Filosofia e Sapienza: Le radici del platonismo

In genere, la storiografia moderna e contemporanea interpreta la filosofia greco-italica basandosi sui pregiudizi evoluzionistici correnti, ormai divenuti una specie di norma inappellabile, senza considerare minimamente il punto di vista degli antichi.

Che cosa pensavano della nascita della filosofia i suoi maggiori esponenti? Quali furono i rapporti con le epoche precedenti? Per rispondere, niente di meglio dell’autorevole testimonianza di Platone.

«Si dice che Pitagora sia stato il primo a chiamare se stesso filosofo, non limitandosi a introdurre questo nuovo nome, ma spiegandone l’effettivo significato […]. La Sapienza è un reale sapere intorno al Bello, al Primo e al Divino sempre identici a se stessi, di cui le altre cose partecipano. La filosofia è invece desiderio di siffatta contemplazione speculativa. Bello è pertanto anche questo sforzo interiore di formazione spirituale, che per Pitagora contribuisce all’emendazione degli uomini»1.

La definizione riportata da Giamblico a proposito di Pitagora, può ben applicarsi anche al pensiero di Platone, il quale nelle sue opere mostra di condividere il modo pitagorico di intendere il rapporto Filosofia-Sapienza. I numerosi riferimenti presenti nei Dialoghi alludono ad una Sapienza arcaica, originaria, che sarebbe compito delta filosofia riscoprire e far rivivere. Non a caso, Platone parla degli “antichi, che erano più valenti di noi e vivevano più vicino agli dei”2, aggiunge inoltre che essi ci hanno tramandato la rivelazione secondo cui ogni cosa porta in sé connaturato illimite e limite: si tratta di un aspetto della dottrina tradizionale dell’integrazione degli opposti, di cui si dovrà parlare in un’altra occasione. Qui basterà ricordare che l’esemplificazione particolarmente significativa fornita nel Filebo chiarisce che tale importante dottrina, essendo stata tramandata, non può essere un prodotto della filosofia greca, la quale si limita a raccogliere e rivalutare un insegnamento ben noto a coloro che dimoravano nei pressi degli dei.
Si potrebbero proporre molti altri esempi del genere, i quali abbondano nelle opere platoniche, e a volerlo fare non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per il momento ci limiteremo a richiamare quanto si dice nel Timeo (III, 22 B):

«Ma uno di quei sacerdoti, che era molto vecchio, disse: o Solone, voi greci siete sempre dei fanciulli, e un greco vecchio non esiste. […] Voi siete tutti giovani d’anima, perché in essa non avete riposto nessun insegnamento di antica tradizione, nessun insegnamento canuto per l’età”.

Qui si narra che il grande Solone abbia incontrato i sacerdoti egizi di Sais, e abbia riconosciuto la loro superiorità spirituale, sottolineata da uno di quei sacerdoti stessi, il quale contrappone l’insegnamento tradizionale all’anima greca, giovane e inesperta se confrontata con quella egizia, saggia e matura. Il brano è interessante perché, oltre a confermare quanto abbiamo sostenuto in precedenza, indica esplicitamente l’Egitto come culla della Sapienza, considerazione questa che può avvalorare la discussa ipotesi del viaggio di Platone in Egitto, notizia per altro riportata senza alcuna esitazione da Diogene Laerzio nel III libro delle Vite dei filosofi.
In ogni caso è fuor di dubbio il prestigio riconosciuto all’antica cultura egizia, riconoscimento questo del tutto normale nelle scuole gravitanti nell’orbita pitagorica, dato che Pitagora stesso avrebbe appreso le dottrine esoteriche soprattutto nel corso dell’iniziazione presso i sacerdoti egizi.

Tale supremazia viene attestala anche nell’Epinomide, dove si ricordano Egitto e Siria come esempi di civiltà superiori, che seppero fondare la loro vita su una adeguata visione dei fenomeni cosmici,

«ed è da quei paesi che tali osservazioni si sono poi diffuse ovunque, anche qui, dopo un’infinita serie di anni”3.

Qui si fa notare, ancora una volta, il carattere arcaico di conoscenze che poi sono state diffuse anche in altre aree, oltre a quelle originarie.
Detto questo, non è nostra intenzione assolutizzare il ruolo dell’antico Egitto come fonte di Sapienza, dato che i dialoghi presentano una grande ricchezza di riferimenti, non tutti e non sempre riconducibili alla civiltà egizia; in ogni caso, pur nella loro varietà, essi confermano la realtà di una dimensione sapienziale preesistente, articolantesi secondo varie modalità.

