversiones circa lampadem lullianam, Lampas triginta statuarum, volumi da considerare quale ideale continuazione del De umbris. In essi Bruno conferma di voler diffondere una scienza, quella della memoria combinatoria, ricalcata in parte da Agrippa e da Lullo, per edificare una nuovissima umanità, capace di elevarsi al di sopra dei tempi presenti, corrosi dall’odio, per costruire un universo di tolleranza e di sapienza (in effetti Bruno ormai cerca «lo scopo definitivo»: ristrutturare l’umanità. Le sue immagini sono sempre più indicate quale mezzo per una modificazione intellettuale. Segni e colori dovrebbero sortire l’effetto di totale sconvolgimento psichico, al di sopra della volontà dell’osservatore, agendo, secondo le intenzioni del filosofo, a livello inconscio).

I tempi si fanno però durissimi; prevale la fazione religiosa opposta a quella più “permissiva” che gli consentiva di tenere lezioni davvero poco ortodosse. Deve di nuovo ripartire, ma prima pronuncia l’Oratio Valedicatoria, con cui si accomiata dallo Studio e dai suoi studenti. È un momento di grande effetto, non nuovo alla tempra di Bruno. In una sala con le guardie alle porte, pronte anche all’arresto, tra insegnanti colmi di risentimento, in mezzo a un pubblico eterogeneo, composto soprattutto da popolani accecati dal fanatismo religioso, il piccolo filosofo avanza deciso e osservando gli studenti esordisce: «A voi spiriti tolleranti, dagli occhi nuovi, è diretta questa orazione per tempi diversi».

Una vera provocazione, accompagnata da un tono durissimo della voce, e una precisa intenzione di non cedere a quello che per lui è un ennesimo sopruso. Eppure l’Oratio è uno dei più bei documenti del tardo Rinascimento, dove convergono due elementi fondamentali: l’irripetibilità della coscienza capace di autodeterminarsi e la fondamentale bontà dell’uomo aperto alla ricerca, qualunque essa sia. Quando Bruno termina seguono momenti di silenzio, poi è una esplosione di applausi: sono i suoi alunni presi da una autentica frenesia da ammirazione. I suoi nemici nulla possono e devono lasciarlo partire (Francesco De Cristofanis, “L’ermetismo come piaga”, L’Astrale, maggio 1975, pag. 23).

C’è una precisa differenza, continuamente riproposta, tra studenti e corpo accademico. Bruno riuscirà sempre a trascinare con sé i giovani, mai gli insegnanti, soprattutto gli umanisti di grammatica. Lo stereotipo dell’insegnamento aristotelico e una barriera incessantemente eretta contro di lui. Un ostacolo di prevenzione e di ostilità mai superata (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 240 e segg.). Odi viscerali lo perseguitano, dovunque, quasi un invisibile tentacolo, prima o poi stringente sino al soffocamento. In antitesi c’è l’amore dei giovani, una considerazione sconfinata, come una idolatria, priva di qualsivoglia critica razionale. Un abbandono emotivo che consentirà al filosofo di avere seguaci fedelissimi e devoti sino al sacrificio (Mario Spini, Note bruniane, Edizioni del Labirinto, pag.55).

Nel marzo del 1588 l’italiano è a Praga dove conosce Rodolfo II. È un incontro fondamentale per entrambi, decisivo per il re, Rodolfo è un appassionato esoterista, ha conosciuto i massimi maestri contemporanei dell’ermetismo ed è felice di poter parlare con il “mago di Nola”, la cui fama è ormai diffusa in tutta Europa. Nel palazzo che prende nome dallo stesso re avviene uno dei dialoghi più suggestivi di quell’epoca. “Ritorno a Platone”, così lo definisce il Turnejser, fedelissimo al filosofo, forse accecato dall’amore. Ugualmente, al di là dell’enfasi, Rodolfo muterà di fatto la intelligenza che può divenire universale, di una memoria edificata sul modello dell’universo, di una immaginazione dilatata sino alle stelle, alle idee eterne e infinite, presenti nella “mente di Dio” (De umbris idearum e Cantus circaeus, Atanòr, cura di G.L.P,  “Introduzione” pag. 24 e 27).

Il principe è come folgorato. Da questo momento farà ricercare tutti i testi di alchimia esistenti, i compendi di ermetismo, i testi neoplatonici, costituendo una biblioteca unica nel suo genere. È una sorta di malia. Da un punto di vista prettamente culturale è un evento foriero di grandi iniziative, sia per la filologia, sia per il nascente sperimentalismo. Politicamente provocherà l’isolamento progressivo di Rodolfo; alla sua morte si scatenerà la lotta per l’investitura che finirà per precipitare l’Europa nella guerra dei trent’anni. (F.A. Yates, L’Illuminismo dei Rosacroce, cit., pag. 65 e segg., dove è esaminata la cosiddetta “questione di Praga”, con la relativa defenestrazione degli ambasciatori della Lega cattolica. I boemi, abituati allo spirito di tolleranza e alle aperture religiose e filosofiche di Rodolfo, non potevano accettare l’idea di essere governati da un fanatico cattolico. «Il problema fu per breve tempo rinviato con l’elezione all’impero e alla corona di Boemia del fratello di Rodolfo, Mattia, vecchio e inetto, che morì presto a sua volta, e dopo di lui non fu più possibile rimandarlo. Le forze della reazione si stavano raccogliendo. Solo pochi anni di tregua vi sarebbero stati prima della ripresa delle guerre di religione. Il candidato più prossimo all’impero e al trono di Boemia era l’arciduca Ferdinando di Stiria, un Asburgo fanaticamente cattolico, educato dai gesuiti e risoluto a sgominare l’eresia. Nel 1617 Ferdinando di Stiria diventò re di Boemia. Fedele alla sua educazione e alla sua natura, egli pose immediatamente fine alla politica di tolleranza religiosa di Rodolfo» (F.A. Yates, op. cit., pag. 23). Questi motivi spinsero i boemi a nominare nel 1619 Federico del Palatinato legittimo successore di Rodolfo, di cui condivideva gli interessi esoterici. Non a caso era stato in Inghilterra e aveva conosciuto gli stessi nobili fedeli all’ermetismo bruniano. L’elezione finirà nel disastro della battaglia della Montagna Bianca, e la perdita della libertà per i boemi e i moravi. Fornirà inoltre l’occasione per la guerra dei trent’anni. Molti storici fanno risalire al mancato intervento dell’Inghilterra, a fianco del Palatinato, la vera motivazione della sconfitta e della futura interminabile guerra. I nobili elisabettiani di ispirazione ermetica avevano infatti consigliato re Giacomo di entrare nello scontro.)

Fondata una biblioteca ermetica, stabiliti due corsi allo Studio, creata una rete di fedeli allievi, Bruno si muove ancora. Le motivazioni non sono quindi da ricercare in un ambiente ostile e respingente, bensì nell’esigenza del filosofo di cercare altri da sensibilizzare alla sua visione teorica e pratica dell’uomo e del suo compito sulla Terra.

Nell’Interiorità di Anima — “Anime umide”…

Un passo ancora verso Anima… Porfirio è uno dei più illustri rappresentanti della scuola neoplatonica. Nella sua opera confluiscono i grandi temi della filosofia magico-occultistica di derivazione orientale. Esploriamone insieme alcune folgori da quel compendio di saggezza interiore che è “L’antro delle Ninfe”.

 

Anime umide

Con Ninfe Naiadi indichiamo in senso specifico le potenze che presiedono alle acque, ma i teologi designavano tutte le anime in generale che discendono nella generazione. Essi, infatti, ritenevano che tutte le anime si posassero sull’acqua che, come dice Numenio, è divinamente ispirata; egli afferma che proprio per questo motivo anche il profeta disse: «il soffio divino si muoveva nell’acqua». Per questo – dice – gli Egiziani collocano gli esseri divini non sulla terraferma, ma tutti su una barca, sia il Sole sia, in generale, tutti: bisogna sapere che questi sono le anime che, planando sull’acqua, discendono nella generazione. Di qui il detto di Eraclito:  «per le anime è piacere, non morte, divenire umide», cioè è un piacere cadere nella generazione, e altrove egli dice: «noi viviamo la morte di quelle, e quelle vivono la nostra morte». Perciò, per Numenio, il poeta chiama «umidi» coloro che sono nella generazione, avendo anime umide. Esse, infatti, amano il sangue e il seme umido, e le anime delle piante si nutrono di acqua.

