L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

 

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L’immaginazione ermetica IV

Un nuovo culto della bellezza, della fisicità, della creatività congiunta all’eros, unitamente all’irrazionale passione verso la magia, reputata come summa di tutte le scienze, sono gli elementi che abbiamo trovato per dare una spiegazione più esauriente alla nascita di Umanesimo e di Rinascimento.

Sono principi indispensabili per comprendere le Carte della memoria, ovvero i tarocchi della immaginazione creati da Giordano Bruno.

Ma prima è meglio approfondire il pensiero di Ficino e Pico, considerati “maestri” dallo stesso Bruno.

Marsilio Ficino è persona mite, scrupolosa, sensibile, contemplativa, filologo, studioso di filosofia greca sino a giungere al fanatismo. Pare che abbia una curiosa abitudine: quella di parlare con Platone, Plotino, Porfirio, e anche Aristotele come se fossero viventi e a lui presenti. Così gli capita di andare a tavola con i suoi parenti e di lasciare posti simbolici a questi filosofi del passato. (Particolarità questa che aveva anche Giorgio Colli, che addirittura faceva parlare i figli con Platone, secondo quanto afferma Marco, il terzogenito.)

È insomma un uomo caro a tutti, sempre pronto al dialogo, alla discussione franca, alla ricerca senza prevenzioni. I suoi contemporanei dicono sia un piacere sentirlo parlare; tanto la sua cultura è universale. Si esprime correttamente in latino e in greco antico, citando a memoria centinaia di passi dei suoi autori preferiti. Un filosofo dunque che custodisce nel cuore la leggiadria e la soavità dei poeti, degli spiriti sognanti ed entusiastici.

Eppure quest’uomo poco incline alla diatriba, quando fonda l’Accademia platonica, grazie al patrocinio di Lorenzo il Magnifico, è spinto soprattutto da una forza polemica contro gli aristotelici del suo tempo (bisogna anche tenere presente l’opera della cultura ferrarese di quegli anni. Basti citare, per tutti, l’azione di Gustino Veronese che, traducendo e lavorando alla Vita di Platone, promosse violenti attacchi alla tradizione aristotelica).

Che cosa rimprovera Ficino a costoro? Quali motivi lo spingono al diverbio con i seguaci di Aristotele, che in alcuni momenti assume le caratteristiche di una vera e propria rissa intellettuale? Le origini della questione vanno ricercate oltre un secolo prima, allorché gli insegnanti universitari del XIII secolo studiano Aristotele, lo parafrasano, lo chiosano, lo adattano al pensiero cristiano. Un’opera di assimilazione che riesce tanto bene da rendere cattolicamente accettabile anche la filosofia di Averroè, un pensatore di ispirazione aristotelica, ma pur sempre di religione islamica (tale assimilazione fu resa possibile grazie al principio della diversità tra «verità di ragione e verità di fede». Entrambe vere, quindi eterne, quindi fatalmente presenti in Dio. Avendo coincidenza nell’essere supremo, non possono contrastare tra di loro). L’autorità di Aristotele doveva servire agli accademici come una sorta di scudo, dietro il quale poter esercitare liberamente l’uso della ragione.

“Se il greco, fonte di ispirazione di san Tommaso D’Aquino, adopera la mente razionale, altrettanto possiamo fare noi.» Questo, in parole semplicissime, doveva essere stato l’intento degli universitari (tali universitari saranno poi definiti da Giordano Bruno «pedanti», ovvero noiosi e reverenti verso il potere). Purtroppo, con i decenni, avvenne esattamente l’opposto: invece di trasformarsi sul modello aristotelico, strutturarono Aristotele su quello della scolastica più chiusa e intransigente, diventando non più esponenti di una nuova ricerca bensì sostenitori di quella mentalità contro cui volevano esercitare il diritto di critica. Giungendo addirittura alla condanna di ogni pensiero divergente (basti pensare al Cremonini, che pure era un aristotelico tra i più blandi, che fu uno dei firmatari della denuncia di “eresia perniciosa” contro Bernardino Telesio).

In realtà Marsilio e il suo gruppo di umanisti divengono platonici non contro Aristotele, ma per avversione all’aristotelismo scolastico, alla cultura cattedratica, avvertita come ipocrita e soffocante.

«Chi non intende la carica polemica» sostiene Garin «a volte violenta del ritorno a Platone, che diventò un po’ alla volta ritorno a Epicuro, ritorno alla Stoa, ritorno al naturalismo presocratico… e, finalmente, ritorno ad Aristotele logico e fisico contro l’aristotelismo metafisico, ossia contro una fisica fattasi teologia; chi non intende questo significato del platonismo, rischia di non capire nulla della cultura filosofica, e non solo filosofica, dal Quattrocento al Cinquecento.» (Anche gli Aristotelici erano però feroci contro i platonici. Giorgio da Trebisonda, per fare un esempio, avvertì il pericolo rappresentato dai neoplatonici, nei confronti di una presunta “ortodossia” cristiana, e arrivò a formulare una “preghiera” diretta ai martiri cristiani, affinché “disperdessero” i platonici che “risorgevano” in Italia. La preghiera è riportata per intero da Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza, pagg. 88-89). Entriamo allora nella villa di Careggi, dove Ficino traduce gran parte dell’opera non solo di Platone, ma anche e soprattutto di Plotino. Cura personalmente la versione in latino, permettendo poi a vari allievi una nuova formulazione in volgare, affinché le opere dei filosofi greci conoscano la più ampia diffusione possibile.

Nicola Abbagnano ebbe a dirmi un giorno che solo del Simposio, a Firenze, circolavano oltre cinquemila copie. Rapportata all’epoca è una cifra a dir poco sbalorditiva.

 

L’immaginazione ermetica III

In un contesto in cui tutti gli umanisti sono dediti a febbrili ricerche di antichi testi, è ovvio che si aggiungano nuove scoperte. Si reperisce il Corpus hermeticum, ovvero una serie di scritti a carattere magico del II-IV secolo dopo Cristo, ma ritenuti erroneamente molto più antichi dagli umanisti. Soprattutto il Picatrix e il Poimander sempre contenuti nel Corpus, parlano di profonde corrispondenze tra cose, esseri viventi e spiriti, che sono poi traducibili in formule magiche, in incantesimi, talismani, amuleti. Con la parola magicamente ritualizzata è possibile giungere alle divinità stellari, agli spiriti ultimi delle cose, alle idee presenti nella mente di Dio: quia verbum in se habet nigromantiae virtutem (il discorso è la specie più virtuosa della magia) (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 66 e segg.).

Pomponazzi, per esempio, che non può essere citato come un umanista che portò alle estreme conseguenze l’armonica concezione platonica, non nega la magia naturale, anzi accetta gli effetti di qualità e potenze umane ignorate. Per similitudine, seguendo la teoria, delle consonanze, il filosofo si chiede perché se certe erbe, o certi odori, producono effetti terapeutici, non sia possibile per certi uomini agire analogamente.

Perché altresì non accettare che l’immaginazione non si ripercuota sul corpo producendovi modificazioni anche perpetue, come le stimmate? Pomponazzi trova la dimostrazione di questa ipotesi nella notte di tregenda in cui i cittadini dell’Aquila riuscirono con intense preghiere ad allontanare il temporale. Fenomeno spiegabile attraverso un processo fisico analogo a quello che si ottiene suonando le campane a stormo, movimenti e modificazioni dell’aria che spostano le nubi per vibrazioni continue. Garin riporta un commento del filosofo quanto mai appropriato: «La si chiami magia poiché solamente i più sapienti fra gli uomini la capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago in persiano significa sapiente. E per il popolo che si sono introdotti angeli e demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono come bestie… Il linguaggio delle religioni, come dice Averroè nella sua poetica, è simile a quello dei poeti… Tali favole servono a condurci alla verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e ritrarre dal male, come si fa per i bambini con la speranza del premio e la paura della pena (op. cit., pagg. 115-116).

Garin aggiunge una sua personale conclusione, secondo cui quando un sentimento religioso decade, anche gli effetti delle preghiere si attenuano e i miracoli non avvengono più, a comprova degli effetti fisici delle preghiere e dei loro propri corollari (ibidem). Insistendo nella sua tesi Garin afferma che Pomponazzi: «tradusse in forma quasi brutale la teoria della fisicità, empiricamente comprovabile, del culto religioso» (ibidem).

Dunque il buon Pomponazzi, filosofo e umanista tra i più tiepidi nei confronti della magia, si lascia andare ad affermazioni quasi paradossali, spiegando tutto il fenomeno religioso in termini di magia pratica, fisica. Arriva addirittura a fornire una spiegazione “razionale” dei miracoli, che sarebbero legati al mutamento delle religioni, in quanto simili cambiamenti rendono difficile il «trapasso da ciò che è consueto a quel che è sommamente inconsueto, [per far ciò] è necessario che la successione della nuova religione sia accompagnata da miracoli straordinari e stupefacenti. Per questo i corpi celesti all’avvento di una nuova religione devono far venire uomini che facciano i miracoli. Così uomini del genere possono far venire e far scomparire piogge, grandine e terremoti, comandare ai venti e al mare, guarire ogni sorta di malattie, svelare i segreti, predire il futuro e ricordare il passato, andare oltre il comune senso della gente. Altrimenti non potrebbero introdurre nuove religioni e nuovi costumi tanto diversi» (Ibidem).

Abbiamo citato Pomponazzi, che ribadiamo era pure un tiepido nei confronti della magia, per mostrare come ormai tale scientia avesse influenzato nel profondo moltissimi intellettuali dell’Umanesimo.

 

L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).

 

L’immaginazione ermetica I

Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.

 

Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.

Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).

Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.

Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.

Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).

In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.

Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.

Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?

Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.

«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.

 

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

 

La Grande Madre — Giordano Bruno, il mago irascibile, il filosofo dell’immaginazione

Un post del 2009 
Un tornare indietro, nel progredire ancora….

«Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi»

Giordano Bruno (1548-1600)

Non sono stato io a incontrare Giordano Bruno, ma fu lui a venirmi incontro. È successo per caso, quando ero ancora un ragazzo. Mi chiesero: «Che filosofo preferisce?» e io per darmi un contegno e per non citare sempre gli stessi, i notissimi, feci il suo nome. Non avevo letto neppure un rigo e nel programma liceale ancora non l’avevamo toccato. Al buio.

Da allora mi è rimasto dentro. È impossibile toccarlo senza che lui ti avvolga, definitivamente. Un po’ come i miti secondo Hillman, «Non toccarli se non vuoi che ti ritocchino». Grande verità. Basta farne l’esperienza per comprendere come tutto questo sia reale. Lo dissi anche un giorno, credo fosse il 1991, a Michele Ciliberto, notissimo studioso bruniano e autore di un fondamentale testo sulla sua filosofia. Dunque ero con il professore per preparare un’arringa di difesa del filosofo e letterato nolano. Qualche giorno prima uno studioso inglese aveva accusato Bruno di essere stato una spia della regina Elisabetta. Allora la città di Nola organizzò un dibattito pubblico ma me e quel “pensatore” anglosassone. Ciliberto faceva parte della giuria. Ebbi la meglio sul povero pseudo storico: lo misi subito all’angolo in quanto tutte le sue prove consistevano in alcune lettere che Bruno avrebbe segretamente mandato a Elisabetta I relative a movimenti e trame dei cattolici. Ebbene, non aveva compiuto la perizia calligrafica. Le lettere insomma non erano neppure di Bruno. Una cantonata imbarazzante. La stampa diede qualche attimo di celebrità al “ricercatore”, ma credo che ormai nessuno si ricordi di lui. È la classica fine di chi cerca notorietà infangando il nome dei grandi. Tornando a Ciliberto, fu in quell’occasione che mi chiese, in una splendida mattinata di sole davanti a un ristorante sopra la città di Nola, come mai amassi tanto Bruno. Gli risposi che l’avevo toccato per caso e che non mi aveva più abbandonato. «È successo così anche a me» mi rispose.

Giordano Bruno è il più grande mago rinascimentale. Anche Giorgio Galli ha affermato che i filosofi ermetici del 1500 sono stati gli unici alleati del pensiero Femminile; Bruno quindi, a sua volta, sarebbe un sostenitore di questa cultura alternativa, che si esprime soprattutto mediante la magia.
Siamo di fronte a un pensiero vastissimo la cui somma importanza è però essenzialmente ascrivibile all’ambito ermetico-esoterico, come ha evidenziato, appunto, Frances Yates, mentre in Italia questa componente è stata quasi del tutto trascurata.
La vita di Giordano Bruno é essa stessa “esemplare” in relazione al nostro discorso. È un racconto vero che serve a portare alla luce lo scrigno occultato del Femminile arcano. Per questo è utile ripercorrerla. È un viaggio straordinario da compiere tutti insieme. Una profonda malinconia e una grande gioia di vivere. Giordano Bruno vive tra questi due opposti stati d’animo. Cerca continuamente il dialogo, ma trova solo i volti arcigni del bigottismo. Calvinisti, protestanti, riformati, anglicani e cattolici sono tutti della stessa pasta fondamentalista, alla fine del Cinquecento.
Il Rinascimento purtroppo appare lontano. Ha messo le gemme con Pico della Mirandola, con Marsilio Ficino e il grande Lorenzo. Poi è germogliato sotto la forte influenza del Simposio di Platone e del suo inno all’amore e alla vita. Ed è infine ripiegato, dopo un breve periodo di assestamento, grazie agli odi di religione. E il manto nero che ricopre la mente dei bigotti a intristire Bruno, lui che è un mago e tale ha voluto essere per tutta la vita. Con ciò che ne consegue. Quindi la chiesa l’ha aborrito in quanto eretico e una componente del pensiero marxista l”ha sottovalutato perché da sempre diffida di chiunque si occupi di filosofia ermetica e di occultismo, giudicate tendenze di destra. Personalmente mi rifiuto di avallare questa visione, che ha portato una certa sinistra a bandire personaggi come Giordano Bruno e scrittori come Tolkien.

Bruno comunque è un mago. È utile ripeterlo perché tutta la sua vita è immersa in un’aura di mistero e di fascino. E in buona parte deve essere ancora interpretata. I continui viaggi, le lezioni, i dialoghi con i grandi del tempo sono forse più significativi degli scritti, almeno di quelli in chiave “essoterica”. Cerchiamo perciò di andare al di là della coltre gettata dagli ignoranti – veri o finti – e vediamo nella tela di questo scampolo di Rinascimento la storia di un uomo vivo, allegro, coltissimo, amante del vino, dell’amicizia, della creatività e, come ovvio coronamento, di Eros, il padre di tutti gli dèi. Senza dimenticare che ci troviamo di fronte a una persona coraggiosa fino all’inverosimile e capace di ogni sacrificio pur di mantenersi coerente.

Nel 1572 Bruno ha ventiquattro anni ed è ordinato sacerdote. Proviene da una famiglia della piccola nobiltà di Nola. Sua madre, Fraulissa Fravolino, è dotata di un ingegno vispo, curioso e duttile. A quindici anni ha preso l’abito domenicano e a diciannove ha già iniziato a criticare la curia vaticana. Dal 1572 al 1575 Bruno, il cui nome di battesimo è Filippo mentre Giordano è quello assunto da frate, passa i migliori anni della sua burrascosa vita. Studia la teologia e l’arte della memoria, di cui, da sempre, i domenicani, quelli del suo ordine, sono i principali esperti in Europa. Si tratta di un’antichissima disciplina che aiuta ad associare immagini e concetti. Della sua efficacia testimoniano Pico della Mirandola e lo stesso Bruno che da questi studi ricava il massimo profitto. Sembra accertato che ricordasse tutto in modo indelebile. Gli bastava consultare un libro per non dimenticarlo mai più. Quindi la sua cultura, con gli anni, diventò sterminata. Pensate ai vantaggi, anche per una persona qualunque, di poter rammentare dalla A alla Z tutto quanto si è letto durante la vita.

La felicità di Bruno ha corso breve. Nel 1576 viene raggiunto dalla prima accusa di eresia. Non è una voce o un rimprovero, ma una vera ingiunzione. A quell’epoca significava subire un interrogatorio iniziale della durata di uno o due giorni e poi, in caso di resistenza alle accuse, essere trasportato nella sala delle “domande” dove giungeva un signore vestito di nero accompagnato da un aiutante. Contemporaneamente facevano il loro ingresso frusta, tenaglie opportunamente infuocate, cavadenti, magli e altri strumenti per spaccare le ossa.
Bruno conosce la “procedura” e fugge immediatamente.
Iniziano così i suoi pellegrinaggi.

È solo, è giovane, ha indosso soltanto il saio che deve necessariamente abbandonare. E ormai spretato, condizione assai pericolosa perché chiunque può denunciarlo per ricevere una congrua ricompensa.
La sua prima tappa è Roma, dove una diceria lo vuole partecipe dell’assassinio di un prete. Un perfetto esempio di falso perpetuato nel tempo. Nessuno sa chi fosse quel prete, di cui non è stato tramandato il nome in alcun atto o documento. Non sono noti neppure la data dell’omicidio e il luogo dove sarebbe avvenuto. Non si conoscono nomi di testimoni, di accusatori e neanche dei giudici. Ciò nonostante su molti libri si continua a leggere di questa ignominia. Una vera diceria da untore sopravvissuta nei secoli.
Comunque sia, a maggior ragione, Bruno deve proseguire nella sua fuga. Ecco Genova, Nola, Savona, Torino, Ginevra, Parigi, Londra, Württemberg. Poi ancora Praga, Helmstad, Francoforte e infine Venezia, nel 1590.
Sono quattordici anni di peregrinazioni incessanti. Sempre povero e solo. Sempre spretato ed eretico, sempre studioso e insegnante di filosofia nelle università delle città dove si sofferma, che poi sono le migliori del mondo. Sempre accolto a corte. A Parigi, a Londra, a Praga.
Un sapiente itinerante che cerca ospitalità e rifugio. Scrive, pubblica finché l’Inquisizione lo ghermisce a Venezia per il tradimento dell’infido Mocenigo.
Questo è, in sintesi, tutto ciò che si sa di lui.
Eppure, qualcosa sfugge.

