La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

 

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Dai fenomeni di somatizzazione alla body art: riflessioni sul corpo e sugli attacchi di panico

L’uomo primitivo era governato dai propri istinti più dei suoi moderni discendenti “razionali”, che hanno imparato a “controllarsi”, piuttosto che ad esprimere. Nel corso di questo processo di civilizzazione abbiamo progressivamente scisso la nostra coscienza dagli strati profondi della psiche umana e infine anche dalla base somatica del fenomeno psichico. L’uomo contemporaneo, a causa di mancanza d’introspezione, è sovente ignaro che, pur con tutta la sua razionalità ed efficienza, è in balìa di “forze non controllabili”. Dei e demoni tengono molti individui in uno stato d’agitazione semplicemente attraverso vaghe apprensioni, o tramite un ingente fardello di nevrosi e di disturbi somatici.
La letteratura recente postula che un’inibizione più o meno forzata e costante del naturale comportamento biopsicomotorio del corpo si traduce in una cronica e sterile microattivazione del sistema nervoso vegetativo, psico-neuro-endocrino ed immunologico. Quest’attivazione produrrebbe le manifestazioni squisitamente cliniche di tale processo: gli attacchi di panico, i disturbi da somatizzazione gastro-intestinale, sessuale o pseudo-neurologica (si pensi ai vari tipi di cefalea), le sindromi algiche e l’ipocondria, per citare la nosografia di maggiore incidenza.
Giova ricordare in quest’ambito, anche se a margine ai fini del presente discorso, la concezione junghiana sul ruolo vitale della funzione compensatrice dei sogni e della loro elaborazione nell’alleviare la strutturazione di tali disturbi.
Analizzeremo ora come esempio la fenomenologia clinica della sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) dura generalmente solo alcuni minuti, ma causa una considerevole angoscia. Il coinvolgimento del corpo si manifesta con prepotenti sintomi organici come soffocamento, vertigini, sudorazione profusa, tremore e tachicardia cui si accompagnano spesso una sensazione di morte imminente od il timore di impazzire. Sebbene l’evidenza a favore di fattori neurofisiologici nella genesi di questo corteo sintomatologico sia ineludibile, tali osservazioni sono più persuasive nella spiegazione della patogenesi piuttosto che dell’eziologia del disturbo. Nessun dato neurobiologico è in grado di farci comprendere cosa scateni l’inizio di un attacco di panico, così come di altri disturbi psicosomatici.
Diverse evidenze suggeriscono invece che fattori psicologici possono essere rilevanti. Vari studi hanno dimostrato una maggiore incidenza in questi pazienti di eventi esistenziali stressanti, ed in particolare la perdita di persone significative nei mesi che precedono il disagio. Tutto questo suggerisce che l’eziologia riguardi il significato inconscio e simbolico degli eventi, nella misura in cui ciascuno lo elabora in maniera diversa, o non lo elabora per niente. La paura ha un oggetto, l’angoscia panica n’è priva, o meglio, il vissuto relativo è rimosso: non c’è insight. C’è un consenso quasi unanime nell’attribuire all’alessitimia, concetto centrale della psicosomatica contemporanea, parte della genesi dei processi di somatizzazione. Si tratta dell’incapacità di riconoscere e identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguerli dalle sensazioni corporee che si accompagnano all’attivazione emotiva e della difficoltà nel descrivere agli altri tali stati d’animo.
James Hillman postulava che alla base di processi analoghi vi sia il tradizionale approccio occidentale alla paura, ai vissuti che causano sofferenza, considerati non come un qualcosa da accettare, con cui prendere contatto, ma un problema morale da superare ad ogni costo, anche quello della rimozione e della repressione inconsapevole.
Cambiamo punto di vista ed apparentemente cambiamo argomento. Fino a qualche tempo fa lo sfoggio di tatuaggi su braccia, spalle e gambe era considerata la sfida dell’individuo contro le regole convenzionali delle società, un segno di distinzione, in alcuni casi di capacità creativa. Diffusa, inoltre, era la pratica del tatuaggio nel mondo penitenziario che sanciva l’appartenenza a gruppi e/o sottogruppi, esattamente come avviene nelle tribù primitive e quelle più “moderne”. Ad alcune persone tali tendenze inducono sensazioni sgradevoli, eppure tali fenomeni sono divenuti sempre più diffusi, fino ad interessare una certa fascia della società. Tutte le mode passano o si evolvono. Al tatuaggio si sono aggiunte altre forme di “body art”, sicuramente più spettacolari, e per certi versi anche potenzialmente dannose per la salute. Si fa riferimento al piercing, con perforazione di narici, ombelichi, lingua od altre parti del corpo.
A riguardo, ricordo le parole di una cliente ventiquattrenne: -è bello, mi piace. Inutile dire che lo ho fatto per sentirmi integrata, per essere alla moda, per sfidare il dolore…il piercing è una forma di arte che collega il corpo allo spirito. E’ l’anima che colpisce la propria carne per farla più sua, per sentirsi di più un “tutt’uno”-.
Procedendo in un ipotetico continuum nell’analisi di questo fenomeno, ho immaginato che un successivo gradino fosse individuabile nell’arte estrema contemporanea. A partire dagli anni Settanta le arti cosiddette “canoniche” subiscono un definitivo cambio di rotta approdando ad una privilegiata, inquietante terra di conquista: il corpo. Il lavoro di Ron Athey rileva l’estremizzazione del dolore fisico come manifestazione privilegiata del disagio esistenziale. Le scioccanti “esperienze” di Franko B, artista-performer italobritannico, conducono il discorso della sfida al dolore alle estreme conseguenze. Nelle sue opere arriva a farsi tramortire e torturare, da un lato mimando le limitazioni che il corpo naturalmente manifesta in alcune situazioni e dall’altro mantenendo un controllo assoluto sulla propria fisicità durante tali rituali. Questa forma d’arte ha una valenza peculiare: nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una inversione dei processi di somatizzazione attraverso la produzione attiva d’immagini “estreme”. Franko B ha dichiarato in una intervista di “non aver più paura di mostrare le proprie vergogne”, ovvero di non aver timore nell’esprimere verbalmente ed attraverso immagini d’arte il proprio stato affettivo, ideico ed emotivo, per quanto eccessivo possa risultare al fruitore.
A questo punto riassumo la nota tesi di Hillman espressa nel suo “Il mito dell’analisi”: gli Dei rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici. Alcuni esempi sono quelli di Dioniso e l’isteria, della relazione tra Crono-Saturno con gli aspetti paranoici della depressione e di Ermes-Mercurio con quello che chiamiamo comportamento schizoide. Si tratta di esplorare la psicopatologia in termini di psicologia archetipica.
Veniamo dunque a Pan. Il mito greco lo pose come dio della natura, dalle molteplici sfaccettature, dimorante in Arcadia, le “oscure caverne” dove lo si poteva incontrare, una località tanto fisica che psichica. Il suo habitat erano grotte, fonti, boschi e luoghi selvaggi (l’inconscio). A ben vedere esso sussume sia l’angoscia panica che si impadronisce del corpo (dall’alessitimia alla genesi del sintomo ad un polo) che gli aspetti erotici connessi alla sua natura satiresca, caprina, fallica e demonica (autoassertività, capacità di contatto ed elaborazione delle proprie emozioni, vissuti, istinti e pulsioni, simbolizzazione consapevole della sofferenza, produzione laconicamente esplicativa delle proprie immagini interiori).
Mi sembra suggestivo osservare ora da una prospettiva olistica le nuove manifestazioni del duplice, antitetico ruolo di Pan nel determinismo di vari aspetti della psiche individuale e collettiva dell’uomo moderno ed ipotizzare il suo potenziale disvelarsi per ciascuno di noi in un punto sito nel percorso che va da un polo all’altro dell’enantiodromia descritta (dalla sofferenza alessitimica all’espressione “spudorata” del dolore del body art performer).
Forse nel passaggio al contatto, alla progressiva capacità di dare forma e parola ai propri vissuti, di esprimere ed agire il bisogno di ascolto della voce del corpo e delle emozioni si concretizza il ruolo spirituale che noi scegliamo per Pan o che Pan sceglie per noi. E durante un percorso analitico il ruolo del terapeuta che incontra una persona con disturbi somatici diviene anche quello di mediare la riscoperta del livello di percezione e di esperienza delle immagini a cui la sua storia ha tentato di impedire l’accesso. In tal modo probabilmente incontreremo il dio che “rende pazzi”, consentendogli di “farci guarire”.