(Porfirio, L’antro delle Ninfe, Gli Adelphi, 2006, pag. 51)

 

 Armonia e tensione di contrari

Poiché la natura ha origine dalla diversità, ovunque l’entrata a due porte ne è simbolo. Il cammino, infatti, può avvenire o attraverso l’intellegibile o attraverso il sensibile, e quello attraverso il sensibile o attraverso la sfera delle stelle fisse o attraverso i pianeti, e ancora, o attraverso un cammino immortale o mortale. C’è un centro sopra la terra e uno sotto terra, uno a oriente e uno a occidente, la sinistra e la destra, la notte e il giorno; e per questo è «armonia e tensione dei contrari» e scocca dardi dal suo arco per l’esistenza dei contrari. Platone parla di due imboccature: attraverso una si risale al cielo, dall’altra si scende sulla terra, e i teologi fecero del sole e della Luna le porte delle anime che risalgono per la porta del Sole e discendono per quella della Luna; e in Omero ci sono due orci:

dei doni che concede, l’uno dei cattivi, dei buoni l’altro.

(Porfirio, L’antro delle Ninfe, Gli Adelphi, 2006, pag. 77)

L’immaginazione ermetica IX

Torniamo all’arrivo di Giordano a Parigi (vedi articolo precedente). Finalmente è a diretto contatto con un ampio cenacolo di intellettuali, lettori, nobili, guerrieri, che condividono i suoi stessi princìpi. È davvero come essere giunti alla casa paterna, sempre desiderata e mai abitata. Bruno è felice, si forma subito una schiera di allievi, tutti nobili del seguito di Enrico III, e persino l’erede al trono lo segue come un’ombra, dovunque. È il suo più attento studente sia quando impartisce lezioni all’università, sia allo Studio del re, sia all’accademia della nazione. In breve tempo il filosofo dà alle stampe tre opere, De umbris idearum, Cantus circaeus, De compendiosa architectura (soprattutto il De umbris e il Cantus sono essenziali per capire la particolarissima tecnica della memoria del filosofo). Inoltre pubblica una commedia in volgare, il Candelaio. Questa sarà una prassi ricorrente del filosofo: scrivere testi in latino, che contengano i princìpi pratici dell’ermetismo, ovvero volumi da cui il lettore possa evincere tecniche e rituali, e poi, accanto a questi, libri con i princìpi teorici, filosofici, della sua concezione del mondo. Insomma Bruno dà la pratica unitamente alla teoria, probabilmente per mostrare quanto i princìpi tecnici della “sua” arte della memoria avessero come supporto una profonda concezione culturale, risalente addirittura, a suo dire, agli antichi egizi.

Riflettendo sul comportamento di questo sognatore si prova un sentimento di ammirazione, non fosse altro per la sua ingenuità politica. Rispetto agli ingegni in qualche modo a lui similari, come Lullo, Moro, Bacone, il nolano non mostra un briciolo di prudenza. Ovunque dichiara subito le proprie intenzioni, attacca i fanatici, chiunque essi siano, i finti professori, gli accademici di parte, insomma tutti quelli che, secondo lui, osteggiano l’unità delle genti. E le conseguenze non si faranno mai attendere troppo. (Occorre non fraintendere la carica del filosofo quando contesta gli uomini di scienza. La sua non era mai aggressività dovuta alla necessità di difendere posizioni e privilegi che del resto aveva già sin dai tempi di Ginevra, purché si fosse mostrato più accorto, ma una precisa esigenza di smascherare, a suo dire, tutti gli avversari della “prisca teologia”, ovvero della religione degli antichi padri, forse identificati fantasticamente con gli egizi, che non vedevano differenze di credo tra gli uomini. In questo Bruno si mostra un vero e proprio missionario dell’onirismo ermetico.)

Di fronte a Enrico III dà un saggio delle sue capacità di memoria e di cultura, rispondendo ai quesiti che gli pongono oltre cento professori, quasi tutti seguaci del Guisa o oltranzisti protestanti. Fa un’eccellente figura, nessuno può stargli alla pari, ma gli odi si inaspriscono. Perché lui non è né cattolico, ne protestante, né ugonotto, né calvinista, né altro. È un visionario di ispirazione ermetica, ancorché simpatico a noi contemporanei. Certo, calandosi nei panni dei dottori dell’epoca, non doveva certo essere divertente, per loro, sentirsi accomunati a lucertole, cercopitechi, gufi, insomma a tutto un bestiario che incarnava ignoranza e cecità. La scena avvenuta innanzi a Enrico deve essere stata poi particolarmente sublime. Da una parte una folla di pretesi sapienti, con le loro palandrane, compunti nel ruolo di “professi” di ogni disciplina, tutti intenti a scartabellare volumoni per trarre quesiti impossibili, e dall’altra un omino furente e ironico, sempre pronto alla battuta, padrone di ogni argomento. Probabilmente proprio in questa occasione cominciano a diffondersi le prime accuse di magia. Quando, nei giorni successivi al memorabile scontro, le invettive giungono all’orecchio del filosofo, riferite dal Delfino preoccupato per la sorte del suo ormai maestro prediletto, la reazione è in tutto e per tutto, degna del suo temperamento meridionale. Una risata seguita da un’affermazione decisa. Ma certo che è accusato di magia, chi lo dice ha perfettamente ragione, perché in effetti è un mago, e che altro se no? Non lo era forse Ermete Trismegisto? E prima di lui Mosè? E tutti i grandi padri della filosofia greca, Socrate e Platone primi fra tutti? Per tacere di Plotino, Porfirio e del più grande di tutti, Virgilio stesso, «il savio gentil che tutto seppe». E per fortuna, in questa occasione, Bruno non accomuna, nella tradizione ermetica, anche Cristo e Maometto, cosa che invece farà qualche anno dopo a Venezia, di fronte a un esterrefatto Mocenigo. Questa è un’altra delle grandi allucinazioni, anche se con qualche attento riferimento ad alcune fonti, degli ermetici. Anche Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti e segretamente il Poliziano amavano trovarsi dei “padri” che condividessero le teorizzazioni dell’ermetismo. Ficino afferma, come si è già visto negli articoli precedenti, che la magia, qualora sia «naturalis», non è difforme dal cristianesimo (Eugenio Garin, La disputa sull’astrologia, cit., pag. 97 e segg.)! Ed è quindi logico, nel paradosso, che Bruno si spinga oltre Marsilio, da lui considerato come un maestro (F.A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, pag. 145 e segg.; a cura di G. Gentile, Opere italiane, I, Dialoghi metafisici, pag. 87 e segg.; Luigi Firpo, Scritti scelti di Giordano Brano e Tommaso. Campanella, edizione del 1968, “Introduzione”).

A sua volta Tommaso Campanella, seguace del filosofo, ma sarebbepiù proprio dire del mago di Nola, andrà oltre, teorizzando la magia come unica vera scienza unificante ogni credo di qualsiasi nazione e tempo.

L’erede al trono, dapprima perplesso, sentendo dalla bocca del suo ammirato maestro simili affermazioni, condivide immediatamente ogni proposizione “magica” e nell’ardore giovanile ne discute pubblicamente nei giorni successivi, anche alla presenza degli oltranzisti cattolici (James Leroy, “Trinity Road”, in Oxford Revue, pag. 100 e segg.). Forse sarà stato anche questo motivo a spingere Enrico ad affrettare i tempi della “missione” del filosofo italiano in terra inglese (I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Nel 1583 Bruno è in Gran Bretagna, dove a Oxford insegna nello Studio e stampa immediatamente altri tre trattati mnemonici, Ars reminiscendi, Explicatio triginta sigillorum, Sigillus sigillorum. Inoltre cura una riedizione del De umbris e del Cantus.

È circondato da amici fidati e da ammiratori: lo dimostra la diffusione capillare delle sue opere, l’importanza della cattedra affidatagli e i contatti con sir Sidney, il gran favorito della regina Elisabetta. Intorno alla sovrana, illuminata nelle cose di lettere e di scienza, oltre che nella diplomazia, esiste da tempo un gruppo di nobili permeati di esoterismo, i quali già conoscono bene sia le opere di Bruno, sia i neoplatonici fiorentini come Ficino e Pico della Mirandola (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 90 e segg.). È un vero e proprio partito della “pace”, con stabili contatti in Francia. Nobili di Enrico e di Elisabetta tendenti a trovare punti di tolleranza tra le diverse confessioni, al di là delle posizioni ufficiali.

Si potrebbe discutere a lungo se sia l’ermetismo a spingere costoro verso la reciproca comprensione o viceversa, anche se recentissime indagini tendono a preferire la prima ipotesi. Si è infatti già osservato come sia connessa all’ideologia neoplatonica un’istanza di universalità delle genti, in nome di un “bene” superiore ai singoli paesi (Philip Newton Stuart, The Sun and the Queen, Dumont, pag. 45 e F.A. Yates, Shakespeare, un nuovo tentativo di approccio, Einaudi, pag. 60 e segg.).