Non possiamo che sottoscrivere le belle parole del Colli, là dove dice che

«Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti i sapienti […]. Amore, della Sapienza non significa, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto”.4

In base a quanto sopra esposto, il platonismo non risulta essere una filosofia originale che si affianca ad altre forme di pensiero, come volentieri immaginano i moderni, ossessionati dalla ricerca della novità capace di giustificare una storia della filosofia che si vuole evolutiva a tutti i costi; al contrario esso emerge quale momento fondamentale di recupero e rivitalizzazione di dottrine appartenenti a varie correnti tradizionali del passato. La creatività di Platone è data dalla geniale capacità di ricomprenderle (almeno in parte) e reinserirle in un sistema di pensiero organico ed aperto nello stesso tempo, con tutte le difficoltà che un’impresa di tal genere comporta; da questo punto di vista, l’Accademia continua ed integra l’attività delle scuole pitagoriche, che già prima di Platone avevano impostato un progetto orientato in tale direzione.

Del resto, a guardare la storia del pitagorismo, anche dopo Platone riesce impossibile trovare una netta linea di demarcazione, non la si ritrova nemmeno nelle opere platoniche, le quali evidenziano di continuo linguaggi, contenuti personaggi vincolati alla cerchia orfico-pitagorica, che quindi per la formazione del platonismo appare importante non meno di Socrate.
Come si può facilmente intuire, l’interesse di Platone per i libri di Filolao pitagorico, era tutt’altro che esteriore; lo stesso dicasi per quanto riguarda i rapporti con il sodalizio di Archita, a Taranto. Tra gli amici di Socrate, condannato a morte, non a caso figurano Simia e Cebete, già discepoli di Filolao (essi restano ad Atene per tutto il periodo processuale, fino all’esecuzione).
Fedone racconta la morte di Socrate al pitagorico Echecrate. II pitagorico italico Timeo dà il nome all’omonimo dialogo, che è certamente uno dei più importanti. Per quanto concerne i principali insegnamenti, quasi tutte le opere platoniche presentano evidenti riferimenti all’Orfismo e al Pitagorismo: ciò vale per la concezione della medicina, le dottrine dell’anima, del risveglio spirituale, delle idee, dell’integrazione degli opposti, della purificazione e della contemplazione…

Egizi, orfici e pitagorici non sono i soli referenti di Platone, molti altri se ne possono ricordare, tra cui la Sparta licurgica, il sacerdote Abaris, scita iperboreo, Zalmoxis di Tracia, Minosse legislatore di Creta, il culto di Apollo ed Asclepio, e quello della Quercia.

Gli esempi citati non esauriscono minimamente l’argomento, ma almeno danno un’idea della varietà multiforme delle fonti platoniche, una rassegna delle quali esigerebbe uno studio a parte, data la loro grande ricchezza. A questo proposito aggiungiamo un’ultima rapida annotazione: spesso Platone si ricollega a tempi lontani ormai poco conosciuti, ed infatti nelle sue opere compaiono con insistenza elementi del passato appartenenti a dimensioni che sfuggono alle consuete ricerche storiografiche; non per questo essi possono essere sottovalutati, data l’importanza che rivestono per chi voglia avvicinarsi al Platonismo e più in generale alla filosofia classica.
Occorre invece riuscire a valorizzarli e riconoscere in essi le origini sapienziali del Platonismo stesso: di esso ci si vieta la comprensione, qualora ne vengano dimenticate le radici. Platone getta squarci di luce su mondi spesso inaccessibili allo storico: proprio per questo la documentazione inconsueta che ci fornisce merita un sovrappiù di attenzione, data la preziosa rarità delle informazioni e l’autorevolezza eccezionale della testimonianza.

Platone utilizza ripetutamente elementi mitici quali vie di accesso a quei mondi tradizionali che costituiscono l’humus fecondo del suo stesso filosofare; utilizza elementi mitici per suscitare la comprensione di quei contenuti sapienziali che dovrebbero costituire il fine di ogni autentica ricerca filosofica. Così facendo, egli propriamente non inventa nulla: piuttosto, riporta alla luce ciò che stava retrocedendo nell’oblio e nel far questo è stato impareggiabile, stimolando il risveglio di un’intera civiltà in via di assopimento e dando forma a quel movimento di pensiero e vita che possiamo chiamare Filosofia Classica.