Dr. Massimo Lanzaro

Per ulteriori approfondimenti:

C.G. Jung. L’uomo e i suoi simboli. Tea, 2002.
James Hillman. Saggio su Pan. Adelphi, 2001.
Savoca G. Arte estrema. Castelvecchi,1999.

…infuriando sulle montagne

Sopra: Paul Cézanne, “Baccanale”, 1875-80

Beato colui che ha un buon demone e conoscendo le iniziazioni degli dei vive santamente e introduce la sua anima nella schiera dionisiaca, infuriando sulle montagne.

(Euripide, “Baccanti”)

Corpo psichico

… vivere nel corpo è estremamente difficile e ci risulta estraneo come la forma in cui i Greci immaginarono l’origine di Dioniso. […] Comunque, possiamo iniziare ad avere coscienza del corpo psichico quando prendiamo coscienza della nostra alienazione di fronte al corpo, e di quanto facile risulti perdere il nostro legame con esso.

Rafael Lopez-Pedraza

Dioniso

Gli adulti che sono stati bambini non amati dovrebbero quanto prima seguire l’esempio di Dioniso il quale, secondo una versine della sua storia, non attese di essere abbandonato, ma fuggì dai suoi persecutori, si gettò in mare e, in una grotta sull’isola di Creta, trovò la protezione necessaria per il proprio sviluppo. Con questo intendo dire che non dovrebbero più permettere ai genitori di respingerli, ma dovrebbero compiere di propria iniziativa il primo passo verso l’indipendenza.

Peter Schellenbaum

Pianeti interiori

Dioniso, Dio delle donne

Dioniso è essenzialmente un Dio delle donne. Sebbene sia una figura maschile e fallica, non c’è misogenia nella struttura di coscienza che egli rappresenta, giacché essa non è divisa dalla sua femminilità.

James Hillman

Corpo emozionale

Con la repressione del Dioniso emotivo appare la repressione del corpo: Ivan Linforth dice che il corpo è sempre dionisiaco, e da ciò possiamo dedurre che Dioniso è sempre il corpo. Questo significa abbandonare l’intelletto e stare nel corpo, sentire il corpo. […] Potremmo dire che c’è un Dioniso nel nostro corpo che sta aspettando di essere contattato e di darci accesso alla ricchezza delle sue emozioni e dei suoi sentimenti.

Rafael Lopez Pedraza

 

Natura dionisiaca

Questo è fondamentale: la natura dionisiaca deve essere educata. Possiamo pensare che senza educazione la natura dionisiaca possa rimanere “selvaggia” e “demenziale” e incapace di stare in contatto col senso della realtà immediata

Rafael Lòpez Pedreza

L’estasi misterica

(…) Dioniso si collega alla conoscenza in quanto divinità eleusina: l’iniziazione ha i misteri di Eleusi difatti culminava in una “epopteia”, in una visione mistica di beatitudine e purificazione, che in qualche modo può venir chiamata conoscenza. Tuttavia l’estasi misterica, in quanto si raggiunge attraverso un completo spogliarsi dalle condizioni dell’individuo, in quanto cioè in essa il soggetto conoscente non si distingue dall’oggetto conosciuto, si deve considerare come il presupposto della conoscenza, anziché conoscenza essa stessa.