Anche a Oxford il particolare temperamento dell’uomo “venuto dal sud” ha modo di evidenziarsi quasi immediatamente. È la copia della dimostrazione avvenuta in terra di Francia, al cospetto di Enrico. Dottori in ogni disciplina si affollano per saggiare le doti culturali dell’italiano, segretamente speranzosi di metterlo in difficoltà. Forse tra loro si celano dei protestanti accesi, della stessa specie, in campo avverso, dei seguaci del Guisa (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 231). Anche qui Bruno raccoglie rancori e odi, e addirittura un’accusa di plagio dell’opera di Marsilio Ficino (ivi, pag. 232). Da quest’ultima si difende dichiarandosi seguace della magia naturalis del neoplatonico toscano, anche se in piena autonomia creativa. I suoi studi si spingono ben oltre Ficino, arrivando a contemplare una scienza assoluta, appunto l’ars memoriae. Ma non quella classica dei retori, bensì un nuovo tipo, a forte caratteristica magica.

L’Inghilterra è un paese dove da un decennio i cavalieri “della regina” studiano esoterismo, ma segretamente, così che a livello ufficiale le affermazioni di Bruno, malgrado un ambiente nobiliare in parte favorevole, non possono suscitare che scalpore. Il filosofo è invitato a Londra, ospitato direttamente in casa dell’ambasciatore francese Michele di Castelnau.

Qui vive forse il periodo più piacevole di tutta la sua vita, circondato da amici e ammiratori. Frequenta le personalità più di spicco della cultura inglese, tutti appartenenti al “partito della pace”, quali Greville, Walshingham, Giovanni Smith, Matteo Gwynn e il Florio. E forse addirittura Shakespeare e la sua compagnia di particolari attori e commedianti. (I contatti tra Bruno e il grande autore inglese sono stati appena accennati dalla Yates nell’opera già citata, ma meriterebbero davvero una pubblicazione a parte, anche perché la compagnia di Shakespeare è strettamente connessa al movimento rosacrociano.)

La Yates ha dimostrato ampiamente come l’ermetismo fosse in qualche modo il coibente tra il filosofo e tali personaggi, unitamente al disprezzo verso l’accademismo umanistico e l’aristotelismo grammarian. Anche Aquilecchia ha comprovato quanto un nuovo modello di scientia si affermasse in tali ambienti “progressisti” e come gli interessi anche astronomici dell’italiano stabilissero uno stretto rapporto con le personalità vicine alla regina. Così è spiegabile anche la scelta del «volgare per i dialoghi (italiani), il suo carattere innovatore, che allineandosi con la produzione scientifica vernacolare inglese, segna il distacco dalla tradizione classica trionfante negli ambienti accademici» (I. Guerrini Angrisani, op. cit., pag. 29). Insomma l’attività del filosofo incontrava i gusti, le tendenze, gli ideali di tale élite nobiliare che agiva contro la cultura accademica, operando su un piano «tendenzialmente popolare», come giustamente fa sempre notare Aquilecchia.

Bisogna anche aggiungere che, in tale affinità di ispirazioni, Bruno operava e scriveva in funzione di una esigenza innovatrice, da lui considerata come “componente ermetica”, per cui si ribella alla concezione aristotelica dell’universo, in modo più drastico di quanto non abbia mai fatto lo stesso Copernico (Giorgio De Pascalis, Copernico e Giordano Bruno – un confronto preferenziale, Ramo d’Oro, pag. 32).

Vedono le stampe, tra il 1584 e il 1585, La cena delle ceneri, De la causa principio et uno, De l’infinito – universo et mondi, lo Spaccio de la bestia trionfante, La Cabala del cavallo Pegaseo, De gli eroici furori.

La “nolana filosofia” attrae sempre più i cavalieri della regina, come è riscontrabile non solo nell’epoca bruniana, ma forse soprattutto dopo, «allorché le opere italiane del Bruno, stampate a Londra, furono in parte tradotte in inglese, quando il nome del filosofo era stato dimenticato in gran parte d’Europa (basti pensare a come il deismo inglese accolse l’insegnamento del Bruno tra Seicento e Settecento)» (I. Guerrini Angrisani, op. cit., pag. 32). Avendo stabilito rapporti così intensi, Bruno considera terminata la sua permanenza in Gran Bretagna e riparte per la Francia.

L’immaginazione ermetica VIII

Inizia per Giordano Bruno a partire dal 1576 un periodo di vagabondaggio (vedi articolo precedente) che lo porta a Genova, a Noli, dove impartisce lezioni private, a Savona, a Torino, a Venezia. Qui pubblica un’opera, De’ segni de’ tempi, andata perduta. Poi nuovamente ricomincia la peregrinazione, da Padova a Bergamo, dove rimette l’abito. (Tale fatto testimonia quanto Bruno fosse legato, nel suo profondo, all’ordine dei Domenicani. In effetti a Bergamo si rimette il saio non per convenienza, ma dopo una lunga notte di riflessione.) Chambery, poi Ginevra. Qui conosce i calvinisti da vicino, la loro “purezza di comportamento” lo colpisce profondamente e lo porta a aderire a tale confessione. È un terribile abbaglio. Perché la rigidità calvinista è lontanissima dalla grandezza e dalle aperture culturali di Bruno. Il mito della obbedienza, così proprio soprattutto dei cittadini ginevrini, è agli antipodi con l’irruenza del domenicano. Fra’ Giordano è un passionale, e questa caratteristica lo accompagnerà per tutta la vita. Sempre propenso allo scontro dialettico in nome della verità e della tolleranza. Curiosamente Giordano aggredisce costantemente gli accademici, accusandoli di “intolleranza”, con modi violenti sia nel linguaggio sia nei gesti. In lui i sentimenti si esprimono con foga. Forse è la certezza di dover insegnare la possibilità di un’esistenza migliore a spingerlo a compiere gesti estremi, là dove il proprio personale tornaconto avrebbe dovuto suggerirgli atteggiamenti più prudenti.

A Ginevra, in pochi mesi, si è guadagnato la fiducia universale, e la massima stima per la sua profonda cultura. Non c’è nessuno che possa competere con lui nella conoscenza delle Sacre Scritture, di Platone, di Aristotele, di Averroè. Un pizzico di savoir faire e avrebbe ottenuto un importante incarico nella università della città. Purtroppo, mentre il lettore dell’Accademia De La Faye sta leggendo, Bruno rileva ad alta voce venti errori dell’oratore. A Napoli, come a Roma, come in qualsiasi città cattolica, si sarebbe giunti a una disputa accesa. Non così a Ginevra, dove imperversano gli oltranzisti riformati. L’italiano viene strattonato e malmenato, issato a viva forza sulle teste degli studenti e scaraventato in strada; quindi è arrestato e costretto a ritrattare. Bruno è intimamente convinto di essere portatore di una rinnovata visione del mondo, basata sulla sperimentazione e sulla possibilità di dilatare la memoria e l’intelligenza dell’uomo. In sintonia, quindi, con le teorizzazioni ermetiche. Egli aggiungeva una carica umana, tutta particolare, nell’affermare tale idealizzazione, a discapito della sua stessa incolumità fisica. Anche a Londra riuscì a stento a sottrarsi alla “furia” di alcuni docenti, da lui paragonati alle lucertole, ovvero capaci di nutrirsi solo di insetti psichici.

