I colori dell’Alchimia

Cari amici,

vediamo insieme  il significato ermetico del NERO, del BIANCO, del GIALLO e del ROSSO secondo la filosofia esoterica.

 

Questi sono i colori dell’alchimia, la scienza parallela alla magia che vuole trasmutare non il piombo in oro, come credono gli stolti, ma la mente asfittica dell’uomo, chiusa e ottusa, in un’intelligenza aperta e tollerante (oro).

Le tonalità corrispondono a questi significati:

Nero (Nigredo) —   È la notte, l’oscurità del dolore. È quella scheggia della nostra vita in cui tutto sembra senza speranza e senza scopo. I problemi avviluppano e soffocano. Tutto è tetro e cupo. Ma è anche il momento in cui una voce lontana comincia a sussurrare: «Attento, così stai soffrendo troppo, devi cambiare». E nel buio pesto si accende un pallido fuoco. La coscienza ha intrapreso il lentissimo giro del «cangiamento».

Bianco (Albedo) —    È il momento in cui la persona inizia a capire che è necessaria una trasformazione.

Giallo (Citrinitas) —  È il momento in cui il processo si è messo in moto e inizia il percorso della mutazione di sé. Ma questo sentiero è doloroso, occorre lasciarsi dietro i difetti, le preoccupazioni, le piccole meschinità e gli egoismi. È una fase dura e spesso chi intraprende il sentiero è tentato a questo punto di tornare indietro. Eppure c’è anche una forza interiore, ormai matura, che non rinuncia e continuamente sprona a proseguire.

Rosso (Rubedo)  —   È l’esplorazione raggiante della nuova personalità. Il vecchio io è come una crisalide, avvizzisce e lascia il posto alla nuova farfalla. La mente si è aperta e le piccole meschinità, le invidie, i rancori, i tremori, le paure e le angosce sono ormai alle spalle. È la rinascita. Una nuova vita attende chi ha iniziato il calvario.

 

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In ricordo di Giordano Bruno (Nola, 1548 – Roma, 17 febbraio 1600)

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(Roma, monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori)

“E’ il più importante mago rinascimentale. Seguace della filosofia ermetica non riesce mai a nascondere le proprie idee ed è costretto a girovagare per l’Europa.In ogni circostanza è prima osannato e poi perseguitato. Eppure mai retrocede dalle proprie convinzioni che oscillano tra un panteismo divinizzante la Natura e l’Infinità dell’Universo. Mai sottomesso al materialismo e al fideismo brutale, vede nell’uomo la possibilità di ascendere di grado in grado verso il divino mediante un radioso entusiasmo e un “Furor” che consente allo studioso di travalicare se stesso fino a un’intuizione partecipativa che conduce alla vera Sophia. Crede fortemente nei Simboli dell’ermetismo e nel presupposto della Magia come Amor omnia vincit, l’amore trionfa su tutto e tutti. Non a caso scrive: “Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi”. Questi mondi infiniti potrebbero avere una vita come sulla terra. Queste ultime sue posizioni gli costeranno l’accusa di eresia, il processo, la tortura e il rogo. Ma prima dell’arresto, avvenuto a Venezia, su delazione dell’esecrando Mocenigo, porta la sua ideologia a Parigi e a Londra, dove ottiene le cattedre di filosofia più importanti dell’epoca. Strano davvero questo frate senza saio, che incanta a oltre quattro secoli dalla morte, osteggiato già a ventotto anni, e costretto a scappare dal convento nel 1576. Nella capitale francese e in quella inglese pubblica alcune opere importantissime, come il “De Umbris idearum”, il “Cantus Circaeus” e po “La Cena delle Ceneri”, “De la causa, principio e Uno”, “De l’infinito, universo e mondi”, lo “Spaccio de la bestia trionfante” e altri scritti che influenzeranno sia il pensiero della grande regina Elisabetta sia lo stesso Shakespeare. Poi altri viaggi e altre opere, sempre manifestando il suo pensiero intessuto di slanci infiniti e speranze immense, fiducia nelle possibilità dell’uomo e sospetti profondi verso ogni forma di massimalismo e fondamentalismo. Per questo morì atrocemente, a imperitura damnatio memoriae dei suoi carnefici. Eppure Bruno parlava d’Amore anche a loro. E’ vissuto cinquantadue anni, di cui otto in prigione. Le lacrime di tutti i suoi seguaci non sono bastate a spegnere il rogo, ma servono tutt’ora a far comprendere l’importanza della tolleranza”.

Gabriele La Porta, da “Dizionario dell’inconscio e della magia” (Sperling & Kupfer)

 

 

Da “Il mito della normalità. Intervista a Gabriele La Porta”, in vendita su Amazon.it

D. Secondo James Hiilman le nostre nevrosi e la nostra cultura sono inseparabili. Dopo le fumisterie verbali della politica, i gergalismi e il pentagonese, dopo lo scientismo sociologico ed economico, l’abuso mediatico della parola e tutte le altre violenze inflitte si son prosciugate le parole del loro sangue e chi lavora nel campo della psicologia ha smarrito la fede nella potenza della parola. Come “guarire” il nostro linguaggio? Basterà perorare il ritorno alla parola piena di senso e di materia, un po’ come accadeva ai testi alchemici? Confucio sosteneva che la terapia della cultura parte dalla rettificazione del linguaggio e Hillman sostiene che la psicologia alchemica offre spunti per questa possibilità di rettificazione. Che ne pensa?

R. Per me vale  molto di più James Hillman che l’opinione di innumerevoli cosiddetti esperti in camice paludato. Questo è il tempo del mutamento. Non capire la cateratta psichica è come rinunciare allo scandaglio mentale e costringersi ad una dolorosa prigionia”.

lanzaro

http://www.amazon.it/della-normalit%C3%A0-Intervista-Gabriele-Porta-ebook/dp/B017AT0N00/ref=sr_1_4?ie=UTF8&qid=1446484673&sr=8-4&keywords=lanzaro

Prossima uscita in ebook: “Il mito della normalità”, Massimo Lanzaro intervista Gabriele La Porta

lanzaro

Questo intenso dialogo tra uno psichiatra, psicoterapeuta ed un filosofo si sofferma su vari punti cruciali e attualissimi nella storia dell’anima e delle sue cure: il nuovo DSM-V, le polemiche sullo stigma, sulla crisi delle psicoterapie e sulle cure psicofarmacologiche. “Gli Dei sono diventati malattie” scrisse una volta C.G. Jung, concetto poi ribadito da James Hillman (anche nel suo celebre “Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”). Elaborando queste idee nell’ebook si discute, tra l’altro, la questione più immediata per ogni disciplina della mente: Che cos’è la normalità psichica? A partire da quale soglia entriamo oggi nel regno incontrollabile della cosiddetta “non normalità”? E dove sono finiti gli Dei rimossi?

Il 18 novembre a Bologna per Giordano Bruno

Locandina Giordano Bruno3Carissimi amici,
martedì 18 novembre 2014 sarò a Bologna, ospite del Rotary Club Bologna Carducci, in interclub con il Rotary Valle del Savena ed il Rotaract Carducci, per una serata dedicata a Giordano Bruno.

Vi auguro un ottimo fine settimana.

Uno dei primi libri…

“Michele non so se te lo ricordi ma quando avevi 10 anni scrissi un libro nel quale eri il protagonista”.
Secondo te, potrei non ricordarlo?
Rammento ancora l’odore della pipa, il profumo della musica classica ed il ticchettio della macchina da scrivere che si diffonedevano, dal tuo studio, in tutta la casa.
Avevi 34 anni.

**************

Questo libro parla di una ricerca che si muove non solo attraverso lo spazio ma anche e soprattutto attraverso il tempo.
È il viaggio di Michele, un bambino di 10 anni, che viene afferrato da una forza che gli fa attraversare la porta ermetica di Roma e lo proietta in pieno Rinascimento.
Ed è in questa epoca magica che Michele incontra i principali filosofi maghi del tempo: Botticelli, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Lorenzo il Magnifico, Giordano Bruno. Un’affascinante itinerario che attraversa il pensiero di questi filosofi per riuscire a sperimentarne e a coglierne l’essenza più vera, la capacità di abbandonarsi all’armonia dell’universo.