Rivediamo un momento questa cronaca “ufficiale” della sua vita. Bruno, dunque, è un perseguitato, eretico e squattrinato, che vaga per l’Europa. Fin qui nulla di strano, ce ne sono stati tanti altri e molti ancora ne verranno dopo di lui. Ma appunto costoro “vagano”, non hanno un itinerario né una meta. Cercano asilo e quando lo trovano non guardano tanto per il sottile. Trangugiano angherie in cambio di un tetto e di una mensa. Ben contenti di non essere riconosciuti – sono eretici, non dimentichiamolo – e del tutto lieti di non finire in una segreta o in mano al torturatore. Bruno invece ovunque vada viene accolto con tutti gli onori e gli si affidano le cattedre più prestigiose. A uno spretato si assegnano quindi le materie di maggior prestigio culturale e politico.
E un assurdo che contravviene a qualsiasi logica.
Non solo, a Parigi e a Londra frequenta assiduamente la ristrettissima cerchia dei reali.
Bruno riesce sempre, ovunque si trovi, a pubblicare le sue opere di filosofia e di magia. E questo, nonostante che la filosofia ermetica sia perseguitata da tutte le religioni e confessioni.
Dovremmo forse iniziare a chiederci da chi sia continuamente “accolto”.
Nel 1576, all’inizio delle peregrinazioni, è un perfetto sconosciuto. Perché dunque le autorità dei vari paesi, in cui si sofferma, avrebbero dovuto dargli incarichi importantissimi?
È evidente che si muove come su un circuito preordinato. Si reca dove sa di poter andare. Il mago, definiamolo così perché è l’unico modo davvero corretto per identificarlo, percorre rotte sicure. Deve esistere una confraternita, un gruppo, un’associazione, chiamiamola come vogliamo, che gli tesse una tela su cui possa muoversi senza timori. Che riconosce in lui il rappresentante di un sapere alternativo e giusto, gli apre perciò tutte le porte.
La coerenza del nolano, la forza con cui afferma le proprie idee, che poi sono quelle magico-ermetiche, unitamente a un’assoluta incapacità di ipocrisia, gli rendono ostili i bigotti e le autorità religiose. Ma questo avviene “dopo” l’accoglienza.
È un’ipotesi che potrebbe costringerci a rivedere tutta la storia culturale di questo periodo. Dobbiamo necessariamente ipotizzare che sia esistita una segreta associazione di menti aperte e antifondamentaliste, che gli consentiva i movimenti e che lo proteggeva in ogni situazione.
Prima abbiamo detto che Bruno, al momento della sua fuga iniziale, non era un personaggio noto, almeno non a tutti. Ma sicuramente doveva essere conosciuto ai membri di questo “gruppo” di cui finora la storia ufficiale non si è mai occupata. Perché costoro sapessero chi era, Giordano Bruno doveva essere in contatto con loro da molto tempo prima dei cosiddetti “vagabondaggi”. Era stato affiliato dalle persone che professavano la luce del bene e della conoscenza?
È certo che dovunque Bruno giunga lascia come un “segno”. Tanto è vero che in ogni città da lui toccata sorgono congreghe che possiamo paragonare a logge massoniche. Forse quella misteriosa associazione confidava nelle sue capacità di entusiasmare gli animi e organizzare la gente intorno a sé. Qualcosa di simile è accaduto, molto tempo dopo, anche a Casanova, e a Cagliostro.
Comunque i suoi spostamenti e l’ospitalità “innaturale” che riceve richiamano alla memoria i nove Cavalieri Templari e la quanto meno generosa accoglienza riservata loro da re Baldovino di Gerusalemme.
Dobbiamo ipotizzare, finalmente, l’esistenza di una sorta di cerchia di eletti da sempre “nascosta”, che tenta di scongiurare le persecuzioni dei fanatici religiosi, che propugna la libertà di espressione e di ricerca? Forse un gruppo, che oggi definiremmo “di scienziati”, all’esplorazione di campi del sapere a quell’epoca vietati e del tutto ignoti alle masse. Una congrega “coperta”, perché in quei secoli di oltranzismo non è davvero possibile dichiarare simili intenti alla luce del sole.
Affronta inoltre campi che le moltitudini devono ignorare, e questo è forse il più fitto di tutti i misteri. Perché al sapere-potere non possono accedere quelle persone che non si sono purificata l’anima, per usare un’immagine del Dolce stilnovo.
È una questione fondamentale, uno dei massimi arcani della nostra storia. Per questo è utile continuare il racconto di Giordano Bruno e cercare di vederne la “trama”.

Filosofia della Luna

Amici, vi lascio Marina che attraverso molteplici sentieri percorre un ambito di Filosofia Ermetica.

Caro Signore dei Rimpianti,
non ridere di me…ma visto che non mi allacciano internet e che la maggior parte dei commenti che riesco a mandare a fatica non vengono poi pubblicati a causa del mal funzionamento della linea internet a cui fa capo la chiavetta…io oggi sono all’aperto, in macchina, su un’altura, sotto un ripetitore della Tim!
Eheheh…il carattere vuol dire molto nella vita! Cercherò di condensare i miei vissuti interiori dell’ultima settimana in questo commento.

Allora, riguardo ad Odin Wotan, oltre ai suoi due corvacci neri, Pensiero e Memoria, che sono rimasti appollaiati per lungo tempo davanti alla finestra della mia camera, dove all’epoca avevo cominciato a scrivere il libro, mi si presentò con l’immagine di uomo cosmico capace di sacrificare un occhio pur di attigere all’Antica Sapienza e con una indicazione ben precisa (naturalmente all’epoca non capii bene, poi col tempo…questa faccenda degli archetipi e dei miti va interiorizzata e soprattutto esperita per esserne coscienti alla luce delle sue ragioni):
“Word by word gave me word.”

Riguardo a Er, un giorno, all’esordio, aprii una pagina a caso di un libro:
“Lete, fiume dell’oblio, le cui acque avevano il potere di fare dimenticare l’esistenza passata alle anime avviate alla nuova nascita”. Era una semplice coincidenza? In molti l’avrebbero liquidata considerandola tale, non io, però, che leggendo lo stralcio di quel mitico racconto me ne sentii sfiorata, anzi, animata dall’istantanea intuizione, o forse la memoria, di come sia impossibile rintracciare il senso della propria esistenza se si resta fermi solo sul quotidiano e sul visibile…
Nella mia vita, dunque, sembrerebbe non esserci più posto per il cosiddetto caso…

…ed ecco apparire all’improvviso Psiche e il suo Cupido…e non è lui a cercare lei ma lei a cercare lui, pur se lui non vuole…ed ecco entrare in scena Venere che con l’intercessione di Saffo si pronuncia contro ogni aspettativa del mito, a favore dell’amor mortale che non permetterebbe a chi amato di non riamare a causa di invisibili intricatissime trame immortali!
Ahhhh questo fato!

“…e così per una serie di avvenimenti prodottisi in una sfera di cui egli era completamente inconscio, il destino del riluttante “amorino” si compì, senza la collaborazione della sua volontà conscia.” (Campbell)

Anche perché non bisogna dimenticare che l’arte del fuso è appannaggio delle divinità lunari! Queste donne…quando si mettono in testa una cosa fanno sempre un qualcosa di più…

Baaaci!

New Age ed Esoterismo

Carlo mi permette di entrare nella differenza tra Filosofia Ermetica e New Age.

Salve, signor La Porta, mi scusi ma, visto che un certo tipo di dottrina esoterica, soprattutto new age, afferma, con varie prove e testimonianze (come quella dei cristalli d’acqua di Masaru Emoto), che il pensiero ha la capacità di cambiare la realtà, lasciar venire pensieri negativi rimossi, come rabbie, timori, ecc… non potrebbe attirare cio’ di cui si ha paura?

Caro Carlo,
attivare quello di cui si ha paura è un grande lavoro, che va compiuto sotto una guida. Comunque tra Esoterismo e New Age non c’è alcun contatto. Li separa lo studio profondo e sistematico e interiorizzato dei simboli e degli archetipi.

L’arte della memoria II

Continua il nostro percorso all’interno di una delle tecniche psicologiche più significative di tutti i tempi, l’arte della memoria.
Prima di penetrare nel mondo degli scritti di Bruno, per osservare i precisi consigli e tecniche suggerite dal filosofo, è necessario introdurre gli elementi fondamentali del suo pensiero (vedi L’arte della memoria I).


È opportuno ora osservare i princìpi teorici della filosofia bruniana, ben sapendo di compiere una sorta di atto arbitrario. Questo perché il nolano non concepisce una scissione tra teoria e pratica. La mentalità ermetica, se così può essere denominata, impasto di utopie e sperimentalismo, è lontana dalla logica strutturale del razionalismo, quindi non concepisce una scissione tra l’ipotesi ideale e il suo travaso nell’azione, ma una sintesi continua. Per capire, noi contemporanei, tale fusione, è necessario separare i presupposti teoretici da quelli pratici, per questo è opportuno approfondire, anche se con necessaria rapidità, le concezioni di Bruno delle opere in volgare. (Ci rifacciamo alla edizione curata da G. Gentile, Opere italiane, I, Dialoghi metafisici, II, Dialoghi morali, Bari 1907-1908, paradossalmente più precisa – nel tomo II – della seconda edizione del 1925. Esiste inoltre una edizione del 1958 approntata da G. Aquilecchia, di Firenze. Sempre Aquilecchia ha approntato una nuova edizione critica delle Opere italiane, per Einaudi, di cui sono state pubblicate La cena delle ceneri e De la causa principio et uno, 1973. Importante è la recensione di I. Guerrini Angrisani, apparsa su Società, XII, n.6, pagg. 1145-48).
In esse Giordano Bruno ha vere aperture verso i tempi a venire solo nei dialoghi, dove mostra intuizioni anche a carattere scientifico (G. Barberi Squarotti, Lettere italiane, VIII, 1956, pagg. 338-347).
Per meglio apprezzare questo pensiero è utile rammentare che numerosi luoghi comuni, opinioni superstiziose, ignoranze a volte volute influenzavano il sedicesimo secolo.
È in questo mondo che Giordano Bruno opera e tenta di diffondere il proprio pensiero, rivolgendosi all’infinito, alla totalità dell’universo, affinché siano superati i limiti posti all’uomo, alla terra, alla società dal pensiero di Aristotele e dalle Sacre Scritture nella interpretazione del clero (Scritti scelti di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cura di L. Firpo, 1949, 1968, pag. 150 e segg.).
«Non è vero!» queste tre parole sintetizzano i contenuti dei dialoghi, secondo l’interpretazione di Marvin Le Roy, che coglie soprattutto la parte rivoluzionaria in essi presente (Marvin Le Roy, Dreams, Jodeas, Londra, pag. 81).
Un motto, con i limiti di concisione derivanti da una frase programmatica, ugualmente efficace per sintetizzare l’agire filosofico bruniano contro i pregiudizi accademici e scolastici.
«Non è vero che Dio sia isolato dal mondo
«Non è vero che il cielo sia isolato dalla terra
«Non è vero che l’universo sia finito
«Non è vero che la Terra sia al centro dell’universo, immobile
«Non è vero che l’uomo sia impossibilitato a raggiungere da solo, senza mediazioni, il pensiero divino (le idee)» (M. Le Roy, op. cit., pag. 86).
Il campano rende logiche strutturalmente le ipotesi ermetiche basate sulla emozionalità. Cielo e terra sono retti da identiche forze e da un solo destino. L’unità inscindibile del creato comporta l’infinità dell’universo, perché dio infinito non può aver creato che un infinito effetto (principio fatto proprio da Spinoza, ma esplicato con termini matematici. Tutto l’effetto è già presente nella causa. Cogitata metaphysica, 1663. Biblioteca nazionale di Roma. A cura di E. De Angelis, 1962).
Assoluta unità in quanto tale, priva di “centri” privilegiati. Anzi, ogni momento può esserne l’elemento base, in dipendenza dall’ottica di osservazione. Ciò comporta la caduta dei pregiudizi tolemaici e aristotelici. Rifiuto della cosiddetta “sede del diavolo”, ovvero dello stereotipo medievale sul come intendere la natura. Forse come nessun altro rinascimentale, Bruno rappresenta l’antitesi alla connotazione di “assenza del divino” del mondo vegetale e animale. Intende invece Dio quale forza interiore alla natura stessa, vivente in lei. Essa non potrebbe esistere senza divinità, come il divino non esisterebbe privo del mondo (concetto ripreso da Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di S. Casellato, 1945 , pagg. 65 , 87 , 98).
Dio è il principio unificante e ordinante, agente però nell’universo non da estraneo, ma da anima (A. Guzzo e R. Amerio, Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, 1956, pag.88 e segg.).
Per progressive emanazioni le idee divine penetrano nelle forme materiali attraverso lo spiritus mundi, sino alle più minute particelle. La natura è così divinizzata, quale indispensabile complemento della divinità (questo pensiero rappresenta la sintesi della premessa della Pretiosa margarita di Petrus Bonus, 1546, Biblioteca Marciana).
Dio infinito non può essere separato da diversi modi infiniti di cui è causa e forza animatrice (la fonte più plausibile di tale concezione è il Tractatus aureus attribuito a Ermete Trismegisto, Universale Editrice, 1914, pag. 68).
L’uomo è parte essenziale della natura e la presenza del divino in essa si traduce ineluttabilmente in presenza del divino nell’umano, manifestantesi in quell’eroico furore, in sé sforzo incessante, mai esausto, mai appagato, di ricerca della verità (De gli eroici furori, in Opere italiane, cit.).
Così come l’uomo non è mai sazio di ascendere di vero in vero, di conquista in conquista, così Dio non è spirito statico, agendo sempre per ascendere a nuove “vette”. Questo è addirittura un elemento in comune. La sete infinita della perfezione assoluta, meta raggiungibile e non conquistabile, base per altri processi di perfezione in essenza. Il pensiero umano, che pure ha nel senso il suo fondamento, partecipa alla costruzione unitaria del tutto, in quanto procedendo dal senso, lo trascende e giunge alla concezione della infinita unità (ibidem). Uomo vive la totalità dell’essere, buono, bello, vero, e ascende all’infinito in un impeto di entusiasmo e di furore che lo porterà a una immedesimazione infinita (ibidem. Stesso principio in Le nozze chimiche di Rosenkreutz, Atanór, pagg. 23, 46, 79).
Una visione dell’’universo in chiave entusiastica, più vicina ai misteri eleusini (che Bruno non conosceva), che a una sistematica filosofica. Eppure l’ibrido si mostra potente, come voluto. Per obbligare a dei salti razionali, intellettivi, chi legga con un minimo di senso critico e di strumenti logici. Anche se più lievemente, rispetto alle opere latine, Bruno fa compiere veri e propri “atti di disorientamento”, quasi fosse un mezzo conoscitivo il perdere e il recuperare il sentiero logico. In questo è davvero un perfetto ermetista. Il Corpus attribuito a Ermete è un insieme di massime filosofiche, di intuizioni animistiche, di principi gnostici, con la caratteristica della non sperimentalità e dell’illogicità. Ciò malgrado, sul piano emotivo, esse si traducono in vere “scosse” per il lettore. Quasi un viaggio in “avanti e indietro” tra le soglie irrazionali e quelle specifiche logiche. Quasi simile a quella attribuita ai misteri di Eleusi e a quelli orfici, dove in più c’era uno choc sul piano visivo-corporeo. Bruno sa essere fin troppo “filosofo” nel senso più classico del termine, per non essersi accorto delle eventuali cadute sul piano gnoseologico. L’ipotesi, ormai sempre più accreditata, è sulla volontarietà di tali “scivolate”. Appunto, una tecnica. Per questo le opere italiane sono da considerarsi come introduttive rispetto a quelle latine. Il volgare è adoperato perché Bruno pensa di avere maggiore possibilità di diffusione, soprattutto nei tempi a venire. Il latino, e il contenuto dei trattati magico-mnemonici, sono per i più vicini al sapere ermetico. Per quelli che già sono a conoscenza della doppia tecnica, logico-illogico, emotivo-razionale, dimostrato-indimostrabile, ipotesi-in-congilunzione-con-la-tesi (proiezioni nella mente sistematica, suo abbandono, tuffo nell’assurdo, e ritorno “alla luce”, è la tecnica estatica della “follia” sapienziale, così come è stata ricostruita da Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, “Introduzione”, Adelphi. Precorritrice e inconsapevole fonte d’ispirazione per Bruno, che invece mediava i contenuti del Corpus hermeticum).
Per questo la pratica mnemonica, la più importante, perché a suo dire è sperimentabile a tutti i livelli, sia fisico che mentale, è presente solo negli scritti latini. Appartiene a quei lettori in qualche modo già fuori dalle pastoie accademiche e più capaci di compiere salti intellettivi, dal filosofo ritenuti “qualitativi”, per avvertire, con tutto il sé profondo, l’importanza e la portata della magia immaginativa.
E quindi tempo di cominciare a penetrare nel mondo degli scritti sperimentabili, quelli latini, per osservare i precisi consigli e tecniche suggerite da Bruno. Con simili mezzi il filosofo intendeva far compiere un vero salto evolutivo all’uomo che li avrebbe eseguiti.
Le parti successive vogliono evidenziare l’applicabilità delle tecniche del De umbris e del Cantus.

L’immaginazione ermetica X

Alla fine del 1585 Giordano Bruno è a Parigi (vedi articolo precedente) e scrive Arbor philosophorum, Figuratio aristotelici phisici auditus, Dialogi due de Fabricii, Mordentis prope divina adinventione, 120 Articuli adversus Peripateticos. Opere con una unica linea conduttrice, la diffusione capillare dell’“arte” e dei princìpi esoterici a essa sottintesi. Anzi, Bruno diventa sempre più “scoperto” e manifesto nelle sue intenzioni. A Cambray sostiene una pubblica disputa contro gli aristotelici, di qualunque tendenza. Insomma il nolano non fa differenze tra cattolici e protestanti, ma tra uomini aperti alle nuove conoscenze, alla tanto vagheggiata unità, e quelli protesi alle “chiusure accademiche”, disposti sempre a trovare differenze e contrasti, per questo tendenti alla prevaricazione e alla guerra (Eugenio Garin ha ampiamente dimostrato, nel suo Umanesimo italiano, come anche Pico della Mirandola condividesse in precedenza tali posizioni, arrivando alla formulazione di un uomo europeo dal destino «comune» per la creazione di un paese «unitario»).

Ancora una volta l’ingenuità del filosofo è sconcertante, infatti esce allo scoperto proprio nel momento in cui i suoi protettori, vicini a Enrico di Navarra, sono caduti in sospetto presso le autorità ecclesiastiche. Qualche mese prima il Guisa ha addirittura accusato Enrico III di eresia con il Manifesto di Peronne, e il cardinale di Lorena ha condannato come “nemico di Iddio” ogni seguace del “partito dei Navarra”. Sarebbe stata ancora una volta più auspicabile una maggiore prudenza, ma Bruno si considera propugnatore di un nuovo modello di vita, consiglia a tutti di rappresentare pittoricamente le immagini della memoria, crede ciecamente nella efficacia di tali pitture, e quindi non può attendere. Le conseguenze sono le solite: deve fuggire (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 318 e segg.).

Nel 1586 arriva in Germania, a Wittenberg, dove s’immatricola nello Studio e dove ottiene una pubblica lettura di filosofia.

Malgrado le difficoltà, le ingiurie, le accuse di magia, forse di stregoneria, le ostilità dei fanatici religiosi, l’ex domenicano raggiunge subito una posizione pubblica di grande prestigio. E dunque evidente, tali incarichi lo attestano, l’esistenza di una rete segreta di amicizie, anche ad altissimo livello sociale. Qualcuno ha addirittura ipotizzato una specie di congrega con rituali e clausole simili alla massoneria; forse è una esagerazione, ma certamente si deve supporre la realtà di persone unite da una ideologia, che permettesse di superare le barriere di nazionalità e di religione (Lucio Battistini, Società e sette segrete nella Europa rinascimentale, Del Graal, pag. 75 e segg.).

Ed ecco infatti una serie di pubblicazioni: De lampade combinatoria, De progressu et lampade venatoria logicorum, Artificium perorandi, Animadversiones circa lampadem lullianam, Lampas triginta statuarum, volumi da considerare quale ideale continuazione del De umbris. In essi Bruno conferma di voler diffondere una scienza, quella della memoria combinatoria, ricalcata in parte da Agrippa e da Lullo, per edificare una nuovissima umanità, capace di elevarsi al di sopra dei tempi presenti, corrosi dall’odio, per costruire un universo di tolleranza e di sapienza (in effetti Bruno ormai cerca «lo scopo definitivo»: ristrutturare l’umanità. Le sue immagini sono sempre più indicate quale mezzo per una modificazione intellettuale. Segni e colori dovrebbero sortire l’effetto di totale sconvolgimento psichico, al di sopra della volontà dell’osservatore, agendo, secondo le intenzioni del filosofo, a livello inconscio).

