Ognuno di noi è seguito da un’Ombra. Meno questa è incorporata nella vita conscia dell’individuo, tanto più è nera e densa.”
Carl Gustav Jung
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Ognuno di noi è seguito da un’Ombra. Meno questa è incorporata nella vita conscia dell’individuo, tanto più è nera e densa.”
Carl Gustav Jung
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(Carlo Crivelli, Madonna Cook, 1470)
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(Jan Vermeer. La lattaia, 1660)
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Carissimi,
il prof. Massimo Lanzaro presenterà il suo libro “DSM-5 e i Film che spiegano la Psiche” lunedì prossimo alle 17,30, presso l’Hotel Augustus a Ottaviano, durante la conferenza “Psicologia e cinema”. Interverranno con lui il prof. Carmine Cimmino e il prof. Angelo Andriuzzi. Modera Ornella Petrucci, giornalista.
Non mancate!
Gabriele
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Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.
Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.
La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.
Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.
L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.
Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.
Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.
Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.
«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»
L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.
Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.
Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).
Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.
Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.
Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.
Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.
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Un nuovo culto della bellezza, della fisicità, della creatività congiunta all’eros, unitamente all’irrazionale passione verso la magia, reputata come summa di tutte le scienze, sono gli elementi che abbiamo trovato per dare una spiegazione più esauriente alla nascita di Umanesimo e di Rinascimento.
Sono principi indispensabili per comprendere le Carte della memoria, ovvero i tarocchi della immaginazione creati da Giordano Bruno.
Ma prima è meglio approfondire il pensiero di Ficino e Pico, considerati “maestri” dallo stesso Bruno.
Marsilio Ficino è persona mite, scrupolosa, sensibile, contemplativa, filologo, studioso di filosofia greca sino a giungere al fanatismo. Pare che abbia una curiosa abitudine: quella di parlare con Platone, Plotino, Porfirio, e anche Aristotele come se fossero viventi e a lui presenti. Così gli capita di andare a tavola con i suoi parenti e di lasciare posti simbolici a questi filosofi del passato. (Particolarità questa che aveva anche Giorgio Colli, che addirittura faceva parlare i figli con Platone, secondo quanto afferma Marco, il terzogenito.)
È insomma un uomo caro a tutti, sempre pronto al dialogo, alla discussione franca, alla ricerca senza prevenzioni. I suoi contemporanei dicono sia un piacere sentirlo parlare; tanto la sua cultura è universale. Si esprime correttamente in latino e in greco antico, citando a memoria centinaia di passi dei suoi autori preferiti. Un filosofo dunque che custodisce nel cuore la leggiadria e la soavità dei poeti, degli spiriti sognanti ed entusiastici.
Eppure quest’uomo poco incline alla diatriba, quando fonda l’Accademia platonica, grazie al patrocinio di Lorenzo il Magnifico, è spinto soprattutto da una forza polemica contro gli aristotelici del suo tempo (bisogna anche tenere presente l’opera della cultura ferrarese di quegli anni. Basti citare, per tutti, l’azione di Gustino Veronese che, traducendo e lavorando alla Vita di Platone, promosse violenti attacchi alla tradizione aristotelica).
Che cosa rimprovera Ficino a costoro? Quali motivi lo spingono al diverbio con i seguaci di Aristotele, che in alcuni momenti assume le caratteristiche di una vera e propria rissa intellettuale? Le origini della questione vanno ricercate oltre un secolo prima, allorché gli insegnanti universitari del XIII secolo studiano Aristotele, lo parafrasano, lo chiosano, lo adattano al pensiero cristiano. Un’opera di assimilazione che riesce tanto bene da rendere cattolicamente accettabile anche la filosofia di Averroè, un pensatore di ispirazione aristotelica, ma pur sempre di religione islamica (tale assimilazione fu resa possibile grazie al principio della diversità tra «verità di ragione e verità di fede». Entrambe vere, quindi eterne, quindi fatalmente presenti in Dio. Avendo coincidenza nell’essere supremo, non possono contrastare tra di loro). L’autorità di Aristotele doveva servire agli accademici come una sorta di scudo, dietro il quale poter esercitare liberamente l’uso della ragione.
“Se il greco, fonte di ispirazione di san Tommaso D’Aquino, adopera la mente razionale, altrettanto possiamo fare noi.» Questo, in parole semplicissime, doveva essere stato l’intento degli universitari (tali universitari saranno poi definiti da Giordano Bruno «pedanti», ovvero noiosi e reverenti verso il potere). Purtroppo, con i decenni, avvenne esattamente l’opposto: invece di trasformarsi sul modello aristotelico, strutturarono Aristotele su quello della scolastica più chiusa e intransigente, diventando non più esponenti di una nuova ricerca bensì sostenitori di quella mentalità contro cui volevano esercitare il diritto di critica. Giungendo addirittura alla condanna di ogni pensiero divergente (basti pensare al Cremonini, che pure era un aristotelico tra i più blandi, che fu uno dei firmatari della denuncia di “eresia perniciosa” contro Bernardino Telesio).
