L’immaginazione ermetica IX

Torniamo all’arrivo di Giordano a Parigi (vedi articolo precedente). Finalmente è a diretto contatto con un ampio cenacolo di intellettuali, lettori, nobili, guerrieri, che condividono i suoi stessi princìpi. È davvero come essere giunti alla casa paterna, sempre desiderata e mai abitata. Bruno è felice, si forma subito una schiera di allievi, tutti nobili del seguito di Enrico III, e persino l’erede al trono lo segue come un’ombra, dovunque. È il suo più attento studente sia quando impartisce lezioni all’università, sia allo Studio del re, sia all’accademia della nazione. In breve tempo il filosofo dà alle stampe tre opere, De umbris idearum, Cantus circaeus, De compendiosa architectura (soprattutto il De umbris e il Cantus sono essenziali per capire la particolarissima tecnica della memoria del filosofo). Inoltre pubblica una commedia in volgare, il Candelaio. Questa sarà una prassi ricorrente del filosofo: scrivere testi in latino, che contengano i princìpi pratici dell’ermetismo, ovvero volumi da cui il lettore possa evincere tecniche e rituali, e poi, accanto a questi, libri con i princìpi teorici, filosofici, della sua concezione del mondo. Insomma Bruno dà la pratica unitamente alla teoria, probabilmente per mostrare quanto i princìpi tecnici della “sua” arte della memoria avessero come supporto una profonda concezione culturale, risalente addirittura, a suo dire, agli antichi egizi.

Riflettendo sul comportamento di questo sognatore si prova un sentimento di ammirazione, non fosse altro per la sua ingenuità politica. Rispetto agli ingegni in qualche modo a lui similari, come Lullo, Moro, Bacone, il nolano non mostra un briciolo di prudenza. Ovunque dichiara subito le proprie intenzioni, attacca i fanatici, chiunque essi siano, i finti professori, gli accademici di parte, insomma tutti quelli che, secondo lui, osteggiano l’unità delle genti. E le conseguenze non si faranno mai attendere troppo. (Occorre non fraintendere la carica del filosofo quando contesta gli uomini di scienza. La sua non era mai aggressività dovuta alla necessità di difendere posizioni e privilegi che del resto aveva già sin dai tempi di Ginevra, purché si fosse mostrato più accorto, ma una precisa esigenza di smascherare, a suo dire, tutti gli avversari della “prisca teologia”, ovvero della religione degli antichi padri, forse identificati fantasticamente con gli egizi, che non vedevano differenze di credo tra gli uomini. In questo Bruno si mostra un vero e proprio missionario dell’onirismo ermetico.)

Di fronte a Enrico III dà un saggio delle sue capacità di memoria e di cultura, rispondendo ai quesiti che gli pongono oltre cento professori, quasi tutti seguaci del Guisa o oltranzisti protestanti. Fa un’eccellente figura, nessuno può stargli alla pari, ma gli odi si inaspriscono. Perché lui non è né cattolico, ne protestante, né ugonotto, né calvinista, né altro. È un visionario di ispirazione ermetica, ancorché simpatico a noi contemporanei. Certo, calandosi nei panni dei dottori dell’epoca, non doveva certo essere divertente, per loro, sentirsi accomunati a lucertole, cercopitechi, gufi, insomma a tutto un bestiario che incarnava ignoranza e cecità. La scena avvenuta innanzi a Enrico deve essere stata poi particolarmente sublime. Da una parte una folla di pretesi sapienti, con le loro palandrane, compunti nel ruolo di “professi” di ogni disciplina, tutti intenti a scartabellare volumoni per trarre quesiti impossibili, e dall’altra un omino furente e ironico, sempre pronto alla battuta, padrone di ogni argomento. Probabilmente proprio in questa occasione cominciano a diffondersi le prime accuse di magia. Quando, nei giorni successivi al memorabile scontro, le invettive giungono all’orecchio del filosofo, riferite dal Delfino preoccupato per la sorte del suo ormai maestro prediletto, la reazione è in tutto e per tutto, degna del suo temperamento meridionale. Una risata seguita da un’affermazione decisa. Ma certo che è accusato di magia, chi lo dice ha perfettamente ragione, perché in effetti è un mago, e che altro se no? Non lo era forse Ermete Trismegisto? E prima di lui Mosè? E tutti i grandi padri della filosofia greca, Socrate e Platone primi fra tutti? Per tacere di Plotino, Porfirio e del più grande di tutti, Virgilio stesso, «il savio gentil che tutto seppe». E per fortuna, in questa occasione, Bruno non accomuna, nella tradizione ermetica, anche Cristo e Maometto, cosa che invece farà qualche anno dopo a Venezia, di fronte a un esterrefatto Mocenigo. Questa è un’altra delle grandi allucinazioni, anche se con qualche attento riferimento ad alcune fonti, degli ermetici. Anche Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti e segretamente il Poliziano amavano trovarsi dei “padri” che condividessero le teorizzazioni dell’ermetismo. Ficino afferma, come si è già visto negli articoli precedenti, che la magia, qualora sia «naturalis», non è difforme dal cristianesimo (Eugenio Garin, La disputa sull’astrologia, cit., pag. 97 e segg.)! Ed è quindi logico, nel paradosso, che Bruno si spinga oltre Marsilio, da lui considerato come un maestro (F.A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, pag. 145 e segg.; a cura di G. Gentile, Opere italiane, I, Dialoghi metafisici, pag. 87 e segg.; Luigi Firpo, Scritti scelti di Giordano Brano e Tommaso. Campanella, edizione del 1968, “Introduzione”).