I tempi si fanno però durissimi; prevale la fazione religiosa opposta a quella più “permissiva” che gli consentiva di tenere lezioni davvero poco ortodosse. Deve di nuovo ripartire, ma prima pronuncia l’Oratio Valedicatoria, con cui si accomiata dallo Studio e dai suoi studenti. È un momento di grande effetto, non nuovo alla tempra di Bruno. In una sala con le guardie alle porte, pronte anche all’arresto, tra insegnanti colmi di risentimento, in mezzo a un pubblico eterogeneo, composto soprattutto da popolani accecati dal fanatismo religioso, il piccolo filosofo avanza deciso e osservando gli studenti esordisce: «A voi spiriti tolleranti, dagli occhi nuovi, è diretta questa orazione per tempi diversi».

Una vera provocazione, accompagnata da un tono durissimo della voce, e una precisa intenzione di non cedere a quello che per lui è un ennesimo sopruso. Eppure l’Oratio è uno dei più bei documenti del tardo Rinascimento, dove convergono due elementi fondamentali: l’irripetibilità della coscienza capace di autodeterminarsi e la fondamentale bontà dell’uomo aperto alla ricerca, qualunque essa sia. Quando Bruno termina seguono momenti di silenzio, poi è una esplosione di applausi: sono i suoi alunni presi da una autentica frenesia da ammirazione. I suoi nemici nulla possono e devono lasciarlo partire (Francesco De Cristofanis, “L’ermetismo come piaga”, L’Astrale, maggio 1975, pag. 23).

C’è una precisa differenza, continuamente riproposta, tra studenti e corpo accademico. Bruno riuscirà sempre a trascinare con sé i giovani, mai gli insegnanti, soprattutto gli umanisti di grammatica. Lo stereotipo dell’insegnamento aristotelico e una barriera incessantemente eretta contro di lui. Un ostacolo di prevenzione e di ostilità mai superata (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 240 e segg.). Odi viscerali lo perseguitano, dovunque, quasi un invisibile tentacolo, prima o poi stringente sino al soffocamento. In antitesi c’è l’amore dei giovani, una considerazione sconfinata, come una idolatria, priva di qualsivoglia critica razionale. Un abbandono emotivo che consentirà al filosofo di avere seguaci fedelissimi e devoti sino al sacrificio (Mario Spini, Note bruniane, Edizioni del Labirinto, pag.55).

Nel marzo del 1588 l’italiano è a Praga dove conosce Rodolfo II. È un incontro fondamentale per entrambi, decisivo per il re, Rodolfo è un appassionato esoterista, ha conosciuto i massimi maestri contemporanei dell’ermetismo ed è felice di poter parlare con il “mago di Nola”, la cui fama è ormai diffusa in tutta Europa. Nel palazzo che prende nome dallo stesso re avviene uno dei dialoghi più suggestivi di quell’epoca. “Ritorno a Platone”, così lo definisce il Turnejser, fedelissimo al filosofo, forse accecato dall’amore. Ugualmente, al di là dell’enfasi, Rodolfo muterà di fatto la intelligenza che può divenire universale, di una memoria edificata sul modello dell’universo, di una immaginazione dilatata sino alle stelle, alle idee eterne e infinite, presenti nella “mente di Dio” (De umbris idearum e Cantus circaeus, Atanòr, cura di G.L.P,  “Introduzione” pag. 24 e 27).

Il principe è come folgorato. Da questo momento farà ricercare tutti i testi di alchimia esistenti, i compendi di ermetismo, i testi neoplatonici, costituendo una biblioteca unica nel suo genere. È una sorta di malia. Da un punto di vista prettamente culturale è un evento foriero di grandi iniziative, sia per la filologia, sia per il nascente sperimentalismo. Politicamente provocherà l’isolamento progressivo di Rodolfo; alla sua morte si scatenerà la lotta per l’investitura che finirà per precipitare l’Europa nella guerra dei trent’anni. (F.A. Yates, L’Illuminismo dei Rosacroce, cit., pag. 65 e segg., dove è esaminata la cosiddetta “questione di Praga”, con la relativa defenestrazione degli ambasciatori della Lega cattolica. I boemi, abituati allo spirito di tolleranza e alle aperture religiose e filosofiche di Rodolfo, non potevano accettare l’idea di essere governati da un fanatico cattolico. «Il problema fu per breve tempo rinviato con l’elezione all’impero e alla corona di Boemia del fratello di Rodolfo, Mattia, vecchio e inetto, che morì presto a sua volta, e dopo di lui non fu più possibile rimandarlo. Le forze della reazione si stavano raccogliendo. Solo pochi anni di tregua vi sarebbero stati prima della ripresa delle guerre di religione. Il candidato più prossimo all’impero e al trono di Boemia era l’arciduca Ferdinando di Stiria, un Asburgo fanaticamente cattolico, educato dai gesuiti e risoluto a sgominare l’eresia. Nel 1617 Ferdinando di Stiria diventò re di Boemia. Fedele alla sua educazione e alla sua natura, egli pose immediatamente fine alla politica di tolleranza religiosa di Rodolfo» (F.A. Yates, op. cit., pag. 23). Questi motivi spinsero i boemi a nominare nel 1619 Federico del Palatinato legittimo successore di Rodolfo, di cui condivideva gli interessi esoterici. Non a caso era stato in Inghilterra e aveva conosciuto gli stessi nobili fedeli all’ermetismo bruniano. L’elezione finirà nel disastro della battaglia della Montagna Bianca, e la perdita della libertà per i boemi e i moravi. Fornirà inoltre l’occasione per la guerra dei trent’anni. Molti storici fanno risalire al mancato intervento dell’Inghilterra, a fianco del Palatinato, la vera motivazione della sconfitta e della futura interminabile guerra. I nobili elisabettiani di ispirazione ermetica avevano infatti consigliato re Giacomo di entrare nello scontro.)

Fondata una biblioteca ermetica, stabiliti due corsi allo Studio, creata una rete di fedeli allievi, Bruno si muove ancora. Le motivazioni non sono quindi da ricercare in un ambiente ostile e respingente, bensì nell’esigenza del filosofo di cercare altri da sensibilizzare alla sua visione teorica e pratica dell’uomo e del suo compito sulla Terra.

L’immaginazione ermetica IX

Torniamo all’arrivo di Giordano a Parigi (vedi articolo precedente). Finalmente è a diretto contatto con un ampio cenacolo di intellettuali, lettori, nobili, guerrieri, che condividono i suoi stessi princìpi. È davvero come essere giunti alla casa paterna, sempre desiderata e mai abitata. Bruno è felice, si forma subito una schiera di allievi, tutti nobili del seguito di Enrico III, e persino l’erede al trono lo segue come un’ombra, dovunque. È il suo più attento studente sia quando impartisce lezioni all’università, sia allo Studio del re, sia all’accademia della nazione. In breve tempo il filosofo dà alle stampe tre opere, De umbris idearum, Cantus circaeus, De compendiosa architectura (soprattutto il De umbris e il Cantus sono essenziali per capire la particolarissima tecnica della memoria del filosofo). Inoltre pubblica una commedia in volgare, il Candelaio. Questa sarà una prassi ricorrente del filosofo: scrivere testi in latino, che contengano i princìpi pratici dell’ermetismo, ovvero volumi da cui il lettore possa evincere tecniche e rituali, e poi, accanto a questi, libri con i princìpi teorici, filosofici, della sua concezione del mondo. Insomma Bruno dà la pratica unitamente alla teoria, probabilmente per mostrare quanto i princìpi tecnici della “sua” arte della memoria avessero come supporto una profonda concezione culturale, risalente addirittura, a suo dire, agli antichi egizi.

Riflettendo sul comportamento di questo sognatore si prova un sentimento di ammirazione, non fosse altro per la sua ingenuità politica. Rispetto agli ingegni in qualche modo a lui similari, come Lullo, Moro, Bacone, il nolano non mostra un briciolo di prudenza. Ovunque dichiara subito le proprie intenzioni, attacca i fanatici, chiunque essi siano, i finti professori, gli accademici di parte, insomma tutti quelli che, secondo lui, osteggiano l’unità delle genti. E le conseguenze non si faranno mai attendere troppo. (Occorre non fraintendere la carica del filosofo quando contesta gli uomini di scienza. La sua non era mai aggressività dovuta alla necessità di difendere posizioni e privilegi che del resto aveva già sin dai tempi di Ginevra, purché si fosse mostrato più accorto, ma una precisa esigenza di smascherare, a suo dire, tutti gli avversari della “prisca teologia”, ovvero della religione degli antichi padri, forse identificati fantasticamente con gli egizi, che non vedevano differenze di credo tra gli uomini. In questo Bruno si mostra un vero e proprio missionario dell’onirismo ermetico.)

Di fronte a Enrico III dà un saggio delle sue capacità di memoria e di cultura, rispondendo ai quesiti che gli pongono oltre cento professori, quasi tutti seguaci del Guisa o oltranzisti protestanti. Fa un’eccellente figura, nessuno può stargli alla pari, ma gli odi si inaspriscono. Perché lui non è né cattolico, ne protestante, né ugonotto, né calvinista, né altro. È un visionario di ispirazione ermetica, ancorché simpatico a noi contemporanei. Certo, calandosi nei panni dei dottori dell’epoca, non doveva certo essere divertente, per loro, sentirsi accomunati a lucertole, cercopitechi, gufi, insomma a tutto un bestiario che incarnava ignoranza e cecità. La scena avvenuta innanzi a Enrico deve essere stata poi particolarmente sublime. Da una parte una folla di pretesi sapienti, con le loro palandrane, compunti nel ruolo di “professi” di ogni disciplina, tutti intenti a scartabellare volumoni per trarre quesiti impossibili, e dall’altra un omino furente e ironico, sempre pronto alla battuta, padrone di ogni argomento. Probabilmente proprio in questa occasione cominciano a diffondersi le prime accuse di magia. Quando, nei giorni successivi al memorabile scontro, le invettive giungono all’orecchio del filosofo, riferite dal Delfino preoccupato per la sorte del suo ormai maestro prediletto, la reazione è in tutto e per tutto, degna del suo temperamento meridionale. Una risata seguita da un’affermazione decisa. Ma certo che è accusato di magia, chi lo dice ha perfettamente ragione, perché in effetti è un mago, e che altro se no? Non lo era forse Ermete Trismegisto? E prima di lui Mosè? E tutti i grandi padri della filosofia greca, Socrate e Platone primi fra tutti? Per tacere di Plotino, Porfirio e del più grande di tutti, Virgilio stesso, «il savio gentil che tutto seppe». E per fortuna, in questa occasione, Bruno non accomuna, nella tradizione ermetica, anche Cristo e Maometto, cosa che invece farà qualche anno dopo a Venezia, di fronte a un esterrefatto Mocenigo. Questa è un’altra delle grandi allucinazioni, anche se con qualche attento riferimento ad alcune fonti, degli ermetici. Anche Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti e segretamente il Poliziano amavano trovarsi dei “padri” che condividessero le teorizzazioni dell’ermetismo. Ficino afferma, come si è già visto negli articoli precedenti, che la magia, qualora sia «naturalis», non è difforme dal cristianesimo (Eugenio Garin, La disputa sull’astrologia, cit., pag. 97 e segg.)! Ed è quindi logico, nel paradosso, che Bruno si spinga oltre Marsilio, da lui considerato come un maestro (F.A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, pag. 145 e segg.; a cura di G. Gentile, Opere italiane, I, Dialoghi metafisici, pag. 87 e segg.; Luigi Firpo, Scritti scelti di Giordano Brano e Tommaso. Campanella, edizione del 1968, “Introduzione”).

A sua volta Tommaso Campanella, seguace del filosofo, ma sarebbepiù proprio dire del mago di Nola, andrà oltre, teorizzando la magia come unica vera scienza unificante ogni credo di qualsiasi nazione e tempo.

L’erede al trono, dapprima perplesso, sentendo dalla bocca del suo ammirato maestro simili affermazioni, condivide immediatamente ogni proposizione “magica” e nell’ardore giovanile ne discute pubblicamente nei giorni successivi, anche alla presenza degli oltranzisti cattolici (James Leroy, “Trinity Road”, in Oxford Revue, pag. 100 e segg.). Forse sarà stato anche questo motivo a spingere Enrico ad affrettare i tempi della “missione” del filosofo italiano in terra inglese (I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Nel 1583 Bruno è in Gran Bretagna, dove a Oxford insegna nello Studio e stampa immediatamente altri tre trattati mnemonici, Ars reminiscendi, Explicatio triginta sigillorum, Sigillus sigillorum. Inoltre cura una riedizione del De umbris e del Cantus.

È circondato da amici fidati e da ammiratori: lo dimostra la diffusione capillare delle sue opere, l’importanza della cattedra affidatagli e i contatti con sir Sidney, il gran favorito della regina Elisabetta. Intorno alla sovrana, illuminata nelle cose di lettere e di scienza, oltre che nella diplomazia, esiste da tempo un gruppo di nobili permeati di esoterismo, i quali già conoscono bene sia le opere di Bruno, sia i neoplatonici fiorentini come Ficino e Pico della Mirandola (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 90 e segg.). È un vero e proprio partito della “pace”, con stabili contatti in Francia. Nobili di Enrico e di Elisabetta tendenti a trovare punti di tolleranza tra le diverse confessioni, al di là delle posizioni ufficiali.

Si potrebbe discutere a lungo se sia l’ermetismo a spingere costoro verso la reciproca comprensione o viceversa, anche se recentissime indagini tendono a preferire la prima ipotesi. Si è infatti già osservato come sia connessa all’ideologia neoplatonica un’istanza di universalità delle genti, in nome di un “bene” superiore ai singoli paesi (Philip Newton Stuart, The Sun and the Queen, Dumont, pag. 45 e F.A. Yates, Shakespeare, un nuovo tentativo di approccio, Einaudi, pag. 60 e segg.).

Anche a Oxford il particolare temperamento dell’uomo “venuto dal sud” ha modo di evidenziarsi quasi immediatamente. È la copia della dimostrazione avvenuta in terra di Francia, al cospetto di Enrico. Dottori in ogni disciplina si affollano per saggiare le doti culturali dell’italiano, segretamente speranzosi di metterlo in difficoltà. Forse tra loro si celano dei protestanti accesi, della stessa specie, in campo avverso, dei seguaci del Guisa (F.A. Yates, Giordano Bruno, cit., pag. 231). Anche qui Bruno raccoglie rancori e odi, e addirittura un’accusa di plagio dell’opera di Marsilio Ficino (ivi, pag. 232). Da quest’ultima si difende dichiarandosi seguace della magia naturalis del neoplatonico toscano, anche se in piena autonomia creativa. I suoi studi si spingono ben oltre Ficino, arrivando a contemplare una scienza assoluta, appunto l’ars memoriae. Ma non quella classica dei retori, bensì un nuovo tipo, a forte caratteristica magica.

L’Inghilterra è un paese dove da un decennio i cavalieri “della regina” studiano esoterismo, ma segretamente, così che a livello ufficiale le affermazioni di Bruno, malgrado un ambiente nobiliare in parte favorevole, non possono suscitare che scalpore. Il filosofo è invitato a Londra, ospitato direttamente in casa dell’ambasciatore francese Michele di Castelnau.

Qui vive forse il periodo più piacevole di tutta la sua vita, circondato da amici e ammiratori. Frequenta le personalità più di spicco della cultura inglese, tutti appartenenti al “partito della pace”, quali Greville, Walshingham, Giovanni Smith, Matteo Gwynn e il Florio. E forse addirittura Shakespeare e la sua compagnia di particolari attori e commedianti. (I contatti tra Bruno e il grande autore inglese sono stati appena accennati dalla Yates nell’opera già citata, ma meriterebbero davvero una pubblicazione a parte, anche perché la compagnia di Shakespeare è strettamente connessa al movimento rosacrociano.)

La Yates ha dimostrato ampiamente come l’ermetismo fosse in qualche modo il coibente tra il filosofo e tali personaggi, unitamente al disprezzo verso l’accademismo umanistico e l’aristotelismo grammarian. Anche Aquilecchia ha comprovato quanto un nuovo modello di scientia si affermasse in tali ambienti “progressisti” e come gli interessi anche astronomici dell’italiano stabilissero uno stretto rapporto con le personalità vicine alla regina. Così è spiegabile anche la scelta del «volgare per i dialoghi (italiani), il suo carattere innovatore, che allineandosi con la produzione scientifica vernacolare inglese, segna il distacco dalla tradizione classica trionfante negli ambienti accademici» (I. Guerrini Angrisani, op. cit., pag. 29). Insomma l’attività del filosofo incontrava i gusti, le tendenze, gli ideali di tale élite nobiliare che agiva contro la cultura accademica, operando su un piano «tendenzialmente popolare», come giustamente fa sempre notare Aquilecchia.

Bisogna anche aggiungere che, in tale affinità di ispirazioni, Bruno operava e scriveva in funzione di una esigenza innovatrice, da lui considerata come “componente ermetica”, per cui si ribella alla concezione aristotelica dell’universo, in modo più drastico di quanto non abbia mai fatto lo stesso Copernico (Giorgio De Pascalis, Copernico e Giordano Bruno – un confronto preferenziale, Ramo d’Oro, pag. 32).

Vedono le stampe, tra il 1584 e il 1585, La cena delle ceneri, De la causa principio et uno, De l’infinito – universo et mondi, lo Spaccio de la bestia trionfante, La Cabala del cavallo Pegaseo, De gli eroici furori.

La “nolana filosofia” attrae sempre più i cavalieri della regina, come è riscontrabile non solo nell’epoca bruniana, ma forse soprattutto dopo, «allorché le opere italiane del Bruno, stampate a Londra, furono in parte tradotte in inglese, quando il nome del filosofo era stato dimenticato in gran parte d’Europa (basti pensare a come il deismo inglese accolse l’insegnamento del Bruno tra Seicento e Settecento)» (I. Guerrini Angrisani, op. cit., pag. 32). Avendo stabilito rapporti così intensi, Bruno considera terminata la sua permanenza in Gran Bretagna e riparte per la Francia.

L’immaginazione ermetica VIII

Inizia per Giordano Bruno a partire dal 1576 un periodo di vagabondaggio (vedi articolo precedente) che lo porta a Genova, a Noli, dove impartisce lezioni private, a Savona, a Torino, a Venezia. Qui pubblica un’opera, De’ segni de’ tempi, andata perduta. Poi nuovamente ricomincia la peregrinazione, da Padova a Bergamo, dove rimette l’abito. (Tale fatto testimonia quanto Bruno fosse legato, nel suo profondo, all’ordine dei Domenicani. In effetti a Bergamo si rimette il saio non per convenienza, ma dopo una lunga notte di riflessione.) Chambery, poi Ginevra. Qui conosce i calvinisti da vicino, la loro “purezza di comportamento” lo colpisce profondamente e lo porta a aderire a tale confessione. È un terribile abbaglio. Perché la rigidità calvinista è lontanissima dalla grandezza e dalle aperture culturali di Bruno. Il mito della obbedienza, così proprio soprattutto dei cittadini ginevrini, è agli antipodi con l’irruenza del domenicano. Fra’ Giordano è un passionale, e questa caratteristica lo accompagnerà per tutta la vita. Sempre propenso allo scontro dialettico in nome della verità e della tolleranza. Curiosamente Giordano aggredisce costantemente gli accademici, accusandoli di “intolleranza”, con modi violenti sia nel linguaggio sia nei gesti. In lui i sentimenti si esprimono con foga. Forse è la certezza di dover insegnare la possibilità di un’esistenza migliore a spingerlo a compiere gesti estremi, là dove il proprio personale tornaconto avrebbe dovuto suggerirgli atteggiamenti più prudenti.