Giorgio Colli

Crisi di identità

Abbiamo tutti crisi di identità, perché un’identità singola è un’illusione della mente monoteistica che, ad ogni costo,  vorrebbe sconfiggere Dioniso; abbiamo tutti una coscienza dispersa in tutte le parti del nostro corpo, uteri vagabondi; siamo tutti isterici. L’autenticità è nell’illusione, nel recintarla, nell’osservare in trasparenza dal suo interno mentre la recintiamo, come un attore che vede attraverso la sua maschera e solo in questo modo può vedere.

James Hillman

L’immaginazione ermetica VIII

Inizia per Giordano Bruno a partire dal 1576 un periodo di vagabondaggio (vedi articolo precedente) che lo porta a Genova, a Noli, dove impartisce lezioni private, a Savona, a Torino, a Venezia. Qui pubblica un’opera, De’ segni de’ tempi, andata perduta. Poi nuovamente ricomincia la peregrinazione, da Padova a Bergamo, dove rimette l’abito. (Tale fatto testimonia quanto Bruno fosse legato, nel suo profondo, all’ordine dei Domenicani. In effetti a Bergamo si rimette il saio non per convenienza, ma dopo una lunga notte di riflessione.) Chambery, poi Ginevra. Qui conosce i calvinisti da vicino, la loro “purezza di comportamento” lo colpisce profondamente e lo porta a aderire a tale confessione. È un terribile abbaglio. Perché la rigidità calvinista è lontanissima dalla grandezza e dalle aperture culturali di Bruno. Il mito della obbedienza, così proprio soprattutto dei cittadini ginevrini, è agli antipodi con l’irruenza del domenicano. Fra’ Giordano è un passionale, e questa caratteristica lo accompagnerà per tutta la vita. Sempre propenso allo scontro dialettico in nome della verità e della tolleranza. Curiosamente Giordano aggredisce costantemente gli accademici, accusandoli di “intolleranza”, con modi violenti sia nel linguaggio sia nei gesti. In lui i sentimenti si esprimono con foga. Forse è la certezza di dover insegnare la possibilità di un’esistenza migliore a spingerlo a compiere gesti estremi, là dove il proprio personale tornaconto avrebbe dovuto suggerirgli atteggiamenti più prudenti.

A Ginevra, in pochi mesi, si è guadagnato la fiducia universale, e la massima stima per la sua profonda cultura. Non c’è nessuno che possa competere con lui nella conoscenza delle Sacre Scritture, di Platone, di Aristotele, di Averroè. Un pizzico di savoir faire e avrebbe ottenuto un importante incarico nella università della città. Purtroppo, mentre il lettore dell’Accademia De La Faye sta leggendo, Bruno rileva ad alta voce venti errori dell’oratore. A Napoli, come a Roma, come in qualsiasi città cattolica, si sarebbe giunti a una disputa accesa. Non così a Ginevra, dove imperversano gli oltranzisti riformati. L’italiano viene strattonato e malmenato, issato a viva forza sulle teste degli studenti e scaraventato in strada; quindi è arrestato e costretto a ritrattare. Bruno è intimamente convinto di essere portatore di una rinnovata visione del mondo, basata sulla sperimentazione e sulla possibilità di dilatare la memoria e l’intelligenza dell’uomo. In sintonia, quindi, con le teorizzazioni ermetiche. Egli aggiungeva una carica umana, tutta particolare, nell’affermare tale idealizzazione, a discapito della sua stessa incolumità fisica. Anche a Londra riuscì a stento a sottrarsi alla “furia” di alcuni docenti, da lui paragonati alle lucertole, ovvero capaci di nutrirsi solo di insetti psichici.

Ginevra, la città che ospitava la “lungimiranza religiosa” e la “pazienza evangelica”, lo allontana. Costretto a ripartire, Bruno giunse a Tolosa in quello stesso 1579. Qui in pochi mesi diventa pubblico lettore di filosofia, un incarico che ricoprirà anche a Parigi e a Londra. È la cattedra più importante a cui un accademico possa aspirare ed è assolutamente sconcertante che venga affidata a uno straniero, per di più appena giunto in città. La stessa cosa si ripeterà appunto in Francia e Inghilterra. L’ingegno straordinario di Bruno non basta a giustificare l’acquisizione continua di ruoli così importanti, soprattutto se si tiene conto del livello sociale a cui Giordano ormai appartiene, ovvero infimo. È un ex frate, per di più accusato di eresia, senza mezzi, contatti, potere. Non è ragionevole credere che, solo grazie a una “intelligenza superiore”, possa aver acquisito tale mandato. È lecito supporre una sua personale rete di amicizie di cui nulla è stato tramandato, e alcune sue “dimostrazioni” di capacità intellettuali (F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981, pag. 167; I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Passano pochi mesi e, a causa di un’inspiegabile irrequietezza, Bruno riprende a viaggiare, e nell’estate del 1581 è a Parigi. (L’irrequietezza bruniana è un classico falso del radicalismo romantico a sfondo anticlericale. Si vuole vedere in questo filosofo un antesignano del “tormento” del poeta-vate-sapiente: si vedano i rari scritti in proposito di Carducci. Sono davvero risibili, si fa del nolano un propugnatore della libertà politica del XIX secolo, quando invece era un tenace sostenitore e divulgatore della “prisca teologia”, di un ritorno a concezioni e idee, in campo politico, ispirate alla Repubblica di Platone, ovvero assolutamente e rigidamente classiste.) Qui la sua “fama” si consolida; ottiene un posto di lettore “straordinario e provvisionato” allo Studio parigino. Si crea amicizie e dà un saggio di memoria innanzi a Enrico III, che gode della sua ammirazione quale principe colto e liberale, generoso e pacifista. Pare che il Bruno frequentasse gli ambienti di corte, facesse parte cioè di quel circolo di moderati politiques attorno ai Valois che, pur essendo cattolici, nutrivano simpatie per i protestanti, dati gli eccessi locali della Lega diretta dai Guisa appoggiati dalla Spagna. (Il duca di Guisa è in effetti un fanatico religioso, oltre che un tenace uomo d’arme. Il suo vero obbiettivo non è la corona, come alcuni storici hanno affermato, ma l’annientamento dei protestanti. Quando nel 1584 si farà propugnatore della Lega Santa, unitamente al cardinale di Lorena, per “estirpare l’eresia” arriverà ad accusare, con il Manifesto Peronne, il suo stesso re di essere un miscredente. Invettiva che costerà a entrambi la vita. Nel 1588, infatti, il re li farà assassinare da alcuni seguaci, a loro volta fanatici ugonotti.) Insomma fra’ Giordano si unisce a un gruppo di nobili colti, che condividono con lui l’ideologia della universalità.