A sua volta Tommaso Campanella, seguace del filosofo, ma sarebbepiù proprio dire del mago di Nola, andrà oltre, teorizzando la magia come unica vera scienza unificante ogni credo di qualsiasi nazione e tempo.

L’erede al trono, dapprima perplesso, sentendo dalla bocca del suo ammirato maestro simili affermazioni, condivide immediatamente ogni proposizione “magica” e nell’ardore giovanile ne discute pubblicamente nei giorni successivi, anche alla presenza degli oltranzisti cattolici (James Leroy, “Trinity Road”, in Oxford Revue, pag. 100 e segg.). Forse sarà stato anche questo motivo a spingere Enrico ad affrettare i tempi della “missione” del filosofo italiano in terra inglese (I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Nel 1583 Bruno è in Gran Bretagna, dove a Oxford insegna nello Studio e stampa immediatamente altri tre trattati mnemonici, Ars reminiscendi, Explicatio triginta sigillorum, Sigillus sigillorum. Inoltre cura una riedizione del De umbris e del Cantus.

È circondato da amici fidati e da ammiratori: lo dimostra la diffusione capillare delle sue opere, l’importanza della cattedra affidatagli e i contatti con sir Sidney, il gran favorito della regina Elisabetta. Intorno alla sovrana, illuminata nelle cose di lettere e di scienza, oltre che nella diplomazia, esiste da tempo un gruppo di nobili permeati di esoterismo, i quali già conoscono bene sia le opere di Bruno, sia i neoplatonici fiorentini come Ficino e Pico della Mirandola (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 90 e segg.). È un vero e proprio partito della “pace”, con stabili contatti in Francia. Nobili di Enrico e di Elisabetta tendenti a trovare punti di tolleranza tra le diverse confessioni, al di là delle posizioni ufficiali.

Si potrebbe discutere a lungo se sia l’ermetismo a spingere costoro verso la reciproca comprensione o viceversa, anche se recentissime indagini tendono a preferire la prima ipotesi. Si è infatti già osservato come sia connessa all’ideologia neoplatonica un’istanza di universalità delle genti, in nome di un “bene” superiore ai singoli paesi (Philip Newton Stuart, The Sun and the Queen, Dumont, pag. 45 e F.A. Yates, Shakespeare, un nuovo tentativo di approccio, Einaudi, pag. 60 e segg.).

