Libri: “DSM-5 e i Film che spiegano la Psiche” di Massimo Lanzaro verrà presentato a Ottaviano il 6 giugno

lanzaro

Carissimi,

il prof. Massimo Lanzaro presenterà il suo libro “DSM-5 e i Film che spiegano la Psiche” lunedì prossimo alle 17,30, presso l’Hotel Augustus a Ottaviano, durante la conferenza “Psicologia e cinema”. Interverranno con lui il prof. Carmine Cimmino e il prof. Angelo Andriuzzi. Modera Ornella Petrucci, giornalista.
Non mancate!

Gabriele

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Libri: “Il giudice delle donne” di Maria Rosa Cutrufelli

il giudice delle donne

Fino al 2 giugno 1946, le donne in Italia non potevano votare. Un tentativo per ottenere la possibilità di farlo, però, c’era stato già stato in passato. Lo ricorda Maria Rosa Cutrufelli nel suo ultimo libro “Il giudice delle donne” (Frassinelli), nel quale riprende quel lontano episodio, ormai dimenticato, avvenuto nel 1906 tra Montemarciano, un paesino nei pressi di Ancona, e Senigallia. Dieci maestre avevano un sogno da realizzare, un desiderio riguardante un diritto che allora veniva loro negato: il suffragio universale. Chiesero quindi l’iscrizione alle liste elettorali. L’episodio, che all’epoca fece scalpore, finì sulle prime pagine dei quotidiani e venne preso in seria considerazione. Il compito se dare o meno quella concessione spettò al presidente della Corte d’Appello di Ancona, Lodovico Mortara, il giudice delle donne del romanzo. Un autentico riformatore che divenne in seguito ministro della Giustizia,  epurato poi da Mussolini. Una storia italiana narrata dall’autrice con nitidezza e precisione dei fatti, all’interno di una trama avvincente.”Questo romanzo è opera di finzione, e tuttavia è anche un intreccio, una tessitura di storie o di spunti narrativi pescati durante il lavoro di documentazione”, racconta Maria Rosa Cutrufelli. “Tutto è cominciato da una targa intravista in un giorno di vacanza. Ero a Senigallia e a un tratto ho notato, sul muro del municipio, una targa che commemorava le ‘prime elettrici d’Italia’, dieci donne che nel 1906 avevano chiesto il diritto di voto. E che l’avevano ottenuto, anche se solo per un anno, fino all’intervento della Corte di Cassazione.” Già il lavoro che facevano era considerato pionieristico. Decidere di andare ad insegnare l’alfabeto in paesini sperduti dell’Italia non era un’impresa da poco nella società all’inizio del ‘900, dove pregiudizi e contraddizioni erano predominanti. L’autrice dà voce nel libro a quello che doveva essere il pensiero comune di allora, anche tra le donne stesse:

“… è per quella faccenda, sa’, quella del voto.
Il voto? E che significa mai…
Significa, spiega Albina, che la sora Luiscia, per essere moglie di un sindaco, si crede esperta di ogni diavoleria politica, perciò vorrebbe votare. Proprio come gli uomini. Si è fissata con quest’idea e cerca di mettere su un gruppo di maestre per dare battaglia perfino a suo marito, se necessario.
Ma suo marito, si stupisce quella di prima, non ce l’ha già, il voto? Non è abbastanza bravo da votare anche per lei?
E Albina: vallo a sapere cosa gli gira in testa, a quelle!…”

Clara Martinelli

 

 

Libri: “Problemi in paradiso” di Slavoj Zizek

zizek-problemiUna nuova categoria ontologica accompagna il cittadino occidentale medio in questo primo scorcio di secolo. Se un tempo si parlava di essere-per-la-morte (vedi Heidegger e Sartre), ovvero dell’uomo destinato naturaliter ad andare incontro al proprio trapasso, alla fine, nella contemporaneità 2.0 del neo-liberismo e della reificazione dell’uomo, della natura e di tutto, in cui si vorrebbe portare a rimozione perfino la morte, ecco che “il filosofo più pericoloso d’Occidente” – così è stato definito Slavoj Zizek dal giornale New Republic – torna con un nuovo libro, “Problemi in paradiso” (Ponte alle grazie, 2015) e tira fuori una nuova categoria ontologica, che ben si adatta al nostro tempo di cambiamenti etero-diretti e subiti un po’ masochisticamente dalla massa, e cioè l’essere-per-il-debito.
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> Si tratta di una forma di dipendenza costitutiva e (auto)imposta, una mutazione genetica del vecchio homo hoeconomicus, un individuo che vive, produce e (soprattutto) consuma per ripagare il debito che ha contratto verso il sistema e di cui il sistema si serve per tenere a freno le sue istanze di trasformazione sociale. Vecchia storia quella di cambiare il mondo: quando uno ha da pagare le rate del mutuo, della macchina e della carta di credito, deve mantenere ex moglie e magari due figli, a stento ha la possibilità di cambiare l’arredamento di casa, figurarsi se può pensare a cambiare il mondo o se stesso.
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> Meglio rimanere prudentemente (e comodamente) al proprio posto. Scrive Zizek: “Il soggetto indebitato effettua contemporaneamente il lavoro salariato e il lavoro su di sé necessario affinché egli sia in grado di assumere su di sé la colpa connessa all’indebitamento”. Oggi la vetero dicotomia marxista tra salariato e capitalista è stata superata in quanto il lavoratore non è più separato dal capitale, ma ne è diventato lui stesso portatore con un sostanziale livellamento antropologico per cui ognuno è diventato “imprenditore di se stesso”. Adesso l’uomo medio sfrutta al meglio il proprio patrimonio di conoscenze e abilità – “il capitale umano” – per metterlo sul grande tavolo da gioco della vita, o in altre parole, per ottenere la capacità di consumare e quindi, come insegna Baudrillard, di distinguersi nella simbolizzazione gerarchica per mezzo degli oggetti acquistati ed esibiti come feticcio.
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> Per Zizek quello del debito, o anche simbolo di una dipendenza verso una forma di potere patriarcale, è un concetto che già gli antichi avevano elaborato. Nel mito di Orfeo – il mitico suonatore di lira che discese negli Inferi per salvare Euridice – Zizek vede un impulso assai moderno, la stessa volontà del debitore che vuole dimostrare alle banche o alle agenzie di rating di essere in grado, con il suo comportamento virtuoso che in Orfeo raggiungeva l’ascetismo e l’eccellenza, di poter ripagare il debito. Orfeo dimostra al Plutone-padrone di essere meritevole della sua pietà così come oggi lo è quel professionista che merita una tripla A nella valutazione della propria affidabilità grazie al suo comportamento (capitalisticamente) virtuoso.
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> E nemmeno gli stati fanno eccezione a questa regola, basti osservare quanto è accaduto in Grecia la scorsa estate, con la crisi del debito ellenico che ha messo a dura prova il processo di integrazione europeo e mostrato i limiti delle politiche di austerity. Ma come osserva Zizek “in Europa oggi i ciechi guidano i ciechi”, perché molto spesso sono quegli attori – leggi alta finanza – che hanno portato alla crisi del 2008, attraverso una mal calcolata gestione dei derivati bancari, a pretendere poi di impartire le strategie di risanamento, generando un circolo vizioso dalle profondità insondabili.
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> Ma se all’”inferno” – così chiama Zizek i paesi della stagnazione economica – le cose non vanno troppo bene nemmeno in “paradiso”, e cioè in quei paesi dove l’economia cresce a ritmi poderosi e in cui il sistema sembra mosso verso una rapida modernizzazione e occidentalizzazione. Quanto accaduto in Brasile, ad esempio, dove la presidente Dilma Roussef è stata incriminata e la classe politica messa sotto accusa, potrebbe essere il sintomo che qualcosa si è inceppato in questo meccanismo di rapido sviluppo che non tiene conto della variabile umana e della legittima aspirazione di ogni uomo e donna ad andare incontro alla propria realizzazione. Perché ogni rivoluzione, ogni potenziale cambiamento – osserva Zizek – porta con sé i germi di una nuova divisione e della creazione di un nuovo potere che favorisce pochi a discapito di molti (basti ricordare cosa accadeva dalle parti della fattoria degli animali di George Orwell, per intendersi).
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> Attraverso il suo libro, il filosofo sloveno affronta molti problemi del nostro tempo e arriva ad analizzare quello del fondamentalismo islamico. Per Zizek il problema del fondamentalismo islamico si inquadra in una logica di lotta di classe e a suo modo “il fondamentalismo è il marxismo del XXI secolo”. Molti credono che quella del fanatismo sia soltanto un problema religioso connaturato a un’aspirazione retrograda di alcuni che vogliono uscire dalla modernità per ritrovare nei valori della religione tradizionale la panacea di tutti i mali. Questo ragionamento racchiude un fatale errore, avverte Zizek, secondo cui il problema del fondamentalismo è la continuazione con altri mezzi della vecchia lotta di classe marxista, perché dimenticare di far fronte alla barbarie, ignorare le istanze di giustizia sociale e di prosperità dei popoli, vuol dire consegnare milioni di uomini e donne alla propaganda retrograda.
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> Del resto la violenza religiosa (e non) fa breccia nei cuori di chi sente di non avere vie d’uscita dall’ingiustizia e dalla miseria e ha dimenticato cosa rende una vita degna di essere vissuta. Il fondamentalismo è chiusura ai valori occidentali di libertà e favorevole all’instaurazione di un regime teocratico, ma parte della sua forza, specialmente a livello di propaganda, si insinua quando il potere dimentica le masse più deboli che poi prestano ascolto alle sirene jihadiste, in quanto “l’ascesa dell’islamismo radicale è in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani”. Si pensi a quanto accaduto in Afghanistan, del resto, dove i talebani strumentalizzarono le divisioni e le tensioni di classe, sfruttando la sventura dei poveri contadini, non per raggiungere l’armonia o la pace sociale, ma mirando a tutt’altro, e cioè l’obiettivo dello stato teocratico.
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> Secondo Zizek, un sistema capitalista e liberale è tanto più forte quando le forze liberali riescono ad andare a braccetto con quelle della sinistra riformista, perché non tenere conto delle istanze di cambiamento e di armonizzazione sociale espone la società all’azione di forze violente e rivoluzionarie, siano esse di sinistra o di destra – è interessante l’accostamento del fondamentalismo al fascismo, e non a caso Zizek parla di “islamo-fascismo”. Ciò che ha insegnato la storia d’Europa è che occorre sempre tenere alta la guardia ed esercitare l’esercizio della libertà insieme alla ricerca della giustizia e dell’armonia sociale, a livello collettivo e individuale. È questa la sfida in cui l’Europa e tutto l’Occidente si trova impegnato.

Mario Sammarone

Libri: “Notturno bizantino”, intervista all’autore Luigi de Pascalis

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Scrittore da più di cinquant’anni ormai, Luigi de Pascalis è diventato uno dei nuovi interpreti della narrativa storica italiana. Romanzi come “Rosso velabro” e “Il mantello di porpora” – entrambi pubblicati dalla casa editrice La Lepre – raccontano la vita dell’Impero Romano tardo-antico, una civiltà al tramonto e di fronte all‘incombente età di mezzo, grande crogiolo in cui si forgiò la moderna civiltà occidentale. Ma quello di Luigi de Pascalis è soprattutto un prezioso lavoro ermeneutico che tenta di scavare nelle profondità della Storia, restituendo un discorso sui comportamenti e sulla natura umana che permane immutata anche in tempi passati e in civiltà lontane dalla nostra.

Con “Notturno bizantino” (La Lepre, 2015), ultima fatica dello scrittore di origine lancianese, si è voluto cambiare punto di riferimento storico e la narrazione si è mossa dal IV secolo d. C. alla Costantinopoli di un millennio più tardi. I racconti di Lucas Pascali – medico di origine greca, personaggio principale del libro – testimoniano gli ultimi giorni di una grande città e quelli di una storia molto spesso dimenticata, ma che in fondo appartiene anche alla nostra. Si tratta di una storia di frontiera, che percorre quell’antico confine tra Oriente e Occidente, e che riguarda la caduta della millenaria città fondata dall’Imperatore Costantino come capitale dell’Impero Romano d’Oriente, sulle vestigia dell’antica Bisanzio.

Professor De Pascalis, con “Notturno bizantino” ha raccontato la fine di un mondo e il drammatico assedio di Costantinopoli ad opera delle truppe del sultano ottomano Mehmet II. Perché ha voluto rievocare quella storia?

Perché l’ho trovata per certi aspetti simile a cose che stanno accadendo oggi. Ho voluto ricordare i nostri rapporti con gli ottomani che non sono stati sempre facili, e con il mondo orientale in generale. E poi perché la caduta di Costantinopoli rappresentò in fondo la caduta dell’ultima parte del mondo antico. Una civiltà tramontata ma che, come si evidenzia dal libro, fu anche responsabile dell’avvento del Rinascimento europeo, grazie alla fuga di molti filosofi da Costantinopoli verso l’Europa occidentale.

Non a caso uno dei personaggi del romanzo è Gemisto Pletone, grande filosofo bizantino neoplatonico. Secondo lei, in un mondo che corre veloce e in cui gli individui sono immersi nelle logiche del calcolo, la filosofia contemplativa degli antichi può rappresentare una cura contro i mali del mondo moderno.

Ho voluto mostrare come un certo tipo di pensiero che sembrava finito, come quello neoplatonico rimasto nella cenere per circa mille anni, tornò a farsi sentire nell’Europa occidentale. Temo però che il pensiero contemplativo degli antichi non sia molto in auge: oggi abbiamo una civiltà di massa guidata dal mercato che ha poco o nulla a che fare con il pensiero in sé. Ma a suo modo anche questo è un nuovo tipo di religione: oggi si crede in maniera a-critica alle logiche della crescita, del mercato e a modelli che stanno mostrando i loro limiti.

Lei scrive come la caduta della città fu favorita dalle divisioni tra cristiani, in quanto le potenze del tempo, italiane in primis, subordinavano un intervento a sostegno dell’ultimo imperatore bizantino, Costantino XII, a una sottomissione degli orientali alla chiesa di Roma. Crede che le divisioni politiche siano responsabili delle crisi internazionali, allora come oggi?

Oggi la divisione tra Chiesa d’Oriente e di Occidente non è più all’ordine del giorno, naturalmente, ma lo scarto sulle visioni politiche su cui si registra una debolezza intrinseca dell’Europa credo che sia un problema attuale. In realtà, sotto il velo delle divisioni religiose, molto spesso si nascondono interessi economici. Nel XV secolo c’erano potenze occidentali da un lato, come Genova e Venezia, che avevano interesse a commerciare con l’Oriente e che avevano rapporti economici con gli Ottomani da preservare, dall’altro potenze per così dire “minori” che non avevano risorse per andare in aiuto di Costantinopoli.

Lei è un grande interprete del romanzo storico attuale. Da cosa nasce la sua passione per questo genere letterario?

Ho sperimentato negli anni diversi generi, ma quello storico mi interessa particolarmente perché mi permette qualcosa che altri generi non richiedono: la ricerca e lo studio. A mio parere non c’è niente come il romanzo storico. Attraverso di esso si può esprimere la natura e i comportamenti umani, sondare l’interiorità e descrivere – elemento che mi interessava specificatamente per l’ultimo romanzo – cosa accade nell’animo umano di fronte a cambiamenti ineluttabili.

Per “Notturno bizantino” è arrivata la candidatura al premio Strega 2016, un riconoscimento che premia anni di lavoro e un’opera molto intensa. Cosa si sente di dire?