A Ginevra, in pochi mesi, si è guadagnato la fiducia universale, e la massima stima per la sua profonda cultura. Non c’è nessuno che possa competere con lui nella conoscenza delle Sacre Scritture, di Platone, di Aristotele, di Averroè. Un pizzico di savoir faire e avrebbe ottenuto un importante incarico nella università della città. Purtroppo, mentre il lettore dell’Accademia De La Faye sta leggendo, Bruno rileva ad alta voce venti errori dell’oratore. A Napoli, come a Roma, come in qualsiasi città cattolica, si sarebbe giunti a una disputa accesa. Non così a Ginevra, dove imperversano gli oltranzisti riformati. L’italiano viene strattonato e malmenato, issato a viva forza sulle teste degli studenti e scaraventato in strada; quindi è arrestato e costretto a ritrattare. Bruno è intimamente convinto di essere portatore di una rinnovata visione del mondo, basata sulla sperimentazione e sulla possibilità di dilatare la memoria e l’intelligenza dell’uomo. In sintonia, quindi, con le teorizzazioni ermetiche. Egli aggiungeva una carica umana, tutta particolare, nell’affermare tale idealizzazione, a discapito della sua stessa incolumità fisica. Anche a Londra riuscì a stento a sottrarsi alla “furia” di alcuni docenti, da lui paragonati alle lucertole, ovvero capaci di nutrirsi solo di insetti psichici.

Ginevra, la città che ospitava la “lungimiranza religiosa” e la “pazienza evangelica”, lo allontana. Costretto a ripartire, Bruno giunse a Tolosa in quello stesso 1579. Qui in pochi mesi diventa pubblico lettore di filosofia, un incarico che ricoprirà anche a Parigi e a Londra. È la cattedra più importante a cui un accademico possa aspirare ed è assolutamente sconcertante che venga affidata a uno straniero, per di più appena giunto in città. La stessa cosa si ripeterà appunto in Francia e Inghilterra. L’ingegno straordinario di Bruno non basta a giustificare l’acquisizione continua di ruoli così importanti, soprattutto se si tiene conto del livello sociale a cui Giordano ormai appartiene, ovvero infimo. È un ex frate, per di più accusato di eresia, senza mezzi, contatti, potere. Non è ragionevole credere che, solo grazie a una “intelligenza superiore”, possa aver acquisito tale mandato. È lecito supporre una sua personale rete di amicizie di cui nulla è stato tramandato, e alcune sue “dimostrazioni” di capacità intellettuali (F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981, pag. 167; I. Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pag. 28). Passano pochi mesi e, a causa di un’inspiegabile irrequietezza, Bruno riprende a viaggiare, e nell’estate del 1581 è a Parigi. (L’irrequietezza bruniana è un classico falso del radicalismo romantico a sfondo anticlericale. Si vuole vedere in questo filosofo un antesignano del “tormento” del poeta-vate-sapiente: si vedano i rari scritti in proposito di Carducci. Sono davvero risibili, si fa del nolano un propugnatore della libertà politica del XIX secolo, quando invece era un tenace sostenitore e divulgatore della “prisca teologia”, di un ritorno a concezioni e idee, in campo politico, ispirate alla Repubblica di Platone, ovvero assolutamente e rigidamente classiste.) Qui la sua “fama” si consolida; ottiene un posto di lettore “straordinario e provvisionato” allo Studio parigino. Si crea amicizie e dà un saggio di memoria innanzi a Enrico III, che gode della sua ammirazione quale principe colto e liberale, generoso e pacifista. Pare che il Bruno frequentasse gli ambienti di corte, facesse parte cioè di quel circolo di moderati politiques attorno ai Valois che, pur essendo cattolici, nutrivano simpatie per i protestanti, dati gli eccessi locali della Lega diretta dai Guisa appoggiati dalla Spagna. (Il duca di Guisa è in effetti un fanatico religioso, oltre che un tenace uomo d’arme. Il suo vero obbiettivo non è la corona, come alcuni storici hanno affermato, ma l’annientamento dei protestanti. Quando nel 1584 si farà propugnatore della Lega Santa, unitamente al cardinale di Lorena, per “estirpare l’eresia” arriverà ad accusare, con il Manifesto Peronne, il suo stesso re di essere un miscredente. Invettiva che costerà a entrambi la vita. Nel 1588, infatti, il re li farà assassinare da alcuni seguaci, a loro volta fanatici ugonotti.) Insomma fra’ Giordano si unisce a un gruppo di nobili colti, che condividono con lui l’ideologia della universalità.

Appena sette mesi prima, nel gennaio del 1581, lo stesso Enrico ha fatto suonare delle melodie a corte, presenti sia i cattolici, sia i protestanti, in particolar modo gli ugonotti. Le musiche sono anonime, al di là di ogni supposizione, e si basano su suoni di flauti di canna, di arpa e di voci esclusivamente femminili, ed è la prima volta, in assoluto, che delle donne cantano in pubblico. Tali elementi sono per noi importantissimi, perché ci permettono di inquadrare il senso della rappresentazione in direzione delle concezioni ermetiche. Infatti gli strumenti sono quelli di Dioniso e di Apollo, e il Neoplatonismo alessandrino ha sempre voluto riunire le sfere cultuali delle due divinità in una visione unificante, detta appunto ermetica. Anche il canto femminile si inserisce nel contesto della ideologia di Ermete Trismegisto. Il filosofo di Nola si introduce perciò tra persone che conoscono le filosofie a cui lui stesso si ispira. Non solo, tutti credono che simili princìpi possano modificare gli animi degli uomini, e addirittura sanare le guerre di religione che avvelenano la Francia (F.A. Yates, Astrea, Einaudi, pag.201 e segg. Stando alle ricerche di questa studiosa, la cerimonia ebbe anche efficacia, perché per un brevissimo periodo di tempo gli ugonotti e i cattolici sembrarono trovare alcuni momenti di intesa, basati su teorie della musicalità nella antica Grecia. Si arrivò persino a creare una commissione di studi per reperire quale fosse il vero timbro musicale presso gli ateniesi del VI secolo avanti Cristo. Poi gli eventi spazzarono via ogni cosa.)

Tornando alla rappresentazione sonora, si trovano in essa momenti spettacolari in apparenza, che invece nascondono profondi significati, e tutti correlati a Bruno, che in quel momento è ancora a Tolosa. Infatti, mentre i musici deliziavano gli animi, dietro, sullo sfondo dell’improvvisato palcoscenico, sfilavano alcuni dipinti sorretti da servi. Rappresentano simboli zodiacali, e fin qui non c’è nulla di particolarmente straordinario, per quanto sia insolito che alla corte di Caterina de’ Medici, la cattolicissima, vengano mostrate al pubblico nobiliare e d’arme composizioni pittoriche legate all’astrologia. Ma in realtà non si tratta “solo” di quadri rappresentanti i segni dell’arte divinatoria, ma di precise riproduzioni di immagini della memoria, ovvero di simboli che dovrebbero modificare, per una forza loro innata, la mente di chi li osserva, mutando in mansueti saggi, protesi al bene dell’umanità, gli individui avvelenati dalla intolleranza religiosa. Per di più i disegni voluti da Enrico III ricalcano fedelmente almeno dodici “figure della memoria” descritte dal filosofo campano nel suo De umbris idearum, opera da lui composta addirittura un anno dopo la celebre musicata.

Le figure bruniane sono assolutamente originali, anche se suggerite dalla tradizione ermetica e in particolar modo da Cornelio Agrippa e da Teucro Babilonese (F.A. Yates, op. cit., pag. 160 e segg. In effetti Bruno si considera un seguace del grande Cornelio Agrippa e alcune delle sue immagini della memoria sono direttamente ispirate a figure descritte nel De occulta philosophia unitamente ad altre attribuite a Teucro Babilonese, sempre riportate dallo stesso Agrippa. In ogni caso il filosofo campano opera sempre in grande autonomia e i suoi simboli, legati ai segni dello zodiaco, possono essere considerati rispettosi della tradizione, in una piena autonomia creativa). Non ci sono dubbi, l’ispiratore è proprio il nolano. Come poteva l’anonimo pittore conoscere immagini che l’italiano doveva, in teoria, ancora scrivere? Probabilmente appunti manoscritti già circolavano a Parigi prima della venuta dell’ex frate, e questo comproverebbe l’ipotesi di contatti tra Bruno e alcuni studiosi vicini al re di Francia. Inoltre, se si accetta questa teoria, ecco spiegata la facilità del filosofo ad accedere a cattedre importantissime, come quella di Tolosa, città piena di uomini fedelissimi al Guisa, nemico giurato di Enrico III. Forse Bruno avrebbe dovuto placare gli animi dei riottosi e ricondurli alla ragione. Missione che avrebbe tentato di assolvere per diciotto mesi, per poi, una volta ultimato il compito, giungere alla sua vera destinazione, appunto Parigi. Ventiquattro mesi nella capitale francese e quindi una nuova partenza, questa volta per Londra, sempre seguendo i voleri di Enrico di Francia. Solo che riguardo alla missione londinese esistono testimonianze scritte; infatti Bruno è accompagnato addirittura dall’ambasciatore Castelnau, e grazie all’intervento del principe Laski tiene delle lezioni a Oxford sullo stesso tema di quelle di Tolosa e di Parigi: l’arte della memoria. Questo è l’elemento unificante dei vagabondaggi del filosofo, non una presunta inquietudine psichica. Il nolano sta diffondendo una precisa visione del mondo, quella ermetica, mediante appunto l’arte della memoria. Infatti, ovunque si rechi, pubblica opere al riguardo.

Un discorso a parte meriterebbe anche la facilità con cui trova subito degli editori, in un’epoca in cui la stampa costava una fortuna. Dunque è la mnemotecnica l’obiettivo vero: la sua diffusione. Perché l’ars memoriae del filosofo è del tutto pretestuosa, infatti non vuole potenziare la capacità di ricordare, come facevano gli antichi rètori, ma divulgare i princìpi dell’ermetismo, l’utopia della unità degli uomini al di là delle divisioni politiche e religiose. In seguito verranno approfondite le figure mnemoniche e la teorizzazione a monte; per ora è importante comprendere, come già detto, che non si tratta “solo” di strumenti per ampliare le facoltà del ricordo, ma di mezzi per rivoluzionare l’umanità, rendendola in qualche modo migliore. Questo è il sogno dell’ex domenicano e dei suoi amici, tutti seguaci della cosiddetta “tradizione ermetica” (tale sogno-bisogno è perfettamente evidenziato sia dalla Yates, soprattutto nell’Illuminismo dei Rosacroce, Einaudi, pag.74 e segg.; sia da Luciano Pirrotta, quando si sofferma sui desideri del marchese di Palombara Sabina, La porta ermetica, Atanòr, cap. III-IV; sia da Maurizio Calvesi nel suo studio sul Sogno di Polifilo Prenestino, Officina Edizioni, pag. 100 e segg.).

L’immaginazione ermetica VII

Meno di un secolo dopo il capolavoro del Botticelli (vedi articolo precedente), mentre a Trento si riapre il Concilio dopo una interruzione di dieci anni, a Napoli, nel convento di san Domenico, Filippo Bruno abbandona il suo nome profano e assume quello di fra’ Giordano, prendendo così l’abito domenicano.

Sette mesi dopo, sempre a Trento, vengono poste le premesse della Controriforma, mentre in Scozia è introdotta la prima legge contro le streghe. Due avvenimenti che finiranno per pesare fortemente sulla vita futura di quel giovane fra’ Giordano che, a quindici anni compiuti, è solo proteso agli studi teologici. È il 1561 e nessuno suppone che nel convento di san Domenico si stia formando uno degli ingegni più brillanti del secolo, assolutamente divergente da qualsiasi altro del momento. Neppure il padre è certo dell’avvenire del figlio. Anzi, lo considera perso per il suo casato sin da quando, nel 1560, il rampollo dodicenne ha voluto a ogni costo studiare lettere, logica e dialettica (il Sarnese fu suo maestro di logica averroistica, mentre Simone Porzio gli insegnò l’alessandrinismo neoplatonico filtrato dagli intelletti napoletani della seconda metà del Cinquecento. Il Vairano lo addentrò nell’agostinismo e nel platonismo. Rimane invece sconosciuto chi gli abbia fatto conoscere, alla perfezione, i cabalisti e Raimondo Lullo). Giovanni Bruno è infatti nobiluomo e “uso d’arme”, vale a dire è un guerriero di Spagna, fedele alla Corona, pronto a servirla ovunque, che ebbe un unico momento di rifiuto, anche se abilmente mascherato, quando nel 1561 non prese parte ai massacri contro i valdesi di Calabria. Di fronte alla ostinazione del figlio si è però arreso, rinunciando alla sua autorità. (I motivi che spinsero Giovanni ad assecondare i desideri ecclesiastici del figlio, totalmente estranei alla tradizione della famiglia, sono sconosciuti. Le ipotesi in proposito sono pure illazioni.) I superiori del ragazzo sono ammirati dalla sua capacità mnemonica e leggermente preoccupati per alcune letture, ma nulla di più (Isa Guerrini Angrisani, Introduzione al Candelaio, Rizzoli, pagg. 26-27 ).

Dalle attente indagini, anche se prive di fantasia, dello Spampanato, emerge che gli studi di teologia dei domenicani concernevano letture di precisa ortodossia, come la Bibbia, le Somme di Tommaso d’Aquino, le Sentenze del Lombardo e le Storie ecclesiastiche. La Guerrini Angrisani afferma che «il Bruno ricevette indubbiamente una formazione in questi anni – che per ogni giovane sono decisivi – che peserà poi sulla sua cultura e di cui il linguaggio e – in parte – la mentalità risentiranno sempre» (ivi, pag. 25). In realtà lo Spampanato ha subìto l’eredità positivistica quando ha affermato che Bruno poteva leggere solo cose di stretta osservanza: come avrebbe potuto coltivare la sua intelligenza e le sue aperture, dichiaratamente panteiste, se avesse usufruito solo di testi ortodossi? In effetti i frati di quel secolo possono occuparsi anche di altri argomenti, soprattutto se sono assetati conoscenza come il Bruno. È davvero difficile credere che un giovanissimo frate potesse nascondere nella sua cella una massa di volumi così imponente come quella in suo possesso, secondo le sue stesse affermazioni. Evidentemente i frati godevano di libertà di letture molto più ampie di quanto la tradizione positivistica abbia mai accertato. Inoltre le recenti ricerche del Warburg Institute di Londra hanno stabilito definitivamente come i testi di alchimia non fossero affatto considerati eretici dall’ordine domenicano (Warburg Revue, maggio 1980). Del resto lui stesso dichiara che negli undici anni di convento ha avuto modo di dedicarsi ai suoi studi prediletti. Per questo apparirà ai contemporanei e ai posteri, sempre secondo lo Spampanato, come uno dei “più eccellenti ingegni” e soprattutto quale “uomo universale”.

Bruno conosce perfettamente, grazie agli studi conventuali, la scrittura, tutti i dottori del Medioevo, tutti i filosofi arabi, i neoplatonici, i cabalisti, i naturalisti, gli alchimisti, gli astronomi, e soprattutto Raimondo Lullo e Nicola Cusano. In particolare Lullo, il suo intuizionismo, e i suoi schemi della “memoria universalis”, struttureranno la mentalità di Bruno.

Nel 1566 Bruno diventa “professore”, e sino a quell’anno non ci sono reprimende dell’ordine a suo carico. Anzi, si registra un solenne encomio da parte del suo diretto superiore (Martin Ribbot, Neoplatonic True in Mystic Order, London, 1981, pagg.32-35). Grazie al suo fervore e alla capacità di speculazione, ormai riconosciutagli universalmente dai fratelli, gli è permesso di recarsi nel 1568 a Roma da papa Pio V, che per una strana sorte è stato eletto al soglio due anni prima, esattamente in coincidenza della “professione domenicana” di fra’ Giordano. Il giovanissimo frate offre al papa una sua composizione, L’Arca di Noè, andata purtroppo perduta. L’opera di Bruno deve essere assolutamente in linea con i precetti cattolici, se un papa come Pio V non ha nulla da obiettare. Il sommo pontefice, proprio in quell’anno, costituisce due congregazioni di cardinali per la propagazione della fede in terra protestante. L’atto di insediamento di tali defensores fidei sembra alimentarsi più di programmi militari che di precetti religiosi. Sempre il papa farà poi strangolare nel 1570 l’umanista Aonio Paleario (Antonio della Paglia) per alcune «proposizioni» considerate eretiche. Punizione giudicata troppo severa persino dalla stessa curia (Martin Ribbot, op. cit., pag. 45). Se Pio V considera L’Arca di Noé un lavoro in armonia con il cattolicesimo, vuol dire che tale effettivamente era. Tutte le speculazioni su di una “difformità bruniana”, riscontrabile già allora, sono solo frutto di illazioni non comprovate. (Mi riferisco soprattutto al Badaloni che in tali anni vede addirittura già tratteggiata nella mente di Bruno la concezione materialistica della realtà e quella irreligiosità così chiara, da non permettergli la permanenza nel convento.)

Nel 1572 Bruno è finalmente ordinato sacerdote e tre anni dopo è “dottore in teologia”. Ormai ha ventisette anni, un’età matura per quei tempi, soprattutto se si considera la sua preparazione specifica. Non esiste uno scritto della Accademia platonica, o commento al D’Aquino e a sant’Agostino che lui non conosca, per non parlare dei testi alchemici. Eppure su di lui, dal punto di vista cattolico, nulla da eccepire.

Passano undici mesi ed ecco che “improvvisamente” si istruisce un processo contro di lui. Così circostanziato e grave da permettere, con certezza quasi assoluta, una previsione di condanna a pene severissime, anche se non proprio la morte (la conclusione di Mario Foglianesi – «certamente sarebbe stato ucciso sul rogo» – è da considerare frutto di una personale opinione, non comprovata da alcun documento). Infatti il domenicano è costretto a fuggire a Roma, iniziando così le sue peregrinazioni per l’Europa e le sue proprie vicende di filosofo, di mago e di uomo d’azione. Ma è lecito chiedersi che cosa sia accaduto in quegli undici mesi, che sono bastati per tramutare un dottore in teologia in un eretico.

Negli ultimi anni si sono fatte molte supposizioni, tutte sbagliate. Perché non esiste una sola prova che il domenicano abbia conosciuto “straordinari” maghi e alchimisti, o peggio, astrologhi dalla «furiosa tempra» (come afferma Domenico Severi, in una visione suggestiva, più adatta a un romanzo di fiction che a una ricerca). In realtà in Bruno è intervenuta una particolare evoluzione culturale, che può essere giudicata “tipica” per uno studioso di neoplatonismo e di lullismo, nonché di alchimia. L’ingresso in una dimensione psicologica del tutto particolare, definibile come sindrome, quella del sogno d’universalità del sapere. Tommaso Moro, che ne era affetto consapevolmente, la definisce come «bisogno d’unità sì forte, sia in religione quanto in scienza, da supporre che gli uomini siano pronti ad accettarla, in Dio come nello stato». In altri termini Bruno comincia a sognare un’impossibile riunificazione delle religioni, per di più attuabile in concreto nel mondo. È l’eterna illusione, propria anche di un Francesco Bacone, di John Dee, di Raimondo Lullo, di Tommaso Campanella e dello stesso Tommaso Moro, che fa confondere i desideri onirici con la attuabilità concreta. Gli ermetisti di tutte le epoche, dal periodo alessandrino sino ai nostri giorni, hanno sempre coltivato tale utopia. E con tale definizione non intendo gli studiosi del pensiero magico in qualità di storici, ma coloro i quali si riconoscono in una simile ideologia sincretistica e la ritengono sperimentabile, ovvero da “concretizzare” nel reale ordinario. Per citare altri due fondamentali filosofi prima e dopo Bruno, universalmente conosciuti, quali Pico della Mirandola e Tommaso Campanella, si trovano identiche tracce di una simile “evoluzione”, sino al tentativo “sperimentabile” di una città ideale, dove la scienza si riversa nella religione e questa nella struttura politica e sociale. Uno stato d’eden ricalcato dalla Repubblica di Platone. Un misto di puritanesimo integrale, di panteismo magico, di rigido classismo intellettuale, di scientismo animista, di sincretismo religioso. Bruno ha inoltre due caratteristiche altrettanto “normali” del pensiero ermetico: un ottimismo di fondo, per cui è portato a credere, grazie alla propria buona fede, che chiunque “dovrà” accettare una simile eterogenea visione del mondo, e un bisogno missionario di comunicarla agli altri, in un sincero slancio di “donazione” (F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981, pag. 121 e segg.).

Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte IV

I due amanti sono trovati addormentati di notte da Artù, che mette tra loro la sua spada. Da quel momento l’arma si chiamerà Excalibur, ovvero «mezzo per raggiungere il divino». Lancillotto e Ginevra sono dunque aiutati da Artù per giungere, nella loro fusione di maschile e femminile, alla dimensione eterna. E poiché la spada rappresenta l’anima, ecco che il re dona loro l’anima per arrivare a Dio.

Questo è il vero significato dell’episodio, il mistero celato dietro un’apparente storia di tradimento.

Lasciati i due amanti, il re torna a Camelot, ma poiché non può vivere senza l’amico e senza Ginevra, cade gravemente ammalato. Solo il Santo Graal, la coppa da cui sgorga una bevanda magica che dona «ogni sapienza», potrà salvarlo. I Cavalieri della Tavola Rotonda partono quindi alla ricerca.

Approfittando dello stato di confusione di Artù, la sua sorellastra Morgana, la strega, assume le sembianze di Ginevra e riesce a fare l’amore con il re, il quale nel delirio è convinto di abbracciare la moglie perduta.

Morgana concepisce da lui un figlio, Mordred, erede del regno. Ormai Artù sembra avere i giorni contati. Infatti i cavalieri non riescono a trovare il Graal e, nella ricerca, cadono tutti vittime di orchi, streghe, negromanti.

Solo un cavaliere puro e padrone di sé, capace di guidare i suoi istinti, può reperire il sacro vaso contenente la bevanda miracolosa. Perfino Parsifal, «è colui che ha mondato il cuore», è caduto vittima degli intrighi di Morgana e Mordred, il figlio dell’incesto. I due l’hanno catturato e appeso a un albero, con la testa in giù.

Ma in questa posizione Parsifal comprende il segreto per raggiungere il Graal.

Qui è nascosto un altro insegnamento velato: il guerriero giunge all’intuizione dal momento in cui «è appeso», quando ha assunto la posizione dell’omonima carta dei Tarocchi. La saggezza arriva capovolgendo i termini del ragionare ordinario, modificando completamente la cultura, la mo­rale, i luoghi comuni.

Parsifal riesce a slegarsi dall’albero, si getta in un torrente, raggiunge un castello sotto le acque, apre le porte con la chiave nascosta «nel suo cuore» e prende il Graal. Immediatamente corre a Camelot e arriva giusto in tempo: Artù sta per morire. Ma appena beve un solo goccio della preziosa bevanda, il re «conosce il bene, il male e tutto come è sempre stato» e guarisce.

Finalmente il signore della Britannia può marciare contro i Sassoni, guidati da Morgana e Mordred. In una battaglia epica Artù li sconfigge. Mordred è il ricettacolo di ogni male: lussuria, invidia, odio, arroganza, ira bestiale si annidano dentro di lui.

Il re sguaina Excalibur e si avventa contro Mordred, che a sua volta ha sfoderato Rubilacxe, la sua lama.

I due si colpiscono contemporaneamente e si uccidono in un abbraccio selvaggio, affondando fino all’elsa le rispettive armi l’uno nel corpo dell’altro. A terra, le loro teste si appoggiano l’una accanto all’altra.

In realtà, osservando i significati della storia al di sopra del senso letterale, Artù e Mordred sono complementari: tutta bontà l’uno e tutta malvagità l’altro, tant’è vero che persino la spada Rubilacxe è il nome di Excalibur rovesciato. Insomma, Mordred è Artù allo specchio. Per questo «devono» fondersi: non esiste vera saggezza se la parte spirituale dell’uomo non si armonizza con quella brutale e selvaggia.

Questa simbologia è davvero rivoluzionaria: anche il peccato, vedi Lancillotto e Ginevra, anche Mordred con le sue mostruosità, sono utili al mantenimento dell’armonia primitiva, quella racchiusa nei disegni arcani.

Nella filosofia ermetica non è possibile perciò dare un significato univoco a un personaggio, a un simbolo o a un avvenimento. Tutto rientra in un disegno complessivo. Occorre rifarsi a sensi più alti, a conoscenze più vaste, circolari, complete. Uomini, leggende, gesta, spade, santi, simboli rientrano tutti in questo immane mosaico della Conoscenza Femminile nascosta.

Appunto un’altra storia, parallela a quella ufficiale dei libri di testo. Occhi nuovi per vedere le cose vecchie e anche queste diventano improvvisamente nuove.

Ricordate? È stata questa una delle esortazioni con cui è iniziato il viaggio. Ora però occorre fare un altro sforzo sulla rotta del «disvelamento» e capire uno del momenti fondamentali della scienza di cui abbiamo parlato sovente, di quella magia di cui in fondo nessuno parla volentieri, a meno che non si tratti di un iniziato. Una scienza spesso travisata nelle sue valenze originarie.

Per entrare nel suo cuore, è necessario comprendere la ritualità dei gesti, dei movimenti, dei canti, delle formule. Bisogna insomma procedere sulla rotta che conduce al rito.

In effetti, tutta la magia comporta una ritualità. Ecco allora delle storie che servono come mezzo esplicativo. Sono esempi, racconti emblematici necessari per quella via di scioglimento delle tenebre che ha ricoperto l’altra storia della civiltà, quella segreta, quella dell’antica sapienza del Femminile.

L’immaginazione ermetica VI

La natura è divinizzata. L’uomo partecipa dell’essenza di Dio. Il corpo umano riproduce il mondo. È possibile catturare le forze dell’universo con talismani e rituali. L’azione mentale dell’umanità non ha limiti perché trae la sua origine dal perfetto ordinatore del cosmo. Questa può essere una sintesi schematica, ma suggestiva, del pensiero di Ficino, che abbiamo cercato di riportare nell’articolo precedente. Sono contenuti che potrebbero entusiasmare molti giovani d’oggi, figuriamoci un ragazzo ardente e intelligentissimo come Pico della Mirandola. Alto, colto, dal portamento sicuro, capace di parlare tutte le lingue antiche, esperto di ebraismo e di cabala, poeta, filosofo, letterato, matematico, artista: Pico è tutto questo e anche di più. Uno spirito universale, vero anticipatore del Rinascimento in tutti i suoi aspetti, anche in quelli imprevedibili e avventurosi. Un giorno arriva a rapire in chiesa una ragazza, di cui è follemente innamorato, che è pronta a convolare a giuste nozze con un altro.

A un’anima così poliedrica ed entusiastica, le parole di Ficino giungono come acqua per un assetato. Il Mirandola diventa in breve il migliore allievo di Marsilio, sino a oscurare la fama del suo stesso maestro. A venticinque anni Pico è già conosciuto in tutte le università d’Italia e d’Europa. Il suo ingegno precocissimo desta ammirazione in tutti, anche negli avversari. Certamente la gioventù lo porta a essere impetuoso, ad accentuare le posizioni del fondatore dell’Accademia platonica. Il suo scopo principale è dimostrare l’unitarietà dell’intelletto, quindi della verità, al di là e al di sopra di tutte le differenze fittizie, legate allo spazio e al tempo.

In un’opera monumentale e mirabile, le 900 tesi, Pico intende valorizzare l’uomo e la sua intelligenza, mediante un raffronto con tutte le cose del mondo. Alberi, pietre, acque, animali sono e saranno sempre alberi, pietre, acque, animali. Ogni cosa è dunque quello che è perché una sua essenza interiore la determina; l’uomo invece è signore di se stesso in quanto edifica da sé la sostanza di se medesimo. Il significato che Pico rivendica all’attività umana è non già di ordine civile (come per gli altri umanisti pedanti), ma cosmico. L’uomo è il nodo vivente dell’universo perché partecipe della materia con il corpo e della spiritualità con la mente.

Dio – argomenta Pico – ha concesso all’uomo la libertà di orientarsi verso uno dei due mondi di cui fa parte. Egli non ha definito nell’umano un essere assolutamente determinato, ma, dandogli la scelta orientativa, ha costituito un essere degno di rispetto e di ammirazione, innalzandolo all’essenza di un dio che conosce il mondo divino, vincendo quello che ha in sé di materiale e conseguendo il congiungimento con il divino. Il vincolo d’amore permetterà all’essere di abbracciare ogni cosa, una volta giunto nella dimensione eterna. L’immaginazione di Pico colloca l’umano al centro del tutto, amante delle creature inferiori e amato da quelle superiori. «Coltiva la terra» dice il filosofo «gareggia con gli elementi, il suo pensiero giunge nel profondo dei mari, la sua scienza l’innalza al culmine del cielo».

La celebrazione delle possibilità umane rende esplicito in Pico, più ancora che in Ficino, l’accentuazione del discorso magico, inteso come “parte pratica delle scienze naturali”. Il Mirandola aborre però la negromanzia superstiziosa e l’astrologia che predice il futuro: il suo discorso verte sulla “scientia scientiarum naturalis”, ovvero sulla magia concepita quale disciplina capace di dare all’uomo un completo dominio sulle forze fisiche, attraverso una giusta conoscenza delle cause.

Si tratta senza dubbio di concetti estremi, e in quel tempo producono un effetto scardinante, che conduce Pico dinanzi al tribunale ecclesiastico di Roma, dove però viene assolto grazie a una mirabile orazione, poi raccolta nelle 900 tesi, la celebre De hominis dignitate, rivendicante all’umanità il diritto di “signoreggiare” sul mondo, sull’ipocrisia, sui preconcetti, sull’ignoranza. Un vero inno alla tolleranza in nome della cultura e della conoscenza.

Gli effetti dell’opera di Ficino e di Pico sono di immensa portata. Gli artisti ne rimangono influenzati così profondamente da esser condotti a creare opere totalmente ispirate al pensiero di questi filosofi. Botticelli, loro intimo amico, diviene il “rappresentatore” geniale della visione del mondo dei due filosofi. La sua Primavera è uno dei capolavori assoluti dell’umanità, perché in esso sono esplicitati tutti i contenuti di un’epoca, in cui si intrecciano perfettamente la gioia di una vita riconquistata e la sublime certezza di una ragione libera e investigatrice. Appartiene alla sfera della Divina Commedia, del Faust di Goethe, della Nona sinfonia, del Partenone. Di quelle opere che non sono attribuibili a un paese, a un’epoca, a una corrente culturale, ma all’umanità intesa nella sua globalità.

Chiunque osservi il dipinto, anche se completamente digiuno di arte, rimane colpito dall’atmosfera di soavità, di leggiadria, di gioia profonda che emana dalle figure. Il dipinto “parla” un linguaggio sottile all’osservatore, un inno silenzioso alla vita nei suoi valori più alti. Tolleranza, amore, gaudio, corporeità, spiritualismo si intrecciano in un mosaico geniale, che colpisce direttamente al cuore il turista anche più frettoloso. In effetti questo è lo scopo di Ficino e di Pico. No, non è un errore, nominare Marsilio e il signore di Mirandola, perché l’opera compiuta da questi due filosofi viene assegnata a Botticelli, perché ritenuto il più sensibile ai temi della rinascita platonica e della magia. Il pittore non viene scelto per la sua tecnica, ma essenzialmente per la capacità di apprendere totalmente la nuova visione del mondo delineata dalla Accademia platonica fiorentina. La sua genialità nel dipingere, la conoscenza dei «contenuti» da trasmettere, l’influenza dei testi ermetici, l’insegnamento ficiniano, contribuiscono alla nascita del capolavoro. Vediamo allora nei particolari il dipinto, dal punto di vista di chi osserva.

Sulla destra c’è Zefiro, poi la ninfa Chloris, e Flora. Quindi, al centro, Venere, l’unica di cui non si intraveda il corpo nudo, sul cui capo c’è Amore che scocca una freccia con gli occhi bendati. Poi le tre Grazie, Pulchritudo, Castitas e Voluptas. Infine, al fondo, Hermes. La “chiave” di interpretazione a noi particolarmente utile è racchiusa nelle tre Grazie, perché ci introduce per la prima volta a contatto con le immagini “magiche”, ovvero contenenti significati esplicitamente esoterici.

Anche al più disattento osservatore contemporaneo balzano agli occhi le caratteristiche di Voluptas, l’ultima delle tre Grazie, a sinistra del dipinto; il capo leggermente reclinato sulla sinistra sembra abbandonato, eppure accenna a un invito coinvolgente in un movimento come di danza. I capelli sciolti sul collo a piccole ciocche rafforzano il senso del darsi e nel contempo dell’accettazione della persona oggetto dello sguardo sognante e denso di inviti riscontrabili anche nella bocca, il cui labbro inferiore è sotteso all’altro nell’espressione della proposta. Un insieme rispecchiante fedelmente il nome della donna-grazia incarnata in quel viso. Voluttà nel senso pieno del significato latino, che intende il desiderio di ricevere, del dare e del sapersi abbandonare. Il dipingere questo volto con le intenzioni citate, il fatto che potesse essere creato, determina appunto una rottura con gli antichi canoni artistici, introducente l’uomo nel mondo permeato del senso pieno dell’esistere.

I concetti filosofici del dipinto sono stati più volte esaminati (anche se con notevoli divergenze) dagli studiosi. In questo ambito è utile concentrare l’attenzione sulla parte sinistra del dipinto, perché i volti delle Grazie e i loro movimenti possono essere assunti a simbolo della nuova concezione tendente a liberalizzare gli intelletti. Nella tradizione Castitas, Pulchritudo e Voluptas venivano rappresentate sempre con Voluptas in posizione subalterna o paritetica rispetto alle altre. Botticelli rivoluziona tale schematismo immettendo nel gruppo il movimento (come farà poi Raffaello). Castitas è sempre di spalle, come vuole l’usanza, ma la gamba sinistra ha appena compiuto un passo in avanti perché la destra rimane come sospesa in attesa di un nuovo movimento. Il viso è chiaramente visibile di profilo, con lo sguardo assorto, teso, calmo e fiducioso verso un’altra Grazia che le si fa incontro, Voluptas (questa chiave di interpretazione è data da Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, pag. 23 e segg).

Questo è il motivo dirompente, la Castità che si muove verso la Voluttà. La stessa spalla sinistra completamente nuda, il velo-vestito slacciato, alcune ciocche di capelli liberatesi dall’elmo, l’intrecciarsi delle dita della mano sinistra, attestano come questa sia coinvolta nell’ambito della Voluttà. Il suo movimento di coinvolgimento sembra aspettarla, invitarla e nello stesso tempo avvolgerla con lo sguardo. Il loro incedere l’una verso l’altra è osservato da Pulchritudo, dalla bellezza, che intreccia le mani con le altre due, assistendo all’incontro distante, e tuttavia partecipe. Voluttà perciò comanda il gruppo attirando a sé le altre in un movimento sincronico danzante e rituale. Castità a sua volta viene come posseduta dalla vicina in un abbraccio in movimento. L’interdipendenza delle tre, il predominio dell’elemento erotico, il possedimento di Castitas e lo sciogliersi delle sue naturali remore, ricordano una danza d’amore a sfondo dionisiaco, unico elemento di questo ambito riscontrabile nelle opere dei partecipanti al circolo platonico fiorentino. A tale proposito è utile rammentare come lo psicoanalista Rollo May ricordi quanto, nella danza rituale presso i cosiddetti popoli primitivi, l’indigeno si identifichi con la figura che egli ritiene padrona di se stesso. Insomma il ballerino, nella danza frenetica del rituale, invita gli dèi ctonii, li riceve, li accetta identificandosi con essi, accogliendoli come una parte costitutiva del proprio essere. Questo implica il principio dell’identificazione con ciò che ossessiona, non tanto per liberarsene, ma per assumerlo in quanto parte costitutiva della personalità precedentemente rifiutata (Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, pag. 131).

Rileggendo la triade delle Grazie del Botticelli con il contributo psicanalitico del May appare manifesta la tensione di Castitas ad assorbire gli elementi erotici di Voluptas, per farli propri in un intreccio creativo. In effetti l’Accademia ficiniana ha agito concretamente con i mezzi dell’arte e della filosofia per affermare la nuova concezione della vita, tramite gli scritti ermetici e platonici. (Tra gli scritti tramandati come Corpus hermeticum ebbe grande influsso soprattutto il Picatrix. Esso è una summa, con stile diseguale, raccolta in Spagna tra il 1047 e il 1051. Biqratis – Buqratis, quindi, alla latina, Picatrix – sembra esserne stato il compilatore. Del Picatrix c’è una versione latina del 1256 voluta da Alfonso d’Aragona, ma tale versione è incompleta e contiene varianti. Oggi esistono due manoscritti latini fedelissimi. Uno è nella Biblioteca nazionale di Parigi e l’altro nella Biblioteca nazionale di Firenze. Questo scritto fu quello che Ficino e Pico diedero a Botticelli come fonte di ispirazione per la Primavera.) L’influenza di tali scritti fu vasta e riscontrabile persino in Galilei, nella lettera a monsignor Pietro Dini del 2 marzo 1615, come riporta ancora Garin. Tale testo «dimostra la presenza nello scienziato di echi di ogni genere: accanto ad una metafisica di matrice neoplatonica perfino il tema cabalistico della concentrazione della luce, e del suo esplosivo irraggiamento» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pagg. 12-13). L’ascendente, a decenni di distanza, nei confronti di uno scienziato come Galilei, mostra l’influenza del gruppo filosofico fiorentino su ogni campo del sapere.

Insomma la Primavera, negli intenti di Ficino, ha il compito di propagandare il pensiero magico e platonico, come uno splendido supporto visivo, capace di parlare ai cuori molto più rapidamente di qualsiasi libro.

Ma torniamo adesso al dipinto. Dopo le Grazie, c’è Hermes, il dio della intelligenza, che con un bastone sembra scostare delle fronde, per far penetrare la luce tra i rami. La danza delle tre donne pare condurre proprio al dio. Questo significa che, una volta trovata la pienezza del corpo, l’uomo può spingere la propria mente verso la luce. Ecco, adesso il messaggio è chiaro.

Quando la natura fiorisce, mentre spira il vento di Zefiro, recante i doni della conoscenza delle cose, è giusto che l’uomo riscopra il suo stesso corpo, e una volta che si è riappropriato anche del piacere fisico, può conquistare le vette dello spirito. Perché l’unica saggezza possibile è quella che equilibra perfettamente, amorosamente, la carne con l’anima, senza privilegiare nessuno dei due a discapito dell’altro. La sapienza è di chi armonizza il finito (il corpo) con l’infinito (anima), sotto il segno dell’amore. Infatti la “signora” del dipinto è proprio l’antica dea dell’amore, Afrodite, che non a caso Esiodo definiva “la saggia”. Ricorrere alle figure delle divinità mitiche è una valenza propria anche di Guarino Veronese e della cultura di Ferrara. La lingua con cui si scriveva era il latino di Lucrezio, i contenuti erano platonici ed epicurei, la finalità era la restaurazione di una ipotetica antichissima religione fatta di convergenze, espresse mediante l’uso sistematico di nuclei mitici. (Eugenio Garin, Ritratti di umanisti. Guarino Veronese e la cultura di Ferrara, Biblioteca Sansoni, pagg. 84-85).