Vi aspetto al Caffè Letterario, giovedì 19 alle 19.00

Carissimi, giovedì 19 alle ore 19.00, presenterò il mio ultimo libro al Caffè Letterario.
Parteciperà anche il caporedattore del Tempo, Anna Fiorino.
Vi aspetto.
Caffè Letterario, via Ostinse, 95, Roma

Presentazione “Tu chiamale se vuoi coincidenze”

Carissimi,
domani 8 dicembre, a Roma, dalle 15 alle 16, presenterò il mio nuovo libro “Tu chiamale se vuoi coincidenze”, edito da La lepre,  nell’ambito della manifestazione “Più libri più liberi”, presso il Palazzo dei Congressi all’Eur. Vi aspetto!

Gabriele

“Tu chiamale se vuoi coincidenze”: in libreria da oggi

Amici carissimi, vi informo che da oggi è in libreria il mio ultimo lavoro: “Tu chiamale se vuoi coincidenze”, edito da La Lepre edizioni. Un bacione a tutti e fatemi sapere cosa ne pensate.

Gabriele

Angeli

“Dal greco angelos, inviato, messaggero. Generalmente interpretati come ministri e servitori della volontà di Dio, e come intermediari fra il divino e l’uomo, gli angeli sono esseri soprannaturali dal carattere eminentemente spirituale e intellettuale, comunemente rappresentati a livello iconografico come entità dai corpi aventi ali e sembianze umane, dalla giovanile ed eterea bellezza. In tutte le culture di ogni tempo è possibile rintracciare spiriti custodi o spiriti di aiuto per gli uomini, figure riconducibili a entità di carattere angelico. Tali messi mediatori possono essere rintracciati in testi accadici, ugaritici e biblici”.

Gabriele La Porta da “Dizionario dell’inconscio e della magia”, Sperling & Kupfer

(Cherubini di un celebre dipinto di Raffaello)

Maria Allo : “Riflessi di rugiada”

Uno strano bagliore cerca di squarciare la quotidianità, che ci avvolge con tutte le sue inaspettate composizioni, così le nubi che scorrono, le onde del mare che ritornano irrequiete, il candore di una illusione che ripete , l’intima partecipazione che racconta incertezze e riflessi, sono qui il gioco instancabile del ritmo e dei versi. La poesia sottilmente sveste l’orizzonte per sospendere il canto che si annida tra i pensieri che non riescono a cambiare i colori, se non con la voce ripetutamente urlante della poetessa. Un tragitto trasparente snoda i coni d’ombra, che gli attimi effimeri sottolineano per i silenzi tra l’infinito e le stelle. “Quando mi coglie il buio/ una soffocata luna/ dietro il cancello/ solleva misteriosi grovigli/ e sul sagrato d’abissi/ mi fiacca l’anima.” – Allora il sogno diventa emozione, in una attesa che non è più solitaria e si offre pagina dopo pagina per diventare parola. Una percezione tangibile nella candida espressione dell’ammiccamento.

Antonio Spagnuolo

 

C’è un silenzio

c’è un silenzio antico nelle cose
sui crinali dei colli
nei limoneti
in fondo alle valli
intrecciate d’ortiche
grovigli di rami disseminati
erbe aromatiche
finocchi selvatici
menta e rucola
c’è un silenzio antico nelle cose
aspetta da sempre
sorregge radici di ulivi
nidifica nel forno sconnesso
tendo l’orecchio
a inseguire voci
che invadono segni
consonanze di parole lievi
librate nelle crepe
dei muri sconnessi
tra ciottoli e spini
dietro ogni siepe
c’è un silenzio antico nelle cose
estenuato da parole di sempre
in ogni angolo
della vecchia casa
nella speranza che tende la mano
inseguo tenacemente l’azzurro
con occhi spalancati
ma respirare cieli è un’altra cosa
E c’è un silenzio dentro le parole
che rimbalza distrattamente
mai al tempo giusto
muto nel dolore
un silenzio non ancora sfiorato
da venti lievi
come le mie ciglia
c’è un silenzio che nessuna parola
può penetrare senza fiatare
con mille nodi i suoni
ne infittiscono gli echi
segnati da erba calpestata
e rami che annaspano
al fruscio dei pioppi ansimanti
ma poi senti l’acqua del torrente
borbottare prima piano
poi sempre più incessante
parole e parole
c’è silenzio nel nido
di quei passerotti implumi
c’è silenzio nel buio che trasmigra certezze
nel rumore incessante dei dubbi
nelle pagine bianche
nei luoghi di frontiera
in questo tempo che se ne va
c’è silenzio anche nel fuoco
che divampa e zampilla
empiti di poesia
arde seguendo tracce
di odori suoni e colori
ma quante parole non dette
nel silenzio di tante parole

S’aprono in ogni mia fibra-

S’ aprono in ogni fibra gesti aguzzi
abissi e cunicoli scaglie involucri
innervati d’umori schiusi
a cercare sussurri
d’una antica lingua che perfori
come in un campo di sterpaglie
invisibile
su spazi imprevisti e buche
ma silenzioso tenace
mi fai semina di mare
spersa avvinghiata
e tu nascosto tenace
parli di partenze di ritorni
prosciughi tutti i respiri
dietro davanti e oltre
mi attraversi
non trovi un alibi razionale
si aprono in ogni mia fibra
respiri nel corpo viola
che vuole fermenti di pietà
per noi in questo settembre
s’aprono in ogni mia fibra
scaglie di purezza tremiti cari
e non trovo parole

Maria Allo

“Tu chiamale se vuoi coincidenze”

Amicissimi!!!!

Il primo ottobre esce il mio ultimo libro “Tu chiamale se vuoi COINCIDENZE” per “La Lepre Edizioni”.

Sono decine di storie inspiegabili dal punto di vista razionale. Premonizioni, intuizioni folgoranti, interruzione dello spazio-tempo, sono i punti nodali di ciascuna di queste “coincidenze”.

Questo nome, appunto coincidenze, è stato creato da Jung e sta a significare la connessione tra due dimensioni: quella nostra, ordinaria, e quella di un “altro” universo, quello in cui il tempo sembra non scorrere e delle cause che si mischiano con gli effetti. Insomma, le coincidenze non vanno esaminate con la logica razionale, ma con un pensiero “altro”, aperto ad ogni fenomeno e ad ogni ipotesi. Senza steccati e pregiudizi. Con la mente rivolta al meraviglioso e al sublime.

Le storie proposte sono illustrate dai disegni di Donatella Scatena

Gabriele

Michael

“Michael, o Michele, il cui nome derivante dall’espressione Mi-ka-El significa “chi è come Dio?” e “simile a Dio”, è l’arcangelo guerriero della luce e del fuoco. Principe supremo delle schiere celesti, colui che insorge contro Satana per domare le Forze del Male e precipitarle negli Abissi”.

Dal “Dizionario dell’inconscio e della magia” di Gabriele La Porta

(Bonifacio de Pitati, San Michele combatte il diavolo, 1530)

L’anima malinconica

(Vincent Van Gogh, I girasoli, 1888)

L’anima malinconica ha un bisogno inestinguibile d’amore. È più esposta, per sua stessa natura, ai dardi infuocati della trascuratezza e della dimenticanza. Quello che non farebbe soffrire nessuno, a lei procura tormento. Potrebbe sembrare un vizio d’origine. Ma cambiando l’ottica diventa un dono, per gli altri. Dato che secondo Jung l’amore può tutto e l’odio nulla, l’interiorità della persona “amante” può creare fiori nel proprio e altrui giardino interno, mentre il distratto non subisce patimenti, ma neppure getta semi per le piante della “coinonia”, della comunione delle creature. Chi si espone subisce offese, ma grazie a quella donazione tutti ricavano qualcosa. È questione di generosità.