Mi fa piacere, naturalmente. Ma l’accetto più come una sfida che come un riconoscimento, anche perché non è mai capitato che un piccolo editore vincesse questo riconoscimento. Non mi aspetto moltissimo, ma solo un minimo di attenzione per un’opera che dura da molto tempo – scrivo da più di cinquant’anni! Detto questo, la sfida mi interessa e l’accetto.

Mario Sammarone

 

Male supremo del nostro tempo

Certamente il fascismo e’ stato già sconfitto una volta, ma siamo ben lungi dall’aver sradicato definitivamente questo male supremo del nostro tempo: le sue radici sono infatti profonde e si chiamano antisemitismo, razzismo, imperialismo.”

Hanna Arendt, “La banalità del male”

Libri segnalati: “La madre” di Orietta Cicchinelli

la madre

 

“La Madre” è il libro d’esordio della giornalista Orietta Cicchinelli, responsabile Spettacoli-Roma del quotidiano Metro, edito dalla casa editrice NED. Dedicato a Vincenzo Cerami, con il quale la scrittrice era unita da un profondo legame affettivo, è un progetto che nasce dal racconto di un’esperienza personale colma di sensazioni ed emozioni legate alla figura materna, non solo quale genitrice, ma anche di ritorno alle origini, alla Madre Terra appunto. Distribuito in esclusiva a Roma da ARION, “La madre” è introdotto dallo psichiatra e neurologo Elio Sena, mentre la prefazione del libro è a cura dell’ attore Maurizio Battista. Pier Paolo Mocci, editore di NED, riserverà 1 euro a copia (prezzo di copertina 6 euro) per l’acquisto di prime necessità per le giovani madri in difficoltà ospitate nella casa-famiglia Protettorato di San Giuseppe a Roma. L’autrice, invece, cederà la totalità dei suoi diritti d’autore sempre in favore di beni per le ragazze-madri di Via Nomentana 341.“Ho scritto questo libro durante il primo Natale senza lei – spiega Orietta Cicchinelli – un evento che non poteva passare sotto silenzio. Mentre la vedevo ancora china a mettere nel camino il ciocco più grosso, la ricordavo sulla pagina, per “regalare” ai miei qualcosa di particolare. Ne è venuto fuori un racconto per me e spero per il lettore emozionale, di getto. Spero ora di trasferire un’emozione anche di chi lo avrà tra le mani”.

 

Oggi a Roma presentazione del volume “Storie in divenire: le donne nel cinema italiano” dei Quaderni del CSCI

eleonora

 Cari amici,

Oggi, alle 18,00 verrà presentato a Roma, presso la libreria “Altroquando  in via del Governo Vecchio 80, il volume “Storie in divenire: le donne nel cinema italiano”, a cura di Lucia Cardone, Cristina Jandelli e Chiara Tognolotti.

“Quella delle donne nel cinema italiano è una storia in divenire perché non è stata ancora scritta. Una storia che continua ad esser cominciata ed interrotta, ma che in molte desiderano conoscere e narrare. Certo dagli anni ’70 in poi, con l’ondata dei femminismi, anche in Italia l’esigenza di indagare le donne dello schermo è divenuta irrinunciabile, ma l’approccio è stato in qualche occasione rivendicativo ed ideologico, oppure, in alcuni studi di caso, meramente autoriale, nel pur giusto tentativo di riconoscere il talento e la qualità estetica di singole registe. Ciò che oggi ci sta a cuore è un racconto differente, capace di tenere insieme un panorama più ampio e mosso, in una certa misura collettivo, delle donne del cinema italiano colte nel loro insieme, dalle origini ai giorni nostri. E inoltre vogliamo parlare di loro e di noi, adottando il «partire da sé» come irrinunciabile pratica conoscitiva e prezioso strumento di indagine. L’idea è quella di mescolare le storie degli oggetti di studio con i soggetti che le narrano in un divenire storico, muovendo dalle varie professioni che hanno esercitato le donne nel cinema italiano – non soltanto registe e attrici ma anche sceneggiatrici, montatrici, costumiste e così via – per arrivare alle «donne di celluloide» ossia alle «personagge» che hanno abitato ed abitano gli schermi nostrani. La sfida consiste, dunque, nell’accogliere il numero più elevato possibile di voci femminili, quelle di chi ha fatto la storia del cinema italiano e quelle di coloro che oggi, per la prima volta in modo organico, desiderano raccontarla”.
«Quaderni del CSCI», n. 11, 2015, pp. 384 (@Daniela Aronica editora, Barcelona)

Da “Il mito della normalità. Intervista a Gabriele La Porta”, in vendita su Amazon.it

D. Secondo James Hiilman le nostre nevrosi e la nostra cultura sono inseparabili. Dopo le fumisterie verbali della politica, i gergalismi e il pentagonese, dopo lo scientismo sociologico ed economico, l’abuso mediatico della parola e tutte le altre violenze inflitte si son prosciugate le parole del loro sangue e chi lavora nel campo della psicologia ha smarrito la fede nella potenza della parola. Come “guarire” il nostro linguaggio? Basterà perorare il ritorno alla parola piena di senso e di materia, un po’ come accadeva ai testi alchemici? Confucio sosteneva che la terapia della cultura parte dalla rettificazione del linguaggio e Hillman sostiene che la psicologia alchemica offre spunti per questa possibilità di rettificazione. Che ne pensa?

R. Per me vale  molto di più James Hillman che l’opinione di innumerevoli cosiddetti esperti in camice paludato. Questo è il tempo del mutamento. Non capire la cateratta psichica è come rinunciare allo scandaglio mentale e costringersi ad una dolorosa prigionia”.

lanzaro

http://www.amazon.it/della-normalit%C3%A0-Intervista-Gabriele-Porta-ebook/dp/B017AT0N00/ref=sr_1_4?ie=UTF8&qid=1446484673&sr=8-4&keywords=lanzaro

Massimo Lanzaro parla del suo libro “DSM-Cinema! I film che spiegano la psiche” a Tv2000

Oggi, a Roma, presentazione del libro “Un re chiamato Desiderio”

Carissimi, oggi a Roma, presso la Fuiss, in Piazza Augusto Imperatore 4, verrà presentato il libro “Un re chiamato Desiderio” di Danilo Campanella. Sarà presente l’autore, che verrà introdotto da Mario Sammarone. L’incontro avrà come relatore Massimo Lanzaro. Per l’occasione vi riproponiamo un articolo sul libro, scritto da Mario Sammarone, apparso qualche tempo fa su questo blog.

Gabriele

 

Un filosofo che voglia scrivere un racconto, non potrà che farlo in “maniera filosofica”. Ed è ciò che ha fatto Danilo Campanella nel suo ultimo lavoro, “Un re chiamato Desiderio” (Tabula Fati, 2014). Campanella, studioso di politica, si è sempre cimentato in saggi filosofici o storici, quale il suo ultimo lavoro su Aldo Moro presentato recentemente all’Istituto Luigi Sturzo.

In questo racconto, invece, pur con uno stile piano ed affabulatorio, a tratti quasi familiare, Campanella ci conduce a riflettere su quel re interiore che ci domina tutti: il desiderio. Un’entità che ha avuto il suo momento digloria negli anni passati, quando i suoi cantori lo hanno esaltato fino a farne un feticcio, con la rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari. Altro mondo è il nostro e la pretesa di poter indefinitamente avere tutto a disposizione si è scontrata con la presa di coscienza che dobbiamo porre limiti ai nostri sogni faustiani, per ragioni ecologiche, economiche, demografiche – recentemente Serge Latouche è stato in Abruzzo e ha parlato proprio di questo.

Eppure il desiderio ci domina tirannicamente, eterodiretti come siamo dal generale consumismo che ci alletta ogni momento e ci rende schiavi desideranti di cose, esperienze e oggetti al punto di non essere più capaci di sottrarci a queste allettanti sirene.

Il racconto parte da una situazione tipicamente familiare, dove Giovanni, il protagonista, un ragazzo figlio dei nostri tempi, arrogante nel suo fortino di certezze che gli arrivano dal posto sicuro che occupa nel mondo, con la sua vita prevedibile di studente universitario protetto dall’ambiente familiare, si trova a dover fronteggiare un inconveniente occorso a suo padre il quale, recatosi in Grecia per il suo lavoro di Ingegnere, dimentica a casa la valigetta con tutte le carte dei suoi progetti. Incarica così il figlio Giovanni di portargliela in Grecia e questi, sebbene a malincuore per dover affrontare un viaggio non previsto, si organizza per partire.

Tutta la famiglia è mobilitata: la madre in apprensione perché tutto si risolva, la sorella impegnata al computer per acquistare i biglietti, e Giovanni a prepararsi spiritualmente a qualcosa che deve eseguire suo malgrado.

Essendo necessario un compagno per avere uno sconto nel costo del viaggio, si rivolgono ad un cugino, Ernesto, che non vedono da anni. Questo ragazzo, che Giovanni ricorda dall’infanzia timido e impacciato, si rivelerà essere ben diverso da come il cugino si aspetta: la sua vita è fatta di scelte non scontate e, all’opposto di Giovanni che non desidera contaminarsi con la vita vera, Ernesto la ama in tutte le sue manifestazioni. Sarà un maestro per Giovanni, con una funzione quasi maieutica, e lo inviterà a riconsiderare tutte le sue ovvie certezze, fatte di pregiudizi e percorsi obbligati.

Nel corso del viaggio verso la Grecia, che sarà costellato di varie peripezie e contrattempi, vediamo Ernesto come l’uomo che riesce ad immettersi nella tragicità dell’esistenza vivendola però consapevolmente, in una dimensione interiore, mentre Giovanni è dentro schemi che lo proteggono forse, ma che lo limitano e che comunque non ha certamente scelto lui. Per cui Ernesto diviene nel viaggio una specie di Virgilio per il cugino, indicandogli la via per ridiscutere tutta la sua esistenza. Là dove per Giovanni c’è irritazione per un’esperienza che egli non aveva previsto, per Ernesto il viaggio verso la Grecia è una meravigliosa opportunità.

Le ore che trascorrono insieme sono impiegate a parlare e discutere, a filosofare quindi, e di volta in volta si uniscono loro anche altri personaggi che incontrano, compagni di viaggio con cui approfondiscono temi e discorsi che per Giovanni sono una porta socchiusa verso nuovi modi di pensare.

Per Ernesto il peggior nemico della libertà delle persone è il desiderio, che come dice il titolo è un re nella nostra vita, ci domina e condiziona in ogni campo, rendendoci sempre pronti a correre là dove esso chiama, come un possente tiranno che trasforma ogni aspetto della nostra esistenza in qualcosa da afferrare, rendendo così tutto materiale e facendoci divenire animali predatori verso il mondo. Questo desiderio tuttavia non è sogno, possibilità di ampliamento dell’essere, ma gabbia, cappio, limite, perché derivante da manipolazioni esterne e non da scelte consapevoli.

L’invito di Ernesto a Giovanni è di riemergere nella libertà, mai definita una volta per tutte ma sempre ridisegnata, faticosamente e volontariamente, in nuovi inizi sempre rinegoziati nella nostra interiorità, poiché, come dice Hannah Arendt, la libertà è un gesto augurale.

Apprendiamo, da inserti nel racconto circa la futura vita di Giovanni, che egli imparerà la lezione, e che quindi il viaggio compiuto dai due ragazzi è simbolo di un viaggio ben più profondo. L’epilogo fa ulteriormente riflettere, e tutto il racconto si può leggere quasi come un’”Operetta Morale”, o un “conte philosofique “ del Settecento, in cui idee e pensiero erano veicolati dalle opere letterarie: sarebbe necessario che si pubblicassero più libri di questo tipo, per i temi sviluppati che ci toccano da vicino, per noi che siamo in equilibrio precario tra un desiderio illimitato ed egoista e la necessità di trovare un limite, che la situazione storica stessa ci impone e verso il quale noi stessi aneliamo perché sentiamo che, paradossalmente, solo in quel limite ci potremo muovere più liberamente e ed essere più padroni di noi stessi, dato che il desiderio liberato da ogni morale è una prigione artificiale.

Non manca una vera e propria dichiarazione d’amore dell’autore alla sua città, Roma, con le sue contraddizioni e le sue offerte di piacevoli opportunità, oltre all’aria stessa che vi si respira, che è antichità classica e anche un po’ di cinica modernità mescolate per farne quello che è, una città irripetibile ed unica al mondo. Leggiamo quindi quest’opera di Campanella e anche noi, con lui, filosofiamo.

Mario Sammarone

 

Emil Cioran e “L’agonia dell’occidente”

Per i tipi della casa editrice Bietti è recentemente uscito il libro di Emil Cioran, L’agonia dell’occidente – lettere a Wolfgang Kraus (1971-1990), un carteggio intercorso tra lo scrittore rumeno e il critico ed editore austriaco Wolfgang Kraus, con l’aggiunta, in appendice, di altre due lettere scritte dalla compagna di Cioran, Simone Boué, ed estratti del diario di Kraus che vertono sulla figura stessa di Cioran – la scoperta e la conseguente trascrizione di questo carteggio si deve a George Gutu, avvenuta in maniera casuale durante lavori di ricerca presso l’Archivio Letterario della Biblioteca Nazionale di Vienna.

Con questa pubblicazione, curata da Massimo Carloni che ne scrive una intensa e pregnante introduzione, veniamo a conoscere da vicino il pensiero dello scrittore rumeno, che ci viene reso nella sua piena umanità ed attività di intellettuale, grazie anche all’imponente apparato di note che sono un supporto ulteriore per accedere alla collocazione storico-biografica delle lettere stesse.

Cioran incontrò Kraus in occasione della traduzione tedesca del Mauvais démiurge per l’editrice Europa di Vienna, presso cui Kraus lavorava nel 1971 – ma probabilmente si erano già riconosciuti in precedenza. Si delineano subito le differenti personalità dei due intellettuali: Cioran con il suo pessimismo che lo fa volutamente restare ai margini del mondo culturale e per cui la produzione artistica si nutre necessariamente di una buona dose di ascetismo; Kraus, invece, che interpreta il suo ruolo di intellettuale come un’alacre attività di mediazione tra l’Est e Occidente, con un vero e proprio impegno emotivo, ed etico nel senso hegeliano del termine, che lo spinge ad invitare in Austria alcuni scrittori dei paesi del blocco sovietico; ma entrambi impegnati nel cantare l’Elegia del finis Austriae, nazione che per essi è archetipo della decadenza dell’Occidente.

L’Austria, che Cioran sente essere la sua vera patria, al punto di definirsi un tardo cittadino di Kakania, la terra immaginaria e pure reale creata da Musil, oppure sentendo su di sé le stigmate ideali di un soldato austroungarico, nato com’era ai confini orientali di quel grande Impero, prima che quelle terre diventassero dominio del caos balcanico. E tuttavia quell’anima orientale è rimasta, come una sorta di fatalismo, a comporre la complessa personalità di Cioran, quasi suo malgrado, insieme alla prediletta componente austro-germanica, e alla Francia terra d’adozione che gli dà ospitalità e lingua. Cioran rinuncia infatti all’idioma rumeno con un gesto di abiura che è un rifiuto totale della “rumenità” con il suo carico di maledizione individuale e nazionale, un auto-sradicamento consapevole portato alle estreme conseguenze.