Appena sette mesi prima, nel gennaio del 1581, lo stesso Enrico ha fatto suonare delle melodie a corte, presenti sia i cattolici, sia i protestanti, in particolar modo gli ugonotti. Le musiche sono anonime, al di là di ogni supposizione, e si basano su suoni di flauti di canna, di arpa e di voci esclusivamente femminili, ed è la prima volta, in assoluto, che delle donne cantano in pubblico. Tali elementi sono per noi importantissimi, perché ci permettono di inquadrare il senso della rappresentazione in direzione delle concezioni ermetiche. Infatti gli strumenti sono quelli di Dioniso e di Apollo, e il Neoplatonismo alessandrino ha sempre voluto riunire le sfere cultuali delle due divinità in una visione unificante, detta appunto ermetica. Anche il canto femminile si inserisce nel contesto della ideologia di Ermete Trismegisto. Il filosofo di Nola si introduce perciò tra persone che conoscono le filosofie a cui lui stesso si ispira. Non solo, tutti credono che simili princìpi possano modificare gli animi degli uomini, e addirittura sanare le guerre di religione che avvelenano la Francia (F.A. Yates, Astrea, Einaudi, pag.201 e segg. Stando alle ricerche di questa studiosa, la cerimonia ebbe anche efficacia, perché per un brevissimo periodo di tempo gli ugonotti e i cattolici sembrarono trovare alcuni momenti di intesa, basati su teorie della musicalità nella antica Grecia. Si arrivò persino a creare una commissione di studi per reperire quale fosse il vero timbro musicale presso gli ateniesi del VI secolo avanti Cristo. Poi gli eventi spazzarono via ogni cosa.)

Tornando alla rappresentazione sonora, si trovano in essa momenti spettacolari in apparenza, che invece nascondono profondi significati, e tutti correlati a Bruno, che in quel momento è ancora a Tolosa. Infatti, mentre i musici deliziavano gli animi, dietro, sullo sfondo dell’improvvisato palcoscenico, sfilavano alcuni dipinti sorretti da servi. Rappresentano simboli zodiacali, e fin qui non c’è nulla di particolarmente straordinario, per quanto sia insolito che alla corte di Caterina de’ Medici, la cattolicissima, vengano mostrate al pubblico nobiliare e d’arme composizioni pittoriche legate all’astrologia. Ma in realtà non si tratta “solo” di quadri rappresentanti i segni dell’arte divinatoria, ma di precise riproduzioni di immagini della memoria, ovvero di simboli che dovrebbero modificare, per una forza loro innata, la mente di chi li osserva, mutando in mansueti saggi, protesi al bene dell’umanità, gli individui avvelenati dalla intolleranza religiosa. Per di più i disegni voluti da Enrico III ricalcano fedelmente almeno dodici “figure della memoria” descritte dal filosofo campano nel suo De umbris idearum, opera da lui composta addirittura un anno dopo la celebre musicata.

Le figure bruniane sono assolutamente originali, anche se suggerite dalla tradizione ermetica e in particolar modo da Cornelio Agrippa e da Teucro Babilonese (F.A. Yates, op. cit., pag. 160 e segg. In effetti Bruno si considera un seguace del grande Cornelio Agrippa e alcune delle sue immagini della memoria sono direttamente ispirate a figure descritte nel De occulta philosophia unitamente ad altre attribuite a Teucro Babilonese, sempre riportate dallo stesso Agrippa. In ogni caso il filosofo campano opera sempre in grande autonomia e i suoi simboli, legati ai segni dello zodiaco, possono essere considerati rispettosi della tradizione, in una piena autonomia creativa). Non ci sono dubbi, l’ispiratore è proprio il nolano. Come poteva l’anonimo pittore conoscere immagini che l’italiano doveva, in teoria, ancora scrivere? Probabilmente appunti manoscritti già circolavano a Parigi prima della venuta dell’ex frate, e questo comproverebbe l’ipotesi di contatti tra Bruno e alcuni studiosi vicini al re di Francia. Inoltre, se si accetta questa teoria, ecco spiegata la facilità del filosofo ad accedere a cattedre importantissime, come quella di Tolosa, città piena di uomini fedelissimi al Guisa, nemico giurato di Enrico III. Forse Bruno avrebbe dovuto placare gli animi dei riottosi e ricondurli alla ragione. Missione che avrebbe tentato di assolvere per diciotto mesi, per poi, una volta ultimato il compito, giungere alla sua vera destinazione, appunto Parigi. Ventiquattro mesi nella capitale francese e quindi una nuova partenza, questa volta per Londra, sempre seguendo i voleri di Enrico di Francia. Solo che riguardo alla missione londinese esistono testimonianze scritte; infatti Bruno è accompagnato addirittura dall’ambasciatore Castelnau, e grazie all’intervento del principe Laski tiene delle lezioni a Oxford sullo stesso tema di quelle di Tolosa e di Parigi: l’arte della memoria. Questo è l’elemento unificante dei vagabondaggi del filosofo, non una presunta inquietudine psichica. Il nolano sta diffondendo una precisa visione del mondo, quella ermetica, mediante appunto l’arte della memoria. Infatti, ovunque si rechi, pubblica opere al riguardo.