Paolo Scroccaro
(Professore a riposo di Storia e Filosofia a Treviso, da molti anni è il principale animatore dell’Associazione Filosofica Trevigiana. Ha ottenuto il Diploma di perfezionamento in Filosofia delle scienze presso l’Università di Padova e Certificato Internazionale in Ecologia umana rilasciato dalle Università di Parigi, Bruxelles e Padova. Suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente).

Note

Giamblico, La vita pitagorica, XII, 58-59.

Filebo, VI, 15 C-D.

Epinomide, 987.

G. Colli, La nascita della filosofia, pagg. 13-14.

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Il “popolo di sogni”

Sopra: Jacopo Tintoretto, “L’origine della Via Lattea”, 1575-80.

Per Pitagora le anime sono «popolo di sogni» che, egli dice, si riuniscono nella Via Lattea, cosi chiamata dalle anime che, quando cadono nella generazione, si nutrono di latte. Per questo chi evoca le anime offre loro libagioni di miele mescolato a latte: perche attratte dal piacere esse giungono alla generazione, e il latte compare naturalmente insieme al loro concepimento.

Da L’antro delle Ninfe di Porfirio

Corpo astrale

Lo psichismo, cioè la Magia personale, si opera per mezzo del CORPO ASTRALE dell’uomo. Questo corpo astrale è chiamato:

Corpo vitale fluidico (Dr. Baraduc)

Enormon (Ippocrate)

Perispirito (Allan Kardec)

Corpo luminoso (Pitagora)

Corpo etereo (i Greci)

Corpo glorioso (la Chiesa)

Doppio eterico (i Teosofi)

Il corpo vitale fluidico giuoca nell’uomo un ruolo capitale. Esso regge, conserva, anima il corpo materiale. Riproduce  la forma della cellula, e la forma umana. Costituisce ciò che si chiama il senso intimo. Esso forma un doppio di noi medesimi.

Hyppolite Baraduc

 

A proposito di ANIMALI

Animali

Uomo! libero pensatore – ti credi al mondo
solo a pensare, mentre la vita irrompe in ogni cosa:
delle tue forze la libertà dispone,
ma dai consigli tuoi è assente l’universo.

Rispetta nell’animale uno spirito attivo…
È un’anima, ogni fiore, dischiusa alla Natura;
nel metallo riposa un mistero d’amore:
tutto è sensibile; – E tutto ti sovrasta!

(Gerard de Nerval)

Platone sosteneva di amare “gli antichi perché più vicini agli dèi”…
La stessa idea che il rispetto degli animali consista nell’astenersi dall’ucciderli per cibarsene non è moderna, ma molto, molto antica. Il grande filosofo Plutarco condannava con veemenza l’uso di mangiare carne, e l’uso di pratiche crudeli per il solo scopo di ottenere “succulenti manicaretti”. Inoltre, il filosofo di Cheronea esaltava i Pitagorici per il loro rispetto e per la loro compassione verso gli animali. È il caso dei Giainisti, che praticano una forma estrema di non-violenza: rinunciano a cibarsi non solo di carne, ma anche di qualsiasi cosa contenga un principio vitale, come i semi. Tale credo è addirittura più antico del Buddismo (e quindi anche di Plutarco). Il rispetto dei monaci giainisti per la vita è tale che si mettono una pezzuola sulla bocca e procedono con una ramazza per evitare di uccidere senza motivo anche le creature più minuscole. In occidente, a parte rare eccezioni, si ha sempre avuta la presunzione tipica della ratio materialista, che tutto quello che viene ritenuto privo di ragione può essere assolutamente sacrificato agli scopi umani. Questo ad esempio anche la posizione di molti grandi filosofi, compreso Aristotele.
Si giudica tutto in base alla ragione, e quindi in modo razionale, e non in modo ragionevole.
Esiste un filo potente che unisce Buddisti, Giainisti, Pitagorici e Neoplatonici: Psiche, la sua immortalità e la fiducia nella trasmigrazione delle Anime (compresa l’incarnazione in corpi animali o vegetali). Ogni essere partecipa ad un’unica vita universale: «Essere vivi significa essere anime vive. Un animale – e tutti noi siamo animali – è un’anima racchiusa in un corpo» (Elizabeth Costello).

(vi riporto questi pensieri anche se non sono vegetariano, ma mangio comunque pochissima carne)

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.