Anche a Oxford il particolare temperamento dell’uomo “venuto dal sud” ha modo di evidenziarsi quasi immediatamente. È la copia della dimostrazione avvenuta in terra di Francia, al cospetto di Enrico. Dottori in ogni disciplina si affollano per saggiare le doti culturali dell’italiano, segretamente speranzosi di metterlo in difficoltà. Forse tra loro si celano dei protestanti accesi, della stessa specie, in campo avverso, dei seguaci del Guisa (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 231). Anche qui Bruno raccoglie rancori e odi, e addirittura un’accusa di plagio dell’opera di Marsilio Ficino (ivi, pag. 232). Da quest’ultima si difende dichiarandosi seguace della magia naturalis del neoplatonico toscano, anche se in piena autonomia creativa. I suoi studi si spingono ben oltre Ficino, arrivando a contemplare una scienza assoluta, appunto l’ars memoriae. Ma non quella classica dei retori, bensì un nuovo tipo, a forte caratteristica magica.

L’Inghilterra è un paese dove da un decennio i cavalieri “della regina” studiano esoterismo, ma segretamente, così che a livello ufficiale le affermazioni di Bruno, malgrado un ambiente nobiliare in parte favorevole, non possono suscitare che scalpore. Il filosofo è invitato a Londra, ospitato direttamente in casa dell’ambasciatore francese Michele di Castelnau.

Qui vive forse il periodo più piacevole di tutta la sua vita, circondato da amici e ammiratori. Frequenta le personalità più di spicco della cultura inglese, tutti appartenenti al “partito della pace”, quali Greville, Walshingham, Giovanni Smith, Matteo Gwynn e il Florio. E forse addirittura Shakespeare e la sua compagnia di particolari attori e commedianti. (I contatti tra Bruno e il grande autore inglese sono stati appena accennati dalla Yates nell’opera già citata, ma meriterebbero davvero una pubblicazione a parte, anche perché la compagnia di Shakespeare è strettamente connessa al movimento rosacrociano.)

La Yates ha dimostrato ampiamente come l’ermetismo fosse in qualche modo il coibente tra il filosofo e tali personaggi, unitamente al disprezzo verso l’accademismo umanistico e l’aristotelismo grammarian. Anche Aquilecchia ha comprovato quanto un nuovo modello di scientia si affermasse in tali ambienti “progressisti” e come gli interessi anche astronomici dell’italiano stabilissero uno stretto rapporto con le personalità vicine alla regina. Così è spiegabile anche la scelta del «volgare per i dialoghi (italiani), il suo carattere innovatore, che allineandosi con la produzione scientifica vernacolare inglese, segna il distacco dalla tradizione classica trionfante negli ambienti accademici» (I. Guerrini Angrisani, op. cit., pag. 29). Insomma l’attività del filosofo incontrava i gusti, le tendenze, gli ideali di tale élite nobiliare che agiva contro la cultura accademica, operando su un piano «tendenzialmente popolare», come giustamente fa sempre notare Aquilecchia.

Bisogna anche aggiungere che, in tale affinità di ispirazioni, Bruno operava e scriveva in funzione di una esigenza innovatrice, da lui considerata come “componente ermetica”, per cui si ribella alla concezione aristotelica dell’universo, in modo più drastico di quanto non abbia mai fatto lo stesso Copernico (Giorgio De Pascalis, Copernico e Giordano Bruno – un confronto preferenziale, Ramo d’Oro, pag. 32).

Vedono le stampe, tra il 1584 e il 1585, La cena delle ceneri, De la causa principio et uno, De l’infinito – universo et mondi, lo Spaccio de la bestia trionfante, La Cabala del cavallo Pegaseo, De gli eroici furori.

La “nolana filosofia” attrae sempre più i cavalieri della regina, come è riscontrabile non solo nell’epoca bruniana, ma forse soprattutto dopo, «allorché le opere italiane del Bruno, stampate a Londra, furono in parte tradotte in inglese, quando il nome del filosofo era stato dimenticato in gran parte d’Europa (basti pensare a come il deismo inglese accolse l’insegnamento del Bruno tra Seicento e Settecento)» (I. Guerrini Angrisani, op. cit., pag. 32). Avendo stabilito rapporti così intensi, Bruno considera terminata la sua permanenza in Gran Bretagna e riparte per la Francia.