Un discorso a parte meriterebbe anche la facilità con cui trova subito degli editori, in un’epoca in cui la stampa costava una fortuna. Dunque è la mnemotecnica l’obiettivo vero: la sua diffusione. Perché l’ars memoriae del filosofo è del tutto pretestuosa, infatti non vuole potenziare la capacità di ricordare, come facevano gli antichi rètori, ma divulgare i princìpi dell’ermetismo, l’utopia della unità degli uomini al di là delle divisioni politiche e religiose. In seguito verranno approfondite le figure mnemoniche e la teorizzazione a monte; per ora è importante comprendere, come già detto, che non si tratta “solo” di strumenti per ampliare le facoltà del ricordo, ma di mezzi per rivoluzionare l’umanità, rendendola in qualche modo migliore. Questo è il sogno dell’ex domenicano e dei suoi amici, tutti seguaci della cosiddetta “tradizione ermetica” (tale sogno-bisogno è perfettamente evidenziato sia dalla Yates, soprattutto nell’Illuminismo dei Rosacroce, Einaudi, pag.74 e segg.; sia da Luciano Pirrotta, quando si sofferma sui desideri del marchese di Palombara Sabina, La porta ermetica, Atanòr, cap. III-IV; sia da Maurizio Calvesi nel suo studio sul Sogno di Polifilo Prenestino, Officina Edizioni, pag. 100 e segg.).

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

Porto XII

Il mito di Dioniso e il suo culto è uno dei più profondi e in assoluto insondabili che l’uomo abbia mai creato. Il dio, originario della Tracia e poi portato in Grecia, è contemporaneamente un giovane bellissimo, un fanciullo radioso e il Minotauro che tutti sbrana.

Un misto, dunque, di assoluto bene e assoluto male. Il «più» e il «meno» coesistono. Quando Jung parla di «ombra» che ogni uomo deve riconoscere in sé, non fa altro che riproporre a livello umano quanto era stato affermato a livello divino nel culto di Dioniso.

II significato è comunque lo stesso: il dio è Luce e Tenebra e cosi anche, su scala minore, l’uomo che è il suo derivato. Noi siamo, insomma, anche la nostra ombra. Non riconoscerlo, significa castrare una parte di noi stessi ed essere per sempre uomini a metà. Ne consegue che bisogna diffidare di tutti coloro i quali pretendono di portare esclusivamente alla luce assoluta o alle tenebre totali. Vogliono condurre al dimezzato, alla disarmonia, all”incompiutezza, cioè alla metà della forza, perché è molto più facile dominare persone realizzate a metà.

La Grande Madre — Dove si racconta di alcuni incontri con Elémire Zolla e con Giorgio Colli e dove tornano i “segni”

«Chiunque berrà a questa coppa sarà immediatamente assalito dal desiderio di Afrodite dalla splendida ghirlanda.»

O. MURRAY, La Grecia delle origini.

 

Sono sempre stato un lettore di Zolla e per anni ho sperato di conoscerlo. L’occasione si presentò nel 1977. In quegli anni ero responsabile delle trasmissioni radiofoniche del DSE diretto da Luciano Rispoli con la collaborazione di Enrico Gabutti, incarico che, grazie alla loro fiducia, potevo svolgere in massima autonomia. Con me lavorava Laura Fortini che, con una semplice telefonata, mi mise in contatto con il filosofo. In un minuto presi accordi per una serie di conversazioni radiofoniche sull’alchimia.
Zolla, la cui fama era già riconosciuta nel mondo, accettò senza remore di legare il suo nome a una serie di trasmissioni dirette da un giovane programmista quale ero io all’epoca. Devo dire con obiettività che questa è una caratteristica dei grandi pensatori. Non credono mai che qualcosa possa sminuirli. Si preoccupano soltanto di aver modo di esprimere compiutamente il proprio pensiero.
Mentre, settimana dopo settimana, realizzavamo il programma in diretta telefonica, decisi di andare a trovarlo. Detto, fatto.
Mi recai quindi nella sua abitazione di allora, sull’Aventino a Roma. Stava al piano terra di un albergo. Desidero raccontare di questo incontro con una persona eccezionale, in ogni senso, soltanto un piccolo episodio. Apparentemente piccolo.
Le stanze che occupava pullulavano di gatti. A un certo punto non si trovava più una chiave. Allora, mentre i felini vagavano dappertutto, tra i libri, sul tavolo, sul letto, sulle mensole, sulle sedie e tra le nostre gambe, disse con la massima naturalezza a una micetta: «Mi aiuti a trovarla?». Pochi secondi dopo la creaturina cominciò a giocherellare con un foglio sul tavolo di lavoro del professore. E lui, subito: «Oh, grazie. Alzò la carte e sotto c’era la chiave.
Semplicissimo.
Non era l’animale ad aver “trovato” l’oggetto. Era stato Zolla a leggere il “segno” della zampetta giocosa.
Non desidero aggiungere altro: i suoi libri parlano di questo uomo di conoscenza. Basta leggerli. Magari anche “attraverso”, e tutta la simbologia sul telaio del Femminile l’ho tratta da lui e va letta come una citazione, un omaggio alla sua sapienza.