La decadenza della potenza austroungarica è sentita visceralmente da Cioran come pericolo incombente sull’intera Europa, avendo aperto la via al pericolo della dittatura comunista che egli paventa possa dilagare in Occidente. Anche en France Cioran non si sente assolutamente a suo agio, essendo preponderante tra gli intellettuali il pensiero marxista, allora egemone con le grandi figure di Sartre, Althusser, Baudrillard, per lui incomprensibili con la loro adesione a una dittatura disumana. Ancora una volta, Cioran è sradicato, anche nel mondo della cultura. Per lui l’uomo occidentale è come Tantalo, il re mitico che sedeva al desco degli dei ma che non sapeva godere della propria ricchezza, colui che ha tutto ma che vuole votarsi a un inspiegabile pauperismo comunista: paradosso.

Nelle lettere a Kraus, Cioran rivela tutto il suo preoccupato stupore nel vedere la gioventù francese, non contenta della libertà di cui dispone, reclamarla a gran voce in cortei e proteste, per consegnarsi, eventualmente, attraverso una agognata rivoluzione, all’incubo della tirannide sovietica. La sua lontananza da quella ideologia lo porterà, pur frequentando lo stesso caffè di Sartre, Le Flor nel quartiere latino, ad ignorarlo per anni senza rivolgergli mai la parola.

Il sentirsi “straniero” di Cioran è in sintonia con l’amata figura di Sissi, l’imperatrice moglie di Francesco Giuseppe, angelo del disinganno, ombrosa al punto tale da rifuggire ogni contatto pubblico, vero atto di diserzione sociale che gliela rende sorella. Come Sissi si celava dietro le sue velette, Cioran vorrebbe una vita solitaria, più nascosta, non sottoposta alla schiavitù delle visite, degli incontri serali, delle conversazioni futili e sfinenti, degli spossanti e difficili rapporti con editori e traduttori.

E tuttavia, al di là di questa apparente misantropia, nelle epistole a Kraus emerge la figura di un uomo buono, educato, rispettoso, il quale suscita la perplessità del critico viennese che si chiede, nei suoi appunti di diario, come possa Cioran essere l’uomo civile e generoso che è, ed elaborare al contempo il suo pensiero così aridamente gnostico e ostile ad ogni manifestazione materica. Kraus azzarda delle ipotesi, quasi una diagnosi: perché il suo pessimismo? Da dove deriva? Una delusione? Un eccessivo idealismo tradito? Questione di salute? O l’insonnia forse, l’antica tiranna giovanile di Cioran, di cui soffriva già in Romania con la madre, atterrita dal malessere del figlio, che ordinava la celebrazione di messe – insonnia combattuta poi, una volta trasferitosi a Parigi, con la terapia della bicicletta e di passeggiate salutari nei giardini del Luxembourg. La mancanza di sonno, per Cioran, è assenza di rinascita mattutina, mancanza di risveglio, e non permette quel minimo di ottimismo e di progettualità connessi a un inizio.

Per Kraus, in Cioran c’è anche sofferenza, sebbene del tutto volontaria, dell’intrappolamento in una lingua straniera e così freddamente grammaticale come il francese: una specie di “camicia di forza” in cui il temperamento mistico di Cioran deve piegarsi. Ci sono poi il rifiuto della mondanità, del successo, poiché Cioran teme ogni superficialità che ne possa derivare. Gli sembrerebbe uno svilimento. Arriva perfino a rifiutare premi letterari corredati di denaro. Rifugge anche da un eccesso di scrittura, che ritiene inutile. Eppure, Cioran, pur sapendo dell’inconsistenza della vita, non ne rimane fulminato, procede.

Nel corso di queste lettere, scritte nell’arco di un ventennio, viene gettata luce sulla vita di questo scrittore, in una prosa sempre elegante e controllata, che ci informa dei suoi progetti, delle sue letture e anche del declinare della salute e della forza vitale con l’avvicinarsi della vecchiaia, stagione aborrita per la perdita di libertà che ne deriva. E poi sullo sfondo Parigi, fatale Parigi, oppressiva, tutta un chiacchiericcio, mentre Cioran anela a una patria fredda di clima e di rapporti umani.

Le sue innumerevoli letture, un “vizio” di cui non può fare a meno, lo portano a crearsi un suo personalepantheon di figure che gli sono più affini, come Erwin Chargaff, stimatissimo scienziato e pensatore, e poi Jünger per cui nutre un’ammirazione vitalistica e con il quale condivide un aristocratico pessimismo, e ancora Joseph de Maistre, pensatore della controrivoluzione, Rudolf Otto, Meister Eckhart – “il più sublime” –, madame du Deffand, la grande scrittrice di epistole che fece della conversazione un’opera d’arte, cosciente e lucida in maniera esasperata e quindi troppo civilizzata e così, per forza, fragile e declinante. E soprattutto, il maestro della coscienza, il suo maggiore conoscitore, Dostoevskij, che vide in essa una malattia per l’uomo.

Anche il nichilismo offende Cioran quando non è abbastanza puro, come nei russi che avevano una finalità storica ben precisa e quindi una meta – perfino nel buddismo Madhyamika c’è il fine ultimo della liberazione, cioè ancora una meta. Pieno di un vero furore gnostico, se fosse stato credente Cioran sarebbe stato un cataro, con il suo rifiuto di avere figli poiché pensa che la famiglia non meriti di perpetuarsi. La sola pace possibile la trova nei piccoli lavoretti di falegnameria, quando si reca in vacanza a Dieppe, manifestando quasi una propensione alla mistica zen, oppure rivelando un insospettabile slancio estetico quando invita uno scrittore amico ad adottare una certa frivolezza formale. Cioran, che affronta tutto con una scrupolosa serietà, pare incapace di prendere atto che l’uomo sia ciò che è; lo desidera quasi simile a un dio e gli si scaglia contro perché così non è. Cioran è un mistero.

In ogni caso, o attraverso le letture, o nella sua vita reale, vediamo come egli sia capace di avere un rapporto autentico solo con persone che hanno smesso di essere entusiaste. Preferisce quelle messe a nudo, non rivestite dalla protervia di un’illusione.

Sono questi scritti uno squarcio su una vita e su un periodo di storia estremamente puntuali, che si leggono con piacere, ma con alcune singolarità che, in quell’apparente scorrere fluido della scrittura, emergono folgoranti. Aforismi, che quel semplice racconto riscattano, nella freddezza marmorea della parola che cela un’apertura di verità possibili. Gemme che ci folgorano.

Ma alla fine, unica parola che Cioran dice che gli rimanga è Umsonst, invano, che, come un cartiglio in un’iscrizione araldica, egli potrebbe porre a suggello della propria vita: per questo feroce nichilista, la grazia di un significato non esiste.

Mario Sammarone (pubblicato su Nazione Indiana)

“La Pietra della Bellezza” di Gerardo Picardo: dove l’Amore è eresia

la_pietra_della_bellezzaGiordano Bruno non è solo il martire del libero pensiero; è la vittima dei fanatici del “divide et impera”, degli accademici, dei “parrucconi pedanti”, dei dogmatici, di coloro che sono dalla parte di Cratos, il potere, di tutti quelli che non si abbandonano ad “Amor vincit amnia”. Di tutti quelli che “non sentono questo Amore trascinarli come un torrente in piena”, di tutti quelli “che non bevono l’alba come una tazza di acqua sorgiva o non fanno provvista di tramonto” e di tutti quelli “che non vogliono cambiare”, che, come canta Jalal’uddin Rumi, non meritano, certamente, di essere condannati a torture inaudite, ma solo “puniti” con un “lasciateli dormire”.

Gerardo Picardo disegna con forza e grazia gli slanci infiniti e le speranze immense, la fiducia nelle possibilità dell’uomo e i sospetti profondi verso ogni forma di massimalismo e fondamentalismo che emanano dal sapiente di Nola.

Picardo tratteggia Giordano Bruno nell’ambito che più lo delinea: quello del teatro, sacro a Dioniso. Le immagini della memoria di Fludd si trasmutano nell’ebbrezza del palcoscenico di Shakespeare, entro il quale il frate senza saio veste i panni luminosi degli empiti di “Pene d’amor perdute”.

La “bellezza” della “pietra” di Bruno-Picardo è gentile, si leviga di passione, si fa tonda, accogliente, femminile, per chi ha l’ardore di aprire il petto, di togliere ogni corazza al cuore; per chi, come Leonida alle Termopili, alla terribile domanda dei persiani, “quale è il contrario della paura?”, non ha dubbi nel rispondere: “l’Amore!”. È per questo che Bruno non ha avuto timore e ripensamenti quando è, ormai, al cospetto della tremenda conseguenza della sua apparentemente incomprensibile scelta. Non per caso, ma per Fato, ebbe modo di dire nel “De gli eroici furori”:

…ma qual vita pareggia al morir mio?

Come rivela l’”Atto unico” di Gerardo Picardo, la “Nolana filosofia” è ricerca svincolata dai dogmatismi, e la vera libertà di Bruno è, come direbbe Ibn ‘Arabi, la Religione dell’Amore. Per questo credo fermamente che opere come La Pietra della Bellezza debbano essere proposte, continuamente, insistentemente, sistematicamente, perché sono dei veri e propri antidoti radiosi ai veleni che, oggi come ieri, esalano dalle voragini più oscure dell’anima umana. Leggere queste pagine è come assumere un farmaco, un rimedio inaspettato, un elixir che ha il prodigio di toccare con semplicità ed immediatezza l’eredità sconfinata di Giordano Bruno.

Non c’è altro da aggiungere, se non lasciarsi avviluppare dai baluginii risplendenti dei mille colori delle ali di psiche di queste pagine. Come dice il Bruno di Picardo, per essere liberi “dobbiamo imparare a respirare”, ad essere entusiasti, “en-theos”, cioè a “far respirare il Dio che ci portiamo dentro”.

 

Gabriele La Porta

Libri consigliati: “I segreti di Pitagora”

i segreti di Pitagora

di Mario Sammarone

Presentazione del libro “Il mito della sociologia”

Carissimi,
vi segnalo la presentazione del libro “Il mito della sociologia – intervista a Franco Ferrarotti” (ed. Solfanelli) di Mario Sammarone che si svolgerà domani 23 ottobre presso la casa delle Letterature, ore 17:00, a Roma.
Vi parteciperanno  il prof. Franco Ferrarotti, Massimo Di Forti – giornalista de il Messaggero, il dott. Danilo Campanella, l’editore Marco Solfanelli e l’autore Mario Sammarone.
mito sociologia

Limiti

“Forse in ogni uomo c’è un primordiale istintivo bisogno, ogni tanto, di imporsi dei limiti, di scommettere con delle difficoltà, per poi sentire di essersi meritato qualcosa di desiderato”.

Tiziano Terzani

Agnese Monaco (Poesia – Metamorfosi)

Spesso mi chiedo perché quando si parla di poesia , la risultanza appare sempre una raccolta delle stesse, senza troppe connessioni logiche ed evoluzionistiche dei testi. Ancora si crede che le sillogi poetiche siano astratte dal tempo e dallo spazio. A mio parere, scrivere e leggere poesie è il dialogo segreto tra le nostre anime. Tramite esse ricordiamo di entrare in contatto con i nostri lati interiori più intimi. Tutto è evoluzione , come il nostro spirito. Questo viaggio nell’interiorità, può essere condivisibile erga omnes oppure un “condurre” tenendo la mano di chi ha bisogno di riscoprire la propria sopita sensibilità. Non necessariamente per riscoprire l’equilibrio e la serenità bisogna parlare o meglio scrivere d’amore. Spesso oltre alle parole celebrative di circostanze e situazioni è utile la cadenza verbale e l’atmosfera. La poesia unisce nella sua forza evocativa tutti gli esseri viventi, sublimandone gli effetti benefici. Per quanto riguarda tutti i miei scritti, costante è la pratica evoluzionistica e pedagogica dei testi. Tutto muta, si trasforma scorrendo come un fiume, secondo la visione di Eraclito. Panta Rei . Questo non significa banalmente il “cambiare idea”, ma evolversi per raggiungere ciò che intendiamo filosoficamente e moralmente la cosiddetta “retta via”. Tendere al bene e scoprire da esso nuove consapevolezze grazie all’esperienza ed al fruire libero della propria sensibilità. Chi dice che è male in questo mondo mostrare la propria sensibilità, perchè intesa come fragilità, ha ragione , ma allo stesso modo essa può essere sinonimo di diversità e forza interiore se adeguatamente indirizzata. Forse se si lasciasse più spazio alla propria essenza, piuttosto che all’apparenza sterile ,futile e passeggera, si vivrebbe in un mondo migliore. Sine paure di mostrare ciò che realmente siamo , sine corazze e steriotipi senza morale. Quello che ci distingue gli uni dagli altri è la nostra essenza, non i tratti somatici o le eventuali “modifiche plastiche”. Credo che uno dei problemi del nostro tempo sia questa spiccata aridità che man mano ci trasciniamo come un bagaglio verso questa folle corsa, verso il nulla. Forse dovremmo smettere di correre l’uno dietro l’altro, senza sapere il perché, come citava mio padre in una sua splendida poesia in lingua napoletana. Dovremmo capire e gestire le nostre azioni e riscoprire una adeguata educazione alla sensibilità e alla comprensione delle varie arti poetiche ed artistiche. Forse ci sarebbe un bisogno smodato di amore puro. Forse dovremmo solo aprire gli occhi per iniziare a sognare.
Agnese Monaco

“Cari Amici del blog, questa sublime riflessione, è tratta dalla prefezione del Libro METAMORFOSI della poetessa Agnese Monaco.
Il libro è di prossima uscita e tornerò a parlarne”.

Vi lascio, ancora, nelle sapienti mani della Monaco…
A presto
Gabriele

 

Metamorfosi nasce dal mio rifacimento ad Ovidio. Nelle Metamorfosi vengono cantate in quindici libri più di duecentocinquanta miti rielaborati. Ogni episodio ha come origine una delle cinque forze motrici del Mondo Antico, ossia l’Amore, l’invidia, l’ira, la paura e la sete di conoscenza. Nella mia versione invece attraverso ossimori, aforismi, haiku, poesie e brevi pensieri racconterò l’origine dell’ego e le sue evoluzioni. Narrerò le mutazioni su un doppio livello, il primo derivante dall’età anagrafica, mentre il secondo ottenuto da influssi che circondano il quotidiano di ogni essere. A contorno di questi due, arriva in soccorso la molteplicità dei generi letterari usati che sottolinea ulteriormente l’evoluzione e la metamorfosi stessa. Di fondo le forze motrici del mondo antico non verranno intaccate, ma saranno enucleate anche in questa versione a base di tutti i testi inclusi.