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L’immaginazione ermetica VIII

Inizia per Giordano Bruno a partire dal 1576 un periodo di vagabondaggio (vedi articolo precedente) che lo porta a Genova, a Noli, dove impartisce lezioni private, a Savona, a Torino, a Venezia. Qui pubblica un’opera, De’ segni de’ tempi, andata perduta. Poi nuovamente ricomincia la peregrinazione, da Padova a Bergamo, dove rimette l’abito. (Tale fatto testimonia quanto Bruno fosse legato, nel suo profondo, all’ordine dei Domenicani. In effetti a Bergamo si rimette il saio non per convenienza, ma dopo una lunga notte di riflessione.) Chambery, poi Ginevra. Qui conosce i calvinisti da vicino, la loro “purezza di comportamento” lo colpisce profondamente e lo porta a aderire a tale confessione. È un terribile abbaglio. Perché la rigidità calvinista è lontanissima dalla grandezza e dalle aperture culturali di Bruno. Il mito della obbedienza, così proprio soprattutto dei cittadini ginevrini, è agli antipodi con l’irruenza del domenicano. Fra’ Giordano è un passionale, e questa caratteristica lo accompagnerà per tutta la vita. Sempre propenso allo scontro dialettico in nome della verità e della tolleranza. Curiosamente Giordano aggredisce costantemente gli accademici, accusandoli di “intolleranza”, con modi violenti sia nel linguaggio sia nei gesti. In lui i sentimenti si esprimono con foga. Forse è la certezza di dover insegnare la possibilità di un’esistenza migliore a spingerlo a compiere gesti estremi, là dove il proprio personale tornaconto avrebbe dovuto suggerirgli atteggiamenti più prudenti.

A Ginevra, in pochi mesi, si è guadagnato la fiducia universale, e la massima stima per la sua profonda cultura. Non c’è nessuno che possa competere con lui nella conoscenza delle Sacre Scritture, di Platone, di Aristotele, di Averroè. Un pizzico di savoir faire e avrebbe ottenuto un importante incarico nella università della città. Purtroppo, mentre il lettore dell’Accademia De La Faye sta leggendo, Bruno rileva ad alta voce venti errori dell’oratore. A Napoli, come a Roma, come in qualsiasi città cattolica, si sarebbe giunti a una disputa accesa. Non così a Ginevra, dove imperversano gli oltranzisti riformati. L’italiano viene strattonato e malmenato, issato a viva forza sulle teste degli studenti e scaraventato in strada; quindi è arrestato e costretto a ritrattare. Bruno è intimamente convinto di essere portatore di una rinnovata visione del mondo, basata sulla sperimentazione e sulla possibilità di dilatare la memoria e l’intelligenza dell’uomo. In sintonia, quindi, con le teorizzazioni ermetiche. Egli aggiungeva una carica umana, tutta particolare, nell’affermare tale idealizzazione, a discapito della sua stessa incolumità fisica. Anche a Londra riuscì a stento a sottrarsi alla “furia” di alcuni docenti, da lui paragonati alle lucertole, ovvero capaci di nutrirsi solo di insetti psichici.