In realtà Marsilio e il suo gruppo di umanisti divengono platonici non contro Aristotele, ma per avversione all’aristotelismo scolastico, alla cultura cattedratica, avvertita come ipocrita e soffocante.
«Chi non intende la carica polemica» sostiene Garin «a volte violenta del ritorno a Platone, che diventò un po’ alla volta ritorno a Epicuro, ritorno alla Stoa, ritorno al naturalismo presocratico… e, finalmente, ritorno ad Aristotele logico e fisico contro l’aristotelismo metafisico, ossia contro una fisica fattasi teologia; chi non intende questo significato del platonismo, rischia di non capire nulla della cultura filosofica, e non solo filosofica, dal Quattrocento al Cinquecento.» (Anche gli Aristotelici erano però feroci contro i platonici. Giorgio da Trebisonda, per fare un esempio, avvertì il pericolo rappresentato dai neoplatonici, nei confronti di una presunta “ortodossia” cristiana, e arrivò a formulare una “preghiera” diretta ai martiri cristiani, affinché “disperdessero” i platonici che “risorgevano” in Italia. La preghiera è riportata per intero da Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza, pagg. 88-89). Entriamo allora nella villa di Careggi, dove Ficino traduce gran parte dell’opera non solo di Platone, ma anche e soprattutto di Plotino. Cura personalmente la versione in latino, permettendo poi a vari allievi una nuova formulazione in volgare, affinché le opere dei filosofi greci conoscano la più ampia diffusione possibile.
Nicola Abbagnano ebbe a dirmi un giorno che solo del Simposio, a Firenze, circolavano oltre cinquemila copie. Rapportata all’epoca è una cifra a dir poco sbalorditiva.
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In un contesto in cui tutti gli umanisti sono dediti a febbrili ricerche di antichi testi, è ovvio che si aggiungano nuove scoperte. Si reperisce il Corpus hermeticum, ovvero una serie di scritti a carattere magico del II-IV secolo dopo Cristo, ma ritenuti erroneamente molto più antichi dagli umanisti. Soprattutto il Picatrix e il Poimander sempre contenuti nel Corpus, parlano di profonde corrispondenze tra cose, esseri viventi e spiriti, che sono poi traducibili in formule magiche, in incantesimi, talismani, amuleti. Con la parola magicamente ritualizzata è possibile giungere alle divinità stellari, agli spiriti ultimi delle cose, alle idee presenti nella mente di Dio: quia verbum in se habet nigromantiae virtutem (il discorso è la specie più virtuosa della magia) (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 66 e segg.).
Pomponazzi, per esempio, che non può essere citato come un umanista che portò alle estreme conseguenze l’armonica concezione platonica, non nega la magia naturale, anzi accetta gli effetti di qualità e potenze umane ignorate. Per similitudine, seguendo la teoria, delle consonanze, il filosofo si chiede perché se certe erbe, o certi odori, producono effetti terapeutici, non sia possibile per certi uomini agire analogamente.
Perché altresì non accettare che l’immaginazione non si ripercuota sul corpo producendovi modificazioni anche perpetue, come le stimmate? Pomponazzi trova la dimostrazione di questa ipotesi nella notte di tregenda in cui i cittadini dell’Aquila riuscirono con intense preghiere ad allontanare il temporale. Fenomeno spiegabile attraverso un processo fisico analogo a quello che si ottiene suonando le campane a stormo, movimenti e modificazioni dell’aria che spostano le nubi per vibrazioni continue. Garin riporta un commento del filosofo quanto mai appropriato: «La si chiami magia poiché solamente i più sapienti fra gli uomini la capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago in persiano significa sapiente. E per il popolo che si sono introdotti angeli e demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono come bestie… Il linguaggio delle religioni, come dice Averroè nella sua poetica, è simile a quello dei poeti… Tali favole servono a condurci alla verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e ritrarre dal male, come si fa per i bambini con la speranza del premio e la paura della pena (op. cit., pagg. 115-116).
Garin aggiunge una sua personale conclusione, secondo cui quando un sentimento religioso decade, anche gli effetti delle preghiere si attenuano e i miracoli non avvengono più, a comprova degli effetti fisici delle preghiere e dei loro propri corollari (ibidem). Insistendo nella sua tesi Garin afferma che Pomponazzi: «tradusse in forma quasi brutale la teoria della fisicità, empiricamente comprovabile, del culto religioso» (ibidem).