 

 

 

Libro consigliato: “La bugia dell’alchimista”, il segreto della Porta Magica del Marchese Palombara

Naturalmente, un manoscritto.
Non si può fare a meno, leggendo La bugia dell’alchimista (La lepre edizioni, 2014), di riandare ad illustri precedenti, in primis, per citare i più famosi, I Promessi Sposi e Il Nome della Rosa. È la solita prassi: grazie ad un escamotage letterario ampiamente frequentato, ancora una volta un rinvenimento di antiche carte serve a creare storie, raccontate volgendosi a pari grado a fatti realmente accaduti e all’invenzione letteraria.
Nel caso di questo romanzo, viene fortunosamente rinvenuto un diario, scritto da una donna sconosciuta alla storia, tale Lisbetta Vincioli, nello stesso giorno della morte di Massimiliano Palombara, il 16 luglio 1685. Molto del conseguente intreccio è imperniato sulla puntigliosa caccia della protagonista Cristina alla ricerca dell’identità di Lisbetta.
Per gli amanti di vicende storiche, Massimiliano Palombara è stato un tipico uomo del Seicento, un nobile inquieto come il suo tempo, desideroso di mantenere la sua posizione ma soprattutto teso alla ricerca di quella sapienza occulta, ossessione di ogni uomo di cultura del tempo. Il Palombara ha pubblicato due opere, entrambi con lo stesso titolo, La Bugia, trattatelli di argomento alchemico.
E qui inizia il gioco di allusioni e depistaggi: di quale “bugia” si tratta? Di quella che si intende con una menzogna, oppure dell’oggetto che serve come porta candela, talvolta usato dagli alchimisti ed effettivamente raffigurato sulla copertina dell’opera di Palombara? Siamo nel dominio dell’Alchimia, dell’Opera al Nero, e quindi in un mondo di chiaroscuri dove nulla di ciò che sembra, o viene detto, è vero. Ma neppure falso.
La protagonista del romanzo, Cristina, è una studiosa di codici secenteschi. Un bel giorno trova nell’archivio di Palazzo Massimo, a Roma, il manoscritto firmato da Lisbetta Vincioli, a lei sconosciuta. Leggendo il diario e dipanando gli avvenimenti, avvenuti più di trecento anni prima, vive ella stessa una storia al presente, scoprendo analogie e specchiandosi nel passato.
Ma “cosa è specchio di cosa?” La risposta sarà data ancora dalla conoscenza alchemica: la corrispondenza di ogni componente dell’universo è la chiave dell’intreccio. L’affinità della luce e dell’ombra, dell’alto e del basso, come dice anche il Padre nostro: “Sicut in coelo et in terra”. Ma lo sforzo di Cristina di pervenire alla soluzione dell’enigma del manoscritto si rivelerà innanzitutto un lavoro su di sé.
A tutto questo Massimiliano Palombara ha dedicato la vita, trascorsa nello studio e nella dedizione all’Arte più oscura ma anche più luminosa. Egli era un uomo impegnato politicamente e anche militarmente, per realizzare i suoi sogni, nel crogiolo di un tempo in cui la durezza ha temprato il suo animo – tanto per rimanere nella terminologia alchemica.
Possedeva una villa all’Esquilino, dove fece costruire la cosiddetta Porta Magica – un monumento sito a Piazza Vittorio conosciuto da quasi tutti gli odierni romani –, essa stessa “una bugia” che porta la luce. Sembrano rimandi inspiegabili e senza connessione, ma il geroglifico della Porta Magica è il simbolo di una “bugia” che illumina l’accesso alla porta della conoscenza, per invitarci a portare i nostri passi su una via impervia che, sola, può darci la consapevolezza più alta.
L’archetipo della porta si trova in molte tradizioni ermetiche, basti pensare alle due porte delle anime di Porfirio e dei neoplatonici, che gli uomini oltrepassavano al termine della loro vita, per accedere purificati ai mondi superiori della luna e del sole.
Poi c’è il discorso del matrimonio interiore, ovvero della riunione dei due principi maschile e femminile, espresso a molti livelli del romanzo in maniera simbolica. “Le nozze chimiche” – nome di un manifesto rosacrociano scritto nel Seicento e trasmessosi nei secoli a venire – e la corrispondenza degli animi sono la quintessenza dell’Opera, che con fede e fiducia vuole creare un uomo migliore.
Lisbetta Vincioli è colei che sembra incarnare questo principio. Nel diario ritrovato da Cristina, è scritto che ella si recò dal Palombara come portatrice di una misteriosa custodia, contenente libri magici. Ma molto di più si rivelerà lei stessa compagna e dono per lui, legandosi al nobiluomo romano per il resto della sua vita e trovando così, insieme, il premio dell’opera.
Lisbetta però è anche Lesbio Lintuatici, un tecnico teatrale che ha operato nella compagnia dei Confidenti. Infatti, sotto queste mentite sembianze maschili, si è celata per vivere un’esistenza più libera e per poter accedere allo studio, opportunità precluse a una donna del Seicento. Lisbetta ha quindi riunito nella sua persona le opposizioni uomo-donna, realizzando l’androgino. Ennesimo rimando, ennesimo specchio, che tuttavia la protagonista Cristina decifrerà, scoprendo che ogni uomo deve essere materia, vaso e fuoco per raggiungere la meta vagheggiata.
È sufficiente questo intreccio? No di certo! Nella trama secentesca, contro-storia di quella che vive Cristina nel presente, si introduce un nuovo grande personaggio, la regina Cristina di Svezia, alter ego della protagonista anche nel nome. La regina di Svezia fu un’adepta delle arti occulte al pari di Caterina de’ Medici, regina di Francia, ma siamo nel Seicento, secolo della magia, secolo rosacroce.
La bugia dell’alchimista è scritto con notevoli conoscenze storiche e ricco di citazioni della tradizione alchemica, originalmente interpretati. Una curiosità del romanzo è che sia firmato in maniera spiazzante da Jason D’Argot, un personaggio che, come l’ebreo errante, rivive in tutte le epoche storiche, dal 440 d.C. quando nacque a Smirne fino ai nostri giorni, passando per Medioevo e Rinascimento, tra esperienze rosacruciane e massoniche ed attività letteraria e politica.
Ma il nome dell’autore non è scelto a caso, come nulla lo è in questo romanzo (e nelle arti occulte): Giasone è colui che conquista il vello d’oro, altro modo segreto di definire il premio alchemico, premio sicuramente ottenuto dal Palombara, come si vedrà nel sorprendente finale. Egli, come già D’Argot, può aggirarsi in carne e ossa tra noi dopo secoli di esistenza per indicarci la via che ha già trovato, vivendo così sotto i cieli di tutte le epoche.
Un libro molto interessante che, tuttavia, anche per i più scettici verso certi argomenti, si potrà leggere come appartenente alla migliore tradizione del romanzo storico, come ci spiega anche la curatrice Fiammetta Iovine in una delle presentazioni romane della Bugia. Un libro ben documentato e scritto con una lingua che si fa antica, quasi aulica, nella parte che racconta la storia di Lisbetta; ma sempre con uno stile introspettivo e coinvolgente che ci farà riflettere e che ci suggerirà, forse, cosa sia la vera trasformazione interiore: esercizio della coscienza e riflessione, pratica costante e viaggio periglioso, ma illuminante, dentro di noi.
Naturalmente, un manoscritto.

Mario Sammarone

Venerdì scoprite come me “Cross Roads”

Cross Roads

Il nuovo bestseller di Paul Young
Pubblicato da Verdechiaro Edizioni
Presentato da Gabriele La Porta

Venerdì 13 Gugno 2014 Ore 19.00

CENTRO OLISTICO HARMONIA MUNDI

Via Dei SS. Quattro, 26/a – 00184 ROMA
Tel: 0670478834 – 3493400396 – www.harmonia-mundi.it

Carissimi amici,
venerdì presenterò a Roma, presso il Centro Olistico Harmonia Mundi, di cui vi lascio tutti i riferimenti, “Cross Roads“, il nuovo libro di Paul Young. Vi aspetto numerosi per poter far “respirare” l’elemento numinoso che c’è in noi.

Dopo 7 anni, finalmente anche in Italia il secondo romanzo di W. Paul Young, autore del bestseller “Il Rifugio”. Un libro che parla di scelte, di partecipazione, di relazioni, parla delle conseguenze delle nostre azioni. “Cross Roads” è il luogo dove tutto crolla, tutto viene sfidato, perché possa emergere la possibilità di un cambiamento genuino. Fa ridere e piangere, sorprende e meraviglia: è una testimonianza della ricerca della bellezza e dell’autenticità, e del bisogno che abbiamo di questi valori. Tutti noi siamo chiamati a compiere delle scelte, ad attraversare delle strade, a guardarci negli occhi, ad amarci l’un l’altro. È la storia di un uomo prigioniero della sua stessa creazione.
Anthony Spencer è un uomo egoista, orgoglioso del suo successo come self-made man, seppur raggiunto a costo di scelte dolorose. Un’emorragia cerebrale lo lascia in coma in ospedale. Si “risveglia” in un mondo surreale, che rispecchia la sua vita sulla terra, nel bene e nel male. È qui che, forse per la prima volta nella sua vita, ha incontri genuini con altre persone, che gli danno una speranza di redenzione. Avrà il coraggio di fare la difficile scelta che gli permetterà di risolvere l’ingiustizia commessa prima di cadere in coma?

W. Paul Young (1955) è autore del romanzo “Il Rifugio”, bestseller in tutto il mondo con 18 milioni di copie vendute, nato dal desiderio di esplorare il rapporto dell’uomo con Dio in situazioni di trauma e disperazione. Nato in Canada, è cresciuto tra le tribù indigene con i genitori missionari nella Nuova Guinea Occidentale. Dopo aver sofferto gravi perdite nell’infanzia e nella giovinezza, ha cresciuto 6 figli e vive con la famiglia negli Stati Uniti.

Ingresso Libero. Iscrizione sul sito.

La Lucrezia di Dario Fo – Nel suo ultimo libro “La figlia del Papa” dedicato alla più famosa dei Borgia, nell’ambito della politica del ‘500 (così simile a quella di oggi)

Madame Bovary c’est moi! Questa famosa esclamazione di Gustave Flaubert, davanti al suo romanzo capolavoro, potrebbe valere per molte altre opere. Sicuramente vale per l’ultimo lavoro  di Dario Fo, La figlia del papa (Chiarelettere, 2014) in cui sembra ci sia una forte adesione tra l’autore e il suo personaggioPer l’ennesima volta, si ripercorre la vita di Lucrezia Borgia, tante volte raccontata in modi diversi, come dai romanzieri dell’Ottocento ad esempio, che disegnarono una figura quasi infernale, una manipolatrice di situazioni e di uomini, addirittura esperta di veleni che usava contro i nemici e chiunque ostacolasse i suoi piani, tesi al potere. Questo perché i romanzieri dell’Ottocento volevano screditare il papato, che a quel tempo reputavano corrotto.

Maria Bellonci, invece, con il suo Lucrezia Borgia del 1939 ha riabilitato in pieno questa figura, penetrando nella sua interiorita’ pur appoggiandosi fedelmente alla realta’ storica. Più recentemente, l’editoria commerciale, nonche’ la filmografia, hanno puntato di nuovo su aspetti  erotico-scandalistici con prodotti volti a solleticare il gusto del grande pubblico.Invece Dario Fo e’ sempre Dario Fo, e allora anche Lucrezia un po’ gli somiglia, anche perché la figura di Lucrezia che emerge in questo romanzo è del tutto utopistica, e dove c’e’ utopia c’e’ Dario Fo.Lucrezia si muove nel suo ambiente di luci ed ombre, ma rimane sempre nella sua luminosa alterità, ripudiando ciò che corrompe e contamina l’essere umano, la brama del potere. Lei stessa è una pedina usata dal padre, il papa Alessandro VI, e dal fratello Cesare, il famoso duca Valentino, manipolata per accrescere o conservare la posizione dei due e saziare la loro sete di potere.Eppure Lucrezia riesce a maturare un’aura di saggezza che le permette di allontanarsi, distaccarsi da tutto cio’ che le accade, condannando perfino le sopraffazioni e le violenze per restare nella sua mandorla di innocenza, con una presa di coscienza degna di eroine ben più moderne.Nel corso degli avvenimenti, la figlia del papa sviluppa un pensiero quasi utopistico, spera in una società piu’ giusta, perché il suo animo è stanco di agguati, delitti, tradimenti e vorrebbe pace e giustizia intorno a sé; tutto ciò è affine al pensiero politico e umano di Dario Fo.

 Certamente, questa è una ricostruzione che l’autore ha fatto del personaggio, seguendo un percorso  e portandolo avanti coerentemente, ma per fare questo ha dovuto minimizzare certi fatti o enfatizzarne altri. Quello che emerge è comunque una condanna di quei tempi (e per riflesso di questi) in cui ogni inganno, meschinità o corruzione vale solo se tira l’acqua al proprio mulino.Probabilmente Lucrezia Borgia non è stasta come la descrive Fo, né poteva esserlo del resto, ma ha combattuto con le armi che aveva una donna di quell’epoca: la duttilità per adattarsi alle situazioni, la dolcezza e l’obbedienza per favorirsi le simpatie degli uomini, ma anche una grande intelligenza che ogni storico le riconosce.Le parti migliori del romanzo di Fo sono quelle in cui l’autore, da meraviglioso affabulatore qual è, apre spiragli di comicità per lanciare qualche sberleffo ai potenti del tempo, identici a quelli di oggi, come nell’episodio in cui il papa Alessandro intende cambiare radicalmente il Vaticano, la Curia e tutto il sistema di potere di Roma; ma l’intento si sbriciola ben presto in un niente di fatto per lo spavento che il pontefice prova riflettendo sulle conseguenze che potrebbe provocare.E allora, sembra dirci Dario Fo, nel Cinquecento come oggi, cambia tutto (o si finge di cambiare tutto) ma rimane sempre tutto uguale. Tanto gli uomini, come dice Machiavelli in una sua frase riportata ad inizio libro, sono sempre pronti a farsi infinocchiare dal nuovo venuto che promette miracoli.

Mario Sammarone

Partita di anime

Carissimi, è con piacere che vi suggerisco un altro romanzo dell’amico Giovanni Agnoloni.

Partita di Anime… due racconti a sé stanti, eppure legati da un filo sottile, sullo sfondo di un’Europa ormai priva di Internet. Nel primo, un giornalista indaga sull’omicidio di un assicuratore italiano nel cuore di Amsterdam. Sulle tracce dell’assassino, scoprirà di essere al centro di una partita di anime impegnate a ricucire il tessuto strappato delle proprie vite. Nel secondo seguiamo le peregrinazioni notturne di uno scrittore per le vie di una Firenze segreta, alla ricerca del suo amore perduto. Una lettera ci introduce nell’avvincente spin off di Sentieri di Notte, in attesa degli eventi che animeranno il suo sequel.

Giovanni Agnoloni è nato a Firenze nel 1976 ha pubblicato il romanzo Sentieri di Notte (2012), tradotto in spagnolo (Senderos de noche, 2014), e i saggi Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori (2011), Nuova letteratura fantasy (2010) e Letteratura del fantastico. I giardini di Lorien (2004). Curatore e co-autore di Tolkien. La Luce e l’Ombra (2011) e co-traduttore (con Marino Magliani) di Bolano selvaggio (2012), ha tradotto opere di Amir Valle, Peter Straub, Tania Carver e Noble Smith. Scrive sui blog “La Poesia e lo Spirito” e “Postpopuli”.

Titolo: Partita di Anime
Autore: Giovanni Agnoloni
Edito da: Galaad Edizioni
Uscita: 20 Marzo 2014
Pagine: 88 p.

La nostra cara Maria Allo…

Maria Allo, Al Dio dei ritorni

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di Gloria Gaetano

Maria Allo è una delle voci più intense, vitali e addolorate del nostro sistema letterario, ma riesce anche a conservare una magia sottile, pensosa, a volte anche ironica.

“siamo terra ferita di uno stesso paese
unico e molteplice turbine
tra le rovine
decomposta polvere dentro
le parole”.