Ginevra, la città che ospitava la “lungimiranza religiosa” e la “pazienza evangelica”, lo allontana. Costretto a ripartire, Bruno giunse a Tolosa in quello stesso 1579. Qui in pochi mesi diventa pubblico lettore di filosofia, un incarico che ricoprirà anche a Parigi e a Londra. È la cattedra più importante a cui un accademico possa aspirare ed è assolutamente sconcertante che venga affidata a uno straniero, per di più appena giunto in città. La stessa cosa si ripeterà appunto in Francia e Inghilterra. L’ingegno straordinario di Bruno non basta a giustificare l’acquisizione continua di ruoli così importanti, soprattutto se si tiene conto del livello sociale a cui Giordano ormai appartiene, ovvero infimo. È un ex frate, per di più accusato di eresia, senza mezzi, contatti, potere. Non è ragionevole credere che, solo grazie a una “intelligenza superiore”, possa aver acquisito tale mandato. È lecito supporre una sua personale rete di amicizie di cui nulla è stato tramandato, e alcune sue “dimostrazioni” di capacità intellettuali (F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981, pag. 167; I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Passano pochi mesi e, a causa di un’inspiegabile irrequietezza, Bruno riprende a viaggiare, e nell’estate del 1581 è a Parigi. (L’irrequietezza bruniana è un classico falso del radicalismo romantico a sfondo anticlericale. Si vuole vedere in questo filosofo un antesignano del “tormento” del poeta-vate-sapiente: si vedano i rari scritti in proposito di Carducci. Sono davvero risibili, si fa del nolano un propugnatore della libertà politica del XIX secolo, quando invece era un tenace sostenitore e divulgatore della “prisca teologia”, di un ritorno a concezioni e idee, in campo politico, ispirate alla Repubblica di Platone, ovvero assolutamente e rigidamente classiste.) Qui la sua “fama” si consolida; ottiene un posto di lettore “straordinario e provvisionato” allo Studio parigino. Si crea amicizie e dà un saggio di memoria innanzi a Enrico III, che gode della sua ammirazione quale principe colto e liberale, generoso e pacifista. Pare che il Bruno frequentasse gli ambienti di corte, facesse parte cioè di quel circolo di moderati politiques attorno ai Valois che, pur essendo cattolici, nutrivano simpatie per i protestanti, dati gli eccessi locali della Lega diretta dai Guisa appoggiati dalla Spagna. (Il duca di Guisa è in effetti un fanatico religioso, oltre che un tenace uomo d’arme. Il suo vero obbiettivo non è la corona, come alcuni storici hanno affermato, ma l’annientamento dei protestanti. Quando nel 1584 si farà propugnatore della Lega Santa, unitamente al cardinale di Lorena, per “estirpare l’eresia” arriverà ad accusare, con il Manifesto Peronne, il suo stesso re di essere un miscredente. Invettiva che costerà a entrambi la vita. Nel 1588, infatti, il re li farà assassinare da alcuni seguaci, a loro volta fanatici ugonotti.) Insomma fra’ Giordano si unisce a un gruppo di nobili colti, che condividono con lui l’ideologia della universalità.

Appena sette mesi prima, nel gennaio del 1581, lo stesso Enrico ha fatto suonare delle melodie a corte, presenti sia i cattolici, sia i protestanti, in particolar modo gli ugonotti. Le musiche sono anonime, al di là di ogni supposizione, e si basano su suoni di flauti di canna, di arpa e di voci esclusivamente femminili, ed è la prima volta, in assoluto, che delle donne cantano in pubblico. Tali elementi sono per noi importantissimi, perché ci permettono di inquadrare il senso della rappresentazione in direzione delle concezioni ermetiche. Infatti gli strumenti sono quelli di Dioniso e di Apollo, e il Neoplatonismo alessandrino ha sempre voluto riunire le sfere cultuali delle due divinità in una visione unificante, detta appunto ermetica. Anche il canto femminile si inserisce nel contesto della ideologia di Ermete Trismegisto. Il filosofo di Nola si introduce perciò tra persone che conoscono le filosofie a cui lui stesso si ispira. Non solo, tutti credono che simili princìpi possano modificare gli animi degli uomini, e addirittura sanare le guerre di religione che avvelenano la Francia (F.A. Yates, Astrea, Einaudi, pag.201 e segg. Stando alle ricerche di questa studiosa, la cerimonia ebbe anche efficacia, perché per un brevissimo periodo di tempo gli ugonotti e i cattolici sembrarono trovare alcuni momenti di intesa, basati su teorie della musicalità nella antica Grecia. Si arrivò persino a creare una commissione di studi per reperire quale fosse il vero timbro musicale presso gli ateniesi del VI secolo avanti Cristo. Poi gli eventi spazzarono via ogni cosa.)

Tornando alla rappresentazione sonora, si trovano in essa momenti spettacolari in apparenza, che invece nascondono profondi significati, e tutti correlati a Bruno, che in quel momento è ancora a Tolosa. Infatti, mentre i musici deliziavano gli animi, dietro, sullo sfondo dell’improvvisato palcoscenico, sfilavano alcuni dipinti sorretti da servi. Rappresentano simboli zodiacali, e fin qui non c’è nulla di particolarmente straordinario, per quanto sia insolito che alla corte di Caterina de’ Medici, la cattolicissima, vengano mostrate al pubblico nobiliare e d’arme composizioni pittoriche legate all’astrologia. Ma in realtà non si tratta “solo” di quadri rappresentanti i segni dell’arte divinatoria, ma di precise riproduzioni di immagini della memoria, ovvero di simboli che dovrebbero modificare, per una forza loro innata, la mente di chi li osserva, mutando in mansueti saggi, protesi al bene dell’umanità, gli individui avvelenati dalla intolleranza religiosa. Per di più i disegni voluti da Enrico III ricalcano fedelmente almeno dodici “figure della memoria” descritte dal filosofo campano nel suo De umbris idearum, opera da lui composta addirittura un anno dopo la celebre musicata.

Le figure bruniane sono assolutamente originali, anche se suggerite dalla tradizione ermetica e in particolar modo da Cornelio Agrippa e da Teucro Babilonese (F.A. Yates, op. cit., pag. 160 e segg. In effetti Bruno si considera un seguace del grande Cornelio Agrippa e alcune delle sue immagini della memoria sono direttamente ispirate a figure descritte nel De occulta philosophia unitamente ad altre attribuite a Teucro Babilonese, sempre riportate dallo stesso Agrippa. In ogni caso il filosofo campano opera sempre in grande autonomia e i suoi simboli, legati ai segni dello zodiaco, possono essere considerati rispettosi della tradizione, in una piena autonomia creativa). Non ci sono dubbi, l’ispiratore è proprio il nolano. Come poteva l’anonimo pittore conoscere immagini che l’italiano doveva, in teoria, ancora scrivere? Probabilmente appunti manoscritti già circolavano a Parigi prima della venuta dell’ex frate, e questo comproverebbe l’ipotesi di contatti tra Bruno e alcuni studiosi vicini al re di Francia. Inoltre, se si accetta questa teoria, ecco spiegata la facilità del filosofo ad accedere a cattedre importantissime, come quella di Tolosa, città piena di uomini fedelissimi al Guisa, nemico giurato di Enrico III. Forse Bruno avrebbe dovuto placare gli animi dei riottosi e ricondurli alla ragione. Missione che avrebbe tentato di assolvere per diciotto mesi, per poi, una volta ultimato il compito, giungere alla sua vera destinazione, appunto Parigi. Ventiquattro mesi nella capitale francese e quindi una nuova partenza, questa volta per Londra, sempre seguendo i voleri di Enrico di Francia. Solo che riguardo alla missione londinese esistono testimonianze scritte; infatti Bruno è accompagnato addirittura dall’ambasciatore Castelnau, e grazie all’intervento del principe Laski tiene delle lezioni a Oxford sullo stesso tema di quelle di Tolosa e di Parigi: l’arte della memoria. Questo è l’elemento unificante dei vagabondaggi del filosofo, non una presunta inquietudine psichica. Il nolano sta diffondendo una precisa visione del mondo, quella ermetica, mediante appunto l’arte della memoria. Infatti, ovunque si rechi, pubblica opere al riguardo.

Un discorso a parte meriterebbe anche la facilità con cui trova subito degli editori, in un’epoca in cui la stampa costava una fortuna. Dunque è la mnemotecnica l’obiettivo vero: la sua diffusione. Perché l’ars memoriae del filosofo è del tutto pretestuosa, infatti non vuole potenziare la capacità di ricordare, come facevano gli antichi rètori, ma divulgare i princìpi dell’ermetismo, l’utopia della unità degli uomini al di là delle divisioni politiche e religiose. In seguito verranno approfondite le figure mnemoniche e la teorizzazione a monte; per ora è importante comprendere, come già detto, che non si tratta “solo” di strumenti per ampliare le facoltà del ricordo, ma di mezzi per rivoluzionare l’umanità, rendendola in qualche modo migliore. Questo è il sogno dell’ex domenicano e dei suoi amici, tutti seguaci della cosiddetta “tradizione ermetica” (tale sogno-bisogno è perfettamente evidenziato sia dalla Yates, soprattutto nell’Illuminismo dei Rosacroce, Einaudi, pag.74 e segg.; sia da Luciano Pirrotta, quando si sofferma sui desideri del marchese di Palombara Sabina, La porta ermetica, Atanòr, cap. III-IV; sia da Maurizio Calvesi nel suo studio sul Sogno di Polifilo Prenestino, Officina Edizioni, pag. 100 e segg.).

L’immaginazione ermetica VII

Meno di un secolo dopo il capolavoro del Botticelli (vedi articolo precedente), mentre a Trento si riapre il Concilio dopo una interruzione di dieci anni, a Napoli, nel convento di san Domenico, Filippo Bruno abbandona il suo nome profano e assume quello di fra’ Giordano, prendendo così l’abito domenicano.