 

In quello stesso anno ho incontrato un altro filosofo, Giorgio Colli, e anche con lui ho realizzato una serie di conversazioni radiofoniche sul tema della sapienza greca. Per Colli doveva essere collocata non da Socrate in poi, come comunemente veniva fatto, ma da Socrate andando indietro nel tempo. Insomma, la sapienza era di quelli che non scrivevano o quasi. Per comprendere il suo pensiero basta leggere La nascita della filosofia e anche La sapienza greca.
Ho cominciato ad ammirarlo leggendo il primo dei suoi testi che ho appena citato. L’avevo con me mentre mi trovavo a Visso, un paese del centro Italia coperto dalla neve. Ero lì per una breve vacanza a casa di un giovane valentissimo, Roberto Nardi. Dopo averne divorato le pagine, come preso da un impulso irresistibile, ero uscito fuori nella neve. Avevo vagato per ore nella campagna a ripensare a quanto avevo appena letto. Mi sentivo a casa. Il Dioniso dio dell’estasi, descritto da Colli, mi aveva fatto toccare un mondo che sentivo mio e che non ero riuscito fino ad allora a identificare pienamente. Erano ormai quasi dieci anni che frequentavo intellettualmente la magia e l’ermetismo, ma mi mancava l’aggancio con la profondità dei misteri eleusini, con quella abissalità del Dioniso del cuore che Colli mi aveva restituito in assoluta pienezza.
Ero tornato a casa bagnato fino al midollo ma con una certezza. Dovevo conoscere quell’autore. Anche in questo caso fu facilissimo. Una semplice telefonata. Fu ancora la brava Fortini a farmi da tramite.
Il filosofo abitava sulle colline sopra Firenze, in una casa rinascimentale dove il genio di quest’uomo, mi piace pensarlo, trovava l’ambiente ideale per i suoi studi. Anche per Colli non credo sia giusto dare definizioni, è uno di quegli intelletti universali che si comprendono soltanto leggendo e rileggendo le loro opere. Basti dire che di fatto ha rivoluzionato il nostro modo di concepire la filosofia greca. Inoltre ha consentito il riaprirsi della conoscenza nei confronti di Nietzsche, curando con Mazzino Montinari l’edizione organica della sua opera in anni in cui una certa pruriginosità ne vietava addirittura la pubblicazione nel nostro paese.
Quando me lo trovai davanti provai una profonda felicità. Avrei voluto sommergerlo di complimenti, ma invece non dissi nulla. Parlammo esclusivamente dei contenuti della trasmissione radiofonica che avremmo registrato, in varie fasi, nella sua abitazione. In uno di questi appuntamenti mi scrisse una dedica su uno dei suoi volumi, il primo dedicato a La sapienza greca. “All’alunno dei misteri”, queste le sue parole per me. È una delle cose che ho più care.
Purtroppo Colli morì poco tempo dopo e non poté concludere il suo lavoro dedicato alla sapienza greca, il terzo volume infatti è stato curato da uno dei figli. Anche il ciclo delle conversazioni per la radio rimase a metà, ma ebbe comunque un grande successo di pubblico.
La notizia della sua morte me la diede un mio studente, Paolo Fiocca, a sua volta morto prematuramente. Provai un dolore acutissimo. E ancora adesso sento il vuoto che ha lasciato. Magari non avrei avuto altre opportunità di frequentarlo, ma mi sarebbe stato sufficiente il suo lavoro. Una perdita davvero enorme per la cultura italiana.
Ebbi occasione, in compenso, di frequentare per un periodo di tempo suo figlio Marco, che un giorno, in treno, mi confidò una cosa bellissima. Gli avevo chiesto se il padre gli mancasse. Non mi sentii indelicato nel chiedergli una cosa simile, perché la sua assenza pesava anche sulla mia vita e in nome dell’affetto mi sentivo autorizzato a porgli quella domanda. Mi rispose che «Essergli stato vicino era come aver avuto modo di frequentare Spinoza», un altro grande filosofo che sostiene che tutto quello che conduce all’uno è bene e quello che allontana dall’uno è “non bene”. Poi mi raccontò un episodio della sua vita di ragazzo, con il padre.
Giorgio Colli usava fare apparecchiare la tavola, oltre che per sé e per i suoi familiari, anche per Platone e Aristotele.
Ecco, credo che questo sia il miglior aneddoto per ricordare questo studioso. Il mondo greco era presente in lui senza separazioni temporali.
C’è di più. In questo che sembra un piccolo vezzo, si vede tutto un universo, dove passato e presente coesistono e dove le intelligenze legate ad altri tempi interagiscono con il tessuto vivente in una armoniosa unitarietà.
Se Colli in qualche modo “viveva” con Platone e Aristotele, devo dire che io, nel mio piccolo, non ho mai smesso di vivere con lui, tanto è presente in me il suo ricordo.
Se le idee di Platone sono reali, come credo, spero un tempo di potermi riavvicinare, con umiltà, alla sua e a quella di persone come lui.
Amo pensare che non si tratti soltanto di una speranza.