Tutte le sue pagine, il suo dolersi si compone in versi di musicalità rarefatta, col garbo e il passo lieve di chi sa la misura e ne rispetta l’interno suo farsi . E’ così che sa togliere pesantezza alla sostanza più cruda della vita, addolcendo i tratti della fatica, che pure avverte, e sorvegliando la pena perché non sconfini e si faccia affanno disordinato nelle mani che non saprebbero più governarlo.
“…le tempie del cielo come rogo
su fatti di ogni giorno”.
In questi versi racconta i frammenti misteriosi, le soglie invisibili che non sappiamo schiudere, che ci fanno avvertire la distanza – una certa negata libertà – e che ci costringono a fare i conti con ciò che ci è dato, negli elementi naturali, nelle sinestesie, nei suoni, nel silenzio che rinomina le cose-poco forse, certamente non l’eccesso , la sovrabbondanza che frena l’espansione del lettore che entra in sintonia con la sua sensibilità appassionata eppure controllata.
L’autrice racconta del nostro quotidiano districarsi tra limite e limite, del nostro essere immersi nella natura (dalla sua Sicilia ridondante), fatta anch’essa di epifanie e confini (e i limiti che pone sono i respiri sospesi più belli), un lieve contrappunto musicale che sa essere loquace per l’orecchio.
E riesce a cogliere echi e risonanze col proprio vivere di passi incerti nel tempo in cui sembra di sentire il contrappunto musicale, sovrimpresso nel silenzio di fondo.
E le parole e il mondo sono uguali, curate, levigate, dure alla ricerca della perfezione.
Maria sa trovare nella natura consiglio o coincidenza , che compare nella folata di vento di una serata di autunno, dove l’isola può nascere in ogni minuto dalla sua terra che muore di calura, mentre tutti i segreti tormenti si riducono a pietra porosa e scalfita.
La sua è una ricerca accurata di segni, di schiarite al turbamento, di fermi più clementi, nel suo intimo colloquio con il tempo che va si facendo ancora più limpido quando è dedicato a luoghi,persone care e vicine o a dipinti,foto che hanno colto bene squarci di stupore.
Non è poi così strano che la sua poesia mi ricordi molto il canto di un grande soprano.
Nelle voci che emergono dal profondo sè, qualsiasi aurora o durezza della vita si leva sempre come un soffio che sa accarezzare le parole addolorate, che consola con un lirismo naturale, liquido e spontaneo.
La conversazione di Maria con la vita può solo somigliare alle parole che vorrebbero per un po’ quietarla, o venir trasformate in “magie alchemiche leggere, se lo sguardo è felice e in stato di grazia.
In ognuno dei suoi ‘fragmenta’, il timbro è sempre nitido, elegante e concentrato in “grammi puri” di bellezza.
La costruzione e la concentrazione di questo io lirico vuole essere una personale e tenace risposta ai problemi fondamentali del fare poesia nel nostro tempo (la crisi intima dell’autore, del soggetto, della letteratura). Nell’epoca in cui il Soggetto ha perso la sua unità, in cui l’Autore e la Letteratura sono orfani del loro ruolo e dei loro modelli tradizionali, in cui la Forma cede al Magma, Maria sceglie di imprimere alla sua voce un timbro fermo, teso a contenere ogni febbre, ogni smarrimento e ogni delirio nella fortezza di una pace profonda, di una quiete solenne, nella sovrana distanza di uno sguardo siderale e in acuta sintesi di pensiero e intuizione profonda.

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/03/08/76683/

 

La Mitologia Indù e il suo Messaggio

Le edizioni Mediterranee ripropongono un’opera di Jean Herbert (1896-1980) studioso che, a partire dagli anni trenta del secolo scorso, si è interessato e ha divulgato in Occidente lo studio del Buddhismo e delle religioni orientali. In Occidente, da Schopenauer in poi, si è conosciuto anche troppo questo fenomeno di interesse di massa per queste religioni, spesso banalizzandole, come ad esempio nel messaggio del tantra vedantico; leggere un libro di questo genere, che possiamo quasi definire classico, è come attingere ad una fonte di seria e sicura preparazione culturale.

Già il titolo, La Mitologia Indù e il suo Messaggio (pag. 131, euro 12.50), ci indica l’approccio dell’autore: descrivere e prospettarci i complessi miti dell’India, dis-velando e dipanando il messaggio che recano. Il volume raccoglie una serie di conferenze tenute da Herbert a Ginevra nel 1949, pubblicato per la prima volta nel ‘53. L’intenzione è indicare, dietro la grande messe di erudizione raccolta da grandi studiosi di Orientalismo, tra cui sir James Woodroffe, la via dell’Induismo, inteso non come evasione, fuga dal qui e ora, ma come metodo per accostarsi e risolvere i problemi fondamentali delle nostre vite.

La vita moderna dell’era della tecnica ci dà insoddisfazione e delusione per ciò che possediamo, da qui il bisogno di una ricerca di qualcosa che ignoriamo ma che desideriamo, lo spasimo a dissetarci alla sorgente stessa della spiritualità. Inizialmente, l’Induismo viene studiato più come una pratica speculativo-filosofica, non come una vera e propria mistica, al tempo quasi un tabù per noi occidentali presi dallo storicismo e dall’idealismo post-hegeliano. Certo, possiamo negare la mistica, ma i mistici esistono, tanto più che in India non c’è alcuna opposizione tra religione-mistica e scienza-filosofia; ogni aspetto di esse è ugualmente rigoroso nella sua applicazione, quanto la scienza ingegneristica o medica. In India la mitologia è viva, ed offre elementi di realtà pratica oltre che strettamente religioso-spirituale.

La mitologia induista costituisce da millenni la base morale e spirituale di una vasta moltitudine di uomini, che attinge da essa in maniera sempre uguale, esulando da ogni considerazione di tipo evoluzionistico che studiosi occidentali potrebbero avanzare. Perché evoluzione, così come noi la intendiamo, non c’è, né si può cercare nel significato autentico dei Veda, in cui si disvela un altro tipo di evoluzione, del tempo ciclico, l’avvicendarsi delle età con le varie fasi del mondo (Yuga), che si ripetono eternamente.

Herbert prende, ad esempio, il mito solare di Sharanyu, la sposa del sole, e ce lo narra nelle sue molteplici declinazioni, con aggiunte e variazioni che offrono un quadro poetico della realtà cosmica. Il Sole, inteso come illuminazione divina del mondo e dell’anima umana, sposa Sharanyu, personificazione della creazione e della manifestazione delle forme, ma essa, incapace di sopportare l’eccessivo ardore dell’astro diurno, si fa sostituire da Chhaya, l’ombra, anche se alla fine si riunisce al suo sposo che ha accettato di attenuare il suo fulgore. Questo mito, come altri, ha un valore educativo e di esempio quanto possono averlo le storie di Plutarco o Porfirio, e non è detto che non abbiano alcun valore di storicità.

Ognuno deve cercare per sé, trovare il suo Dio. Gli dei vedantici sono manifestazioni definite dell’Indefinibile: da Brahman (l’assoluto), attraverso la creazione, discende il mondo e il mito di Sharanyu lo descrive, allo stesso modo di altri racconti.

Un mito affascinante è quello che narra come il mondo sia poggiato su quattro elefanti che simboleggiano la forza fisica apparente, a loro volta poggianti su quattro tartarughe, la forza fisica segreta, simboleggiata dal fatto che si ritirano nel loro guscio; ancora più nel profondo, le tartarughe poggiano su Brahman, l’Ineffabile.

Quanto si può meditare su questo mito, e quanto ci spiega, ben più di ogni teoria cosmologica, in quanto parla alla nostra intuizione. Ci dice come si è passati dall’Indifferenziato alle molteplici forme del mondo, in un movimento che va dall’indeterminato ad una crescente formalizzazione. Ogni mito poi, come petali di un fiore di loto, si aggiunge ad altri, in modo da comporre, pur nella loro apparente contradditorietà, una spiegazione complementare della creazione. Quale teoria del Big Bang o simile ci può dare conto del mistero dell’origine, quanto e più di questi meravigliosi miti?

Il movimento incessante del rapporto tra gli elementi della Trimurti, cioè le tre divinità inscindibili tra loro, ci riporta, oltre alla Trinità cattolica, al pensiero filosofico della dialettica hegeliana, con tesi-antitesi-sintesi. In effetti si può dire che il pensiero sia stato già tutto pensato nell’Induismo. Anche le recenti scoperte fisiche, con la intima identità tra materia ed energia, descritta nella teoria relativistica, sono nient’altro che la scoperta di ciò che già era noto alla speculazione indiana, millenni fa, con mondo-uomini-dei senza personalità distinte, in quel gioco delle forme che è proprio della religione induista.

Per un occidentale, con una mente formata dal pensiero razionale di stampo cartesiano, è estremamente difficile penetrare nella natura delle divinità Indù. C’è un’identità profonda tra esse, come se ognuna fosse una manifestazione dello stesso principio, con un nome diverso; ma il devoto non cerca spiegazioni, è solo consapevole che sia così, che ciascun dio è sempre il Dio unico Ishwara, ma che per necessità di culto, e di pratica religiosa, deve ricorrere alle diverse caratterizzazioni, necessarie per ciascun frangente. È come se la divinità fosse inattingibile nella sua totalità, e l’uomo le si possa accostare solo a piccoli sorsi, per non inebriarsi troppo di una relazione così impari.

Dove si situa l’uomo tra tutti questi dei? È anch’egli partecipe alla divinità, poiché non c’è gerarchia, anche se il vero sapiente non anela ad essere Indra, il dio mitico solare. Non ci sono classificazioni, ossessione dell’occidente. La creazione è ancora in atto, con l’uomo che collabora con il Creatore per realizzarla: prima è apparso il piano materiale, in cui si è poi inserita la vita; poi dalla vita si è manifestato il mentale; infine è preconizzato l’avvento di un ultimo piano, il sovra-mentale. Per noi uomini del XXI sec., non si può fare a meno di volgere il pensiero alla Rete, che oggi tutti ci avvolge.

In effetti, dal 1953, anno di pubblicazione di questa opera, ne è passata di acqua sotto i ponti. La nostra attuale società di consumo è ben più adatta alla spiritualità orientale di quanto lo fosse la società più antica degli anni di Herbert, quasi per una legge di contrappasso. Merito dello studioso è comunque di essere stato un pioniere, ed un maestro, in questo campo. L’insegnamento è sottile: tutto, dei, uomini e mondi sono incessantemente in movimento, impegnati nell’eterna danza di Lila, in qualcosa che per la mentalità occidentale, immersa nel suo schema descrittivo, classificatorio e razionalistico, è inconcepibile. Ma la crisi dell’occidente è così avanzata che, se appunto non uscirà da questo schema, rischierà di essere travolto. E l’Oriente è lì, con il suo messaggio, che ci offre delle opportunità; sta a noi cambiare la nostra visione del mondo per accoglierle e, forse, salvarci.

Mario Sammarone

L’attentato di Clara Martinelli

556759_545250772191425_1139790180_nE’ con timidezza e con orgoglio che vi suggerisco il libro d’esordio di Clara Martinelli. Con timidezza e orgoglio perché è la moglie di mio figlio e la madre di mia nipote. E’ una persona di famiglia, non per “acquisizione” ma per l’amore che ci lega e “muove”, insieme. Il libro, soprattutto, l’ho trovato un lavoro molto interessante e mi auguro che sia solamente il primo di tanti altri…
Gabriele

L’ATTENTATO
E’ una mattina di luglio. In una metropoli, dieci persone si preparano per andare a lavorare o per iniziare una nuova giornata. Nove di loro abitano nello stesso palazzo: Ester, Roger e Paul al terzo piano; Hugh, Rose e Jack al secondo; Robert, Scarlett e Jesse al primo. In uno stabile di fronte vive Kate, che ha la mania di osservare le vite degli altri. Ognuno custodisce dentro di sé un segreto o una questione lasciata in sospeso. Tutti saranno coinvolti in un attentato sotto la metropolitana

QUESTO IL LINK…
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1017723

 

dr. Massimo Lanzaro

http://www.fattitaliani.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=1108:ebook-%E2%80%9Cnel-punto-atomico-dove-scompare-il-tempo%E2%80%9D-di-massimo-lanzaro&Itemid=201

(In foto: Dr. Massimo Lanzaro)

“Studiare i miti e le fiabe è un buon modo di studiare l’anatomia comparata dell’inconscio collettivo” da questa osservazione di Carl Gustav Jung parte l’idea di Massimo Lanzaro, medico, psichiatra e psicoterapeuta napoletano classe 1971, di raccogliere nell’ebook “Nel punto atomico dove scompare il tempo” (scaricabile gratuitamente all’indirizzo http://www.editoredimestesso.it/ebook/lanzaro/) le sue riflessioni in merito pubblicate negli ultimi anni su riviste internazionali. “Non esiste cultura, antica o moderna, arcaica o civilizzata, che non possieda i suoi miti e molti si assomigliano: l’intreccio di base ed il significato sostanziale delle storie, restano gli stessi, in maniera trans temporale – spiega Lanzaro -.
Le fiabe, i miti, le narrazioni in generale consentono pertanto di ipotizzare paragoni tra l’ieri e l’oggi degli strati profondi della psicologia collettiva”.

In questi “Scritti di psicologia” (come da sottotitolo dell’eBook) i temi più importanti affrontati sono: la valenza simbolica delle fiabe e dei “miti di oggi”, gli stadi di reazione psicologica alla perdita ed ai momenti di crisi; le costanti naturali presenti nell’arte contemporanea; la decodifica dei relativi messaggi e la potenziale valenza catartica; alcuni effetti psicologici del consumismo e della società dello spettacolo; le patologie mentali viste da un punto di vista poco ortodosso ed originale. La lettura di questo lavoro si consiglia a studenti di psicologia, psicologi ad orientamento analitico, operatori sociali, medici, antropologi, studenti di letteratura e storia dell’arte, ma risulta piacevole anche a chi non ha una formazione specifica. Leggendo ci s’imbatterà nella teoria del Super Ego o nell’esortazione a “fare anima” con leggerezza e profondità al tempo stesso. Lanzaro affronta i temi più complessi tenendo il lettore per mano. Eccone una dimostrazione.

“Riassumo innanzitutto la nota tesi di Hillman espressa nel suo ‘Il mito dell’analisi’: gli ‘Dei’ rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici – dice Lanzaro -. Prendiamo come esempio la sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) è oggi diffuso e diverse evidenze suggeriscono che fattori psicologici possono essere rilevanti, ed in particolare l’incapacità di riconoscere ed identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel descrivere, esprimere agli altri tali stati d’animo. La body art e l’arte estrema contemporanea nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una sorprendente inversione dei processi di somatizzazione (passivi) descritti, attraverso la produzione attiva d’immagini e l’uso del corpo”.

Poi si può riflettere a partire da un classico. “In sostanza – dice Lanzaro – il fatto che ne ‘Il signore degli anelli’ il tema del potere e del controllo (orwelliano) delle persone sia così prominente e relativamente nuovo rispetto alle narrazioni del passato (remoto), tanto da offuscare più o meno insolitamente gli altri molteplici elementi classici della mitologia (conquista/liberazione di fanciulle, palingenesi dell’eroe etc.). Anche quando questi temi sono sviluppati sono sempre secondari e le storie d’amore, le imprese degli ‘dèi’, dei nani, degli elfi, degli uomini e dei giganti ruotano sempre intorno al tema liberarsi dall’influenza dell’anello, ovvero del potere e del controllo di pochi (o uno) su molti”.

Autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali e membro dell’International Association for Jungian Studies, il dottor Lanzaro è stato primario al Royal Free Hospital di Londra e direttore sanitario in Italia ed in Inghilterra. Attualmente collabora con il Centro Raymond Gledhil di Roma e con l’Università del Cile.