Gabriele La Porta

Torno con un’altra edizione del “mio” Bruno

Carissimi, è con piacere che vi comunico che, la casa editrice Bompiani, ha ridato alle stampe il mio libro “Giordano Bruno” (edizione tascabile)

Come, quasi, degli empiti alla Nona edizione
Quelle fiamme non possono essere spente

“Quando si ha fame e si ha sete c’è sempre qualcuno pronto a scacciarvi”, dice Rimbaud. Al secolare bisogno di speranza e di divino interiorizzato i sacerdoti di professione non sono in grado di dare la più piccola soddisfazione. Sono presi dal bisogno inesausto di letteralizzare il Simbolico, in perfetta sintonia con il paranoico, disturbo del significato e dell’allegorico. Per questo attraverso i secoli ci rivolgiamo al Maestro che ha scolpito la via del cuore con “un’unica forza, l’Amore, che unisce infiniti mondi e li rende vivi”. Non ci possono anni smemorati per chi ha costruito sulla donazione ogni sua forma conoscitiva, appunto “un cuore sacro e indicibile che con veloci pensieri si slancia attraverso il mondo intero” (Empedocle 134, 4-5. Trad. Giorgio Colli). Perché lo spazio-tempo esiste soltanto nella dimensione terrena e si scioglie in Psiche. Per questo troppo volte Bruno sembra vivere ineluttabilmente con la scardinante dedica dell’Oscuro “ai vaganti di notte, ai maghi, ai posseduti da Dioniso, alle menadi, agli iniziati” (Eraclito 14, A 59. Trad. Giorgio Colli). Un empito dionisiaco avviluppante il Dio in una danza spirale che sfonda secoli inutilmente pesanti solo per gli umani. Perché la forza del Nolano è racchiusa in un perenne vaticinio donativo. Circolarità senza fine, Sphairos consustanziale con Afrodite iperuranica. Per questo è contemporaneo di Hermes, il donatore agli umani, e quindi con Spalle Larghe (Platone), Porfirio e Giamblico lo scrutatore degli Egizi e poi a Giuliano l’Apostata e “all’altro” Giuliano il Kremmerz degli anni nostri. Ma i filamenti luminosi de “gli eroici furori” hanno troppo scandagliato Anima sempre eterna per non parlare continuamente a quell’Amore che “ratto s’apprende” ai “Cor”. Così il nolano adepto ai sacri misteri di Orfeo continua il suo canto donativo in nome di quella “necessaria Follia” che rende qualsiasi suo lettore un processionario nelle file dei seguaci dei Maghi, in nome del divino ardore che nessun rogo potrà mai cancellare. Ecco perché tutti noi siamo fermi al 17 febbraio del 1600. Per ricordare come su ogni creatura e cosa domini “la Folgore”.
Ovvero l’abisso radioso che si apre dal Bacio degli Amanti

Rosa

Nella iconografia cristiana la rosa è sia la coppa che raccoglie il sangue di Cristo, sia la trasfigurazione delle gocce di questo simbolo, sia il simbolo delle piaghe di Cristo. Un simbolo rosacrociano raffigura cinque rose, una al centro ed una ad ogni braccio della Croce. Queste immagini evocano sia il Graal, sia la rugiada celeste della Redenzione. Come è rappresentato in una allegoria della Rosa-Croce, la rosa è situata al centro della Croce, cioè al posto del cuore di Cristo, del sacro Cuore.
E’ lo stesso simbolo della “Rosa candida” della Divina Commedia, che evoca la “Rosa mistica” cristiana, simbolo della Vergine. La rosa, per il suo rapporto con il sangue versato, appare spesso come il simbolo della rinascita mistica.
Scrive Mircea Eliade: “E’ necessario che la vita umana si consumi completamente per esaudire tutte le possibilità di creazione o di manifestazione; se essa è interrotta bruscamente da una morte violenta, tenta di prolungarsi sotto un’altra forma: pianta, fiore, frutto”.

Bari: “TUTTI… NESSUNO ESCLUSO”

Carissimi amici, questo finesettimana sarò a Bari in occasione dell’evento “TUTTI… NESSUNO ESCLUSO”, promosso da IKOS – Istituto di Comunicazione Olistica Sociale, per il 2010 Anno Europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Il giorno 6 marzo alle ore 18:00, presso la Sala Murat (p.zza del Ferrarese)  terrò il seminario La voce dell’anima. Domenica 7 presenterò il mio ultimo libro, il Dizionario dell’Inconscio e della Magia, presso la libreria Laterza alle ore 18:00.
Gli incontri sono aperti a tutti e gratuiti.

Demone in ombra

Cari amici, oggi vi propongo un pensiero di Adolf Guggenbüh-Craig sulla quale vi invito a riflettere:

Un’entità quasi non umana che agisce nell’ombra ed è più forte del medico, del paziente e dello psicoterapeuta.

Da Deserti dell’anima, in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer – Rai Eri, 2008.

Nell’Interiorità di Anima — “Bellezza psichica”

La bellezza dell’anima, che sola supera il fascino di Afrodite, si rivelerà un’immaginazione estetica della psiche e nell’ammaliante potere delle sue immagini. Si rivelerà nei modi in cui la psiche dà forma ai propri contenuti – ad esempio, nella maniera in cui l’anima contiene l’erotico. Ma, soprattutto, la bellezza della psiche si riferisce al significato del bello in rapporto agli eventi psicologici. Quando siamo toccati, mossi, e aperti dalle esperienze dell’anima, scopriamo che ciò che vive in essa non soltanto è interessante e significativo, necessario e accettabile, ma è anche attraente, amabile e bello.

James Hillman, Il mito dell’analisi, citato in Gabriele La Porta, S come Seduzione. Dizionario dell’Eros e della sensualità, Marco Tropea Editore, 2004.

Nell’Interiorità di Anima — “Fantasia e anima”

La fantasia è la forza primordiale dell’anima che tende a riportare ogni cosa nella sua concezione primaria…

James Hillman, Sul linguaggio psicologico, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

Nell’Interiorità di Anima — “Andare in se stessi”

Si è andati all’esterno in tutte le direzioni,
invece di andare in se stessi
dove c’è soluzione a ogni enigma.

Arthur Schopenhauer, Manoscritti 1804-1818, 154, 1814, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

Nell’Interiorità di Anima — “Bellezza”

Queste sono le emozioni che devono sorgere al contatto di ciò che è il bello sensibile: lo stupore, la meraviglia gioiosa, il desiderio, l’amore, e lo spavento accompagnato da piacere. Ma è possibile provare queste emozioni – e l’anima infatti le prova – anche riguardo alle cose invisibili; ogni anima, per così dire, le prova, ma specialmente quella che ne è innamorata.

Plotino, Enneadi, I 6, 4, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

SCRITTORI SOTTO LE STELLE – Inconscio e Magia a San Benedetto del Tronto

Carissimi amici, venerdì 24 sarò a San Benedetto del Tronto, per la presentazione del mio Dizionario dell’Inconscio e della Magia, edito dalla Sperling & Kupfer, nel corso della manifestazione “Scrittori sotto le stelle”, iniziativa promossa dalla Confesercenti e dalla libreria La Bibliofila. L’incontro avverrà allo chalet Da Luigi e l’inizio è previsto intorno alle 21:30.

Auguro a tutti un buon finesettimana. Un abbraccio!

DERIVE – Inconscio e Magia ad Anzio

laportadizionarioCarissimi amici, questa sera sarò ad Anzio (RM) per presentare il mio ultimo libro, il Dizionario dell’Inconscio e della Magia, edito dalla Sperling & Kupfer.
L’incontro avverrà nella Villa Imperiale, via Fanciulla d’Anzio, alle ore 21:30 in occasione della chiusura di DERIVE – ANZIO CULTURA, una manifestazione che nasce per promuovere e incentivare la cultura e l’arte in tutte le espressioni e le forme: una sorta di grande contenitore da riempire con letteratura, musica e arti visive.

 

Auguro a tutti una buona giornata. A presto!

Nell’Interiorità di Anima — “Sogno”

Il sogno è una piccola porta nascosta negli angoli più profondi e più segreti della psiche. Essa si apre su quella notte cosmica che era già psiche molto prima che apparisse la benché minima coscienza di sé e che resterà psiche qualunque sia l’estensione che prenderà la coscienza… Ogni coscienza è separazione; ma nei sogni ritroviamo l’uomo più universale, più vero, più eterno, l’uomo che abita le tenebre della notte primitiva.
Là, l’uomo è ancora totale, e tutto è in lui, inseparabile dalla natura e spoglio da qualsiasi individualità. Anche quando è infantile, grottesco o immorale, il sogno sale da queste profondità.