Dove si assiste alla grande festa per la nomina di Enrico a principe di Galles…

È la sera del 4 giugno del 1610. Mezzo milione di persone sono raccolte festanti intorno al palazzo reale. Hanno il naso all’insù. Aspettano i fuochi di artificio. I migliori esperti del regno sono stati chiamati in gran segreto per preparare luminarie senza precedenti. Mai nella storia inglese una folla così imponente si è radunata per l’annuncio di uno sposalizio. E un vociare continuo, un rincorrersi di grida e di aspettative. L’attesa è quasi spasmodica. Le prime persone sono convenute nella piazza la sera del giorno prima. Ottimi affari hanno fatto i venditori di cibi, di dolciumi e gli spacciatori di pozioni di tutti i tipi. Penny e sterline rigonfiano in particolar modo le tasche dei mercanti di unguenti per la ricrescita dei capelli. Sono infatti cinque anni che le terre degli inglesi sono povere di ortaggi per i ripetuti rovesci atmosferici nel momento della raccolta della frutta. La pellagra divampa, come lo scorbuto, che causa una terribile irritazione del cuoio capelluto dovuta alla carenza vitaminica. Forse sarà anche per questo che il principe Enrico è tanto ammirato dalle donne: ha una chioma fluente che arricchisce il suo fascino.
Ma non è soltanto il sesso femminile ad ammirare il figlio di re Giacomo. Tutti lo ammirano. È forte, è deciso ed è soprattutto generoso. Dall’età di dodici anni si occupa dei problemi della sua gente e le sue passeggiate tra il popolo sono una vera e propria leggenda. Per questo ci sono cinquecentomila persone ad aspettare che sia proclamato principe del Galles. Non c’è un solo suddito inglese che non speri in lui. Tutti lo ritengono capace di rinverdire i fasti della grande Elisabetta I. Di più, potrà far prosperare tutto il paese e anche i popoli alleati. Sarà lo scudo contro la prepotenza degli Asburgo. Come un san Giorgio difenderà inoltre il suo paese dalla guerra di religione che sta diventando sempre più probabile, e questa è sicuramente la più vivida delle speranze che gonfia i cuori degli inglesi. Cuori che esultano non appena nel cielo avvampano le luminarie che assumono le sembianze proprio di un san Giorgio a cavallo. Il beato guerriero rimane nel cielo per attimi che sembrano interminabili, poi altri filamenti luminosi compongono la sagoma di un possente signore che ha delle stelle al posto delle mani, un philaster, un amante degli astri. Mentre i fuochi divampano in cielo una musica soave si diffonde, inducendo gli animi alla commozione. Quando la notte torna sovrana sulla piazza, un possente grido di giubilo irrompe per la città, sale per ogni dove, riempie ogni strada e palazzo, sfonda simbolicamente le porte della reggia e inonda le orecchie di Enrico spingendolo ad affacciarsi.
Non appena la folla lo vede ammutolisce per alcuni secondi, quindi ancora un potentissimo «hurrà!» che sembra provenire dai sentimenti profondi, dall’anima più che dalle bocche. Non basta. Si alza ancora un grido corale: «Lunga vita al principe di Galles!». Inneggiano a lui come se fosse già re. Non era mai accaduto prima e non si ripeterà nei secoli a venire. E la testimonianza visibile dell’immensa fiducia riposta in questo giovane che deve compiere il miracolo di allontanare la falce del conflitto di religione dall’Inghilterra e dall’Europa.

Come si è detto è il giugno del 1610, e due anni e quattro mesi dopo le attese di un intero popolo si rafforzano maggiormente quando sbarca a Grevesend Federico V, elettore del Palatinato. Alto, con lo sguardo penetrante, è gentile e affabile con gli umili. Sembra nei modi il sosia di Enrico. Ed è il promesso sposo di Elisabetta.
Un’unione benedetta da tutte le menti aperte del regno inglese e da quelle corti europee che desiderano fermare i conflitti di religione. E come se non bastasse, Federico ed Elisabetta si sono amati al primo sguardo. Eros, il padre di tutti gli dèi, ha colpito a fondo. L’uno sembra il completamento dell’altra. Si compenetrano e si comprendono perfettamente. Inoltre Enrico va d’accordo sul piano politico, ideale e filosofico con il futuro cognato. Hanno letto gli stessi libri, hanno le stesse speranze e nutrono una passione viscerale per l’occultismo, per la cabala e per le scienze esoteriche, come ha dimostrato sempre la Yates nel suo Cabala e occultismo nell’età elisabettiana.
È tutto così perfetto da sembrare una favola. Una situazione da arcadia tra fratello, sorella e innamorato. Non si tratta affatto di un vagheggiamento poetico, ma di una concreta combinazione che avviene nella libera Inghilterra, dove per una volta i sogni sembrano avverarsi.
Per trenta giorni si fanno i preparativi delle nozze. Dovrà essere una festa senza eguali. E proprio durante i preparativi i due promessi assistono ad alcune rappresentazioni teatrali. Sono stati Enrico, Federico ed Elisabetta à volere che fossero messe in scena due opere di un commediografo molto amato da Elisabetta I, ma adesso caduto in disgrazia sono il regno di Giacomo. Si tratta di William Shakespeare.
Le due opere sono Il racconto d’inverno e La tempesta.

Fermiamoci: è ora di leggere “attraverso” gli avvenimenti.
Iniziamo dalle due composizioni shakespeariane. Insieme con Cimbelino sono le opere a carattere magico del drammaturgo. Queste in particolare sono state create per riproporre incessantemente il tema della morte e della resurrezione. Ovvero morte a sé per tornare a sé. Una parte di noi stessi deve morire per far resuscitare una componente obliata, ma importante, che deve appunto risorgere, rinascere. È il rituale simbolico, sopravvissuto nei secoli, di Iside e Osiride. E Iside è la divinità femminile per eccellenza. Dunque i principi assistono a due commedie “magiche”, fortemente influenzate dal pensiero del maggior mago rinascimentale, Giordano Bruno. Con loro sono presenti tutti gli esponenti del cenacolo ermerico-magico di Elisabetta I e anche Francesco Bacone, il fondatore del metodo scientifico moderno.
Attenzione, i personaggi ci sono tutti. E c’è un filo unico a legare sottilmente la trama occulta: il teatro.
A uno sguardo attento lo troviamo ovunque.
Dunque i tre principi vanno a teatro e a teatro si rappresentano due commedie magiche. Tra gli altri è presente Francesco Bacone. Filosofo importantissimo.
Infatti in una sua opera, Nova Atlantis, veste i sapienti-filosofi con abiti bianchi e con un turbante bianco sormontato da un rubino. Si direbbero abiti di scena. Ma il movimento rosacrociano, che si farà riconoscere pochissimi anni dopo, afferma che gli adepti di questo gruppo devono vestire con abiti bianchi e portare un turbante sormontato da un rubino. Esattamente come i sapienti di Bacone. Questi dice che i sapienti sono in realtà i Rosacroce, basta saperli vedere. E qui è il difficile, perché i Rosacroce sono definiti e si autodefiniscono invisibili. Non scopribili appunto per nessuno tranne per chi riesce a individuarli attraverso le segrete trame, o meglio le “oscure trame” per parafrasare il titolo di un libro di Pietro Cimatti che tante cose, a questo riguardo, aveva ben individuato. Noi stiamo facendo questo, li stiamo “individuando”. Perché tutta questa vicenda verte su di un asse trasversale: il movimento dei Rosacroce e il particolare linguaggio della Yates vuole, a mio modesto giudizio, mettere sulle tracce di questo movimento.