Sette mesi dopo, sempre a Trento, vengono poste le premesse della Controriforma, mentre in Scozia è introdotta la prima legge contro le streghe. Due avvenimenti che finiranno per pesare fortemente sulla vita futura di quel giovane fra’ Giordano che, a quindici anni compiuti, è solo proteso agli studi teologici. È il 1561 e nessuno suppone che nel convento di san Domenico si stia formando uno degli ingegni più brillanti del secolo, assolutamente divergente da qualsiasi altro del momento. Neppure il padre è certo dell’avvenire del figlio. Anzi, lo considera perso per il suo casato sin da quando, nel 1560, il rampollo dodicenne ha voluto a ogni costo studiare lettere, logica e dialettica (il Sarnese fu suo maestro di logica averroistica, mentre Simone Porzio gli insegnò l’alessandrinismo neoplatonico filtrato dagli intelletti napoletani della seconda metà del Cinquecento. Il Vairano lo addentrò nell’agostinismo e nel platonismo. Rimane invece sconosciuto chi gli abbia fatto conoscere, alla perfezione, i cabalisti e Raimondo Lullo). Giovanni Bruno è infatti nobiluomo e “uso d’arme”, vale a dire è un guerriero di Spagna, fedele alla Corona, pronto a servirla ovunque, che ebbe un unico momento di rifiuto, anche se abilmente mascherato, quando nel 1561 non prese parte ai massacri contro i valdesi di Calabria. Di fronte alla ostinazione del figlio si è però arreso, rinunciando alla sua autorità. (I motivi che spinsero Giovanni ad assecondare i desideri ecclesiastici del figlio, totalmente estranei alla tradizione della famiglia, sono sconosciuti. Le ipotesi in proposito sono pure illazioni.) I superiori del ragazzo sono ammirati dalla sua capacità mnemonica e leggermente preoccupati per alcune letture, ma nulla di più (Isa Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pagg. 26-27 ).

Dalle attente indagini, anche se prive di fantasia, dello Spampanato, emerge che gli studi di teologia dei domenicani concernevano letture di precisa ortodossia, come la Bibbia, le Somme di Tommaso d’Aquino, le Sentenze del Lombardo e le Storie ecclesiastiche. La Guerrini Angrisani afferma che «il Bruno ricevette indubbiamente una formazione in questi anni – che per ogni giovane sono decisivi – che peserà poi sulla sua cultura e di cui il linguaggio e – in parte – la mentalità risentiranno sempre» (ivi, pag. 25). In realtà lo Spampanato ha subìto l’eredità positivistica quando ha affermato che Bruno poteva leggere solo cose di stretta osservanza: come avrebbe potuto coltivare la sua intelligenza e le sue aperture, dichiaratamente panteiste, se avesse usufruito solo di testi ortodossi? In effetti i frati di quel secolo possono occuparsi anche di altri argomenti, soprattutto se sono assetati conoscenza come il Bruno. È davvero difficile credere che un giovanissimo frate potesse nascondere nella sua cella una massa di volumi così imponente come quella in suo possesso, secondo le sue stesse affermazioni. Evidentemente i frati godevano di libertà di letture molto più ampie di quanto la tradizione positivistica abbia mai accertato. Inoltre le recenti ricerche del Warburg Institute di Londra hanno stabilito definitivamente come i testi di alchimia non fossero affatto considerati eretici dall’ordine domenicano (Warburg Revue, maggio 1980). Del resto lui stesso dichiara che negli undici anni di convento ha avuto modo di dedicarsi ai suoi studi prediletti. Per questo apparirà ai contemporanei e ai posteri, sempre secondo lo Spampanato, come uno dei “più eccellenti ingegni” e soprattutto quale “uomo universale”.

Bruno conosce perfettamente, grazie agli studi conventuali, la scrittura, tutti i dottori del Medioevo, tutti i filosofi arabi, i neoplatonici, i cabalisti, i naturalisti, gli alchimisti, gli astronomi, e soprattutto Raimondo Lullo e Nicola Cusano. In particolare Lullo, il suo intuizionismo, e i suoi schemi della “memoria universalis”, struttureranno la mentalità di Bruno.

Nel 1566 Bruno diventa “professore”, e sino a quell’anno non ci sono reprimende dell’ordine a suo carico. Anzi, si registra un solenne encomio da parte del suo diretto superiore (Martin Ribbot, Neoplatonic True in Mystic Order, London, 1981, pagg.32-35). Grazie al suo fervore e alla capacità di speculazione, ormai riconosciutagli universalmente dai fratelli, gli è permesso di recarsi nel 1568 a Roma da papa Pio V, che per una strana sorte è stato eletto al soglio due anni prima, esattamente in coincidenza della “professione domenicana” di fra’ Giordano. Il giovanissimo frate offre al papa una sua composizione, L’Arca di Noè, andata purtroppo perduta. L’opera di Bruno deve essere assolutamente in linea con i precetti cattolici, se un papa come Pio V non ha nulla da obiettare. Il sommo pontefice, proprio in quell’anno, costituisce due congregazioni di cardinali per la propagazione della fede in terra protestante. L’atto di insediamento di tali defensores fidei sembra alimentarsi più di programmi militari che di precetti religiosi. Sempre il papa farà poi strangolare nel 1570 l’umanista Aonio Paleario (Antonio della Paglia) per alcune «proposizioni» considerate eretiche. Punizione giudicata troppo severa persino dalla stessa curia (Martin Ribbot, op. cit., pag. 45). Se Pio V considera L’Arca di Noé un lavoro in armonia con il cattolicesimo, vuol dire che tale effettivamente era. Tutte le speculazioni su di una “difformità bruniana”, riscontrabile già allora, sono solo frutto di illazioni non comprovate. (Mi riferisco soprattutto al Badaloni che in tali anni vede addirittura già tratteggiata nella mente di Bruno la concezione materialistica della realtà e quella irreligiosità così chiara, da non permettergli la permanenza nel convento.)

Nel 1572 Bruno è finalmente ordinato sacerdote e tre anni dopo è “dottore in teologia”. Ormai ha ventisette anni, un’età matura per quei tempi, soprattutto se si considera la sua preparazione specifica. Non esiste uno scritto della Accademia platonica, o commento al D’Aquino e a sant’Agostino che lui non conosca, per non parlare dei testi alchemici. Eppure su di lui, dal punto di vista cattolico, nulla da eccepire.

Passano undici mesi ed ecco che “improvvisamente” si istruisce un processo contro di lui. Così circostanziato e grave da permettere, con certezza quasi assoluta, una previsione di condanna a pene severissime, anche se non proprio la morte (la conclusione di Mario Foglianesi – «certamente sarebbe stato ucciso sul rogo» – è da considerare frutto di una personale opinione, non comprovata da alcun documento). Infatti il domenicano è costretto a fuggire a Roma, iniziando così le sue peregrinazioni per l’Europa e le sue proprie vicende di filosofo, di mago e di uomo d’azione. Ma è lecito chiedersi che cosa sia accaduto in quegli undici mesi, che sono bastati per tramutare un dottore in teologia in un eretico.

Negli ultimi anni si sono fatte molte supposizioni, tutte sbagliate. Perché non esiste una sola prova che il domenicano abbia conosciuto “straordinari” maghi e alchimisti, o peggio, astrologhi dalla «furiosa tempra» (come afferma Domenico Severi, in una visione suggestiva, più adatta a un romanzo di fiction che a una ricerca). In realtà in Bruno è intervenuta una particolare evoluzione culturale, che può essere giudicata “tipica” per uno studioso di neoplatonismo e di lullismo, nonché di alchimia. L’ingresso in una dimensione psicologica del tutto particolare, definibile come sindrome, quella del sogno d’universalità del sapere. Tommaso Moro, che ne era affetto consapevolmente, la definisce come «bisogno d’unità sì forte, sia in religione quanto in scienza, da supporre che gli uomini siano pronti ad accettarla, in Dio come nello stato». In altri termini Bruno comincia a sognare un’impossibile riunificazione delle religioni, per di più attuabile in concreto nel mondo. È l’eterna illusione, propria anche di un Francesco Bacone, di John Dee, di Raimondo Lullo, di Tommaso Campanella e dello stesso Tommaso Moro, che fa confondere i desideri onirici con la attuabilità concreta. Gli ermetisti di tutte le epoche, dal periodo alessandrino sino ai nostri giorni, hanno sempre coltivato tale utopia. E con tale definizione non intendo gli studiosi del pensiero magico in qualità di storici, ma coloro i quali si riconoscono in una simile ideologia sincretistica e la ritengono sperimentabile, ovvero da “concretizzare” nel reale ordinario. Per citare altri due fondamentali filosofi prima e dopo Bruno, universalmente conosciuti, quali Pico della Mirandola e Tommaso Campanella, si trovano identiche tracce di una simile “evoluzione”, sino al tentativo “sperimentabile” di una città ideale, dove la scienza si riversa nella religione e questa nella struttura politica e sociale. Uno stato d’eden ricalcato dalla Repubblica di Platone. Un misto di puritanesimo integrale, di panteismo magico, di rigido classismo intellettuale, di scientismo animista, di sincretismo religioso. Bruno ha inoltre due caratteristiche altrettanto “normali” del pensiero ermetico: un ottimismo di fondo, per cui è portato a credere, grazie alla propria buona fede, che chiunque “dovrà” accettare una simile eterogenea visione del mondo, e un bisogno missionario di comunicarla agli altri, in un sincero slancio di “donazione” (F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981, pag. 121 e segg.).