Ginevra, la città che ospitava la “lungimiranza religiosa” e la “pazienza evangelica”, lo allontana. Costretto a ripartire, Bruno giunse a Tolosa in quello stesso 1579. Qui in pochi mesi diventa pubblico lettore di filosofia, un incarico che ricoprirà anche a Parigi e a Londra. È la cattedra più importante a cui un accademico possa aspirare ed è assolutamente sconcertante che venga affidata a uno straniero, per di più appena giunto in città. La stessa cosa si ripeterà appunto in Francia e Inghilterra. L’ingegno straordinario di Bruno non basta a giustificare l’acquisizione continua di ruoli così importanti, soprattutto se si tiene conto del livello sociale a cui Giordano ormai appartiene, ovvero infimo. È un ex frate, per di più accusato di eresia, senza mezzi, contatti, potere. Non è ragionevole credere che, solo grazie a una “intelligenza superiore”, possa aver acquisito tale mandato. È lecito supporre una sua personale rete di amicizie di cui nulla è stato tramandato, e alcune sue “dimostrazioni” di capacità intellettuali (F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981, pag. 167; I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Passano pochi mesi e, a causa di un’inspiegabile irrequietezza, Bruno riprende a viaggiare, e nell’estate del 1581 è a Parigi. (L’irrequietezza bruniana è un classico falso del radicalismo romantico a sfondo anticlericale. Si vuole vedere in questo filosofo un antesignano del “tormento” del poeta-vate-sapiente: si vedano i rari scritti in proposito di Carducci. Sono davvero risibili, si fa del nolano un propugnatore della libertà politica del XIX secolo, quando invece era un tenace sostenitore e divulgatore della “prisca teologia”, di un ritorno a concezioni e idee, in campo politico, ispirate alla Repubblica di Platone, ovvero assolutamente e rigidamente classiste.) Qui la sua “fama” si consolida; ottiene un posto di lettore “straordinario e provvisionato” allo Studio parigino. Si crea amicizie e dà un saggio di memoria innanzi a Enrico III, che gode della sua ammirazione quale principe colto e liberale, generoso e pacifista. Pare che il Bruno frequentasse gli ambienti di corte, facesse parte cioè di quel circolo di moderati politiques attorno ai Valois che, pur essendo cattolici, nutrivano simpatie per i protestanti, dati gli eccessi locali della Lega diretta dai Guisa appoggiati dalla Spagna. (Il duca di Guisa è in effetti un fanatico religioso, oltre che un tenace uomo d’arme. Il suo vero obbiettivo non è la corona, come alcuni storici hanno affermato, ma l’annientamento dei protestanti. Quando nel 1584 si farà propugnatore della Lega Santa, unitamente al cardinale di Lorena, per “estirpare l’eresia” arriverà ad accusare, con il Manifesto Peronne, il suo stesso re di essere un miscredente. Invettiva che costerà a entrambi la vita. Nel 1588, infatti, il re li farà assassinare da alcuni seguaci, a loro volta fanatici ugonotti.) Insomma fra’ Giordano si unisce a un gruppo di nobili colti, che condividono con lui l’ideologia della universalità.

Appena sette mesi prima, nel gennaio del 1581, lo stesso Enrico ha fatto suonare delle melodie a corte, presenti sia i cattolici, sia i protestanti, in particolar modo gli ugonotti. Le musiche sono anonime, al di là di ogni supposizione, e si basano su suoni di flauti di canna, di arpa e di voci esclusivamente femminili, ed è la prima volta, in assoluto, che delle donne cantano in pubblico. Tali elementi sono per noi importantissimi, perché ci permettono di inquadrare il senso della rappresentazione in direzione delle concezioni ermetiche. Infatti gli strumenti sono quelli di Dioniso e di Apollo, e il Neoplatonismo alessandrino ha sempre voluto riunire le sfere cultuali delle due divinità in una visione unificante, detta appunto ermetica. Anche il canto femminile si inserisce nel contesto della ideologia di Ermete Trismegisto. Il filosofo di Nola si introduce perciò tra persone che conoscono le filosofie a cui lui stesso si ispira. Non solo, tutti credono che simili princìpi possano modificare gli animi degli uomini, e addirittura sanare le guerre di religione che avvelenano la Francia (F.A. Yates, Astrea, Einaudi, pag.201 e segg. Stando alle ricerche di questa studiosa, la cerimonia ebbe anche efficacia, perché per un brevissimo periodo di tempo gli ugonotti e i cattolici sembrarono trovare alcuni momenti di intesa, basati su teorie della musicalità nella antica Grecia. Si arrivò persino a creare una commissione di studi per reperire quale fosse il vero timbro musicale presso gli ateniesi del VI secolo avanti Cristo. Poi gli eventi spazzarono via ogni cosa.)

Tornando alla rappresentazione sonora, si trovano in essa momenti spettacolari in apparenza, che invece nascondono profondi significati, e tutti correlati a Bruno, che in quel momento è ancora a Tolosa. Infatti, mentre i musici deliziavano gli animi, dietro, sullo sfondo dell’improvvisato palcoscenico, sfilavano alcuni dipinti sorretti da servi. Rappresentano simboli zodiacali, e fin qui non c’è nulla di particolarmente straordinario, per quanto sia insolito che alla corte di Caterina de’ Medici, la cattolicissima, vengano mostrate al pubblico nobiliare e d’arme composizioni pittoriche legate all’astrologia. Ma in realtà non si tratta “solo” di quadri rappresentanti i segni dell’arte divinatoria, ma di precise riproduzioni di immagini della memoria, ovvero di simboli che dovrebbero modificare, per una forza loro innata, la mente di chi li osserva, mutando in mansueti saggi, protesi al bene dell’umanità, gli individui avvelenati dalla intolleranza religiosa. Per di più i disegni voluti da Enrico III ricalcano fedelmente almeno dodici “figure della memoria” descritte dal filosofo campano nel suo De umbris idearum, opera da lui composta addirittura un anno dopo la celebre musicata.