Ritorniamo a Bacone che fa vestire i suoi sapienti come attori di teatro.
I Rosacroce, nei loro manifesti la Fama e la Confessio dicono a loro volta di vestirsi come i sapienti di Bacone, ovvero come attori di teatro.
Tutti i grandi misteri e relativi riti prevedono che l’iniziato diventi un attore, interpreti il dio che è in lui, sia questi Dioniso, il dio delle donne, o Iside stessa.
L’officiante della magia è da sempre un sacro attore.
Il teatro, in senso sacrale, unisce i maghi rinascimentali: Giordano Bruno, con la regina Elisabetta, con Federico V, con la sua promessa sposa Elisabetta, con Shakespeare, con Francesco Bacone e quindi finalmente con i Rosacroce.
È importante questo passaggio: Bacone filosofo stimatissimo e fondatore della Accademia reale delle scienze, quando descrive i sapienti abbigliati come i Rosacroce, compie un’operazione rischiosa. La magia è sempre al bando in Europa. Quindi per esporsi deve innanzitutto credere fermamente in quello che fa, come in una missione, e deve avere inoltre un motivo più che valido. Adesso ci è utilissimo leggere quello che oggi afferma Elémire Zolla a proposito dell’ornamento, ovvero degli abiti: «L’ornamento era nella concezione arcaica non un’aggiunta frivola, ma un intervento magico… L’ornato investe di certi poteri chi lo indossa…». L’abito in questione, che dà poteri magici, è comune sia ai sapienti descritti da Bacone sia ai Rosacroce. Citare a questo punto gli uni vuol dire anche “evocare” gli altri. Sapienti=Rosacroce. Perciò la sapienza è dei Rosacroce. Ma Bacone è anche amico intimo di Shakespeare e si dice che abbia persino aiutato il drammaturgo nella scrittura o sia stato un suo ispiratore. Altri affermano persino che siano la stessa persona, cosa a cui non credo minimamente, ma di sicuro sono affini e amici “fraterni”. Quindi c’è un legame, traslato, anche tra i Rosacroce e Shakespeare. Il nesso è appunto Bacone che, per chiamare in causa in modo così esplicito il movimento, doveva aver ricevuto l’incarico di farlo o, più probabile, doveva aver concordato la strategia generale di propaganda della loro fede, a cui evidentemente aderiva nel profondo del proprio Io. In ogni caso Bacone è il legame tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce, gli “invisibili”.
Costoro invece, in base a quanto abbiamo trovato, diventano adesso visibili ai nostri occhi, sia mediante il filosofo e sia grazie alla stessa Yates. Abbiamo infatti capito che erano tutti coinvolti. Da Federico V a Elisabetta I a Elisabetta figlia di Giacomo a Enrico il principe sfortunato, vedremo tra poco il perché di questa sfortuna. Ma in particolar modo sono legati con i Rosacroce, che vestono come i sapienti e i sapienti vestono come loro, e che si definiscono anche “attori”, come quelli appunto che rappresentano La tempesta e Il racconto d’inverno. Ma quelli lo fanno “per mestiere”. Attenzione, è questo il punto. I filosofi-saggi di Bacone vestono “per mestiere” come i Rosacroce. E questi sempre “per mestiere” si dichiarano invisibili, ovvero assumono mille abiti e mille maschere per rendersi irriconoscibili nella vita civile. E chi veste mille abiti? Sempre gli attori che assumono appunto, per mestiere, mille facce. Come i Rosacroce. E come l’uroburo, il serpente che si morde la coda. C’è un aggancio preciso tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce. E questo che la Yates voleva dire tra le righe, tra i fili del suo discorso: fili=tela=telaio=cerimonia magica.
Tutti i protagonisti di questa immensa “scena” seicentesca praticano e diffondono la magia. E la Yates con le sue parole-angeli, invia a sua volta un messaggio a carattere magico.
La storia continua anche oggi. Anche oggi ci sono le trame magiche, le trame invisibili. Che invece adesso abbiamo per un momento reso manifeste sulla grande tela che dal Rinascimento, passando avanti e indietro attraverso i secoli, è giunta fino a noi.

La storia ci dice che Enrico, il principe del Galles, si ammala di un morbo misterioso e che muore di febbri, da cui la frase della Yates che ci ha consentito di far luce su tutto il disegno “ornato” (a proposito vedi l’articolo La Grande Madre – Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce). Sempre la storia testimonia che Federico V e Elisabetta si sposano ugualmente e si stabiliscono nel Palatinato dove per sette anni concretizzano il regno del Femminile in terra. E sempre la storia ufficiale ci dice che al loro seguito ci sono stampatori che anche prima di lavorare con loro avevano già pubblicato opere di carattere magico, come quelle di Giordano Bruno, e che intensificano nel Palatinato questa loro attività, finalmente allo scoperto. Non a caso si pubblicano anche Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, ovvero le nozze dei Rosacroce. Ancora quei fili misteriosi che potremmo continuare a riannodare all’infinito e come faremo in seguito. Ma ora è importante sottolineare una cosa. A quel tempo dunque c’erano degli editori che pubblicavano, più o meno segretamente (invisibilmente?) testi magici. E cosa accade ai giorni nostri? Non è importante rispondere subito, domandiamoci invece perché Elémire Zolla si dichiari neognostico. E perché intellettuali e case editrici che ancora oggi si occupano di divulgare opere “magiche” incorrano tanto spesso in ostracismo diffuso proprio come capitava allora, fatta eccezione per il regno settennale di Federico ed Elisabetta.
Niente di nuovo sotto il sole, direbbe Giordano Bruno.
Iside continua imperterrita il suo cammino verso il trionfo del Femminile.