In che direzione stanno andando le sue ricerche? “In questo momento – risponde – sto approfondendo le applicazioni della Schema Therapy, un nuovo sistema di psicoterapia che integra elementi di terapia cognitiva comportamentale, della Gestalt, della psicoanalisi, della teoria dell’attaccamento, della psicoterapia costruttivista, della psicoterapia focalizzata sulle emozioni, in un modello esplicativo chiaro ed esaustivo formulato dal Dr. Jeffrey Young. La Schema Therapy è particolarmente utile nel trattamento di ansia e depressione cronica, disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata), difficili problemi di coppia, difficoltà di lunga data nel mantenere relazioni sentimentali soddisfacenti e nell’aiutare a prevenire la ricaduta nel disturbo da uso di sostanze. E’ dimostrata, inoltre, la sua efficacia nel trattamento di pazienti con difficoltà complesse e di lungo termine come i Disturbi di Personalità, in particolar modo il Disturbo Borderline di personalità”.

Medico affermato, all’estero è conosciuto anche come fotografo. Ha esposto con successo a Londra ed anche a Lincon, nelle Midlands. La fotografia che valore ha per lei? “E’ il mio modo di produrre immagini. E forse talora di proiettare le immagini che ho dentro. Altre volte soddisfa il mio bisogno di mettermi alla ricerca di un silenzio adeguato: la fotografia ha un suo carico di potenzialità riflessive – risponde -. Per altri aspetti, mi è poi cara la riflessione di Robert Adams che, in sostanza, fa coincidere la bellezza – nella fotografia così come nell’arte in generale – con il parametro della Forma, o, se si vuole, della composizione; Forma, a sua volta, intesa come sinonimo della coerenza e della struttura sottese alla vita (un concetto, a mio avviso, molto vicino a quello di ‘archetipo’). «Perché la forma è bella? – si chiede Adams: – Lo è, perché ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, cioè a dire il timore che la vita non sia che caos e che la nostra sofferenza non abbia dunque alcun senso; quell’elemento (la Forma) ha in sé il potere di consolare, rassicurando sull’esistenza di un ordine, per quanto abilmente dissimulato, in ciò che lo circonda»”.

Nel punto atomico dove scompare il tempo

Non esiste cultura, antica o moderna, arcaica o civilizzata, che non possieda i suoi miti. Molti miti si assomigliano, pur appartenendo a popoli vissuti in epoche diverse e in luoghi molto lontani. In alcuni miti dell’America si raccontano storie uguali a quelle di altri miti dell’Asia o dell’Africa o dell’Europa. Cambia il nome dei personaggi, cambia l’ambiente geografico, l’epoca, cambiano altri particolari ma l’intreccio di base e il significato sostanziale delle storie, restano gli stessi. Le fiabe, i miti, le narrazioni in generale consentono pertanto di studiare l’anatomia comparata della psiche collettiva, ovvero di “ipotizzare paragoni tra ieri ed oggi”. Alcune “costanti naturali” sono l’espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio di massa e di base rappresentano gli archetipi in forma semplice e concisa, su cui di volta in volta si stratificano o con cui si intersecano elementi e contaminazioni culturali. Ad un livello più ampio alcune narrazioni sono ritenute una compensazione inconscia dei valori dominanti di una determinata società

(Massimo Lanzaro)

Carissimi, senza ulteriori e superflui commenti (tanto sapete già quanto sia ampia la mia stima), vi suggerisco l’ebook del dottor Massimo Lanzaro.
Assolutamente da leggere….

Gabriele

http://www.editoredimestesso.it/Massimo_Lanzaro/Home.html

Da leggere…

Carrismi, giorni fa vi ho parlato del musicista, autore e ricercatore, Alberto Tebaldi. Oggi è uscita una interessante intervista su Il Velino.
Ve la consiglio

Buona lettura
Gabriele

http://www.ilvelino.it/it/article/alberto-tebaldi-mostro-una-strada-alternativa-agli-operatori-musicali/54255fb5-01b9-4f63-a678-c42307f7a0c1/

Alberto Tebaldi: Mostro una strada alternativa agli ‘operatori musicali’
Con “Trattato di Armonia Jazz Alchemica” il musicista è al suo terzo libro

Chi è Alberto Tebaldi? Più uno studioso, più un musicista o più una persona in cerca di sé? “Un noto pianista del panorama Jazz italiano, con il quale ho avuto la fortuna di collaborare nel mio ultimo disco, mi ha definito un ‘Ricercatore’. Probabilmente è la parola che racchiude in sé i tre aspetti messi insieme. Sicuramente sono una persona in cerca di sé; grazie alla stesura del ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’ posso dire, oggi, di conoscere quella persona un po’ di più”. Così il musicista romano classe 1972 che ha da poco pubblicato il suo terzo libro (Narcissus Self Publishing). L’artista si descrive “lunatico, esigente, autocritico” e mastica le note sin da quando era piccolo, amando suonare ed insegnare a farlo. “Mi sono avvicinato alla musica per caso, grazie a mio padre, artigiano del legno, il quale un giorno restaurò una vecchia chitarra gettata via da chissà chi e me la regalò. Da quel momento non ho mai più abbandonato lo studio di questo strumento – racconta Alberto Tebaldi al Velino -. L’interesse per la didattica è nato parallelamente ai primi approcci alle sei corde. Ho iniziato sin da subito ad ‘auto-insegnarmi’ e ad insegnare cercando di comprendere le potenzialità dello strumento, compilando decine e poi centinaia di fogli che ancora oggi conservo, pieni di speculazioni e teorie, spesso strampalate, qualche volta azzeccate, a volte illuminanti, che sarebbero poi state alla base del materiale delle mie pubblicazioni”. Se gli si chiede cos’è per lui la musica, Alberto risponde: “Uno dei più noti studiosi di esoterismo del 1800, Eliphas Levi, sosteneva che… ‘La Magia è la scienza tradizionale dei segreti della Natura…’. Io penso che la Musica, intesa come ‘vibrazione’, sia tra i principali elementi di cui la Magia dispone per esplorare i segreti della Natura”. “Trattato Di Armonia Jazz Alchemica” è il suo terzo libro. “Il mio primo libro ‘Metodologie di linguaggio musicale p.1’, edito da Sinfonica Jazz, venne pubblicato nel 2001; nel 2007 Nuova Argos pubblicò il mio secondo libro dal titolo ‘Manuale creativo di Chitarra jazz’, dedicato alla figura di John Coltrane e alla visione simbolica dell’armonia jazzistica comparata alla teoria del colore. Il ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’ è il terzo scritto – spiega -, al momento solo in versione eBook, e rappresenta un ampio approfondimento dei concetti esposti nei primi due”. DA DOVE NASCE L’IDEA DI QUESTO NUOVO LAVORO? “Iniziai a realizzare nuove tavole didattiche già nel 2009 in occasione di un Seminario tenuto, in qualità di docente, presso l’Istituto d’Arte Osvaldo Licini di Ascoli Piceno. L’intento per questo nuovo libro non era rivolto unicamente all’analisi degli equilibri interni che regolano alcune cadenze armoniche; volevo, infatti, capire se e cosa potesse esserci dietro questi equilibri. La lettura di testi di natura alchemica e di Magia, in associazione alla sperimentazione onirica spontanea e indotta, mi ha permesso di poter formulare l’esistenza di una tonalità occulta che condiziona la composizione del musicista suggerendogli linee melodiche e accordali, senza che possa rendersene conto. Al momento – sottolinea Alberto Tebaldi – la ricerca mi ha portato a determinare l’aspetto cromatico di questi suoni occulti, nonché la disposizione degli stessi all’interno della tonalità d’appartenenza. Per quanto riguarda invece la parte tecnica, il ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’ offre un gran numero di soluzioni armonico-improvvisative, che prendono spunto dalla suddivisione in parti uguali dell’ottava musicale illustrando sovrapposizioni e veri e propri sistemi, certamente già utilizzati in passato da John Coltrane, ma che ancora oggi vengono studiati e rielaborati dai più grandi musicisti di Jazz contemporaneo”. QUALI I PASSAGGI FONDAMENTALI DELLA TEORIA CHE ILLUSTRA? “Non credo d’essere in grado di fornire una ‘teoria’ nei miei libri, piuttosto il mio è l’intento di mostrare una strada alternativa a coloro che io chiamo ‘operatori musicali’; quella strada che io stesso ho intrapreso grazie ad alcuni ‘suggerimenti’ ricevuti sin dagli inizi del mio cammino artistico”. A CHI CONSIGLIA QUESTO LIBRO? SOLO AGLI ADDETTI AI LAVORI? “Lo consiglierei a chi non si è ancora reso conto che dietro alla Realtà conosciuta si nasconde un ‘sopra’ e un ‘sotto’ fatto di numerosi ‘luoghi dimensionali’ il cui accesso è indissolubilmente legato alla sensibilità soggettiva dell’individuo e alla propria ‘capacità onirica’ e percettiva della forma, del suono e del colore, nonché del simbolismo che i tre elementi portano con sé. Questo libro può essere utile a tutti i musicisti e, almeno per ciò che riguarda l’intera prima parte, anche a chi con la musica non ha nulla a che fare, ma che è dedito ad una personale e profonda ricerca interiore”. USA SPESSO PARLARE IN PRIMA PERSONA: LO FA PERCHÉ SI PROPONE AD ESEMPIO PER GLI ALTRI MUSICISTI O PER SOTTOLINEARE IL FATTO CHE QUESTA RICERCA È UN VIAGGIO INTERIORE? “Rispetto ai miei primi due libri ho voluto espormi ancor di più – dice Alberto -, anche a rischio di incorrere in critiche feroci, poiché ho ritenuto molto più importante affrontare aspetti da cui la didattica musicale convenzionale si tiene alla larga, un po’ per mancanza di argomenti, un po’ per paura di affrontarne i risvolti. Un capitolo del libro è dedicato al mio pensiero sulla misteriosa quanto nota legge di Adolfo Gustavo Rol e alla spiegazione che i miei studi mi hanno portato a darne. Il tentativo di scandagliare ciò che l’abbinamento percettivo del colore verde e della quinta musicale comporta a livello psichico e di consapevolezza individuale è un chiaro esempio di come questo libro sia in fondo il ‘racconto’ del mio personale viaggio interiore, che non nasconde la ‘presunzione’ di riuscire ad indurre una forte spinta nel viaggio interiore del lettore il quale, lungo il proprio percorso di crescita personale, si trova ad incrociare i miei scritti”. ATTUALMENTE DOVE INSEGNA? “Da tre anni circa ho uno Studio privato nel centro di Roma che ho chiamato ‘Nono livello di percezione’ (‘9th Level of Perception’ per gli appassionati anglofili). Il nome prende spunto dal simbolo complesso delle 9 Dimensioni rappresentate dalla Chiave d’accesso all’Armonia universale descritta nel mio secondo libro. Grazie ad internet, ricevo spesso richieste di studenti e musicisti disseminati per l’Italia che mi chiedono aiuto riguardo le problematiche armoniche e improvvisative. Estratti dei miei libri sono stati utilizzati anche in alcune tesi universitarie”. LEI SUONA MUSICA JAZZ. CON QUALE FORMAZIONE I SUOI PROSSIMI LIVE? QUALE IL CONCERTO CHE STA PREPARANDO ATTUALMENTE? “Successivamente alla pubblicazione del Cd album Cyber Alice (2010 – etichetta discografica Zone di Musica) mi sono dedicato alla raccolta e all’ideazione di nuovo materiale utile alla stesura del ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’. Nei miei progetti musicali di stampo jazzistico ‘Cyber Alice’ e ‘Phalaen (opsis)’ ho sempre presentato composizioni originali, dove l’utilizzo dell’armonia jazz si fondeva alle esperienze giovanili di stampo rock-progressive. Riguardo i miei prossimi live, non ho fretta… reduce dalle fatiche del libro, attualmente sto lavorando alla ricerca di una formazione stabile i cui requisiti fondamentali dovranno essere necessariamente serietà e umiltà. Mi piace selezionare i miei collaboratori principalmente in base alle doti umane prima ancora che musicali (che, naturalmente, non devono mancare) e questo richiede, necessariamente, tempo. Il concerto che sto preparando prevede la presentazione di alcune composizioni inedite, sulle quali sto lavorando già da molti mesi, dalle armonie alquanto complesse che prendono volutamente spunto dagli studi proposti nel ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica”. QUALE IL SUO LIVE INDIMENTICABILE E CHI È IL MUSICISTA CON CUI ASPIRA A SUONARE? “Il mio live indimenticabile è senz’ombra di dubbio il primo in assoluto, all’età di 17 anni credo, fatto di cover rock, d’imbarazzo, di inconsapevolezza armonica, di totale incoscienza musicale, di fraseggi rubati e mal riproposti, di fuori tempo, di scale pentatoniche legnose, di note sbagliate e di una tecnica a dir poco improbabile… ma con la sensazione che da quel giorno avrei intrapreso un percorso importante che mi avrebbe portato a fare un passo fondamentale verso la conoscenza di me stesso e delle ‘forze’ che mi circondano. Più che aspirare a suonare con un musicista in particolare, il mio sogno è quello di poter un giorno ascoltare le mie composizioni suonate dai grandissimi della musica contemporanea, sedermi al tavolo con una buona birra e godermi lo spettacolo”. PER UN MUSICISTA CONTA PIÙ LA DIDATTICA O LA PROPRIA CAPACITÀ DI TRASMETTERE EMOZIONI? “Non mi sono mai posto il problema di dover trasmettere emozioni; se la propria musica nasce da un lavoro serio e costante è inevitabile che ne trasmetta, siano esse positive o negative. La musica non è sempre piacevole, ciò che fa la differenza è l’onestà del musicista e di ciò che propone. Per quanto riguarda la didattica è per me un processo di crescita personale e al contempo di condivisione irrinunciabile. L’attitudine a pubblicare nei miei libri i traguardi raggiunti è l’inevitabile conseguenza della mia avversione nei riguardi di una ‘certa didattica’, italiana in particolare, fatta di pseudo insegnanti terrorizzati all’idea di essere surclassati dagli stessi allievi, e che spesso si nascondono dietro la bravura tecnica, paragonabile a ginnastica per le dita, capace solo di impressionare uno stolto”. ALTRI PROGETTI IN CANTIERE? “Non escludo l’idea di scrivere un libro sulle tecniche empiriche e spontanee da me utilizzate nella sperimentazione onirica. È un argomento che mi sta molto a cuore e che vorrò affrontare con il massimo rispetto, per cui credo passerà molto tempo prima che questo progetto possa vedere la luce. Più a breve termine ho intenzione di realizzare dei video esplicativi sulle armonie che caratterizzano alcune mie composizioni e, parallelamente, vorrei lavorare ad un nuovo disco, dove valorizzare al meglio la consapevolezza musicale fin qui acquisita. Ma, ad essere sincero, il ‘progetto’ che in assoluto ritengo più importante per la mia ricerca artistica è, senza dubbio, quello di avvicinarmi sempre più al ‘Cancello verde’ (…) e tentare di varcarne la soglia!”.