Carl Gustav Jung, Ricordi Sogni Riflessioni, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

Nell’Interiorità di Anima — “Inconscio”

In realtà, giorno per giorno noi viviamo ben oltre i confini della nostra coscienza; la vita dell’inconscio procede con noi, senza che ne siamo consapevoli. Quanto più domina la ragione critica, tanto più la vita si impoverisce; ma quanto più dell’inconscio e del mito siamo capaci di portare alla coscienza, tanto più rendiamo completa la nostra vita.

Carl Gustav Jung, Ricordi Sogni Riflessioni, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

Marsilio Ficino

Ficino, in realtà, è un autore di psicologia, uno psicologo del profondo, si potrebbe dire. Quando il giovane Marsilio fu presentato alla corte dei Medici da suo padre, che era medico di corte, Cosimo il Vecchio osservò che il suo destino sarebbe stato quello di curare l’anima degli uomini, così come quello del padre era di curarne il corpo. E infatti, come scrisse Panofsky, il movimento di idee da lui iniziato esercitò «un’influenza paragonabile soltanto, per ampiezza e intensità, a quella esercitata oggi dalla psicanalisi». Tuttavia a meritare il paragone con la psicanalisi non è soltanto la forza delle idee di Ficino, ma anche il loro contenuto.
«Ficino, che aveva mutuato dalla tradizione neoplatonica molti elementi del suo sistema, la modificò scientemente su un punto decisivo, la posizione centrale dell’anima umana» (Paul Oscar Kristeller). Scrive Ficino: «Questo (l’anima) è il più grande di tutti i miracoli della natura. Tutte le altre cose al di sotto di Dio sono sempre un essere singolo, ma l’anima è tutte le cose insieme… Perciò essa può giustamente essere chiamata il centro della natura, il termine mediano di tutte le cose, la continuità del mondo, il volto di tutto, vincolo e copula dell’universo».
Con il porre l’anima al centro, la filosofia di Ficino diventa psicologica, e Ficino riconosce che la filosofia si fonda sull’esperienza psicologica, ne è modificata e la modifica a sua volta.

James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, citato in Gabriele La Porta, Dizionario dell’Inconscio e della Magia, Sperling & Kupfer, 2008.

Inconscio e Magia in Toscana

Carissimi amici, nel fine settimana sarò in Toscana, dove venerdì 10 luglio presenterò, nella splendida Monte San Savino (AR), il mio ultimo libro, il Dizionario dell’Inconscio e della Magia, edito dalla Sperling & Kupfer, alle ore 17:30 nella Sala Conferenze del Cassero, nel corso di Open Event, una rassegna interculturale di arte, musica, cinema, teatro, poesia e filosofia.

Buona giornata, un abbraccio a tutti!

Mare e parole

Cari amici, domani sera, 8 luglio, sarò a Polignano a Mare (BA) per la presentazione del mio Dizionario dell’Inconscio e della Magia, in piazza dell’Orologio, in occasione della rassegna Festival…il libro possibile-A Sud tra mare e parole.

Vi auguro una felice serata. Con affetto!

Inconscio e Magia a Venezia…

Carissimi amici del blog Notturna,

il fine settimana sarò a Venezia, una città che mi incanta e mi appassiona, dove questa sera presenterò a Ca’ Vendramin Calergi il mio ultimo libro, il Dizionario dell’Inconscio e della Magia, edito dalla Sperling & Kupfer.

Buona giornata, un abbraccio a tutti!

Nell’Interiorità di Anima — “Anime umide”…

Un passo ancora verso Anima… Porfirio è uno dei più illustri rappresentanti della scuola neoplatonica. Nella sua opera confluiscono i grandi temi della filosofia magico-occultistica di derivazione orientale. Esploriamone insieme alcune folgori da quel compendio di saggezza interiore che è “L’antro delle Ninfe”.

 

Anime umide

Con Ninfe Naiadi indichiamo in senso specifico le potenze che presiedono alle acque, ma i teologi designavano tutte le anime in generale che discendono nella generazione. Essi, infatti, ritenevano che tutte le anime si posassero sull’acqua che, come dice Numenio, è divinamente ispirata; egli afferma che proprio per questo motivo anche il profeta disse: «il soffio divino si muoveva nell’acqua». Per questo – dice – gli Egiziani collocano gli esseri divini non sulla terraferma, ma tutti su una barca, sia il Sole sia, in generale, tutti: bisogna sapere che questi sono le anime che, planando sull’acqua, discendono nella generazione. Di qui il detto di Eraclito:  «per le anime è piacere, non morte, divenire umide», cioè è un piacere cadere nella generazione, e altrove egli dice: «noi viviamo la morte di quelle, e quelle vivono la nostra morte». Perciò, per Numenio, il poeta chiama «umidi» coloro che sono nella generazione, avendo anime umide. Esse, infatti, amano il sangue e il seme umido, e le anime delle piante si nutrono di acqua.

(Porfirio, L’antro delle Ninfe, Gli Adelphi, 2006, pag. 51)

 

 Armonia e tensione di contrari

Poiché la natura ha origine dalla diversità, ovunque l’entrata a due porte ne è simbolo. Il cammino, infatti, può avvenire o attraverso l’intellegibile o attraverso il sensibile, e quello attraverso il sensibile o attraverso la sfera delle stelle fisse o attraverso i pianeti, e ancora, o attraverso un cammino immortale o mortale. C’è un centro sopra la terra e uno sotto terra, uno a oriente e uno a occidente, la sinistra e la destra, la notte e il giorno; e per questo è «armonia e tensione dei contrari» e scocca dardi dal suo arco per l’esistenza dei contrari. Platone parla di due imboccature: attraverso una si risale al cielo, dall’altra si scende sulla terra, e i teologi fecero del sole e della Luna le porte delle anime che risalgono per la porta del Sole e discendono per quella della Luna; e in Omero ci sono due orci:

dei doni che concede, l’uno dei cattivi, dei buoni l’altro.

(Porfirio, L’antro delle Ninfe, Gli Adelphi, 2006, pag. 77)

I colori dell’Alchimia

Cari amici,

vediamo insieme  il significato ermetico del NERO, del BIANCO, del GIALLO e del ROSSO secondo la filosofia esoterica.

 

Questi sono i colori dell’alchimia, la scienza parallela alla magia che vuole trasmutare non il piombo in oro, come credono gli stolti, ma la mente asfittica dell’uomo, chiusa e ottusa, in un’intelligenza aperta e tollerante (oro).

Le tonalità corrispondono a questi significati:

Nero (Nigredo) —   È la notte, l’oscurità del dolore. È quella scheggia della nostra vita in cui tutto sembra senza speranza e senza scopo. I problemi avviluppano e soffocano. Tutto è tetro e cupo. Ma è anche il momento in cui una voce lontana comincia a sussurrare: «Attento, così stai soffrendo troppo, devi cambiare». E nel buio pesto si accende un pallido fuoco. La coscienza ha intrapreso il lentissimo giro del «cangiamento».

Bianco (Albedo) —    È il momento in cui la persona inizia a capire che è necessaria una trasformazione.

Giallo (Citrinitas) —  È il momento in cui il processo si è messo in moto e inizia il percorso della mutazione di sé. Ma questo sentiero è doloroso, occorre lasciarsi dietro i difetti, le preoccupazioni, le piccole meschinità e gli egoismi. È una fase dura e spesso chi intraprende il sentiero è tentato a questo punto di tornare indietro. Eppure c’è anche una forza interiore, ormai matura, che non rinuncia e continuamente sprona a proseguire.

Rosso (Rubedo)  —   È l’esplorazione raggiante della nuova personalità. Il vecchio io è come una crisalide, avvizzisce e lascia il posto alla nuova farfalla. La mente si è aperta e le piccole meschinità, le invidie, i rancori, i tremori, le paure e le angosce sono ormai alle spalle. È la rinascita. Una nuova vita attende chi ha iniziato il calvario.