L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

L’immaginazione ermetica IV

Un nuovo culto della bellezza, della fisicità, della creatività congiunta all’eros, unitamente all’irrazionale passione verso la magia, reputata come summa di tutte le scienze, sono gli elementi che abbiamo trovato per dare una spiegazione più esauriente alla nascita di Umanesimo e di Rinascimento.

Sono principi indispensabili per comprendere le Carte della memoria, ovvero i tarocchi della immaginazione creati da Giordano Bruno.

Ma prima è meglio approfondire il pensiero di Ficino e Pico, considerati “maestri” dallo stesso Bruno.

Marsilio Ficino è persona mite, scrupolosa, sensibile, contemplativa, filologo, studioso di filosofia greca sino a giungere al fanatismo. Pare che abbia una curiosa abitudine: quella di parlare con Platone, Plotino, Porfirio, e anche Aristotele come se fossero viventi e a lui presenti. Così gli capita di andare a tavola con i suoi parenti e di lasciare posti simbolici a questi filosofi del passato. (Particolarità questa che aveva anche Giorgio Colli, che addirittura faceva parlare i figli con Platone, secondo quanto afferma Marco, il terzogenito.)

È insomma un uomo caro a tutti, sempre pronto al dialogo, alla discussione franca, alla ricerca senza prevenzioni. I suoi contemporanei dicono sia un piacere sentirlo parlare; tanto la sua cultura è universale. Si esprime correttamente in latino e in greco antico, citando a memoria centinaia di passi dei suoi autori preferiti. Un filosofo dunque che custodisce nel cuore la leggiadria e la soavità dei poeti, degli spiriti sognanti ed entusiastici.

Eppure quest’uomo poco incline alla diatriba, quando fonda l’Accademia platonica, grazie al patrocinio di Lorenzo il Magnifico, è spinto soprattutto da una forza polemica contro gli aristotelici del suo tempo (bisogna anche tenere presente l’opera della cultura ferrarese di quegli anni. Basti citare, per tutti, l’azione di Gustino Veronese che, traducendo e lavorando alla Vita di Platone, promosse violenti attacchi alla tradizione aristotelica).

Che cosa rimprovera Ficino a costoro? Quali motivi lo spingono al diverbio con i seguaci di Aristotele, che in alcuni momenti assume le caratteristiche di una vera e propria rissa intellettuale? Le origini della questione vanno ricercate oltre un secolo prima, allorché gli insegnanti universitari del XIII secolo studiano Aristotele, lo parafrasano, lo chiosano, lo adattano al pensiero cristiano. Un’opera di assimilazione che riesce tanto bene da rendere cattolicamente accettabile anche la filosofia di Averroè, un pensatore di ispirazione aristotelica, ma pur sempre di religione islamica (tale assimilazione fu resa possibile grazie al principio della diversità tra «verità di ragione e verità di fede». Entrambe vere, quindi eterne, quindi fatalmente presenti in Dio. Avendo coincidenza nell’essere supremo, non possono contrastare tra di loro). L’autorità di Aristotele doveva servire agli accademici come una sorta di scudo, dietro il quale poter esercitare liberamente l’uso della ragione.

“Se il greco, fonte di ispirazione di san Tommaso D’Aquino, adopera la mente razionale, altrettanto possiamo fare noi.» Questo, in parole semplicissime, doveva essere stato l’intento degli universitari (tali universitari saranno poi definiti da Giordano Bruno «pedanti», ovvero noiosi e reverenti verso il potere). Purtroppo, con i decenni, avvenne esattamente l’opposto: invece di trasformarsi sul modello aristotelico, strutturarono Aristotele su quello della scolastica più chiusa e intransigente, diventando non più esponenti di una nuova ricerca bensì sostenitori di quella mentalità contro cui volevano esercitare il diritto di critica. Giungendo addirittura alla condanna di ogni pensiero divergente (basti pensare al Cremonini, che pure era un aristotelico tra i più blandi, che fu uno dei firmatari della denuncia di “eresia perniciosa” contro Bernardino Telesio).

In realtà Marsilio e il suo gruppo di umanisti divengono platonici non contro Aristotele, ma per avversione all’aristotelismo scolastico, alla cultura cattedratica, avvertita come ipocrita e soffocante.

«Chi non intende la carica polemica» sostiene Garin «a volte violenta del ritorno a Platone, che diventò un po’ alla volta ritorno a Epicuro, ritorno alla Stoa, ritorno al naturalismo presocratico… e, finalmente, ritorno ad Aristotele logico e fisico contro l’aristotelismo metafisico, ossia contro una fisica fattasi teologia; chi non intende questo significato del platonismo, rischia di non capire nulla della cultura filosofica, e non solo filosofica, dal Quattrocento al Cinquecento.» (Anche gli Aristotelici erano però feroci contro i platonici. Giorgio da Trebisonda, per fare un esempio, avvertì il pericolo rappresentato dai neoplatonici, nei confronti di una presunta “ortodossia” cristiana, e arrivò a formulare una “preghiera” diretta ai martiri cristiani, affinché “disperdessero” i platonici che “risorgevano” in Italia. La preghiera è riportata per intero da Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza, pagg. 88-89). Entriamo allora nella villa di Careggi, dove Ficino traduce gran parte dell’opera non solo di Platone, ma anche e soprattutto di Plotino. Cura personalmente la versione in latino, permettendo poi a vari allievi una nuova formulazione in volgare, affinché le opere dei filosofi greci conoscano la più ampia diffusione possibile.

Nicola Abbagnano ebbe a dirmi un giorno che solo del Simposio, a Firenze, circolavano oltre cinquemila copie. Rapportata all’epoca è una cifra a dir poco sbalorditiva.

L’immaginazione ermetica III

In un contesto in cui tutti gli umanisti sono dediti a febbrili ricerche di antichi testi, è ovvio che si aggiungano nuove scoperte. Si reperisce il Corpus hermeticum, ovvero una serie di scritti a carattere magico del II-IV secolo dopo Cristo, ma ritenuti erroneamente molto più antichi dagli umanisti. Soprattutto il Picatrix e il Poimander sempre contenuti nel Corpus, parlano di profonde corrispondenze tra cose, esseri viventi e spiriti, che sono poi traducibili in formule magiche, in incantesimi, talismani, amuleti. Con la parola magicamente ritualizzata è possibile giungere alle divinità stellari, agli spiriti ultimi delle cose, alle idee presenti nella mente di Dio: quia verbum in se habet nigromantiae virtutem (il discorso è la specie più virtuosa della magia) (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 66 e segg.).

Pomponazzi, per esempio, che non può essere citato come un umanista che portò alle estreme conseguenze l’armonica concezione platonica, non nega la magia naturale, anzi accetta gli effetti di qualità e potenze umane ignorate. Per similitudine, seguendo la teoria, delle consonanze, il filosofo si chiede perché se certe erbe, o certi odori, producono effetti terapeutici, non sia possibile per certi uomini agire analogamente.

Perché altresì non accettare che l’immaginazione non si ripercuota sul corpo producendovi modificazioni anche perpetue, come le stimmate? Pomponazzi trova la dimostrazione di questa ipotesi nella notte di tregenda in cui i cittadini dell’Aquila riuscirono con intense preghiere ad allontanare il temporale. Fenomeno spiegabile attraverso un processo fisico analogo a quello che si ottiene suonando le campane a stormo, movimenti e modificazioni dell’aria che spostano le nubi per vibrazioni continue. Garin riporta un commento del filosofo quanto mai appropriato: «La si chiami magia poiché solamente i più sapienti fra gli uomini la capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago in persiano significa sapiente. E per il popolo che si sono introdotti angeli e demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono come bestie… Il linguaggio delle religioni, come dice Averroè nella sua poetica, è simile a quello dei poeti… Tali favole servono a condurci alla verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e ritrarre dal male, come si fa per i bambini con la speranza del premio e la paura della pena (op. cit., pagg. 115-116).

Garin aggiunge una sua personale conclusione, secondo cui quando un sentimento religioso decade, anche gli effetti delle preghiere si attenuano e i miracoli non avvengono più, a comprova degli effetti fisici delle preghiere e dei loro propri corollari (ibidem). Insistendo nella sua tesi Garin afferma che Pomponazzi: «tradusse in forma quasi brutale la teoria della fisicità, empiricamente comprovabile, del culto religioso» (ibidem).

Dunque il buon Pomponazzi, filosofo e umanista tra i più tiepidi nei confronti della magia, si lascia andare ad affermazioni quasi paradossali, spiegando tutto il fenomeno religioso in termini di magia pratica, fisica. Arriva addirittura a fornire una spiegazione “razionale” dei miracoli, che sarebbero legati al mutamento delle religioni, in quanto simili cambiamenti rendono difficile il «trapasso da ciò che è consueto a quel che è sommamente inconsueto, [per far ciò] è necessario che la successione della nuova religione sia accompagnata da miracoli straordinari e stupefacenti. Per questo i corpi celesti all’avvento di una nuova religione devono far venire uomini che facciano i miracoli. Così uomini del genere possono far venire e far scomparire piogge, grandine e terremoti, comandare ai venti e al mare, guarire ogni sorta di malattie, svelare i segreti, predire il futuro e ricordare il passato, andare oltre il comune senso della gente. Altrimenti non potrebbero introdurre nuove religioni e nuovi costumi tanto diversi» (Ibidem).

Abbiamo citato Pomponazzi, che ribadiamo era pure un tiepido nei confronti della magia, per mostrare come ormai tale scientia avesse influenzato nel profondo moltissimi intellettuali dell’Umanesimo.

L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).

L’immaginazione ermetica I

Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.

 

Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.

Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).

Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.

Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.

Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).

In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.

Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.

Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?

Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.

«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.

Porto XX

C’è un mistero in Occidente intessuto di romanticismo, di speranze, utopie, sogni. Un rebus che neppure un grande romanziere avrebbe potuto concepire più affascinante. Per descriverlo compiutamente si deve ricorrere a un racconto. È già accaduto in altre occasioni di questo viaggio. In ogni caso, tutti i particolari storici sono stati e saranno rigorosi e soltanto la forma è stata e sarà di fantasia. Come nelle leggende tramandate bocca-orecchio. Forse le più vere, anche se la scienza storiografica le sottovaluta. Ma abbiamo visto come per secoli Platone sia stato considerato soltanto per i suoi scritti e adesso invece il convegno mondiale tenuto nel ’91 all’istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli abbia dimostrato l’esatto opposto. Il Platone più significativo è quello orale. Una novità per l’ufficialità, un’assoluta ovvietà per gli studiosi di filosofia ermetica e di alta magia, così com’è ampiamente dimostrato dagli scritti di Giuliano Kremmerz. Bastava leggersi questo grande studioso per sapere tutto su Platone, e pensare che i suoi lavori sono dell’Ottocento. Gli accademici sarebbero giunti alla verità sull’allievo di Socrate un secolo dopo. Ma tant’è, sappiamo bene i limiti delle scuole con i bolli di riconoscimento dello Stato. Ma torniamo al nostro enigma.

È una vicenda corale che coinvolge re, popoli, nazioni e filosofi, lettera­ti, scienziati, astrologi, attori e soprattutto esperti di «occulta filosofia». Per l’ennesima volta, noncuranti del tempo e dello spazio, si tendono le funi delle vele dell’Hermes e Odisseo è pronto a impartire i suoi comandi Ci attende la Boemia, il Palatinato e Praga del secondo decennio del Seicento. Ma prima è d’obbligo raccontare una curiosa vicenda. Di un libro della celebre studiosa Frances Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare e di come questo testo, letto da un critico letterario italiano, abbia in lui suscitato una profonda impressione. Anzi, sconcerto, perché questo intellettuale napoletano crede di ravvisare nel testo una «doppia» scrittura. Ovvero, si dice una cosa, ma se ne sottintende anche un’altra. Come una cifra segreta. Allora il critico prende il coraggio e scrive alla Yates, chiedendo un appuntamento a Londra. E questa storia prosegue nella capitale inglese dove i due si incontrano e dove la grande ricercatrice, quasi un mito vivente, dice all’italiano che lui ha visto giusto.

Sì, quel volume è una seconda interpretazione. Segreta. Ma perché non renderla esplicita? chiede il napoletano. Perché non ci sono prove, nel senso accademico del termine. A suffragio di una tesi affascinante e terribile. Appunto la chiave segreta del libro. E come fare a dirla? Domanda ancora l’uomo giunto dal sud. Ma semplice, risponde la donna, raccontando come un romanzo. Per esempio un racconto.

Sì, forse sarebbe giusto, prima di partire con l’Hermes, dire di questo dialogo. Ma a volte la realtà supera la fantasia. E quindi potrebbe essere ingiusto esplicitare quello che è un gioco. Anche se il ludus è proprio degli dei e degli uomini che si definiscono «pagliacci» per poter nascondere profonde verità. Come i Rosacroce, per esempio. Ma questa è un ‘altra storia. 0 è questa?

Si salpi comunque per Heidelberg, capitale del Palatinato, e si cominci a delineare la storia, quella ufficiale. Poi si potrà ascoltare un grande racconto.

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

Porto XIV

Salone del libro di Torino del 1990. Hugo Pratt, il celebre autore di Corto Maltese, presenta la sua prima opera narrativa, Il romanzo di Kris Kenton. Mi avvicino a lui per un’intervista (mi sia concessa l’autocitazione, per una volta). Non ci conosciamo personalmente, ma mi dichiaro suo ammiratore. Mi guarda per un istante e nasce immediata una forte corrente di simpatia reciproca. Decide allora di farmi una dedica e immediatamente prende la penna. Poi ci ripensa e crea un bellissimo disegno. È la testa di un indiano irochese che porta al lobo dell’orecchio sinistro un curioso pendaglio, una medaglia con inscritto il segno del doppio triangolo incrociato: la croce di Geova con, all’interno, l’effige di un agnello.

«È la simbologia di re Salomone,» mi dice Pratt. «Gli Irochesi l’avevano appresa da un esploratore esperto di filosofia ermetica.»

Finito il disegno, mi consegna il libro, mentre la mia faccia assume probabilmente le sembianze dello stoccafisso. La mia sorpresa infatti è grande. Da dieci anni porto al collo una medaglia con inciso lo stesso simbolo tratteggiato da Hugo. Non ci eravamo mai incontrati, prima. La mia camicia era chiusa e quindi non aveva alcuna possibilità di scorgere il mio portafortuna, dono di un vero e proprio sciamano napoletano che di mestiere fa il direttore di banca e nel tempo «perso» il sensitivo.

A questa «combinazione» hanno assistito l’operatore RAI, Paolo Mattei, redattore dell’«Avanti!» e Alessandro Rosati, programmista presso il DSE.

La Grande Madre — Dove si ipotizza che Giordano Bruno avesse il compito di fermare le guerre di religione per suggerimento di un misterioso gruppo di “illuminati”, che forse sono “neo gnostici”

«Insegnami, mio Dio e mio re
a scorgerti in tutte le cose;
e qualsiasi azione io compia
lo faccia per te.
Un uomo che guarda un vetro
può fissarvi sopra il suo sguardo
o, se vuole, può guardarvi attraverso
e scorgere allora il cielo.»

GEORGE HERBERT, riportato da FRANCES A. YATES, L’Illuminismo dei Rosacroce

 

 

Immaginiamoci una festa che non ha precedenti nella storia, con un’atmosfera da mille e una notte trasportata a Parigi.

Ci sono proprio tutti. Protestanti, ugonotti, cattolici e riformati di ogni tipo. Nobili di tutte le casate, da quelle terriere a quelle legate al commercio e ai traffici valutari. Militari di carriera provenienti da piccoli castelli di provincia e guerrieri avvezzi ai tornei. Letterati delle università di Parigi, Londra, Ginevra e Bologna. Messi del duca di Borgogna, della regina di Inghilterra e perfino del re di Spagna. Inoltre duecentomila persone si sono radunate intorno a casa Valois. È l’antico piacere dei poveri di veder godere i ricchi. Tripudiano osservando sfilare le carrozze e lanciano lunghe acclamazioni alle dame regalmente vestite, di cui avvertono il profumo degli abiti e della biancheria. Aspetteranno fino a tarda notte, quando dovrebbe giungere il loro momento. Infatti al termine del sontuoso banchetto, i servi porteranno loro gli avanzi. Sono in verità resti di cibo per modo di dire, perché gli invitati spilluzzicano e, anche calcolando la “cresta” dei maggiordomi, rimarrà pur sempre un ben di Dio, o meglio, di re. Un anno prima, in un’occasione meno importante di questa, è stato gettato dai balconi dei Navarra un bue intero seguito da cento cinghiali. Non erano stati neppure sfiorati dal coltello e quella cornucopia sarà forse superata da quella che si annuncia stanotte. Purtroppo, rimarranno delusi. E al momento sarebbero addirittura esterrefatti se potessero vedere quanto sta accadendo dentro il palazzo. Né carni, né pesci, né verdure, né pane. Solo note musicali.

Oltre mille musici sono nascosti ovunque, tra gli alberi dei giardini, dietro gli arazzi, tra i mobili e le colonne. Sono disposti sapientemente nei punti-chiave di risonanza degli archi e delle volte per centuplicare gli effetti delle armonie. In altrettante corrispondenze architettoniche si trovano attori pronti a declamare all’unisono dei versi.

È una notte dedicata esclusivamente alla poesia e alla musica. Una cosa mai successa prima a Parigi e men che meno alla corte del re.
Nessuno sa che cosa aspettarsi. Tranne ovviamente Enrico di Navarra, signore di Francia, e un italiano che insegna nella capitale francese filosofia e arte della memoria.
È un incantatore, dalla cultura smisurata, dall’intuizione fulminante e dallo sguardo magnetico. È entrato nelle grazie del re e del Delfino in modo tanto repentino quanto misterioso.
Questo italiano piccolo di statura e dai modi imperiosi osservava la fila degli invitati che sembra non esaurirsi mai.
A mezzanotte in punto il palazzo è pieno come un uovo. Lo straniero fa allora un cenno con il capo a Enrico di Navarra che a sua volta china leggermente il capo.
È il segnale.
Da ogni angolo dei numerosi ambienti fluiscono come per incanto note melodiose. Una cascata di armonie che si fonde mirabilmente con le voci di alcuni uomini che recitano versi con dolcezza inaudita. È un fiume di soavità che riempie uomini e cose. Quindi migliaia di fiori si staccano dai soffitti e scendono come una pioggia gentile. Profumi e suoni vincono lo stupore e penetrano anche nei cuori più riottosi. Sembra proprio un incanto.
L’italiano sorride. Sa perfettamente che questa armonia è soltanto fittizia. Ma gli rimane la soddisfazione di essere riuscito per una sola sera a far convivere in pace bigotti e fanatici di ogni specie.
È compiaciuto anche Enrico, padrone della Francia, ma succube delle rivalità religiose. Si rallegrano con lui anche tutte quelle persone – un’esigua minoranza – che vedono il pericolo che incombe sull’Europa. Temono spaventose guerre religiose che potrebbero spazzare via interi popoli. Potrebbe essere un’ecatombe senza precedenti. Gli oltranzisti delle varie religioni stanno radicalizzando le proprie posizioni e interi paesi rischiano di essere coinvolti in un conflitto immane.