L’immaginazione ermetica VI

La natura è divinizzata. L’uomo partecipa dell’essenza di Dio. Il corpo umano riproduce il mondo. È possibile catturare le forze dell’universo con talismani e rituali. L’azione mentale dell’umanità non ha limiti perché trae la sua origine dal perfetto ordinatore del cosmo. Questa può essere una sintesi schematica, ma suggestiva, del pensiero di Ficino, che abbiamo cercato di riportare nell’articolo precedente. Sono contenuti che potrebbero entusiasmare molti giovani d’oggi, figuriamoci un ragazzo ardente e intelligentissimo come Pico della Mirandola. Alto, colto, dal portamento sicuro, capace di parlare tutte le lingue antiche, esperto di ebraismo e di cabala, poeta, filosofo, letterato, matematico, artista: Pico è tutto questo e anche di più. Uno spirito universale, vero anticipatore del Rinascimento in tutti i suoi aspetti, anche in quelli imprevedibili e avventurosi. Un giorno arriva a rapire in chiesa una ragazza, di cui è follemente innamorato, che è pronta a convolare a giuste nozze con un altro.

A un’anima così poliedrica ed entusiastica, le parole di Ficino giungono come acqua per un assetato. Il Mirandola diventa in breve il migliore allievo di Marsilio, sino a oscurare la fama del suo stesso maestro. A venticinque anni Pico è già conosciuto in tutte le università d’Italia e d’Europa. Il suo ingegno precocissimo desta ammirazione in tutti, anche negli avversari. Certamente la gioventù lo porta a essere impetuoso, ad accentuare le posizioni del fondatore dell’Accademia platonica. Il suo scopo principale è dimostrare l’unitarietà dell’intelletto, quindi della verità, al di là e al di sopra di tutte le differenze fittizie, legate allo spazio e al tempo.

In un’opera monumentale e mirabile, le 900 tesi, Pico intende valorizzare l’uomo e la sua intelligenza, mediante un raffronto con tutte le cose del mondo. Alberi, pietre, acque, animali sono e saranno sempre alberi, pietre, acque, animali. Ogni cosa è dunque quello che è perché una sua essenza interiore la determina; l’uomo invece è signore di se stesso in quanto edifica da sé la sostanza di se medesimo. Il significato che Pico rivendica all’attività umana è non già di ordine civile (come per gli altri umanisti pedanti), ma cosmico. L’uomo è il nodo vivente dell’universo perché partecipe della materia con il corpo e della spiritualità con la mente.

Dio – argomenta Pico – ha concesso all’uomo la libertà di orientarsi verso uno dei due mondi di cui fa parte. Egli non ha definito nell’umano un essere assolutamente determinato, ma, dandogli la scelta orientativa, ha costituito un essere degno di rispetto e di ammirazione, innalzandolo all’essenza di un dio che conosce il mondo divino, vincendo quello che ha in sé di materiale e conseguendo il congiungimento con il divino. Il vincolo d’amore permetterà all’essere di abbracciare ogni cosa, una volta giunto nella dimensione eterna. L’immaginazione di Pico colloca l’umano al centro del tutto, amante delle creature inferiori e amato da quelle superiori. «Coltiva la terra» dice il filosofo «gareggia con gli elementi, il suo pensiero giunge nel profondo dei mari, la sua scienza l’innalza al culmine del cielo».

La celebrazione delle possibilità umane rende esplicito in Pico, più ancora che in Ficino, l’accentuazione del discorso magico, inteso come “parte pratica delle scienze naturali”. Il Mirandola aborre però la negromanzia superstiziosa e l’astrologia che predice il futuro: il suo discorso verte sulla “scientia scientiarum naturalis”, ovvero sulla magia concepita quale disciplina capace di dare all’uomo un completo dominio sulle forze fisiche, attraverso una giusta conoscenza delle cause.

Si tratta senza dubbio di concetti estremi, e in quel tempo producono un effetto scardinante, che conduce Pico dinanzi al tribunale ecclesiastico di Roma, dove però viene assolto grazie a una mirabile orazione, poi raccolta nelle 900 tesi, la celebre De hominis dignitate, rivendicante all’umanità il diritto di “signoreggiare” sul mondo, sull’ipocrisia, sui preconcetti, sull’ignoranza. Un vero inno alla tolleranza in nome della cultura e della conoscenza.

Gli effetti dell’opera di Ficino e di Pico sono di immensa portata. Gli artisti ne rimangono influenzati così profondamente da esser condotti a creare opere totalmente ispirate al pensiero di questi filosofi. Botticelli, loro intimo amico, diviene il “rappresentatore” geniale della visione del mondo dei due filosofi. La sua Primavera è uno dei capolavori assoluti dell’umanità, perché in esso sono esplicitati tutti i contenuti di un’epoca, in cui si intrecciano perfettamente la gioia di una vita riconquistata e la sublime certezza di una ragione libera e investigatrice. Appartiene alla sfera della Divina Commedia, del Faust di Goethe, della Nona sinfonia, del Partenone. Di quelle opere che non sono attribuibili a un paese, a un’epoca, a una corrente culturale, ma all’umanità intesa nella sua globalità.

Chiunque osservi il dipinto, anche se completamente digiuno di arte, rimane colpito dall’atmosfera di soavità, di leggiadria, di gioia profonda che emana dalle figure. Il dipinto “parla” un linguaggio sottile all’osservatore, un inno silenzioso alla vita nei suoi valori più alti. Tolleranza, amore, gaudio, corporeità, spiritualismo si intrecciano in un mosaico geniale, che colpisce direttamente al cuore il turista anche più frettoloso. In effetti questo è lo scopo di Ficino e di Pico. No, non è un errore, nominare Marsilio e il signore di Mirandola, perché l’opera compiuta da questi due filosofi viene assegnata a Botticelli, perché ritenuto il più sensibile ai temi della rinascita platonica e della magia. Il pittore non viene scelto per la sua tecnica, ma essenzialmente per la capacità di apprendere totalmente la nuova visione del mondo delineata dalla Accademia platonica fiorentina. La sua genialità nel dipingere, la conoscenza dei «contenuti» da trasmettere, l’influenza dei testi ermetici, l’insegnamento ficiniano, contribuiscono alla nascita del capolavoro. Vediamo allora nei particolari il dipinto, dal punto di vista di chi osserva.

Sulla destra c’è Zefiro, poi la ninfa Chloris, e Flora. Quindi, al centro, Venere, l’unica di cui non si intraveda il corpo nudo, sul cui capo c’è Amore che scocca una freccia con gli occhi bendati. Poi le tre Grazie, Pulchritudo, Castitas e Voluptas. Infine, al fondo, Hermes. La “chiave” di interpretazione a noi particolarmente utile è racchiusa nelle tre Grazie, perché ci introduce per la prima volta a contatto con le immagini “magiche”, ovvero contenenti significati esplicitamente esoterici.

Anche al più disattento osservatore contemporaneo balzano agli occhi le caratteristiche di Voluptas, l’ultima delle tre Grazie, a sinistra del dipinto; il capo leggermente reclinato sulla sinistra sembra abbandonato, eppure accenna a un invito coinvolgente in un movimento come di danza. I capelli sciolti sul collo a piccole ciocche rafforzano il senso del darsi e nel contempo dell’accettazione della persona oggetto dello sguardo sognante e denso di inviti riscontrabili anche nella bocca, il cui labbro inferiore è sotteso all’altro nell’espressione della proposta. Un insieme rispecchiante fedelmente il nome della donna-grazia incarnata in quel viso. Voluttà nel senso pieno del significato latino, che intende il desiderio di ricevere, del dare e del sapersi abbandonare. Il dipingere questo volto con le intenzioni citate, il fatto che potesse essere creato, determina appunto una rottura con gli antichi canoni artistici, introducente l’uomo nel mondo permeato del senso pieno dell’esistere.