FRANÇOIS VILLON, IL POETA DELL’ENIGMA ovvero DELL’IDENTITÀ NASCOSTA E DELLA PAURA DELL’ERESIA

Un Ebreo con un’oca è praticamente un uomo morto. Bene che gli vada, ed è raro, gli tagliano la mano destra, altrimenti lo inchiodano «come Gesù Cristo» a espiazione dei peccati e il pennuto è subito preparato per il fuoco e arrostito, ovviamente «per la gloria di nostro Signore». I delitti denunciati sono oltre centomila all’anno, quindi la stima è irrisoria rispetto alla realtà.

È la Parigi della seconda metà del Quattrocento, dove i criminali si nascondono ovunque e la violenza è pane quotidiano. Gli omicidi e gli stupri sono cosi ordinari che non vengono neppure citati nei rendiconti della «sicurezza», a meno che non riguardino personaggi altolocati e il clero.

Le prostitute sono quattromila, i lenoni, i malversatori, gli aguzzini, gli strozzini e i frequentatori abituali delle carceri sono oltre ventimila. E questo su una popolazione globale di trecentomila anime.

Tre persone su dieci hanno dunque a che vedere con la giustizia e non si tiene conto dei tagliagole al servizio dei nobili. Sotto la protezione di un conte o di un marchese si gode infatti una quasi totale impunità. La notte è abitata da questi sgherri con licenza di offendere, ferire, colpire, rubare, torturare. Dopo il tramonto, ogni donna sorpresa per strada è un bottino offerto al primo smargiasso, e un «giudeo» può essere colpito con sassi, con mazze o addirittura trafitto da spada o pugnale anche di fronte ai pur temuti e odiati sbirri. Un incubo. Non basta essere forti o valenti con le armi. Se non si è in gruppo, si ha la certezza di essere aggrediti e sventrati anche solo per sadico divertimento. Per questo si esce in compagnia. Ognuno si aggrega agli uomini del nobile o dell’alto prelato a cui fa riferimento. Come piccole schiere vandaliche si cammina, si insulta, si cerca il capro da sacrificare.

Capita sempre qualcuno che, per necessità, è dovuto uscire. Allora comincia la festa. Se è un vecchio, gli si incendiano le vesti per il gusto di vederlo correre; se è una donna anziana, le si aizzano contro i cani; se è giovane, la si violenta tutti insieme e poi la si sgozza; se è un villano, gli si conficcano a forza nello sfintere gli ortaggi; se è un bambi­no gli si mozzano le orecchie o il naso; se è una fanciullina, la si sequestra per venderla ai mezzosangue che commerciano con i mori.

È in questo inferno che vive François Villon, uno dei massimi poeti di tutti i tempi. Una vera e propria leggenda.

Perché? Pierre Champion ha scritto su di lui la prima biografia romanzata della storia della letteratura. Poi ne sono seguite almeno una ventina. Tutte più o meno credibili e tutte affascinanti. Il personaggio è un vero e proprio mistero. Anzi, un rebus che lo stesso poeta, nelle sue opere maggiori, Lascito e Testamento, ha voluto contribuire a costruire. Infatti nei suoi versi immortali dà precisi riferimenti.

È uno studente così povero che di più non si può, nero come una mora e magro come una chimera. Uno «scolaro» del quartiere latino che studia senza profitto e frequenta cattive compagnie. Da qui ubriacature, furti e prigione. Lui stesso dice che è entrato e uscito da quella terribile di Meung. Insomma un vero e proprio poeta maledetto, anzi, il primo in assoluto. Da qui il mito. Di più, una malia che ha attratto ammiratori-letterati di ogni tempo, tutti a cercare di scoprire la sua vera identità. E sì, perché in realtà su di lui, malgrado le «tracce» lasciate a bella posta nei suoi versi, non si sa un bel niente: sparisce dopo aver creato quel capolavoro del Testamento.

La scomparsa in sé non dovrebbe troppo meravigliare. È un delinquente, di genio, ma sempre delinquente e per di più recidivo. Non ce l’ha fatta a scappare una volta di più e la giustizia l’ha appeso. Non è forse lui che ha scritto che diversi suoi amici sono stati condannati a morte? Inoltre, si ha notizia di un «François des Loges autrement dit Villon» in una lettera di remissione, firmata da Carlo VII, nella quale lo si scagiona da un fosco delitto in cui è stato ucciso un prete. In un’altra lettera, sempre firmata da Car­lo VII, è citato un François de Montcorbier, maître des arts, che viene sollevato da responsabilità sempre per lo scannamento di un prelato. Quindi c’è da scegliere. O questo o quello, o «des Loges» e «de Montcorbier», sempre di lui si tratta. Di quel poeta secco, nero, povero, studente, coinvolto in un giro losco di denari e pugnalate.

E allora? Cosa c’è da sapere di più? Molto, moltissimo.

Per cominciare, Villon scrive in jargon, una sorta di gergo di malaffare, ma ogni rigo trasuda una cultura letteraria eccezionale. Molto al di sopra di quella di uno studente o anche di un maître des arts. Da qui l’ipotesi recentissima che si tratti di un personaggio, forse di grande prestigio sociale ed economico, che si nasconde dietro una sorta di maschera saturnina molto in voga nell’Umanesimo. Insomma, una specie di travestimento con cui si mostra ai contemporanei e soprattutto ai posteri per farli impazzire.

Una trovata teatrale straordinaria. Un uomo potente e coltissimo che si rappresenta come un vero e proprio attore da palcoscenico: una falsa identità, una falsa professione, una falsa povertà, una falsa fedina penale e una falsa galera.

Solo i versi eterni sono veri.

Per generazioni, i critici sono caduti nella trappola, ma adesso alcuni hanno scoperto l’inganno e finalmente hanno svelato la doppia identità del poeta. Tutto chiaro, finalmente. È un grande doppiogiochista. Ha teso un tranello in cui tutti sono rimasti impigliati per anni e anni. Ma ora tutto sembrerebbe svelato grazie a un lavoro di revisione filologica dei testi e delle fonti,

E invece no.

Ecco perché l’Hermes è approdato in questa Parigi plumbea rigurgitante di ombre. Il mistero di Villon rimane immutato. Almeno fino a ora. E merita di essere scoperto. Una volta per tutte. Ma occorrono i soliti occhi privi di pregiudizi e remore e soprattutto il solito grimaldello che i marinai curiosi si portano dietro sin dall’inizio di questo itinerario. Per aprire versi ermeticamente chiusi, occorre infatti la chiave giusta, quella ermetica.

A ben vedere, nel disvelamento della vera identità di Vil­lon potente, ricco e istruito, manca la motivazione della ma­schera.

Perché un uomo altolocato, di cospicui mezzi e cultura, avrebbe messo su una simile messinscena? Per puro godimento, rispondono i critici più avveduti, e per un gusto tipicamente d’epoca: la rappresentazione fine a se stessa, il ludus della maschera saturnina, l’uomo nero e magro e povero e sfortunato che, nella seconda meta del Quattrocento, era molto in voga in Francia e in Italia.

In verità è un movente veramente debole.

Ma come? Un poeta perfettamente conscio del proprio valore, che deride i suoi contemporanei che si cimentano con i versi, si condanna all’oblio eterno soltanto per un divertimento alla moda? Se così fosse, un suo contemporaneo avrebbe lasciato un appunto, una lettera, uno schizzo, un motto, un sonetto sulla vera identità di quel geniale dissacratore.

Invece nulla. Solo le lettere di remissione di Carlo VII.

Evidentemente, nell’artista che si nasconde sotto lo pseudonimo di François, ovvero «il francese», Villon, ovvero «l’arguto», è necessario l’anonimato assoluto per cause ben più forti e gravi del semplice divertimento letterario.

Lui sapeva che nei suoi versi c’era qualcosa di terribile agli occhi dei suoi contemporanei. Di qui il travestimento e la falsa pista dello studente impelagato con la legge. Oggi non si riesce più a cogliere l’autentica valenza misteriosa delle sue composizioni. Nel Quattrocento, invece, non era così.

L’uomo celato sotto i panni di Villon sapeva perfettamente che alcuni suoi concittadini avrebbero letto nel giusto senso i suoi scritti. Alcuni ne avrebbero tratto giovamento, ma altri vi avrebbero visto eresia e componenti demoniache. Perché è di questo che si tratta.