L’Oltre…

“Dietro al colore e alla forma, elementi fondamentali alla composizione,
si cela spesse volte un significato altamente simbolico; quel significato
profondo che nulla ha a che vedere con la visione puramente estetica
della forma e del colore stessi, giustificato, in prima analisi, semplicemente
con le reazioni associative che il nostro cervello mette in atto al fine
di decodificare e di ‘significare’, collocandolo in un determinato ambito
sensoriale, uno stimolo. Solamente guardando oltre i confini della percezione
si può scorgere ciò che all’Uomo non è dato ‘possedere’
in quanto cadrebbe inesorabilmente il senso della ricerca, quella spinta
al movimento la cui assenza getterebbe l’umanità in uno stato di penosa
solitudine spirituale. Questo trattato proverà, pertanto, ad indagare
‘l’Oltre’, tentando di fornire spunti di riflessione sui meccanismi occulti
che determinano il nostro ‘sentire’ e di cui si è troppo spesso inconsapevoli.
Esiste una Magia dietro ciò che ascoltiamo e la vibrazione
è il mezzo che più in assoluto ‘serve’ al passaggio dimensionale, di conseguenza,
al cammino verso la conoscenza”.

Alberto Tebaldi, Trattato di Armonia Jazz Alchemica

Amnesie creative

“È mia convinzione che sono molti i compositori i quali, al termine dell’atto creativo compositivo, hanno la netta sensazione che la sinfonia o il brano composto in realtà esistesse già da qualche parte e fosse solo in attesa di essere ‘trasferito’. Questa sensazione viene confermata dal fatto che l’artista, il più delle volte, non ha piena coscienza di come e quando la propria creazione sia nata, fino al punto di averne, spesso, una vera e propria amnesia”

Alberto Tebaldi, musicista, autore.

Da Trattato di armonia Armonia Jazz Alchemica

Un libro “magico”, illuminate e che vi consiglio.
Per chi lo volesse, è acquistabile on line

Amore

…”Se esiste una cosa come il vero amore, questo implica che esista anche il falso amore: non appena il sottile rivestimento romantico si consuma, la relazione diventa di piombo. Il piombo, considerato dagli alchimisti un metallo primario, è un simbolo altrettanto antico dell’oro, per simbolizzare un tipo di pesantezza e di mancanza di lucentezza che è contrario all’amore. Un’altra metafora per il falso amore è quella dell’oro degli stolti (la pirite), che sembra oro ma non lo è. Fu creato dagli alchimisti per creare l’ “olio di vetriolo” (l’acido solforico). L’oro degli stolti non è soltanto una forte delusione per i cercatori dell’oro letterale, è anche una sostanza che quando si ossida diventa esplosiva”….
Ginette Paris

La famiglia che uccide

Nel 1973 lo psichiatra americano Morton Schatzman, ha scritto un testo intitolato “Soul Murder” (Omicidio di anima), che, nello stesso anno, in Italia è stato pubblicato da Feltrinelli col titolo “La famiglia che uccide”.

In questo libro Schatzman descrive ed interpreta il caso di Daniel Paul Schreber (1842 – 1911), un famoso giudice tedesco, Presidente della Corte di Appello di Dresda, che fu seguito da Sigmund Freud.

Il giudice Schreber, all’età di 42 anni impazzì, fu curato, migliorò la sua salute, ma, otto anni dopo, ebbe una grave crisi, dalla quale, sembra, non si riprese mai del tutto e non fu più possibile definirlo una persona “normale”.

La pazzia di Schreber fu classificata come “un caso di paranoia e schizofrenia”. La malattia presentava, tra l’altro, una forma di delirio molto complesso, che l’autorità giudiziaria, alla quale Schreber si era rivolto, chiedendo di essere dimesso, descrisse come segue: “Egli ritiene di essere chiamato a redimere il mondo e a restituire ad esso la perduta beatitudine …”.
Riteneva di essere un illuminato, di essere ispirato direttamente da Dio, viveva continuamente “miracoli” e, come spesso accade per le psicosi, al di fuori di queste sue idee, conservava ottime capacità intellettuali e non aveva perduto le sue competenze in campo legale e giuridico. Trascorse tredici anni delle sua vita in ospedali psichiatrici e vi morì. Pubblicò un libro “Memorie di un nevropatico”, nel quale descriveva le sue idee; scrisse di se stesso: “Quando la mia malattia di nervi sembrava pressoché incurabile, raggiunsi la convinzione che un assassinio di anima era stato compiuto su di me da parte di qualcuno”.

Allargando un po’ il punto di osservazione, rileviamo che il fratello maggiore di Daniel Paul Schreber, che si chiamava Daniel Gustav, era anche lui malato di mente, e si suicidò sparandosi all’età di trentotto anni. Si disse allora che soffriva di “melanconia”.

Ci domandiamo quindi in quale famiglia sono cresciuti questi due uomini (uno pazzo, l’altro suicida) e che cosa può essere successo durante la loro infanzia.

Cominciamo a dire che in certe famiglie malate, le condizioni di vita dei bambini sono insopportabili. In queste situazioni tutti i giorni viene calpestata la personalità del bambino, viene represso ogni suo istinto, la mancanza di rispetto diventa la regola. In altri casi ci sono anche violenze e abusi sessuali. Allora può capitare che il bambino, che non può sottrarsi o difendersi dalla situazione in cui vive, si inventi un mondo fantastico e delirante nel quale evadere, e poi perda la strada per vivere la realtà.

Tornando alla famiglia Schreber, arriviamo così al padre, Daniel Gottlieb Moritz Schreber (1808 – 1861), un famoso medico tedesco e uno studioso di pedagogia. Le sue teorie ebbero molto successo in Germania; anche dopo la sua morte furono considerate, per parecchie decine di anni, un valido riferimento per i genitori. Le sue idee oggi, esaminate da Alice Miller, psicoanalista svizzera, sono state definite “Pedagogia Nera”.

Il Dottor Schreber padre scrisse diversi libri sull’educazione dei bambini, partendo dall’idea che la società tedesca di allora fosse “fiacca” e “in decadenza”, e che questo fosse in gran parte causato dalla debolezza e mancanza di disciplina, con le quali venivano allevati i bambini. Elaborò “speciali mezzi educativi” che dovevano portare i bambini ad obbedienza acritica e sottomissione totale ai genitori e agli adulti in genere. Trattò i propri figli come sudditi di un dittatore crudele. Pensava che in questo modo, la società e la “razza tedesca” sarebbero migliorate.

Le idee di base del Dottor Schreber riflettevano, amplificandole come in una caricatura, le ideologie condivise dalla società borghese europea dell’Ottocento. In questo quadro di riferimento, gli uomini adulti hanno il diritto (anche Dio è maschio)di comandare sulle mogli e sui figli; i bambini vanno educati alla disciplina già a partire dal quarto mese di vita; qualsiasi manifestazione di volontà autonoma del bambino deve essere annullata; tutti devono aver fede nel Dio dei cattolici.

Scriveva Schreber padre: “Il cattivo contegno di un bambino diverrà nell’adulto una grave mancanza di carattere che apre la via al vizio e alla bassezza”.
Attraverso i metodi educativi di Schreber si doveva arrivare ad un adulto che fosse capace di autodeterminazione. Il risultato ottenuto su suo figlio fu descritto dal direttore del manicomio che lo aveva in carico: “Il paziente era completamente sotto il potere di opprimenti influenze patologiche”.

L’educazione di Schreber padre doveva portare alla “obbedienza inconscia e incondizionata”, cioè immediata, automatica, senza critiche né osservazioni.
Shatzman l’ha descritta come “persecuzione infantile”.

Lo scopo dell’educazione di Schreber padre era: “Diventare padrone del bambino per sempre”. Fin dai primi mesi di vita, se il bambino faceva qualcosa di “sbagliato” (ad esempio mangiare un dolce) i genitori dovevano “distrarre e sottrarre”, che significa togliere dalla vista del bambino il dolce e farlo distrarre facendogli fare qualcos’altro.

Ogni disobbedienza del bambino andava annotata in una lavagna posta nella sua stanza, dove veniva anche scritta la punizione che, a fine giornata, sarebbe stata impartita.

Il padre doveva parlare “con disprezzo” al bambino che non obbediva e guardarlo con “minaccia e disapprovazione”.

La filosofia di Schreber padre si può riassumere nel proverbio: “Un punto a tempo ne risolve cento”, e cioè interventi educativi precoci, immediati, repressivi. Come lui stesso scrisse: “Tutte le ignobili o immorali emozioni devono essere stroncate al loro primo apparire”.

Ogni gesto del bambino doveva essere controllato e corretto. Schreber padre aveva inventato una serie di strumenti per controllare la posizione assunta dal corpo del bambino. Così il “Reggitesta” era una fascia che si attaccava, da una parte ai capelli del bambino, dall’altra alla cintura impedendo al bambino di abbassare la testa. Il “Raddrizzatore della schiena” era un supporto metallico e spigoloso da collegare al tavolo, in modo che il bambino fosse costretto a stare dritto, per non urtare il metallo del supporto.
I bambini dovevano dormire sempre a pancia in su, per evitare che la pressione del materasso sui genitali potesse eccitarli; così Schreber padre mise a punto una serie di legacci per tenere i bambini fermi a letto. E se i bambini tenevano le spalle basse, ecco il “Raddrizzaspalle” che consisteva in cinghie di cuoio e molle di metallo, legate attorno alle braccia e poi passate dietro la schiena, in modo da provocare dolore se si abbassavano le spalle.

Per evitare “mollezze e tentazioni alla sensualità”, era meglio che i bambini dormissero in stanze non riscaldate. Le pulizie personali dei bambini andavano sempre fatte con acqua fredda. A partire dal sesto mese di età, “per irrobustire il bambino” anche l’acqua del bagno doveva essere fredda. E siamo in Germania e non ai Caraibi.

Si doveva far attenzione a che i bambini usassero in modo uguale le due parti del corpo; fargli fare “esercizi visivi” per imparare a osservare come volevano i genitori; far usare a lungo un giocattolo prima di sostituirlo con un altro; non far avvicinare i bambini all’arte che ne potrebbe sviluppare troppo la sensibilità e le emozioni, distraendoli quindi dai loro doveri; si doveva controllare anche come i bambini salivano le scale, per vedere se usavano il corpo in modo simmetrico.

Per evitare i “danni delle polluzioni notturne insane e debilitanti” e le tentazioni della masturbazione, oltre ai bagni freddi, se si riscontrava una certa agitazione serale nel bambino, gli si doveva praticare un clistere di acqua gelata, da trattenere a lungo, prima di andare a letto.

Nello stesso tempo si invitava il bambino alla preghiera, affinché fosse “eccitato dalla presenza di Dio” e provasse la “voluttà dell’anima” piuttosto che quella del corpo.

Questi sono soltanto pochi accenni al tipo di educazione e al tipo di famiglia dove Daniel Paul Schreber è cresciuto. Un ambiente sessuofobico, malsano, sadico, morboso, intriso da fanatismo religioso. E, considerando che, le persone tendono a ripetere coattivamente per tutta la vita le forme di relazione umana imparate in famiglia durante l’infanzia, possiamo ben comprendere come questo “omicidio di anima” sia potuto avvenire.

Dr. Roberto Vincenzi
Morton Schatzman
“La famiglia che uccide”
Feltrinelli, Milano 1973

A proposito di amicizia II

Così in pieno deserto,
sulla nuda scorza del pianeta,
in una solitudine da primordi
del mondo, abbiamo costruito
un villaggio d’uomini…
Sei o sette uomini, che al mondo
non possedevano più
nient’altro che i loro ricordi,
spartivano ricchezze invisibili.

Antoine de Saint-Exupéry, “Terra degli uomini”

…a proposito di amicizia I

Provavo il bisogno di sentire più solidi e più durevoli
di me stesso coloro dei quali avevo bisogno per orientarmi.
Per conoscere o ritornare.
Per esistere.

Antoine de Saint-Exupéry, “Lettera a un ostaggio”

…uomini di vista acuta

Edward_Burne-Jones_Star_of_Bethlehem

Edward Burne-Jones, “The Star of Bethlehem”, 1885-1890

…[ i magi] «che praticano anche la divinazione… e che l’aria è piena di immagini che, esalando, si immergono nella visuale degli uomini di vista acuta»…

Diogene Laerzio, I 7, in Walter Burkert, “Da Omero ai Magi”, Marsilio.

Il dispiacere solitario

di Costanza Bondi

IL DISPIACERE SOLITARIO è un piacere immaginario che racconta tante storie in una storia, in cui l’opulenza descrittiva e sensorialmente goduriosa – servita in gustose tazze di cioccolata calda – è interrotta, a tratti, da sapienti coltellate a freddo narrative. Mai scontate. Tanto meno assennate. Ornellissimamente ornellante, la tragica e tenera storia di Viola ci viene disfilata sotto gli occhi dalla protagonista Gilda D. che ce la offre pagina per pagina, tanto delicatamente quanto il gesto lento di chi si stesse togliendo i guanti davanti a noi lettori… dito per dito… mano per mano… Guanti come custodia erotica o guanti come nascondiglio di velluto. Guanti che coccolano mani, le curano e le scaldano. Ma soprattutto guanti che nascondono le mani che amano e scrivono e perciò parlano e quindi trasudano tutto l’amore e l’odio che possono raccontare. Guanti e mani, allora, che carezzano l’intimità nel romanzo di Ornella Pennacchioni, in un dispiacere solitario che squarcia l’anima e l’animo ricuce, in cui la protagonista si traveste, di volta in volta, per recitare sempre e solo la parte di se stessa.

NOTA BIOGRAFICA

Ornella Pennacchioni nasce ad Agugliano, un paese delle Marche. Laureatasi in scenografia teatrale presso l’Accademia delle Belle Arti di Macerata, dopo svariate partecipazioni in qualità di scenografa, è stata invitata a partecipare operativamente al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Dotata di temperamento artistico poliedrico, si è lungamente dedicata alla pittura, all’arredamento per interni, a creazioni di monili, alla moda, di cui ha conseguito il diploma di stilista. Infine, nel mezzo neofita della scrittura, s’è presa la briga di dare vita ad un nuovo itinerario in prosa. Per non smemorare nell’oblio, nel tratto che divide la realtà dallo spettacolo, un attimo prima del debutto. Questo ha detto a se stessa: “Sono Ornella Pennacchioni, nessuno mi conosce e sto per essere letta. Non avrei mai creduto di poter scrivere oltre il pensare.”

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Una grande professionista della letteratura moderna che non ha scelto di solcare le strade consumate dagli altri scrittori ma quelle che nessuno fin ora aveva osato solcare. Nel suo immaginario, attraverso le musa nate dall’eleganza della sua scrittura, l’autrice Ornella Pennacchioni ci regala con “Il dispiacere solitario” un’oasi di lettura straordinariamente bella e affascinante, che tiene il lettore “ammagaratu” (incantato) in una dimensione nella quale chi legge non sa bene se anch’egli è protagonista o solo spettatore. Un opera eccezionale nella quale c’è stato posto anche per me avendo scritto la Prefazione.

Alessio Patti

Ancora un’estate o un’estate ancora

Carissimi, oggi voglio segnalarvi la seconda ristampa del romanzo di un amico. Un ragazzo con cui ho avuto il piacere di lavorare, approfondendo la sua amicizia, fra un bicchiere di vino bianco, una risata, e una riflessione più articolata e intensa. E’ un regista teatrale e televisivo, uno scrittore e un autore completo.