Le figure bruniane sono assolutamente originali, anche se suggerite dalla tradizione ermetica e in particolar modo da Cornelio Agrippa e da Teucro Babilonese (F.A. Yates, op. cit., pag. 160 e segg. In effetti Bruno si considera un seguace del grande Cornelio Agrippa e alcune delle sue immagini della memoria sono direttamente ispirate a figure descritte nel De occulta philosophia unitamente ad altre attribuite a Teucro Babilonese, sempre riportate dallo stesso Agrippa. In ogni caso il filosofo campano opera sempre in grande autonomia e i suoi simboli, legati ai segni dello zodiaco, possono essere considerati rispettosi della tradizione, in una piena autonomia creativa). Non ci sono dubbi, l’ispiratore è proprio il nolano. Come poteva l’anonimo pittore conoscere immagini che l’italiano doveva, in teoria, ancora scrivere? Probabilmente appunti manoscritti già circolavano a Parigi prima della venuta dell’ex frate, e questo comproverebbe l’ipotesi di contatti tra Bruno e alcuni studiosi vicini al re di Francia. Inoltre, se si accetta questa teoria, ecco spiegata la facilità del filosofo ad accedere a cattedre importantissime, come quella di Tolosa, città piena di uomini fedelissimi al Guisa, nemico giurato di Enrico III. Forse Bruno avrebbe dovuto placare gli animi dei riottosi e ricondurli alla ragione. Missione che avrebbe tentato di assolvere per diciotto mesi, per poi, una volta ultimato il compito, giungere alla sua vera destinazione, appunto Parigi. Ventiquattro mesi nella capitale francese e quindi una nuova partenza, questa volta per Londra, sempre seguendo i voleri di Enrico di Francia. Solo che riguardo alla missione londinese esistono testimonianze scritte; infatti Bruno è accompagnato addirittura dall’ambasciatore Castelnau, e grazie all’intervento del principe Laski tiene delle lezioni a Oxford sullo stesso tema di quelle di Tolosa e di Parigi: l’arte della memoria. Questo è l’elemento unificante dei vagabondaggi del filosofo, non una presunta inquietudine psichica. Il nolano sta diffondendo una precisa visione del mondo, quella ermetica, mediante appunto l’arte della memoria. Infatti, ovunque si rechi, pubblica opere al riguardo.

Un discorso a parte meriterebbe anche la facilità con cui trova subito degli editori, in un’epoca in cui la stampa costava una fortuna. Dunque è la mnemotecnica l’obiettivo vero: la sua diffusione. Perché l’ars memoriae del filosofo è del tutto pretestuosa, infatti non vuole potenziare la capacità di ricordare, come facevano gli antichi rètori, ma divulgare i princìpi dell’ermetismo, l’utopia della unità degli uomini al di là delle divisioni politiche e religiose. In seguito verranno approfondite le figure mnemoniche e la teorizzazione a monte; per ora è importante comprendere, come già detto, che non si tratta “solo” di strumenti per ampliare le facoltà del ricordo, ma di mezzi per rivoluzionare l’umanità, rendendola in qualche modo migliore. Questo è il sogno dell’ex domenicano e dei suoi amici, tutti seguaci della cosiddetta “tradizione ermetica” (tale sogno-bisogno è perfettamente evidenziato sia dalla Yates, soprattutto nell’Illuminismo dei Rosacroce, Einaudi, pag.74 e segg.; sia da Luciano Pirrotta, quando si sofferma sui desideri del marchese di Palombara Sabina, La porta ermetica, Atanòr, cap. III-IV; sia da Maurizio Calvesi nel suo studio sul Sogno di Polifilo Prenestino, Officina Edizioni, pag. 100 e segg.).