I versi sono un capolavoro poetico, ma sono anche un bando, un manifesto ermetico diffuso nei secoli. Un paradigma magico proposto agli uomini delle generazioni a venire.

È per sciogiere questo enigma che il nostro battello approda a Parigi.

Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte IV

I due amanti sono trovati addormentati di notte da Artù, che mette tra loro la sua spada. Da quel momento l’arma si chiamerà Excalibur, ovvero «mezzo per raggiungere il divino». Lancillotto e Ginevra sono dunque aiutati da Artù per giungere, nella loro fusione di maschile e femminile, alla dimensione eterna. E poiché la spada rappresenta l’anima, ecco che il re dona loro l’anima per arrivare a Dio.

Questo è il vero significato dell’episodio, il mistero celato dietro un’apparente storia di tradimento.

Lasciati i due amanti, il re torna a Camelot, ma poiché non può vivere senza l’amico e senza Ginevra, cade gravemente ammalato. Solo il Santo Graal, la coppa da cui sgorga una bevanda magica che dona «ogni sapienza», potrà salvarlo. I Cavalieri della Tavola Rotonda partono quindi alla ricerca.

Approfittando dello stato di confusione di Artù, la sua sorellastra Morgana, la strega, assume le sembianze di Ginevra e riesce a fare l’amore con il re, il quale nel delirio è convinto di abbracciare la moglie perduta.

Morgana concepisce da lui un figlio, Mordred, erede del regno. Ormai Artù sembra avere i giorni contati. Infatti i cavalieri non riescono a trovare il Graal e, nella ricerca, cadono tutti vittime di orchi, streghe, negromanti.

Solo un cavaliere puro e padrone di sé, capace di guidare i suoi istinti, può reperire il sacro vaso contenente la bevanda miracolosa. Perfino Parsifal, «è colui che ha mondato il cuore», è caduto vittima degli intrighi di Morgana e Mordred, il figlio dell’incesto. I due l’hanno catturato e appeso a un albero, con la testa in giù.

Ma in questa posizione Parsifal comprende il segreto per raggiungere il Graal.

Qui è nascosto un altro insegnamento velato: il guerriero giunge all’intuizione dal momento in cui «è appeso», quando ha assunto la posizione dell’omonima carta dei Tarocchi. La saggezza arriva capovolgendo i termini del ragionare ordinario, modificando completamente la cultura, la mo­rale, i luoghi comuni.

Parsifal riesce a slegarsi dall’albero, si getta in un torrente, raggiunge un castello sotto le acque, apre le porte con la chiave nascosta «nel suo cuore» e prende il Graal. Immediatamente corre a Camelot e arriva giusto in tempo: Artù sta per morire. Ma appena beve un solo goccio della preziosa bevanda, il re «conosce il bene, il male e tutto come è sempre stato» e guarisce.

Finalmente il signore della Britannia può marciare contro i Sassoni, guidati da Morgana e Mordred. In una battaglia epica Artù li sconfigge. Mordred è il ricettacolo di ogni male: lussuria, invidia, odio, arroganza, ira bestiale si annidano dentro di lui.

Il re sguaina Excalibur e si avventa contro Mordred, che a sua volta ha sfoderato Rubilacxe, la sua lama.

I due si colpiscono contemporaneamente e si uccidono in un abbraccio selvaggio, affondando fino all’elsa le rispettive armi l’uno nel corpo dell’altro. A terra, le loro teste si appoggiano l’una accanto all’altra.

In realtà, osservando i significati della storia al di sopra del senso letterale, Artù e Mordred sono complementari: tutta bontà l’uno e tutta malvagità l’altro, tant’è vero che persino la spada Rubilacxe è il nome di Excalibur rovesciato. Insomma, Mordred è Artù allo specchio. Per questo «devono» fondersi: non esiste vera saggezza se la parte spirituale dell’uomo non si armonizza con quella brutale e selvaggia.

Questa simbologia è davvero rivoluzionaria: anche il peccato, vedi Lancillotto e Ginevra, anche Mordred con le sue mostruosità, sono utili al mantenimento dell’armonia primitiva, quella racchiusa nei disegni arcani.

Nella filosofia ermetica non è possibile perciò dare un significato univoco a un personaggio, a un simbolo o a un avvenimento. Tutto rientra in un disegno complessivo. Occorre rifarsi a sensi più alti, a conoscenze più vaste, circolari, complete. Uomini, leggende, gesta, spade, santi, simboli rientrano tutti in questo immane mosaico della Conoscenza Femminile nascosta.

Appunto un’altra storia, parallela a quella ufficiale dei libri di testo. Occhi nuovi per vedere le cose vecchie e anche queste diventano improvvisamente nuove.

Ricordate? È stata questa una delle esortazioni con cui è iniziato il viaggio. Ora però occorre fare un altro sforzo sulla rotta del «disvelamento» e capire uno del momenti fondamentali della scienza di cui abbiamo parlato sovente, di quella magia di cui in fondo nessuno parla volentieri, a meno che non si tratti di un iniziato. Una scienza spesso travisata nelle sue valenze originarie.

Per entrare nel suo cuore, è necessario comprendere la ritualità dei gesti, dei movimenti, dei canti, delle formule. Bisogna insomma procedere sulla rotta che conduce al rito.

In effetti, tutta la magia comporta una ritualità. Ecco allora delle storie che servono come mezzo esplicativo. Sono esempi, racconti emblematici necessari per quella via di scioglimento delle tenebre che ha ricoperto l’altra storia della civiltà, quella segreta, quella dell’antica sapienza del Femminile.

Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte III

Riuniti tutti i regni, Artù riesce a scacciare i Sassoni, ma per evitare nuove invasioni e per unificare per sempre tutti i Bretoni, crea un castello con trentatré sale quadrate e una sola circolare, il cui nome, Camelot, passerà poi a indicare l’intera fortezza.

Al centro della sala è una tavola rotonda con dodici posti, ciascuno dei quali corrisponde a un segno dello Zodiaco. Lì trovano posto undici armati, compreso Artù. Manca un cavaliere che dovrà essere il migliore, il più forte e il più puro, se vorrà occupare il dodicesimo posto.

Un giorno, gli undici sono a caccia nel bosco, quando avanza un cavaliere tutto bianco, in sella a un destriero anch’esso bianco. È splendido, e un raggio di sole sembra accompagnarlo nel bosco, facendolo brillare tra le fronde.

Artù è preso da invidia e lo sfida a duello. Lottano con accanimento, senza riuscire ad abbattersi l’un l’altro, quando il re di Britannia, indietreggiando di alcuni metri, si accorge che il suo contendente è vestito esattamente al contrario di lui. Infatti quel giorno Artù ha corazza, elmo e cavallo neri.

Contemporaneamente anche l’altro si rende conto di avere di fronte la sua immagine rovesciata. Allora i due cessano di combattere e si abbracciano. Quel cavaliere è Lancillotto, che andrà a occupare il dodicesimo posto.

Il significato del duello è chiaro: il vero eroe deve poter armonizzare le sue due parti, quella oscura e quella luminosa, ovvero i sensi e la ragione, senza sacrificare gli uni all’altra e viceversa. Solo così sarà un vero eroe.

Altre imprese prodigiose aspettano i cavalieri, ma un’insidia minaccia proprio Lancillotto, il più puro.

Ginevra, moglie di Artù, si è follemente innamorata di lui, che pure ne ricambia il sentimento.

Entrambi tentano di opporsi alla passione per rispetto al re, ma un giorno, nella foresta, si trovano per caso soli. Una grande quercia li avviluppa con i rami, spingendoli vicini, finché sono costretti a guardarsi negli occhi.

In quell’attimo Lancillotto comprende di non essere più lo stesso. Non è un guerriero, un combattente, un uomo d’arme. Non è più nulla se non Ginevra stessa: egli è diventato la regina stessa, è tutt’uno con la donna amata. E la donna, per un processo identico, è divenuta Lancillotto.

Così, attraverso lo sguardo, si appartengono e «conoscono tutto quello che occorre avere, la sapienza».