Per chi volesse, in questi giorni è alla manifestazione “Più libri più liberi”, al palazzo dei Congressi di Roma, allo stand di Historica (H17)

In bocca al lupo, caro Luca Guardabascio
Con amicizia
Gabriele

ANCORA UN’ESTATE O UN’ESTATE ANCORA

Siamo nel 1983.
E’ l’estate del rapimento Orlandi e del pentapartito di Craxi, della diffusione dell’Aids mentre in spiaggia risuonano spensierate le note di “Vamos A la Playa” dei Righeira.
Come ogni anno Luca trascorre l’estate al mare con genitori, cugini e parenti presso un casello ferroviario di proprietà della famiglia. Luca ha nove anni e pochi miti, pochi punti di riferimento in una famiglia medioborghese e di radice meridionale.
Ci sono i parenti che vivono in Abruzzo da anni, hanno fatto i soldi e pretendono disciplina; c’è il ragazzino che si crede un vigile, il playboy che cerca di far capitolare una suora per scommessa, chi è andato in India per amore o chi ha troppi anni per raccontare di essere omosessuale. Soprattutto c’è un paese: “Sulciano” con la sua gente stramba che ogni anno apre le porte a turisti e curiosi.
L’estate scorre rapida tra biciclette, palloni e il tempo trascorso in sala giochi mentre i ragazzi scoprono il sesso, la buona musica e la morte. Si’, perché la tragedia è dietro l’angolo e aiuterà i ragazzi a capire che ormai è tempo di diventare adulti, un terreno in cui la spensieratezza lascia il passo a menzogne, ipocrisie, sensi di colpa con quel folle desiderio di ritornare ad essere ancora fanciulli: Ancora un’estate o un’estate ancora.

LUCA

Sentieri di notte di Giovanni Agnoloni

Carissimi, vi sottopongo questo libro, di prossima uscita, che merita la vostra attenzione.
Gabriele

Sentieri di notte di Giovanni Agnoloni (Galaad Edizioni), segna l’esordio narrativo dell’autore fiorentino, già autore di saggi su J.R.R. Tolkien e traduttore. Siamo di fronte a un romanzo fantascientifico dalle tinte gialle e filosofiche, denso e carico di significati profondi.

Che energia è racchiusa nel Chakra del Castello di Cracovia? E chi è Luther, l’androide che una notte del settembre 2025 si sveglia sulle sponde del Lago di Lucerna con accanto a sé il corpo del suo creatore? Un mistero si profila su un’Europa messa sotto scacco dalla Macros, multinazionale informatica che da Berlino ha preso il potere, privando il continente di internet e dell’energia, mentre a Cracovia un’enigmatica nube bianca avanza inglobando la città. La salvezza sta nel cuore di quella nebbia, attraversata da uno studioso irlandese di teologia in cerca del suo passato, e nel viaggio verso la Polonia di Luther e del programmatore cieco Christoph Krueger. Un romanzo viscerale, figlio della poetica del Connettivismo, avanguardia italiana le cui origini affondano nel Cyberpunk americano, ma anche nel Crepuscolarismo e nel Futurismo. Una storia frutto di una lunga e seria ricerca spirituale condotta dall’autore, che mira al ritorno alla Fonte, a una fusione con la radice dell’Essere. Un viaggio viscerale tra l’Ombra e la Luce, che passa per territori sondati dalla psicologia junghiana ed esplora la topografia di due grandi capitali della storia d’Europa, Berlino e Cracovia, fino ad affacciarsi sugli inquietanti ma suggestivi scenari dell’intelligenza artificiale e della post-umanità. Sentieri di notte è anche il primo romanzo della collana “Larix”, diretta da Davide Sapienza. Dopo Nel cuore della Groenlandia di Fridtjof Nansen (2012) e prima di un’antologia inedita di scritti di Barry Lopez curata da Davide Sapienza in uscita nel 2013, quest’opera contribuisce a tracciare la visione della Collana che è dedicata all’esplorazione in senso geografico, umano e letterario.

Sentieri di notte sarà presentato ufficialmente venerdì 26 ottobre dalle ore 18,00 a Roma presso il Centro Culturale Elsa Morante (in Piazzale Elsa Morante), in occasione della NeXT-Fest, il festival del movimento connettivista, con la partecipazione di Giovanni Agnoloni e dello scrittore Francesco Verso, Premio Urania 2008.
L’opera è fin da ora prenotabile sul sito dell’editore, www.galaadedizioni.com. Dal 26 ottobre in tutte le librerie italiane.

Giovanni Agnoloni
Sentieri di notte
Galaad Edizioni – Collana Larix

La tv al tempo del web 2.0

Carissimi, oggi ci tengo particolarmente a parlarvi di un libro scritto da un caro amico. Ovviamente attendo le vostre riflessioni. Un abbraccio. Gabriele

Ogni giorno, milioni di giovani nel mondo, preferiscono navigare su internet piuttosto che accendere la televisione. Gli studiosi del settore sostengono che accade perché hanno la libertà di scegliere, di consultare e di condividere con i propri amici ciò che reputano più interessante. Eppure i maggiori picchi di traffico su internet sono dovuti proprio alla visione e alla condivisione di programmi televisivi. Un controsenso? Assolutamente no e ce lo spiega abilmente Maurizio Gianotti con il suo ulimo libro ’La tv al tempo del web 2.0’, edito dall’Editore Armando. Il saggio analizza la metamorfosi del piccolo schermo dalla sua nascita fino all’utilizzo delle nuove tecnologie che, grazie alla trasmissione in tempo reale di contenuti audio e video, sta trasformando il telespettatore in reporter liberandolo dal suo contesto di ricettore passivo. Un evento impensabile solo fino ad alcuni anni fa che sta modificando radicalmente il modo di fare televisione. Gli ingegneri e i tecnici designati alla messa in onda dei programmi, infatti, avevano come unico obiettivo quello di garantire la qualità tecnica delle trasmissioni, scartando ogni immagine che non raggiungesse gli standard previsti. Gradualmente, però, con il diffondersi delle nuove tecnologie queste barriere sono state ampiamente rivoluzionate e superate. Basti pensare ai recenti accadimenti avvevuti durante la ’primavera araba’oppure in Siria, testimoniati e resi noti al mondo proprio attraverso le immagini riprese dei telefonini che di certo non possono attestarsi su eccellenti livelli qualitativi. Nel nostro Paese c’è una interessante piattaforma multimediale (www.youreporter.it) che basandosi proprio su questo, quasi quotidianamente, fornisce i propri servizi amatoriali ai nostri telegiornali nazionali. Il loro slogan, presente sul sito internet, appare fin troppo evidente: “Vuoi raccontare una notizia? Sei stato testimone di un fatto di cronaca?Allora non perdere l’occasione di far sentire la tua voce, iscriviti a YouReporter e inizia ad inviare foto e video perché siamo la prima piattaforma italiana di videogiornalismo partecipativo, seguitissima da tutti i principali mezzi d’informazione”. Recentemente anche il quotidiano “La Repubblica”, nella sua versione on line, con il progetto “Reporter”, ha dato vita ad una iniziativa simile ricevendo, in pochissimi giorni, migliaia di adesioni e di visite. Ovviamente a Giannotti, storico e lungimirante autore televisivo Rai e Mediaset, tutto questo non poteva sfuggire. Con il suo lavoro editoriale, vuole quindi dare forma a una nuova Tv in cui cittadini e professionisti della comunicazione e dell’informazione lavorino alla creazione di un nuovo villaggio globale nel quale a nessuno sia negata la possibilità di partecipare in modo attivo e propositivo. Ma “La Tv al tempo del web 2.0” non parla solamente di questo. Come scrive la collega Marida Caterini sulle pagine di Panorama, il volume analizza anche le metodologie classiche della fruizione televisiva facendo riferimento alle principali trasmissioni del passato. Dalla cosiddetta preistoria del piccolo schermo, fatta dai programmi di Bongiorno, Tognazzi e Vianello, fino agli show moderni, analizzandone la varie componenti strutturali e indagando anche sul cosa guardano in tv gli italiani. Infine, attraverso l’analisi quotidiana dei dati Auditel, ci delinea un identikit dell’utente televisivo, indispensabile per comprenderne ogni sfaccettatura. Ma non allarmatevi, non è il solito testo per addetti ai lavori che, troppo spesso, sembrano “parlarsi da soli”. Giannotti grazie ad una scrittura chiara e incisiva, riesce a spiegare a tutti cos’è la televisione, quali sono le sue regole e quali protranno essere gli scenari futuri, quando il web3 segnerà un’altra ricoluzione.
E chi cambia canale, resterà indietro…

La coppia intrappolata – agganci nevrotici

Carissimi, voglio sottoporvi un libro molto interessante sulle dinamiche di coppia, scritto dall’amica Daniela Di Battista.
Oltre alla presentazione del libro, trovere anche una sua intervista.
Buona lettura
Gabriele

La coppia intrappolata
Agganci nevrotici
Springer-Verlag Italia Srl
di Daniela Di Battista

Il rapporto di coppia dovrebbe essere improntato all’amore e al reciproco rispetto ma in alcuni casi, e più spesso di quanto si crede, si trasforma in una spirale di frustrazioni e di rivalse. Ma come si arriva a instaurare una relazione di questo tipo? Non si tratta del frutto del caso, ma dell’“aggancio nevrotico” tra due persone con strutture di personalità particolari, che giocano ciascuna un ruolo ben definito: da una parte il succube, con un orientamento di personalità dipendente, ossessivo-compulsivo e autofrustrante, dall’altra il dominante, con un orientamento di personalità paranoide e narcisistico. In questo nuovo volume, l’autrice descrive questa peculiare dinamica di coppia, illustrando alcuni casi ricavati dalla sua esperienza clinica e delineando i possibili approcci terapeutici. Completano la trattazione il test “Sei in una coppia da ‘aggancio nevrotico’?” che può rappresentare un utile strumento di riflessione per chi pensa di trovarsi “agganciato” o in una situazione a rischio, e una griglia di lavoro di impostazione cognitivo-comportamentale per la pianificazione terapeutica a uso del professionista psicologo.

Dott.ssa Di Battista, il suo nuovo saggio “La coppia intrappolata” reca un sottotitolo molto eloquente: “agganci nevrotici”. Quando e con quali modalità la relazione di coppia si trasforma in un rapporto che reca danno e frustrazione?
Possiamo riconoscere una relazione di coppia che reca danno e frustrazione quando uno dei due componenti della coppia cerca di prevaricare sull’altro manipolandolo e cercando di plasmarlo con una lettura della realtà che non corrisponde a quella vera; quando le incomprensioni, i sensi di colpa, le rivalità prendono il posto dell’amore; quando si perde il proprio “baricentro” e lo si sposta sul partner; quando il proprio partner diventa l’unica ragione di vita, il centro del proprio universo; quando si perde la propria capacità di critica e di giudizio e ci si aggancia alla lettura erronea che viene propinata dal partner come un mantra; quando confondiamo il vero ruolo che un partner dovrebbe avere all’intero di una coppia e lo si investe di magici poteri che dovrebbero sciogliere, come d’incanto, le catene che ognuno di noi si trascina dentro e dietro; quando ci si sminuisce e ci si annulla troppo idealizzando invece il partner. Certo spesso non è facile riconoscere di trovarsi in una di queste situazioni critiche: è per questo che nel libro si trova un test che offre un aiuto, un’occasione per capire e riflettere su quanto si potrebbe essere a rischio di diventare troppo dipendenti da un partner a discapito della propria autonomia e quindi probabili vittime di un aggancio nevrotico.

E quali sono i tratti di personalità o le nevrosi che più facilmente predispongono a rimanere intrappolati nella coppia?
Chi si lascia intrappolare è una persona con una bassa autostima, considerazione e consapevolezza di sé; generalmente è perfezionista e molto esigente con se stessa; è rigida e soprattutto non ammette di aver sbagliato (ma non per presunzione, semplicemente perché si sente sempre in errore); infine è abituata a compiere scelte che finiscono per sabotare la propria felicità e realizzazione. Ho sintetizzato ciò che in gergo psicologico corrisponde a un orientamento di personalità dipendente, ossessivo-compulsivo e auto-frustrante. Chi in genere cerca di intrappolare è un individuo che recita fino in fondo la parte del sicuro di sé che non mette mai in discussione le proprie idee; che ha bisogno continuamente di mettere alla prova chi ha di fronte stressandolo più del necessario e comunque mai abbastanza per rassicurarsi circa la propria scelta. Anche qui ho sintetizzato ciò che in gergo psicologico corrisponde a un orientamento di personalità narcisistico e paranoide. La nevrosi che intrappola è semplicemente il comportamento di voler perseverare in questa coppia così strutturata e caratterizzata non certo da un amore autentico, ma dal soddisfacimento di bisogni individuali non sani per un’unione felice.

Nel libro è riportata un’ampia casistica ricavata dalla sua esperienza di psicoterapeuta: quali tra questi le sembrano i più significativi?
Sono i tre casi che descrivo in modo dettagliato perché dimostrano la dinamica di questo aggancio nevrotico, evidenziando come esso non sia una peculiarità di un sesso rispetto all’altro, non dipende da una scelta sessuale, né dall’età; sono proprio gli orientamenti di personalità, le strutture di personalità che si agganciano.

Una volta delineato il problema, la domanda fondamentale è: come se ne esce? Quali sono i percorsi terapeutici che, nella sua esperienza, offrono la migliore prospettiva di risoluzione?
Ho dedicato tantissimi anni della mia professione nel mettere a punto una griglia di lavoro per uscire da un aggancio nevrotico: si trova nell’ultima parte del libro ed è utile sia alle persone che hanno questo problema, che possono rendersi conto di quale sia il percorso necessario per potersi sentire nuovamente liberi e più consapevoli, sia a tutti gli addetti ai lavori che possono utilizzare questa griglia di lavoro come un protocollo con una propria scientificità testata. Si tratta di una pianificazione terapeutica a impostazione cognitivo-comportamentale che include un elenco degli obiettivi terapeutici principali, formulati tenendo presenti i sintomi caratteristici dell’aggancio nevrotico.

Cuori spezzati

Carissimi,
mi permetto di consigliare a tutti voi un libro appena uscito. L’autrice è Ginette Paris, una psicoterapeuta di cui abbiamo parlato molto. Il testo è “Cuori spezzati (Guarire dalla perdita di un amore)”, edito dalla Moretti & Vitali.

Gabriele

Chimica della Psiche

Non si riuscirà tanto presto a tradurre in formula chimica i fatti psichici così complessi; per il momento, dunque, il fattore psichico, deve ex hypothesi esser considerato una realtà autonoma di carattere enigmatico, e ciò soprattutto perché secondo ogni esperienza effettiva esso appare essenzialmente diverso dai processi fisico-chimici.

Se è vero che noi in definitiva ignoriamo quale sia la sua sostanzialità, ciò vale anche per I’oggetto fisico, per la materia. Quindi, se consideriamo lo psichico come un fattore per sé sussistente, dobbiamo concludere che c’è un’esistenza psichica sottratta all’arbitrio della manipolazione e dell’elucubrazione cosciente.
Se dunque aleggia sullo psichico un carattere di imprecisione, superficialità, vaghezza, di futilità insomma, ciò vale soprattutto per lo psichico-soggettivo, ossia per i contenuti della coscienza, non però per lo psichico-oggettivo, I’inconscio, il quale rappresenta una condizione a priori della coscienza e dei suoi contenuti.

Dall’inconscio emanano effetti determinanti che, indipendentemente dal modo in cui sono trasmessi, garantiscono in ogni singolo individuo la somiglianza, I’uguaglianza stessa dell’esperienza e dell’attività immaginativa. Una delle prove principali di ciò è data dal parallelismo per così dire universale dei motivi mitologici, da me denominati per la loro natura di immagini primordiali “archetipi”.

C. G. Jung,  “GLI ARCHETIPI E L’INCONSCIO COLLETTIVO.
SULL’ARCHETIPO, CON RIGUARDO AL CONCETTO DI ANIMA”,
da “Opere”, vol. 9*