I concetti filosofici del dipinto sono stati più volte esaminati (anche se con notevoli divergenze) dagli studiosi. In questo ambito è utile concentrare l’attenzione sulla parte sinistra del dipinto, perché i volti delle Grazie e i loro movimenti possono essere assunti a simbolo della nuova concezione tendente a liberalizzare gli intelletti. Nella tradizione Castitas, Pulchritudo e Voluptas venivano rappresentate sempre con Voluptas in posizione subalterna o paritetica rispetto alle altre. Botticelli rivoluziona tale schematismo immettendo nel gruppo il movimento (come farà poi Raffaello). Castitas è sempre di spalle, come vuole l’usanza, ma la gamba sinistra ha appena compiuto un passo in avanti perché la destra rimane come sospesa in attesa di un nuovo movimento. Il viso è chiaramente visibile di profilo, con lo sguardo assorto, teso, calmo e fiducioso verso un’altra Grazia che le si fa incontro, Voluptas (questa chiave di interpretazione è data da Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, pag. 23 e segg).

Questo è il motivo dirompente, la Castità che si muove verso la Voluttà. La stessa spalla sinistra completamente nuda, il velo-vestito slacciato, alcune ciocche di capelli liberatesi dall’elmo, l’intrecciarsi delle dita della mano sinistra, attestano come questa sia coinvolta nell’ambito della Voluttà. Il suo movimento di coinvolgimento sembra aspettarla, invitarla e nello stesso tempo avvolgerla con lo sguardo. Il loro incedere l’una verso l’altra è osservato da Pulchritudo, dalla bellezza, che intreccia le mani con le altre due, assistendo all’incontro distante, e tuttavia partecipe. Voluttà perciò comanda il gruppo attirando a sé le altre in un movimento sincronico danzante e rituale. Castità a sua volta viene come posseduta dalla vicina in un abbraccio in movimento. L’interdipendenza delle tre, il predominio dell’elemento erotico, il possedimento di Castitas e lo sciogliersi delle sue naturali remore, ricordano una danza d’amore a sfondo dionisiaco, unico elemento di questo ambito riscontrabile nelle opere dei partecipanti al circolo platonico fiorentino. A tale proposito è utile rammentare come lo psicoanalista Rollo May ricordi quanto, nella danza rituale presso i cosiddetti popoli primitivi, l’indigeno si identifichi con la figura che egli ritiene padrona di se stesso. Insomma il ballerino, nella danza frenetica del rituale, invita gli dèi ctonii, li riceve, li accetta identificandosi con essi, accogliendoli come una parte costitutiva del proprio essere. Questo implica il principio dell’identificazione con ciò che ossessiona, non tanto per liberarsene, ma per assumerlo in quanto parte costitutiva della personalità precedentemente rifiutata (Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, pag. 131).

Rileggendo la triade delle Grazie del Botticelli con il contributo psicanalitico del May appare manifesta la tensione di Castitas ad assorbire gli elementi erotici di Voluptas, per farli propri in un intreccio creativo. In effetti l’Accademia ficiniana ha agito concretamente con i mezzi dell’arte e della filosofia per affermare la nuova concezione della vita, tramite gli scritti ermetici e platonici. (Tra gli scritti tramandati come Corpus hermeticum ebbe grande influsso soprattutto il Picatrix. Esso è una summa, con stile diseguale, raccolta in Spagna tra il 1047 e il 1051. Biqratis – Buqratis, quindi, alla latina, Picatrix – sembra esserne stato il compilatore. Del Picatrix c’è una versione latina del 1256 voluta da Alfonso d’Aragona, ma tale versione è incompleta e contiene varianti. Oggi esistono due manoscritti latini fedelissimi. Uno è nella Biblioteca nazionale di Parigi e l’altro nella Biblioteca nazionale di Firenze. Questo scritto fu quello che Ficino e Pico diedero a Botticelli come fonte di ispirazione per la Primavera.) L’influenza di tali scritti fu vasta e riscontrabile persino in Galilei, nella lettera a monsignor Pietro Dini del 2 marzo 1615, come riporta ancora Garin. Tale testo «dimostra la presenza nello scienziato di echi di ogni genere: accanto ad una metafisica di matrice neoplatonica perfino il tema cabalistico della concentrazione della luce, e del suo esplosivo irraggiamento» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pagg. 12-13). L’ascendente, a decenni di distanza, nei confronti di uno scienziato come Galilei, mostra l’influenza del gruppo filosofico fiorentino su ogni campo del sapere.

Insomma la Primavera, negli intenti di Ficino, ha il compito di propagandare il pensiero magico e platonico, come uno splendido supporto visivo, capace di parlare ai cuori molto più rapidamente di qualsiasi libro.

Ma torniamo adesso al dipinto. Dopo le Grazie, c’è Hermes, il dio della intelligenza, che con un bastone sembra scostare delle fronde, per far penetrare la luce tra i rami. La danza delle tre donne pare condurre proprio al dio. Questo significa che, una volta trovata la pienezza del corpo, l’uomo può spingere la propria mente verso la luce. Ecco, adesso il messaggio è chiaro.

Quando la natura fiorisce, mentre spira il vento di Zefiro, recante i doni della conoscenza delle cose, è giusto che l’uomo riscopra il suo stesso corpo, e una volta che si è riappropriato anche del piacere fisico, può conquistare le vette dello spirito. Perché l’unica saggezza possibile è quella che equilibra perfettamente, amorosamente, la carne con l’anima, senza privilegiare nessuno dei due a discapito dell’altro. La sapienza è di chi armonizza il finito (il corpo) con l’infinito (anima), sotto il segno dell’amore. Infatti la “signora” del dipinto è proprio l’antica dea dell’amore, Afrodite, che non a caso Esiodo definiva “la saggia”. Ricorrere alle figure delle divinità mitiche è una valenza propria anche di Guarino Veronese e della cultura di Ferrara. La lingua con cui si scriveva era il latino di Lucrezio, i contenuti erano platonici ed epicurei, la finalità era la restaurazione di una ipotetica antichissima religione fatta di convergenze, espresse mediante l’uso sistematico di nuclei mitici. (Eugenio Garin, Ritratti di umanisti. Guarino Veronese e la cultura di Ferrara, Biblioteca Sansoni, pagg. 84-85).

L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

L’immaginazione ermetica IV

Un nuovo culto della bellezza, della fisicità, della creatività congiunta all’eros, unitamente all’irrazionale passione verso la magia, reputata come summa di tutte le scienze, sono gli elementi che abbiamo trovato per dare una spiegazione più esauriente alla nascita di Umanesimo e di Rinascimento.

Sono principi indispensabili per comprendere le Carte della memoria, ovvero i tarocchi della immaginazione creati da Giordano Bruno.

Ma prima è meglio approfondire il pensiero di Ficino e Pico, considerati “maestri” dallo stesso Bruno.

Marsilio Ficino è persona mite, scrupolosa, sensibile, contemplativa, filologo, studioso di filosofia greca sino a giungere al fanatismo. Pare che abbia una curiosa abitudine: quella di parlare con Platone, Plotino, Porfirio, e anche Aristotele come se fossero viventi e a lui presenti. Così gli capita di andare a tavola con i suoi parenti e di lasciare posti simbolici a questi filosofi del passato. (Particolarità questa che aveva anche Giorgio Colli, che addirittura faceva parlare i figli con Platone, secondo quanto afferma Marco, il terzogenito.)

È insomma un uomo caro a tutti, sempre pronto al dialogo, alla discussione franca, alla ricerca senza prevenzioni. I suoi contemporanei dicono sia un piacere sentirlo parlare; tanto la sua cultura è universale. Si esprime correttamente in latino e in greco antico, citando a memoria centinaia di passi dei suoi autori preferiti. Un filosofo dunque che custodisce nel cuore la leggiadria e la soavità dei poeti, degli spiriti sognanti ed entusiastici.

Eppure quest’uomo poco incline alla diatriba, quando fonda l’Accademia platonica, grazie al patrocinio di Lorenzo il Magnifico, è spinto soprattutto da una forza polemica contro gli aristotelici del suo tempo (bisogna anche tenere presente l’opera della cultura ferrarese di quegli anni. Basti citare, per tutti, l’azione di Gustino Veronese che, traducendo e lavorando alla Vita di Platone, promosse violenti attacchi alla tradizione aristotelica).