Dunque per amare davvero occorre compenetrarsi totalmente, diventare l’altro e solo mediante tale partecipazione, tale totalità, si raggiunge la vera conoscenza. Un segreto magico è racchiuso in questo momento d’amore: l’atto di Ginevra e Lancillotto, che pure sembra un tradimento, è invece indispensabile per arrivare alla sapienza, come conferma il seguito della storia.

Libri e gioia

Ieri, domenica, sono stato a Latina per presentare il mio libro.

C’era una bella festa con i libri come protagonisti. Ogni 30 minuti uno scrittore diverso che finiva di parlare si accomodava nei tavolini allestiti.

Dove si è servito dell’ottimo vino locale (50% Malvasia, 50% Trebbiano).

Non credo che il tutto sia costato molti denari. Anzi. Quindi mi auguro che molti altri comuni del centro-sud seguano l’esempio.

Anche perchè queste occasioni le considero “sacche di resistenza” alla barbarie economicista e scientista.

Ah, dimenticavo, la quasi totalità degli editori erano giovani, ragazzi, che pubblicano libri con pochi soldini, ma con grande entusiamo.

Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte II

I misteri sacri dei Celti, quelli della Cavalleria, uniti ai momenti esoterici della mitologia greca, fanno nascere in Provenza il fenomeno dei trovatori, cantori di gesta d’amore e di guerra.

Un grande mistero iniziatico avvolge le canzoni dei provenzali e la figura di «Eleanor la bella», il cui castello è frequentato da scienziati, letterati, pittori, artisti, tutti attratti dalla personalità magnetica della donna, dalla sua capacità d’incantare con la voce, con il canto.

Presso di lei si creano le liriche più belle del Mediterraneo, in grado di «ammansire fiere e qualsivoglia creatura». E vicino ai trovatori si trovano i maghi più importanti e celebri dell’epoca, da Schruwardi e I’bn Astabi. In realtà, infatti, i canti dei menestrelli di Eleanor sono veri e propri trattati di magia e della più importante, quella dell’amore.

Le vicende di Galgano, il miracolo della spada nella roc­cia, passano di bocca in bocca e giungono tra i poeti e i musici di Eleanor, ispirando canti e perfino interi poemi.

Proprio in quegli anni, Eleanor (Eleonora di Aquitania) va in sposa a Enrico II Plantageneto, re d’lnghilterra.

La bella signora è alle sue seconde nozze. Enrico è appena un fanciullo al suo cospetto, eppure questo matrimonio è destinato a essere uno dei più felici della storia. Evidentemente il fascino della «gentil Eleanor» non si affievolisce con gli anni.

Nel passaggio dalla Provenza alla Gran Bretagna, la signora si fa accompagnare dai suoi trovatori più bravi e ispirati, fra cui Chrétien de Troyes, il più celebre di tutti, la cui voce riesce ad ammansire due lupi feroci che tentano un giorno di assalire Eleanor sulle nevi del Galles.

Chrétien compie un lavoro di fusione, collegando le leggende dei Bretoni, cioé dei Celti d’lnghilterra, con quelle dei Provenzali, Celti di Francia. Vi inserisce le storie di Galgano e crea il celebre «Ciclo della Tavola Rotonda», le Sante Storie del Graal e di re Artù.

I nostri libri di narrativa al confronto sembrano giochi di bimbi, vuoti come sono di contenuti e di significati profondi.

Perché in queste storie la «vicenda romanzata» serve come veicolo per far apprendere a tutti i significati della magia, la «scienza delle scienze».

La Gran Bretagna è sconvolta da terribili orde di barbari Sassoni, perché ormai è morto da anni Ambrogio, valoroso generale romano, difensore dei Britanni. Quando tutto sembra perduto, ecco però apparire il figlio di Ambrogio, Merlino l’incantatore. Questi comprende che per fronteggiare i Sassoni occorre per prima cosa unificare sotto una sola corona tutti i piccoli regni in cui è suddivisa la Bretagna.

Per questo protegge il piccolo Artù, figlio di Uther Pendragon, facendolo crescere in assoluto anonimato, affinché altri pretendenti non possano nuocergli.

Uther è infatti morto da anni, vittima della sua stessa impulsività e, prima di morire, ha infilato in una pietra durissima la sua spada: chi riuscirà a estrarla diventerà re di Bri­tannia, signore di tutti i piccoli reami e alla testa dei Celti marcerà contro i barbari Sassoni.

Sono ormai tredici anni che Pendragon giace nella tomba e da allora tutti i piccoli signori si danno appuntamento davanti alla spada incantata per cercare di toglierla e diventare re. Invano: ogni volta la spada sembra sbeffeggiare i pretendenti.

Ed ecco che avanza un ragazzo di quindici anni, sconosciuto a tutti: Artù.

«Cosa vuoi?» gli intima il cerimoniere. «Non puoi provare, perché non sei nobile.»

A quelle parole un lampo illumina la radura e improvvisamente appare Merlino, il mago temuto da tutti.

«Egli è il figlio di Pendragon,» dice con voce di tuono «fratello di Ambrogio, nostro re. Perciò può provare.»

Artù, nel silenzio generale, stringe la mano sull’elsa e mormora una preghiera.

Una luce intensa circonda il giovane e l’arma, poi una musica di liuto si diffonde dalle fronde, dalle corolle dei fiori, dall’erba, dalle nuvole. Un guizzo, un bagliore, la spada sfavilla al sole. Il re è tornato.

Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte I

Cari amici,

sto per proporvi, suddiviso in quattro parti, un altro dei miei racconti: un altro viaggio intriso di magia, amore, mistero, scoperta o ri-scoperta. Dedicato a quanti sanno guardare al di là del proprio naso e continuare a stupirsi grazie alla fantasia e alla qualità di osservare senza pregiudizi.

Buona (ri-)lettura a tutti voi!

 

Quando i monaci vollero evangelizzare le popolazioni celtiche, vennero in contatto con i loro usi militari e quindi con il mondo cavalleresco. Fu facile per gli uomini di Chiesa adattare i miti dei Celti alla religione cristiana e così nacquero i «cicli cantati», il più importante dei quali fu quello di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda.

Proprio in queste saghe è possibile trovare sotto la vernice cattolica, grandi significati iniziatici e magici.

Re Artù ha un illustre predecessore, addirittura un santo realmente esistito, san Galgano, alla cui storia si ispirarono le ballate di molti trovatori.

Galgano nasce a Monte Siepi nel 1150 e già in età precocissima mostra una grande attitudine all’uso delle armi. A sette anni, infatti, ruba la spada a un uomo d’arme assopito in un campo e con un solo colpo taglia in due un faggio.

Stupito dalla forza e dall’ardire del fanciullo, l’uomo lo prende con sé e l’addestra a diventare un perfetto cavaliere.

Gli anni passano. Galgano ne ha ormai sedici e ha imparato a difendere gli inermi, le donne, i vecchi, i bambini; considerare il proprio cavallo come un compagno, attaccare e sconfiggere le forze del male ovunque si annidino, combattere le prepotenze, avversare le ingiustizie, venerare la spada come la propria anima. In definitiva, tendere sempre e comunque al bene.

Il giovane è da sette giorni a digiuno. Assorto in preghiera, nel buio della sua cella sta aspettando l’alba. Allo spuntar del sole, infatti, sarà nominato cavaliere.

Nel silenzio assoluto, sente schiudersi la porta della piccola stanza. Aguzza gli occhi, ma non vede nessuno. Ode solo una voce, quella del cavaliere che l’ha raccolto ed educato: «Ricordati di compiere solo il bene, di non fare mai abuso della tua forza, di scacciare i demoni del male. Lo rammenterai sempre?».

«Sì mio signore,» promette solennemente l’adolescente. Poi cerca di vedere nell’oscurità l’uomo, ma non vede nulla. Avverte però un fremito d’ali, come se un’aquila gigantesca fosse entrata nella stanza.

«Adesso che hai promesso,» continua la voce, «sei degno di possedere la spada accecante di luce, la purissima. Eccola, è tua!»

Galgano sente una lama sguainarsi e subito rimane accecato. Una luce potentissima emana dall’arma che il suo benefattore gli porge. Emozionato, il giovane tende le mani e vede qualcosa d’incredibile, di così sublime da non poter credere ai propri occhi.