Unico baluardo contro la catastrofe sono i pochi spiriti illuminati quali Enrico di Navarra, Elisabetta d’Inghilterra, alcuni filosofi e scienziati. Poi ci sono gli studiosi di ermetismo nascosti in giro per il mondo, attentissimi a non farsi riconoscere per paura delle persecuzioni. Hanno scelto una strada terribile, quella di ricercare l’armonia tra gli uomini gonfi d’odio. Non hanno interessi personali da difendere in questa battaglia impari. Anzi. Hanno tutto da perdere. Ma sembrano spinti da un’energia potente, quella della tolleranza, dell’accettazione del diverso, della ricerca dell’armonia interiore. Insomma, sono mossi dalla vampa del Femminile. Di tanto in tanto, tra le genti si trovano di questi “sapienti”.
In loro spira la forza della civiltà, che li spinge sopra ogni cosa a compiere il bene.
Con essi è il trionfo del sentimento e non del sentimentalismo, della fantasia e non della fantasticheria, della giustizia e non dell’egualitarismo ipocrita.
La storia non ha tramandato con precisione i nomi loro e delle associazioni di cui, di volta in volta, di anno in anno, di secolo in secolo, facevano parte. Si suppone che in Inghilterra fossero gli adepti della “Famiglia d’amore” e dei “Fedeli d’amore” in Francia e in Italia. Conosciamo i loro ideali. Possono essere accostati a quelli degli gnostici seppure con una più forte connotazione magica, alchemica ed ermetica. Credo siano all’opera ancora oggi: sono gli studiosi più illustri e capaci di chiarezza, facilmente riconoscibili in tutto il mondo come seguaci di questa linea di bene. Anche in Italia. E credo che bastino il loro comportamento e i loro scritti per identificarli e per suscitare la nostra gratitudine.

Tornando alla festa, l’italiano che si rallegra sinceramente dell’armonia momentanea è ovviamente Giordano Bruno, il nostro missionario della magia intesa come recupero della tolleranza perduta tra le religioni, tra uomo e natura, tra testi sacri e necessità di ricerca.

L’anno della festa è il 1581 e la città, come si è visto, è Parigi.
L’occasione del matrimonio del duca di Joyeuse è stata una delle poche opportunità che il filosofo italiano ha avuto per riunire i nobili di varie tendenze religiose. È riuscito a far udire loro versi pieni di riferimenti simbolici e musiche “tranquillizzanti”.
Oggi può sembrare davvero patetica la speranza di Bruno ed Enrico di mitigare gli odi con simili mezzi “aerei”. Ma non è così.
Intanto quei simboli vocali e musicali sono antichissimi. Provengono da tradizioni remote e servono da sempre a un unico scopo: permettere all’intelligenza delle persone di aprirsi allo spirito di pace e di conciliazione. Inoltre tutto questo corrisponde a una precisa ritualità misteriosofica. Basta riflettere un attimo sui tempi contemporanei per cogliere molte analogie con quel 1581.
L’inquinamento delle menti, l’egoismo del mercato, i fondamentalismi politici e religiosi, l’esclusione proterva dei più da un minimo di benessere e da un tenore di vita degno di un essere umano: queste tendenze sono caratteristiche sia di quella fine del Cinquecento come di questi nostri anni. In più noi abbiamo la devastazione della natura e degli antichi saperi, l’annullamento della donna in chiave anoressica e la conseguente derisione del Femminile. È vero che di tanto in tanto sembrano annunciarsi nuovi fermenti, ma occorre rimanere vigili affinché il maschilismo patriarcale non assuma sembianze proteiformi e assimili e deturpi commercialmente movimenti e pensieri neonati. La giustizia sociale sarà uno dei terreni di lotta in cui ci misureremo tutti. Il Femminile non esclude nessuno e soccorre ogni figlio, sia povero, sia debole, sia infelice.
No, certamente l’aria che spira per noi non è migliore di quella del 1581.
Comprendere il tentativo di persone come Bruno può essere straordinariamente utile. Né lui, né altri spiriti “gentili” sono riusciti e forse riusciranno mai a fermare il “temno”, come dicono in Boemia, l’onda dell’oscurità, ma comprendere le loro ragioni potrà contribuire a creare una luminosa corrente contraria che contrasti i futuri “cieli di morte”, per adoperare una delle parole di Alce Nero.
Alla fine del Cinquecento non si poté arrestare la tenebra e arrivò la spaventosa guerra dei trent’anni, che fu peggio di un conflitto nucleare. In Europa la popolazione si ridusse a un terzo. Alla fine dell’immane conflitto, i superstiti erano poco più di venti milioni. Un dato sconvolgente.
Questa è la segreta storia dell’Europa, negli anni compresi tra il 1580 e il 1620: un manipolo di donne e uomini, con lo spirito rivolto alla pace, fecero di tutto per arrestare le stragi che si annunciavano. Fu la sfida della cultura dell’accettazione e del rispetto delle diversità contro i fanatismi acritici che finirono per trionfare nella morte.
Ma torniamo ancora una volta a Bruno. Può trattenersi a Parigi soltanto due anni. Quindi lo ritroviamo a Londra con il consueto rituale di eccezionali accoglienze. Parallelamente però ci sono le ostilità dichiarate degli oltranzisti religiosi e dei “pedanti cercopitechi”, per usare una sua espressione. Costoro lo perseguiteranno fino alla morte.
A Londra il nolano diventa amico di Philip Sidney, il favorito della regina. È un nobile colto e disponibile, probabilmente membro dell’ordine “della Giarrettiera”, un’altra congregazione votata alla diffusione dei princìpi della filosofia ermetica. A un primo sguardo può sembrare uno dei tanti gruppi nobiliari con un rigido codice cavalleresco, mentre in realtà al suo interno si studiano e si diffondono idee che sono proprie della magia rinascimentale. Ricordiamole ancora una volta: libertà di culto religioso, libera circolazione delle idee, divinizzazione della natura, massimo rispetto per il corpo umano, possibilità di ricerca in ogni campo del sapere. Accanto a tali princìpi “essoterici”, ovvero manifesti, c’è la componente “esoterica”, quella segreta, ermeticamente “chiusa”. Qui occorre dire con chiarezza che la magia rinascimentale, fiancheggiatrice della cultura parallela del Femminile, credeva in una segretissima ritualità millenaria in grado di trasformare l’officiante in un essere di superiore intelligenza. Qualità che doveva essere messa sempre al servizio degli altri e mai per il proprio tornaconto. Sono princìpi dell’ermetismo di tutti i tempi. Ecco perché questa disciplina tutela la propria ritualità con alcuni “segreti” a cui si può accedere soltanto dopo aver praticato “un lavacro di se stessi”. Insomma nessuno avrà mai la chiave dei “misteri” se non percorrendo un lungo e difficile cammino per cancellare il proprio egoismo. Gli arcani, i segreti, si tutelano da soli, un cuore impuro non arriverà mai a dire, simbolicamente, “apriti sesamo”.

Il maestro di saggezza, anche volendo, non potrà mai trasmettere la propria conoscenza all’allievo impuro, semplicemente perché questi comunque non la capirebbe e non potrebbe “sfruttarla” a proprio vantaggio. Tutto quello che può fare il sapiente è lasciare qualche segno sulla tela, qualche spunto e suggerimento. Frasi, parole, disegni e musiche sono gli elementi che per analogia possono consentire l’accesso alla comprensione del grande mistero dell’uno e dell’armonia. E anche quando un maestro lascia “verità nascoste in evidenza”, per parafrasare Zolla, queste risulteranno incomprensibili alle persone “di tenebra”. Occorre sempre tenere bene a mente che la magia e la ritualità connessa sono comunque discipline pratiche, il cui terreno di applicazione è il “sé interiore”.
Bruno scrive numerose opere a Londra. Lascia dei “segni”.
Compone tutti i dialoghi italiani e stabilisce continui, utili contatti per far germogliare il seme della tolleranza.
È molto probabile, come abbiamo già visto, che abbia incontrato Shakespeare. E sono ormai in molti a credere che il mutamento dei contenuti delle opere del drammaturgo, a partire dal 1583, sia dovuto proprio ai contatti con il filosofo.
L’italiano è in continuo rapporto con il cenacolo culturale vicino alla regina Elisabetta e a Sidney. Bruno imprime in questo mondo il suo estremismo magico. Londra diventa la capitale più aperta d’Europa, la città dove convergono gli intellettuali più illuminati.
Siamo ormai al 1585 e Bruno non può prevedere cosa accadrà nel 1618, inizio della guerra trentennale, ma teme il peggio. Agisce e scrive di continuo e riprende i viaggi lasciando la sicura Inghilterra, da dove nessuno l’ha cacciato. È una specie di apostolo, deve far germogliare i buoni fiori dell’ermetismo magico. A Londra ha fatto un ottimo lavoro. I suoi libri circolano dappertutto. Grazie alla sua opera, Federico V, di cui abbiamo già parlato, potrà trasformare per sette anni il Palatinato nel regno della ricerca e della tolleranza.
Il filosofo ritorna per breve tempo a Parigi, poi giunse a Praga e qui gli arriva l’invito del Mocenigo. Cade nella trappola e si reca a Venezia. Sarà consegnato all’Inquisizione.
In molti hanno descritto il processo e gli atti, almeno quelli conosciuti, ed è inutile soffermarcisi. Per noi è importante che Bruno non abbia ceduto. Non rinnegherà mai le proprie idee. Eppure è sempre stato cosciente delle conseguenze di quell’ostinazione e sa che l’aspetta il rogo. Ma evidentemente ha voluto fare della sua vita un esempio.

E quel rogo del 17 febbraio arde ancora in molte coscienze.

La Grande Madre — Dove si racconta di alcuni incontri con Elémire Zolla e con Giorgio Colli e dove tornano i “segni”

«Chiunque berrà a questa coppa sarà immediatamente assalito dal desiderio di Afrodite dalla splendida ghirlanda.»

O. MURRAY, La Grecia delle origini.

 

Sono sempre stato un lettore di Zolla e per anni ho sperato di conoscerlo. L’occasione si presentò nel 1977. In quegli anni ero responsabile delle trasmissioni radiofoniche del DSE diretto da Luciano Rispoli con la collaborazione di Enrico Gabutti, incarico che, grazie alla loro fiducia, potevo svolgere in massima autonomia. Con me lavorava Laura Fortini che, con una semplice telefonata, mi mise in contatto con il filosofo. In un minuto presi accordi per una serie di conversazioni radiofoniche sull’alchimia.
Zolla, la cui fama era già riconosciuta nel mondo, accettò senza remore di legare il suo nome a una serie di trasmissioni dirette da un giovane programmista quale ero io all’epoca. Devo dire con obiettività che questa è una caratteristica dei grandi pensatori. Non credono mai che qualcosa possa sminuirli. Si preoccupano soltanto di aver modo di esprimere compiutamente il proprio pensiero.
Mentre, settimana dopo settimana, realizzavamo il programma in diretta telefonica, decisi di andare a trovarlo. Detto, fatto.
Mi recai quindi nella sua abitazione di allora, sull’Aventino a Roma. Stava al piano terra di un albergo. Desidero raccontare di questo incontro con una persona eccezionale, in ogni senso, soltanto un piccolo episodio. Apparentemente piccolo.
Le stanze che occupava pullulavano di gatti. A un certo punto non si trovava più una chiave. Allora, mentre i felini vagavano dappertutto, tra i libri, sul tavolo, sul letto, sulle mensole, sulle sedie e tra le nostre gambe, disse con la massima naturalezza a una micetta: «Mi aiuti a trovarla?». Pochi secondi dopo la creaturina cominciò a giocherellare con un foglio sul tavolo di lavoro del professore. E lui, subito: «Oh, grazie. Alzò la carte e sotto c’era la chiave.
Semplicissimo.
Non era l’animale ad aver “trovato” l’oggetto. Era stato Zolla a leggere il “segno” della zampetta giocosa.
Non desidero aggiungere altro: i suoi libri parlano di questo uomo di conoscenza. Basta leggerli. Magari anche “attraverso”, e tutta la simbologia sul telaio del Femminile l’ho tratta da lui e va letta come una citazione, un omaggio alla sua sapienza.

 

In quello stesso anno ho incontrato un altro filosofo, Giorgio Colli, e anche con lui ho realizzato una serie di conversazioni radiofoniche sul tema della sapienza greca. Per Colli doveva essere collocata non da Socrate in poi, come comunemente veniva fatto, ma da Socrate andando indietro nel tempo. Insomma, la sapienza era di quelli che non scrivevano o quasi. Per comprendere il suo pensiero basta leggere La nascita della filosofia e anche La sapienza greca.
Ho cominciato ad ammirarlo leggendo il primo dei suoi testi che ho appena citato. L’avevo con me mentre mi trovavo a Visso, un paese del centro Italia coperto dalla neve. Ero lì per una breve vacanza a casa di un giovane valentissimo, Roberto Nardi. Dopo averne divorato le pagine, come preso da un impulso irresistibile, ero uscito fuori nella neve. Avevo vagato per ore nella campagna a ripensare a quanto avevo appena letto. Mi sentivo a casa. Il Dioniso dio dell’estasi, descritto da Colli, mi aveva fatto toccare un mondo che sentivo mio e che non ero riuscito fino ad allora a identificare pienamente. Erano ormai quasi dieci anni che frequentavo intellettualmente la magia e l’ermetismo, ma mi mancava l’aggancio con la profondità dei misteri eleusini, con quella abissalità del Dioniso del cuore che Colli mi aveva restituito in assoluta pienezza.
Ero tornato a casa bagnato fino al midollo ma con una certezza. Dovevo conoscere quell’autore. Anche in questo caso fu facilissimo. Una semplice telefonata. Fu ancora la brava Fortini a farmi da tramite.
Il filosofo abitava sulle colline sopra Firenze, in una casa rinascimentale dove il genio di quest’uomo, mi piace pensarlo, trovava l’ambiente ideale per i suoi studi. Anche per Colli non credo sia giusto dare definizioni, è uno di quegli intelletti universali che si comprendono soltanto leggendo e rileggendo le loro opere. Basti dire che di fatto ha rivoluzionato il nostro modo di concepire la filosofia greca. Inoltre ha consentito il riaprirsi della conoscenza nei confronti di Nietzsche, curando con Mazzino Montinari l’edizione organica della sua opera in anni in cui una certa pruriginosità ne vietava addirittura la pubblicazione nel nostro paese.
Quando me lo trovai davanti provai una profonda felicità. Avrei voluto sommergerlo di complimenti, ma invece non dissi nulla. Parlammo esclusivamente dei contenuti della trasmissione radiofonica che avremmo registrato, in varie fasi, nella sua abitazione. In uno di questi appuntamenti mi scrisse una dedica su uno dei suoi volumi, il primo dedicato a La sapienza greca. “All’alunno dei misteri”, queste le sue parole per me. È una delle cose che ho più care.
Purtroppo Colli morì poco tempo dopo e non poté concludere il suo lavoro dedicato alla sapienza greca, il terzo volume infatti è stato curato da uno dei figli. Anche il ciclo delle conversazioni per la radio rimase a metà, ma ebbe comunque un grande successo di pubblico.
La notizia della sua morte me la diede un mio studente, Paolo Fiocca, a sua volta morto prematuramente. Provai un dolore acutissimo. E ancora adesso sento il vuoto che ha lasciato. Magari non avrei avuto altre opportunità di frequentarlo, ma mi sarebbe stato sufficiente il suo lavoro. Una perdita davvero enorme per la cultura italiana.
Ebbi occasione, in compenso, di frequentare per un periodo di tempo suo figlio Marco, che un giorno, in treno, mi confidò una cosa bellissima. Gli avevo chiesto se il padre gli mancasse. Non mi sentii indelicato nel chiedergli una cosa simile, perché la sua assenza pesava anche sulla mia vita e in nome dell’affetto mi sentivo autorizzato a porgli quella domanda. Mi rispose che «Essergli stato vicino era come aver avuto modo di frequentare Spinoza», un altro grande filosofo che sostiene che tutto quello che conduce all’uno è bene e quello che allontana dall’uno è “non bene”. Poi mi raccontò un episodio della sua vita di ragazzo, con il padre.
Giorgio Colli usava fare apparecchiare la tavola, oltre che per sé e per i suoi familiari, anche per Platone e Aristotele.
Ecco, credo che questo sia il miglior aneddoto per ricordare questo studioso. Il mondo greco era presente in lui senza separazioni temporali.
C’è di più. In questo che sembra un piccolo vezzo, si vede tutto un universo, dove passato e presente coesistono e dove le intelligenze legate ad altri tempi interagiscono con il tessuto vivente in una armoniosa unitarietà.
Se Colli in qualche modo “viveva” con Platone e Aristotele, devo dire che io, nel mio piccolo, non ho mai smesso di vivere con lui, tanto è presente in me il suo ricordo.
Se le idee di Platone sono reali, come credo, spero un tempo di potermi riavvicinare, con umiltà, alla sua e a quella di persone come lui.
Amo pensare che non si tratti soltanto di una speranza.

Dove si assiste alla grande festa per la nomina di Enrico a principe di Galles…

È la sera del 4 giugno del 1610. Mezzo milione di persone sono raccolte festanti intorno al palazzo reale. Hanno il naso all’insù. Aspettano i fuochi di artificio. I migliori esperti del regno sono stati chiamati in gran segreto per preparare luminarie senza precedenti. Mai nella storia inglese una folla così imponente si è radunata per l’annuncio di uno sposalizio. E un vociare continuo, un rincorrersi di grida e di aspettative. L’attesa è quasi spasmodica. Le prime persone sono convenute nella piazza la sera del giorno prima. Ottimi affari hanno fatto i venditori di cibi, di dolciumi e gli spacciatori di pozioni di tutti i tipi. Penny e sterline rigonfiano in particolar modo le tasche dei mercanti di unguenti per la ricrescita dei capelli. Sono infatti cinque anni che le terre degli inglesi sono povere di ortaggi per i ripetuti rovesci atmosferici nel momento della raccolta della frutta. La pellagra divampa, come lo scorbuto, che causa una terribile irritazione del cuoio capelluto dovuta alla carenza vitaminica. Forse sarà anche per questo che il principe Enrico è tanto ammirato dalle donne: ha una chioma fluente che arricchisce il suo fascino.
Ma non è soltanto il sesso femminile ad ammirare il figlio di re Giacomo. Tutti lo ammirano. È forte, è deciso ed è soprattutto generoso. Dall’età di dodici anni si occupa dei problemi della sua gente e le sue passeggiate tra il popolo sono una vera e propria leggenda. Per questo ci sono cinquecentomila persone ad aspettare che sia proclamato principe del Galles. Non c’è un solo suddito inglese che non speri in lui. Tutti lo ritengono capace di rinverdire i fasti della grande Elisabetta I. Di più, potrà far prosperare tutto il paese e anche i popoli alleati. Sarà lo scudo contro la prepotenza degli Asburgo. Come un san Giorgio difenderà inoltre il suo paese dalla guerra di religione che sta diventando sempre più probabile, e questa è sicuramente la più vivida delle speranze che gonfia i cuori degli inglesi. Cuori che esultano non appena nel cielo avvampano le luminarie che assumono le sembianze proprio di un san Giorgio a cavallo. Il beato guerriero rimane nel cielo per attimi che sembrano interminabili, poi altri filamenti luminosi compongono la sagoma di un possente signore che ha delle stelle al posto delle mani, un philaster, un amante degli astri. Mentre i fuochi divampano in cielo una musica soave si diffonde, inducendo gli animi alla commozione. Quando la notte torna sovrana sulla piazza, un possente grido di giubilo irrompe per la città, sale per ogni dove, riempie ogni strada e palazzo, sfonda simbolicamente le porte della reggia e inonda le orecchie di Enrico spingendolo ad affacciarsi.
Non appena la folla lo vede ammutolisce per alcuni secondi, quindi ancora un potentissimo «hurrà!» che sembra provenire dai sentimenti profondi, dall’anima più che dalle bocche. Non basta. Si alza ancora un grido corale: «Lunga vita al principe di Galles!». Inneggiano a lui come se fosse già re. Non era mai accaduto prima e non si ripeterà nei secoli a venire. E la testimonianza visibile dell’immensa fiducia riposta in questo giovane che deve compiere il miracolo di allontanare la falce del conflitto di religione dall’Inghilterra e dall’Europa.