Che cosa rimprovera Ficino a costoro? Quali motivi lo spingono al diverbio con i seguaci di Aristotele, che in alcuni momenti assume le caratteristiche di una vera e propria rissa intellettuale? Le origini della questione vanno ricercate oltre un secolo prima, allorché gli insegnanti universitari del XIII secolo studiano Aristotele, lo parafrasano, lo chiosano, lo adattano al pensiero cristiano. Un’opera di assimilazione che riesce tanto bene da rendere cattolicamente accettabile anche la filosofia di Averroè, un pensatore di ispirazione aristotelica, ma pur sempre di religione islamica (tale assimilazione fu resa possibile grazie al principio della diversità tra «verità di ragione e verità di fede». Entrambe vere, quindi eterne, quindi fatalmente presenti in Dio. Avendo coincidenza nell’essere supremo, non possono contrastare tra di loro). L’autorità di Aristotele doveva servire agli accademici come una sorta di scudo, dietro il quale poter esercitare liberamente l’uso della ragione.

“Se il greco, fonte di ispirazione di san Tommaso D’Aquino, adopera la mente razionale, altrettanto possiamo fare noi.» Questo, in parole semplicissime, doveva essere stato l’intento degli universitari (tali universitari saranno poi definiti da Giordano Bruno «pedanti», ovvero noiosi e reverenti verso il potere). Purtroppo, con i decenni, avvenne esattamente l’opposto: invece di trasformarsi sul modello aristotelico, strutturarono Aristotele su quello della scolastica più chiusa e intransigente, diventando non più esponenti di una nuova ricerca bensì sostenitori di quella mentalità contro cui volevano esercitare il diritto di critica. Giungendo addirittura alla condanna di ogni pensiero divergente (basti pensare al Cremonini, che pure era un aristotelico tra i più blandi, che fu uno dei firmatari della denuncia di “eresia perniciosa” contro Bernardino Telesio).

In realtà Marsilio e il suo gruppo di umanisti divengono platonici non contro Aristotele, ma per avversione all’aristotelismo scolastico, alla cultura cattedratica, avvertita come ipocrita e soffocante.

«Chi non intende la carica polemica» sostiene Garin «a volte violenta del ritorno a Platone, che diventò un po’ alla volta ritorno a Epicuro, ritorno alla Stoa, ritorno al naturalismo presocratico… e, finalmente, ritorno ad Aristotele logico e fisico contro l’aristotelismo metafisico, ossia contro una fisica fattasi teologia; chi non intende questo significato del platonismo, rischia di non capire nulla della cultura filosofica, e non solo filosofica, dal Quattrocento al Cinquecento.» (Anche gli Aristotelici erano però feroci contro i platonici. Giorgio da Trebisonda, per fare un esempio, avvertì il pericolo rappresentato dai neoplatonici, nei confronti di una presunta “ortodossia” cristiana, e arrivò a formulare una “preghiera” diretta ai martiri cristiani, affinché “disperdessero” i platonici che “risorgevano” in Italia. La preghiera è riportata per intero da Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza, pagg. 88-89). Entriamo allora nella villa di Careggi, dove Ficino traduce gran parte dell’opera non solo di Platone, ma anche e soprattutto di Plotino. Cura personalmente la versione in latino, permettendo poi a vari allievi una nuova formulazione in volgare, affinché le opere dei filosofi greci conoscano la più ampia diffusione possibile.

Nicola Abbagnano ebbe a dirmi un giorno che solo del Simposio, a Firenze, circolavano oltre cinquemila copie. Rapportata all’epoca è una cifra a dir poco sbalorditiva.

L’immaginazione ermetica III

In un contesto in cui tutti gli umanisti sono dediti a febbrili ricerche di antichi testi, è ovvio che si aggiungano nuove scoperte. Si reperisce il Corpus hermeticum, ovvero una serie di scritti a carattere magico del II-IV secolo dopo Cristo, ma ritenuti erroneamente molto più antichi dagli umanisti. Soprattutto il Picatrix e il Poimander sempre contenuti nel Corpus, parlano di profonde corrispondenze tra cose, esseri viventi e spiriti, che sono poi traducibili in formule magiche, in incantesimi, talismani, amuleti. Con la parola magicamente ritualizzata è possibile giungere alle divinità stellari, agli spiriti ultimi delle cose, alle idee presenti nella mente di Dio: quia verbum in se habet nigromantiae virtutem (il discorso è la specie più virtuosa della magia) (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 66 e segg.).

Pomponazzi, per esempio, che non può essere citato come un umanista che portò alle estreme conseguenze l’armonica concezione platonica, non nega la magia naturale, anzi accetta gli effetti di qualità e potenze umane ignorate. Per similitudine, seguendo la teoria, delle consonanze, il filosofo si chiede perché se certe erbe, o certi odori, producono effetti terapeutici, non sia possibile per certi uomini agire analogamente.

Perché altresì non accettare che l’immaginazione non si ripercuota sul corpo producendovi modificazioni anche perpetue, come le stimmate? Pomponazzi trova la dimostrazione di questa ipotesi nella notte di tregenda in cui i cittadini dell’Aquila riuscirono con intense preghiere ad allontanare il temporale. Fenomeno spiegabile attraverso un processo fisico analogo a quello che si ottiene suonando le campane a stormo, movimenti e modificazioni dell’aria che spostano le nubi per vibrazioni continue. Garin riporta un commento del filosofo quanto mai appropriato: «La si chiami magia poiché solamente i più sapienti fra gli uomini la capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago in persiano significa sapiente. E per il popolo che si sono introdotti angeli e demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono come bestie… Il linguaggio delle religioni, come dice Averroè nella sua poetica, è simile a quello dei poeti… Tali favole servono a condurci alla verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e ritrarre dal male, come si fa per i bambini con la speranza del premio e la paura della pena (op. cit., pagg. 115-116).

Garin aggiunge una sua personale conclusione, secondo cui quando un sentimento religioso decade, anche gli effetti delle preghiere si attenuano e i miracoli non avvengono più, a comprova degli effetti fisici delle preghiere e dei loro propri corollari (ibidem). Insistendo nella sua tesi Garin afferma che Pomponazzi: «tradusse in forma quasi brutale la teoria della fisicità, empiricamente comprovabile, del culto religioso» (ibidem).

Dunque il buon Pomponazzi, filosofo e umanista tra i più tiepidi nei confronti della magia, si lascia andare ad affermazioni quasi paradossali, spiegando tutto il fenomeno religioso in termini di magia pratica, fisica. Arriva addirittura a fornire una spiegazione “razionale” dei miracoli, che sarebbero legati al mutamento delle religioni, in quanto simili cambiamenti rendono difficile il «trapasso da ciò che è consueto a quel che è sommamente inconsueto, [per far ciò] è necessario che la successione della nuova religione sia accompagnata da miracoli straordinari e stupefacenti. Per questo i corpi celesti all’avvento di una nuova religione devono far venire uomini che facciano i miracoli. Così uomini del genere possono far venire e far scomparire piogge, grandine e terremoti, comandare ai venti e al mare, guarire ogni sorta di malattie, svelare i segreti, predire il futuro e ricordare il passato, andare oltre il comune senso della gente. Altrimenti non potrebbero introdurre nuove religioni e nuovi costumi tanto diversi» (Ibidem).

Abbiamo citato Pomponazzi, che ribadiamo era pure un tiepido nei confronti della magia, per mostrare come ormai tale scientia avesse influenzato nel profondo moltissimi intellettuali dell’Umanesimo.

L’immaginazione ermetica I

Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.

 

Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.

Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).

Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.

Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.

Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).

In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.

Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.

Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?

Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.

«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

Siamo il Dio che ci respira dentro.

Ecco Pasqua. La Resurrezione. In chiave simbolica già la religione di Mitra concepiva un uomo-Dio nato nella festa del Sol Invictus (25 dicembre) e risorto.

Senza voler entrare negli ambiti di Fede, da un punto di vista psichico-anima, la Resurrezione avviene non solo quando è l’intera struttura psichica-logica-emotiva a rinnovarsi e a risorgere dalle proprie ceneri, ma anche quando si riesce a mutare una parte minuscola della propria sostanza interiore. Impresa comunque difficilissima.

Perchè prevede il cambiamento di pensieri, sentimenti, emozioni e passioni relativi ad un particolare grumo psichico. Ma Jung afferma che la nostra personale resurrezione è già suffieciente quando “incominciamo” l’opera. Tentare è resurrezione, anche se parziale.

Non servono eroi, ma umili operai della Psiche. Servi di Anima.

E contemporaneamente, Entusiasti del Bene.

Noi siamo il Dio che ci respira dentro (Giuliano, il Grande, IV sec.d.c., seguace di Giamblico e Porfirio. Neoplatonico. Autore de “La Madre degli Dei)