Cade in ginocchio con la spada nelle mani e prega sommessamente, mentre calde lacrime gli solcano il viso.

Ha visto due ali splendide, immacolate, dietro la schiena dell’uomo che l’ha adottato. Adesso Galgano sa chi è davvero.

«Adesso hai capito,» gli dice la creatura alata. «Io sono Michele, il nemico del male, il persecutore dei demoni, il portatore della luce nelle tenebre. lo sciolgo la notte oscura in aurora lucente, io abbatto le bestie immonde del male e tu farai lo stesso in mio nome.»

Una luce vivissima acceca ancora Galgano, poi torna il silenzio assoluto, finché il ragazzo cade addormentato in un sonno profondo. E sogna.

Sogna di camminare per un sentiero ripido, in alta montagna, tra picchi scoscesi e innevati. L’arcangelo Michele lo guida sino a un ponte sospeso tra due rive altissime, sopra a un fiume maestoso e terribile. Le sue acque sono tumultuose, potenti, incalzanti e muovono le pale di un immenso mulino, ciascuna di esse porta impressa una scritta rossa: lussuria, ingordigia, desiderio di potenza, voluttà, narcisismo. Insomma, le pale simboleggiano le vanità.

L’arcangelo con un solo balzo passa al di là del ponte e Galgano rimane solo ad affrontare la traversata, mentre nell’abisso ruggiscono acque furiose. Il loro rimbombo sembra quasi un richiamo: «Vieni, cadi giù, lasciati andare. Ti porteremo al mulino, lì avrai tutto ciò che vorrai!».

Galgano chiude le orecchie a quelle parole adescatrici e si incammina sugli incerti legni del ponte. Ha fatto pochi passi, quando un enorme rapace si getta in picchiata su di lui, tentando di ferirlo e di gettarlo nell’abisso. Per un istante il cuore del cavaliere sembra smarrirsi, ma, osservando la figura sicura dell’arcangelo Michele, subito si riprende, sguaina la spada e con un solo colpo recide la testa dell’uccello.

Eliminato il primo ostacolo, il giovane procede spedito fino a metà della passerella. Improvvisamente due orride mani spuntano dal vuoto, di sotto, si afferrano alle corde ed emerge una creatura d’incubo, un mostro sibilante che vomita fuoco nero. Il cuore batte in petto al guerriero, ma non ha timore. Brandendo la spada, si avventa contro l’essere, lo colpisce ripetutamente e a ogni fendente l’arma diviene sempre più lucente, sino a diventare fiammeggiante.

La creatura degli inferi si abbatte colpita a morte, ma con un ultimo guizzo afferra i piedi del ragazzo e lo trascina con sé, nel vuoto. Mostro e giovane cadono, eppure Galgano è sempre sul ponte.

Cosa è accaduto? Ciò che è precipitato è il corpo del ragazzo, mentre la sua anima, il suo vero io, è rimasta sul ponte.

Così Galgano procede e si ricongiunge a Michele. Insieme riprendono il cammino e raggiungono la cima di un monte, dove sorge una splendida cappella con dodici guglie, dodici rosoni, dodici campane, dodici porte.

L’arcangelo e il guerriero vi entrano in silenzio. Una luce intensa e vibrante li illumina, mentre dodici voci si rivolgono al cavaliere: «Entra, Galgano. Sei degno di difendere la nostra cattedra».

Il giovane guarda davanti a sé e vede i dodici apostoli: calde lacrime gli solcano il viso, mentre una musica celestiale gli invade la mente e l’anima.

A questo punto Galgano si sveglia e si accorge che ha sognato tutto e che il suo protettore non è san Michele, ma solo l’onesta persona che l’ha allevato: eppure non dimenticherà mai quella notte e tutta la sua vita sarà dedicata agli insegnamenti ricevuti durante quelle ore di sonno.

In effetti i motivi iniziatici del «viaggio» effettuato nel sogno sono tanti e tutti hanno riferimenti magici.

L’uccello rapace rappresenta il sottile inganno della mente, e Galgano ha compreso la necessità di non affidarsi ciecamente solo alla ragione. Il secondo mostro sta a significare la forza delle passioni, che possono trascinare in basso il corpo, ma solo quello: la parte spirituale procede sino all’incontro con gli apostoli.

Dopo, Galgano passerà quasi dieci anni della sua vita a combattere gli infedeli e i prepotenti, sottoponendosi a centinaia d’imprese sempre per il trionfo del bene.

Un giorno si trova a inseguire un musulmano per i monti della Toscana. Il guerriero cristiano ha già ucciso tutti i suoi compagni, una banda di predoni sbarcati nei pressi di Punta Ala per razziare. Galgano insegue il fuggitivo per kilometri e kilometri, finché il musulmano, allo stremo delle forze, si abbatte esausto in cima a un colle. Subito Galgano gli è sopra, alza la spada per finirlo, ma un istante prima di calare il fendente i suoi occhi incrociano quelli del nemico. Vi scorge tristezza, dolore, abbandono, stanchezza. Un sentimento nuovo lo prende. Con mestizia abbassa la spada, compie pochi passi, si avvicina a una grande roccia, di nuovo alza il braccio e tira un terribile colpo alla pietra, affondando la lama per metà nella viva roccia.

La spada è ancora lì, e chiunque può vedere la spada nel­la roccia recandosi a San Galgano, all’interno della strada statale che da Montalcino conduce al mare.

Da quel momento il cavaliere depone le armi e diventa eremita, capace di dialogare con gli uccelli.

Porto XXIII

Lo hanno definito «mago di Hollywood» e di certo non hanno torto. Ma forse su quel «mago» dovremmo riflettere un po‘, anche se il suo cognome ci ricorda la tragica fortezza in cui scrisse Silvio Pellico.

Nativo di Cincinnati, Ohio, classe 1947, Steven Spielberg è un mago moderno e barbuto che usa l’obiettivo per i suoi incantesimi e, parlando ai più piccoli, svela ai grandi verità altrimenti insopportabili.

Il mito non lo preoccupa, il sogno lo avvince suggerendogli un linguaggio praticabile sullo schermo e la storia che ha scelto di narrare nei suoi film è sempre la stessa: quella di una creatura inseguita in fuga nel tempo. Una creatura che non vuole crescere perché teme di perdere il bambino che ha in sé. Un po’ come Il piccolo principe regalatoci da un altro «mago» di questo secolo, Antoine de Saint-Exupéry.

Porto XXII

L’enciclopedia tascabile è lapidaria. Alla voce Worms, recita: città tedesca della Renania-Palatinato, sulla sinistra del Reno. Abitanti 73.243. Centro industriale.

Poi, in agile sequenza, sciorina date e appunta avvenimenti che hanno mutato l’assetto d’Europa, lasciando al lettore il compito di riflettere, associare, dedurre e trasalire.

Capitale dei Burgundi (413-437), capitale di contea sotto i Franchi, città libera nel 1519, Worms passò ai duchi d’Assia-Darmstadt, nel 1816.

Nei secoli intermedi, a Worms accadde di tutto: nell’829 Ludovico il Pio vi distribuì i territori dell’impero tra i suoi figli; nel 1076 ospitò un sinodo convocato da Enrico IV che dichiarò deposto papa Gregorio VII; nel 1122 vide il Concordato tra Enrico V e papa Callisto II che pose fine alla lotta per le investiture e per la spartizione del potere religioso e del potere temporale.

Nel 1495, precisamente il 7 agosto, Massimiliano I e i principi tedeschi si impegnarono per una «pace perpetua» nell’impero e nel 1521 Carlo V mise al bando Lutero, con un editto.

Crocevia intellettuale e politico, Worms rappresenta uno snodo storico-geografico aperto a molti significati.

La sua cattedrale, costruita nel 1171, fornì nei secoli un modello architettonico eloquente. L’intensa memoria di Worms e degli importanti fatti che vi accaddero offrì spunti ai Farnese per la loro residenza di Caprarola. Qui, il Concordato del 1122 e la partenza delle forze militari congiunte contro i luterani costituiscono altrettanti scenari di potere in due famosi affreschi. Un potere che il cardinal Alessandro coronò con l’opera politica e diplomatica che spinse la Lega Santa contro Lutero.