Come si è detto è il giugno del 1610, e due anni e quattro mesi dopo le attese di un intero popolo si rafforzano maggiormente quando sbarca a Grevesend Federico V, elettore del Palatinato. Alto, con lo sguardo penetrante, è gentile e affabile con gli umili. Sembra nei modi il sosia di Enrico. Ed è il promesso sposo di Elisabetta.
Un’unione benedetta da tutte le menti aperte del regno inglese e da quelle corti europee che desiderano fermare i conflitti di religione. E come se non bastasse, Federico ed Elisabetta si sono amati al primo sguardo. Eros, il padre di tutti gli dèi, ha colpito a fondo. L’uno sembra il completamento dell’altra. Si compenetrano e si comprendono perfettamente. Inoltre Enrico va d’accordo sul piano politico, ideale e filosofico con il futuro cognato. Hanno letto gli stessi libri, hanno le stesse speranze e nutrono una passione viscerale per l’occultismo, per la cabala e per le scienze esoteriche, come ha dimostrato sempre la Yates nel suo Cabala e occultismo nell’età elisabettiana.
È tutto così perfetto da sembrare una favola. Una situazione da arcadia tra fratello, sorella e innamorato. Non si tratta affatto di un vagheggiamento poetico, ma di una concreta combinazione che avviene nella libera Inghilterra, dove per una volta i sogni sembrano avverarsi.
Per trenta giorni si fanno i preparativi delle nozze. Dovrà essere una festa senza eguali. E proprio durante i preparativi i due promessi assistono ad alcune rappresentazioni teatrali. Sono stati Enrico, Federico ed Elisabetta à volere che fossero messe in scena due opere di un commediografo molto amato da Elisabetta I, ma adesso caduto in disgrazia sono il regno di Giacomo. Si tratta di William Shakespeare.
Le due opere sono Il racconto d’inverno e La tempesta.

Fermiamoci: è ora di leggere “attraverso” gli avvenimenti.
Iniziamo dalle due composizioni shakespeariane. Insieme con Cimbelino sono le opere a carattere magico del drammaturgo. Queste in particolare sono state create per riproporre incessantemente il tema della morte e della resurrezione. Ovvero morte a sé per tornare a sé. Una parte di noi stessi deve morire per far resuscitare una componente obliata, ma importante, che deve appunto risorgere, rinascere. È il rituale simbolico, sopravvissuto nei secoli, di Iside e Osiride. E Iside è la divinità femminile per eccellenza. Dunque i principi assistono a due commedie “magiche”, fortemente influenzate dal pensiero del maggior mago rinascimentale, Giordano Bruno. Con loro sono presenti tutti gli esponenti del cenacolo ermerico-magico di Elisabetta I e anche Francesco Bacone, il fondatore del metodo scientifico moderno.
Attenzione, i personaggi ci sono tutti. E c’è un filo unico a legare sottilmente la trama occulta: il teatro.
A uno sguardo attento lo troviamo ovunque.
Dunque i tre principi vanno a teatro e a teatro si rappresentano due commedie magiche. Tra gli altri è presente Francesco Bacone. Filosofo importantissimo.
Infatti in una sua opera, Nova Atlantis, veste i sapienti-filosofi con abiti bianchi e con un turbante bianco sormontato da un rubino. Si direbbero abiti di scena. Ma il movimento rosacrociano, che si farà riconoscere pochissimi anni dopo, afferma che gli adepti di questo gruppo devono vestire con abiti bianchi e portare un turbante sormontato da un rubino. Esattamente come i sapienti di Bacone. Questi dice che i sapienti sono in realtà i Rosacroce, basta saperli vedere. E qui è il difficile, perché i Rosacroce sono definiti e si autodefiniscono invisibili. Non scopribili appunto per nessuno tranne per chi riesce a individuarli attraverso le segrete trame, o meglio le “oscure trame” per parafrasare il titolo di un libro di Pietro Cimatti che tante cose, a questo riguardo, aveva ben individuato. Noi stiamo facendo questo, li stiamo “individuando”. Perché tutta questa vicenda verte su di un asse trasversale: il movimento dei Rosacroce e il particolare linguaggio della Yates vuole, a mio modesto giudizio, mettere sulle tracce di questo movimento.

Ritorniamo a Bacone che fa vestire i suoi sapienti come attori di teatro.
I Rosacroce, nei loro manifesti la Fama e la Confessio dicono a loro volta di vestirsi come i sapienti di Bacone, ovvero come attori di teatro.
Tutti i grandi misteri e relativi riti prevedono che l’iniziato diventi un attore, interpreti il dio che è in lui, sia questi Dioniso, il dio delle donne, o Iside stessa.
L’officiante della magia è da sempre un sacro attore.
Il teatro, in senso sacrale, unisce i maghi rinascimentali: Giordano Bruno, con la regina Elisabetta, con Federico V, con la sua promessa sposa Elisabetta, con Shakespeare, con Francesco Bacone e quindi finalmente con i Rosacroce.
È importante questo passaggio: Bacone filosofo stimatissimo e fondatore della Accademia reale delle scienze, quando descrive i sapienti abbigliati come i Rosacroce, compie un’operazione rischiosa. La magia è sempre al bando in Europa. Quindi per esporsi deve innanzitutto credere fermamente in quello che fa, come in una missione, e deve avere inoltre un motivo più che valido. Adesso ci è utilissimo leggere quello che oggi afferma Elémire Zolla a proposito dell’ornamento, ovvero degli abiti: «L’ornamento era nella concezione arcaica non un’aggiunta frivola, ma un intervento magico… L’ornato investe di certi poteri chi lo indossa…». L’abito in questione, che dà poteri magici, è comune sia ai sapienti descritti da Bacone sia ai Rosacroce. Citare a questo punto gli uni vuol dire anche “evocare” gli altri. Sapienti=Rosacroce. Perciò la sapienza è dei Rosacroce. Ma Bacone è anche amico intimo di Shakespeare e si dice che abbia persino aiutato il drammaturgo nella scrittura o sia stato un suo ispiratore. Altri affermano persino che siano la stessa persona, cosa a cui non credo minimamente, ma di sicuro sono affini e amici “fraterni”. Quindi c’è un legame, traslato, anche tra i Rosacroce e Shakespeare. Il nesso è appunto Bacone che, per chiamare in causa in modo così esplicito il movimento, doveva aver ricevuto l’incarico di farlo o, più probabile, doveva aver concordato la strategia generale di propaganda della loro fede, a cui evidentemente aderiva nel profondo del proprio Io. In ogni caso Bacone è il legame tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce, gli “invisibili”.
Costoro invece, in base a quanto abbiamo trovato, diventano adesso visibili ai nostri occhi, sia mediante il filosofo e sia grazie alla stessa Yates. Abbiamo infatti capito che erano tutti coinvolti. Da Federico V a Elisabetta I a Elisabetta figlia di Giacomo a Enrico il principe sfortunato, vedremo tra poco il perché di questa sfortuna. Ma in particolar modo sono legati con i Rosacroce, che vestono come i sapienti e i sapienti vestono come loro, e che si definiscono anche “attori”, come quelli appunto che rappresentano La tempesta e Il racconto d’inverno. Ma quelli lo fanno “per mestiere”. Attenzione, è questo il punto. I filosofi-saggi di Bacone vestono “per mestiere” come i Rosacroce. E questi sempre “per mestiere” si dichiarano invisibili, ovvero assumono mille abiti e mille maschere per rendersi irriconoscibili nella vita civile. E chi veste mille abiti? Sempre gli attori che assumono appunto, per mestiere, mille facce. Come i Rosacroce. E come l’uroburo, il serpente che si morde la coda. C’è un aggancio preciso tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce. E questo che la Yates voleva dire tra le righe, tra i fili del suo discorso: fili=tela=telaio=cerimonia magica.
Tutti i protagonisti di questa immensa “scena” seicentesca praticano e diffondono la magia. E la Yates con le sue parole-angeli, invia a sua volta un messaggio a carattere magico.
La storia continua anche oggi. Anche oggi ci sono le trame magiche, le trame invisibili. Che invece adesso abbiamo per un momento reso manifeste sulla grande tela che dal Rinascimento, passando avanti e indietro attraverso i secoli, è giunta fino a noi.

La storia ci dice che Enrico, il principe del Galles, si ammala di un morbo misterioso e che muore di febbri, da cui la frase della Yates che ci ha consentito di far luce su tutto il disegno “ornato” (a proposito vedi l’articolo La Grande Madre – Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce). Sempre la storia testimonia che Federico V e Elisabetta si sposano ugualmente e si stabiliscono nel Palatinato dove per sette anni concretizzano il regno del Femminile in terra. E sempre la storia ufficiale ci dice che al loro seguito ci sono stampatori che anche prima di lavorare con loro avevano già pubblicato opere di carattere magico, come quelle di Giordano Bruno, e che intensificano nel Palatinato questa loro attività, finalmente allo scoperto. Non a caso si pubblicano anche Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, ovvero le nozze dei Rosacroce. Ancora quei fili misteriosi che potremmo continuare a riannodare all’infinito e come faremo in seguito. Ma ora è importante sottolineare una cosa. A quel tempo dunque c’erano degli editori che pubblicavano, più o meno segretamente (invisibilmente?) testi magici. E cosa accade ai giorni nostri? Non è importante rispondere subito, domandiamoci invece perché Elémire Zolla si dichiari neognostico. E perché intellettuali e case editrici che ancora oggi si occupano di divulgare opere “magiche” incorrano tanto spesso in ostracismo diffuso proprio come capitava allora, fatta eccezione per il regno settennale di Federico ed Elisabetta.
Niente di nuovo sotto il sole, direbbe Giordano Bruno.
Iside continua imperterrita il suo cammino verso il trionfo del Femminile.

La Grande Madre — Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce

Heidelberg appare sul fiume Neckar nel Baden-Württemberg, il celebre Palatinato. “Appare”, sì, perché è come un’epifania, al di là del corso d’acqua con il centro storico che inizia dal ponte vecchio e termina nei boschi, nei giardini alla fine dell’abitato. Sulla destra, per chi guarda da fuori del paese, c’è il castello con il palazzo di Federico e tutt’intorno la natura che entra ancora oggi nelle case e nei palazzi come un unico tessuto vivente. Heidelberg è un corpo unico, anzi, è materia vivente. Da qui la sua malia che terrorizzò Heinrich Böll, visitato da incubi cattolici. In un suo racconto tutti rimproverano al giovane protagonista: «Vai troppo spesso a Heidelberg». Glielo dicono la fidanzata, i genitori e i professori, ovvero tutte le forze che simbolicamente “costringono” la vita di un giovane borghese in un ambito di “correttezza”, cioè di prigionia dorata. In verità le persone retrive provano una spontanea repulsione per questo luogo. Non fa per loro. È come uno di quei miti, di cui parla Hillman, circondati da un’aura energetica invisibile che allontana le anime brute. La città di Federico ed Elisabetta è stata concepita e voluta come il paradiso in Terra, come luogo ideale, un po’ come Pienza di papa Enea Silvio Piccolomini, solo molto più in grande. E un microcosmo che rappresenta l’infinita armonia dell’universo. Il castello, eretto sul luogo dove viveva Jetta, la maga più celebre di Germania, è la testa pensante. Il paese è il corpo armonioso e i giardini sono le terminazioni nervose, le vene, le arterie e i sentimenti. Questi sono meglio noti come l’Hortus Palatinus, e furono commissionati dallo stesso Federico V all’architetto e alchimista francese Salomon de Caus, che ha realizzato un miracolo di proporzioni e di dolcezza distribuito su cinque terrazze collegate da numerose scale e fontane. Una sensazione di benessere pervade chiunque li attraversi. E pensare che quello che è rimasto è nulla rispetto al progetto originale. Immaginiamoci il suo splendore all’epoca di Federico ed Elisabetta. I due sposi giunsero nella città nel 1613 e trasformarono il borgo fortificato in uno scrigno tardo rinascimentale. Via bastioni, merlature, garitte e trincee inutili. Al loro posto costruzioni che ripetevano in Terra il periodare eterno delle stelle. Così nacque il Friedrichsbau, la dimora di Federico che si affaccia nello stesso cortile dove c’è l’Ottheinrichsbau, forse il palazzo rinascimentale più completo, in senso ermetico, dell’intera germanità. Un intreccio di mitologia e concezioni filosofico-ermetiche che proietta il visitatore in una dimensione di riflessione tutta interiore. L’esterno porta all’interno. Conduce nei giardini dell’anima e in questo stato psicologico può accadere di tutto. Successe così anche a me.
Provenivo dall’Hortus, dove ciò che avevo osservato era coniugato con quanto avevo letto sul primitivo splendore del giardino, mirabilmente descritto da Frances Yates nel suo L’Illuminismo dei Rosacroce. Tra le siepi vedevo con l’immaginazione le statue che cantavano e le fontane che cambiavano colore secondo il progredire delle costellazioni zodiacali. Così mi figuravo la vita della città ideale dove arte, filosofia ed ermetismo si intrecciavano come in una sublime partitura musicale. Imbevuto di sogni avevo imboccato il sottopassaggio che si incuneava tra le torri “delle polveri” e “del farmacista” ed ero sbucato davanti ai resti del palazzo di Federico, deturpato da un incendio appiccato dagli sgherri degli eserciti cattolici dopo che ebbero conquistato la città nel 1620. Ma forse le rovine erano ancora più suggestive. Il non visto mi suscitava fantasie rutilanti e improvvisamente mi venne in mente una frase che avevo letto in un altro testo della Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare. La studiosa, parlando della morte di Enrico, il fratello di Elisabetta, aveva scritto testualmente: «Il 17 novembre 1612, appena un mese dopo l’arrivo [a Londra] dell’elettore palatino, il principe Enrico moriva a diciannove anni. L’elettore aveva circa la stessa età, la principessa Elisabetta era minore di poco. Il gruppo dei giovani, la speranza del futuro, aveva ricevuto un colpo schiacciante. Il loro più forte campione era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». Apparentemente nulla di strano in queste parole. Eppure in me provocarono una folgorazione.
Ecco perché.
«…era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». La Yates, studiosa di rigore, attentissima a ogni parola, adoperava una terminologia teatrale: “palcoscenico”… “recitato la sua parte”. Perché improvvisamente e volontariamente usava queste parole “fuori luogo”? Mi sovvenne anche una affermazione di James Hillman relativa proprio alle parole riportate nei Fuochi blu. Lo psicanalista scrive: «Abbiamo bisogno di una nuova angelogia delle parole… Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di un’anima tra una persona e l’altra. Abbiamo bisogno di ricordare che le parole non sono solo qualcosa che noi inventiamo o impariamo a scuola… le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile… perché le parole sono persone». Le parole-persone della Yates rimandavano al teatro. Questo era il messaggio nascosto della Yates, questi erano e sono gli angeli che la studiosa di filosofia ermetica ha occultamente mandato attraverso il suo libro. Mai prima di quel momento, in tutti i suoi scritti, si era servita di termini teatrali; se l’aveva fatto in questo preciso contesto, continuavo a rimuginare freneticamente, doveva avere un senso e volevo scoprirlo. Bisognava capire il perché di questo messaggio inviato nella “bottiglia” del libro. E mi vennero in mente alcune connessioni. Elisabetta e Federico, prima e dopo la morte del principe Enrico, furono in contatto con Shakespeare, uomo di teatro e inoltre i Rosacroce nei loro “manifesti”, la Fama e la Confessio, definiscono se stessi “teatranti”.
Una folgorazione dentro la folgorazione. Erano in tre a usare termini teatrali: Shakespeare, e fin qui nulla di strano, quindi i Rosacroce, e poi, in maniera alquanto sconcertante, la Yates nella descrizione di Enrico morente e del dolore di Federico ed Elisabetta.
La Yates non era certo tipo da usare le parole a caso e impunemente. Quindi voleva che qualcuno – e chissà in quanti l’hanno fatto al mondo e non dicono nulla – collegasse appunto Federico, sua moglie Elisabetta con Shakespeare è tutti loro con i Rosacroce. Il punto era capire il perché di questa arcana trama che la ricercatrice inglese aveva gettato nel suo libro. Esattamente come un ricamo invisibile tracciato “con sapienza” sulla stoffa del suo telaio Femminile.
Ho esaminato con molta attenzione la questione, e adesso propongo di seguire il filo che ho individuato nella tela della Yates per capire, o solo per tentare di capire, l’enigma gettato da lei come una sibilla “mascelle feroci”, che appunto non dice, come afferma Giorgio Colli, ma accenna appena. Occorre ripartire da quegli anni lontani, dal 1613. Dallo sfondo umbratile dove compaiono i personaggi che erano presenti alle nozze dell’elettore del Palatinato con la figlia del re di Inghilterra e che furono loro vicini nei sette anni, dal 1613 al 1620, in cui trasformarono Heidelberg nella città degli incantesimi e della speranza.
La vollero paese-crogiuolo dove ermetismo, filosofia, scienza, natura, riti e simboli indicassero ossessivamente, per tutto il tempo che ne ebbero il potere, lo stesso concetto e utopia: questo è il regno dell’accoglienza, dell’accettazione, dell’immaginario, della tolleranza. Questo è il regno del Femminile.
Ma nel frattempo sarebbe lecito domandarsi: se Federico ed Elisabetta sono stati così espliciti, ed erano tempi difficili, perché non lo è stata altrettanto la Yates?
I due giovani sposi avevano il potere. Mentre le donne, da sempre, sono costrette a nascondersi per affermare il loro mondo. Devono abbindolare e tessere in segreto. Altrimenti arrivano “i padri” supponenti che deridono e, deridendo, distruggono. La Yates si è “protetta”, ma non ha rinunciato ad “accennare”. Dobbiamo imparare a leggerne la trama.

Intervista a Gabriele La Porta – Inconscio e Magia

Il mio ultimo testo si intitola “Dizionario dell’Inconscio e della Magia“. Entrambi, l’Inconscio e la Magia, hanno lo stesso serbatoio, ed è la profondità di Anima. Inconscio è uno dei modi in cui si chiama Anima. La Magia, che sarebbe la filosofia ermetica, e l’Inconscio condividono come un lago oscuro che è dentro ciascuno di noi. Quel lago oscuro è la nostra parte inconsapevole. L’Inconscio custodisce questo lago.

L’Inconscio e la Magia hanno in comune, inoltre, l’interiorità dell’uomo e della Donna. L’Inconscio è il contenitore, la Magia è lo strumento che studia il contenitore. L’Inconscio contiene tutti i nostri complessi, tutti i motivi irrisolti, ma anche tutta una simbologia profonda che dall’Inconscio affiora verso la parte cosciente, il Conscio. La Magia è la filosofia ermetica: decodifica i simboli. Ovverosia è lo strumento con il quale noi riusciamo a guardare i simboli che dalla nostra parte non cosciente, non consapevole entrano nella nostra sfera consapevole, mediante i sogni. Perché i sogni sono il veicolo. La filosofia ermetica vede quei simboli, li studia e dà loro significato. La filosofia junghiana, da qui l’incrocio, ha fatto di se stessa la disciplina che studia e approfondisce simboli e archetipi. Gli archetipi sono simboli ancora più potenti: prima c’è lo sfondo dell’archetipo e dagli archetipi poi nascono come figli i simboli. La Magia è lo strumento che guardando affiorare nei sogni di tutto questo riesce a dare un significato razionale e una logica che noi possiamo comprendere. L’uno non può fare a meno dell’altro. L’Inconscio è indispensabile alla Magia e viceversa. Questo dizionario vuole essere uno strumento utile per chi voglia approfondire la propria parte nascosta.