Dunque il buon Pomponazzi, filosofo e umanista tra i più tiepidi nei confronti della magia, si lascia andare ad affermazioni quasi paradossali, spiegando tutto il fenomeno religioso in termini di magia pratica, fisica. Arriva addirittura a fornire una spiegazione “razionale” dei miracoli, che sarebbero legati al mutamento delle religioni, in quanto simili cambiamenti rendono difficile il «trapasso da ciò che è consueto a quel che è sommamente inconsueto, [per far ciò] è necessario che la successione della nuova religione sia accompagnata da miracoli straordinari e stupefacenti. Per questo i corpi celesti all’avvento di una nuova religione devono far venire uomini che facciano i miracoli. Così uomini del genere possono far venire e far scomparire piogge, grandine e terremoti, comandare ai venti e al mare, guarire ogni sorta di malattie, svelare i segreti, predire il futuro e ricordare il passato, andare oltre il comune senso della gente. Altrimenti non potrebbero introdurre nuove religioni e nuovi costumi tanto diversi» (Ibidem).
Abbiamo citato Pomponazzi, che ribadiamo era pure un tiepido nei confronti della magia, per mostrare come ormai tale scientia avesse influenzato nel profondo moltissimi intellettuali dell’Umanesimo.
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Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.
In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.
La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.
Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.
Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.
Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).
Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.
Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.
L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.
Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?
Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).
Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.
Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).
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Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.
Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.
Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).
Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.
Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.
Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.
Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).
In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.
Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.
Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?
Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.
«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.
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È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.
Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.
Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.
I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.
Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).
L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).
L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).
È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).
Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).
La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.
Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.
Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.
Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.
Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.
I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.
I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.
Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.
L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.
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Cari amici,
vediamo insieme il significato ermetico del NERO, del BIANCO, del GIALLO e del ROSSO secondo la filosofia esoterica.
Questi sono i colori dell’alchimia, la scienza parallela alla magia che vuole trasmutare non il piombo in oro, come credono gli stolti, ma la mente asfittica dell’uomo, chiusa e ottusa, in un’intelligenza aperta e tollerante (oro).
Le tonalità corrispondono a questi significati:
Nero (Nigredo) — È la notte, l’oscurità del dolore. È quella scheggia della nostra vita in cui tutto sembra senza speranza e senza scopo. I problemi avviluppano e soffocano. Tutto è tetro e cupo. Ma è anche il momento in cui una voce lontana comincia a sussurrare: «Attento, così stai soffrendo troppo, devi cambiare». E nel buio pesto si accende un pallido fuoco. La coscienza ha intrapreso il lentissimo giro del «cangiamento».
Bianco (Albedo) — È il momento in cui la persona inizia a capire che è necessaria una trasformazione.
Giallo (Citrinitas) — È il momento in cui il processo si è messo in moto e inizia il percorso della mutazione di sé. Ma questo sentiero è doloroso, occorre lasciarsi dietro i difetti, le preoccupazioni, le piccole meschinità e gli egoismi. È una fase dura e spesso chi intraprende il sentiero è tentato a questo punto di tornare indietro. Eppure c’è anche una forza interiore, ormai matura, che non rinuncia e continuamente sprona a proseguire.
Rosso (Rubedo) — È l’esplorazione raggiante della nuova personalità. Il vecchio io è come una crisalide, avvizzisce e lascia il posto alla nuova farfalla. La mente si è aperta e le piccole meschinità, le invidie, i rancori, i tremori, le paure e le angosce sono ormai alle spalle. È la rinascita. Una nuova vita attende chi ha iniziato il calvario.
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Dolore (1)
Non si guarisce dai sintomi per tornare come prima, ma mediante il percorso nel dolore, che necessariamente implica un aspetto creativo e finalistico, ci si trasforma, si acquisisce uno sguardo più umano e profondo che consente di contenere la sofferenza e di scorgerne il valore.
Carla Stroppa, Così lontano, così vicino, in AA.VV., Anima – Per nascosti sentieri, Moretti e Vitali, 2001, pag. 44
Dolore (2)
“Tutta la vita è dolorosa.” Ed è proprio così. Se tentiamo di correggere il dolore, riusciremo solo a spostarlo altrove. La vita è dolorosa. Come si fa a convivere col dolore? Dobbiamo scoprire l’eterno dentro di noi. Disimpegnarci, ma anche tornare a impegnarci. Dobbiamo – e questa è una splendida formula – “prendere parte con gioia al dolore del mondo”.
Joseph Campbell, Riflessioni sull’arte di vivere, Guanda, 1998, pag. 105
Dolore (3)
Noi non riceviamo [dolori] più di quanto possiamo affrontare, anche se questo significa la morte. La guarigione non implica necessariamente rimanere in vita, ma avvicinarsi alla totalità, talvolta attraverso la morte, la guarigione finale. Qualunque cosa ci venga data appartiene al nostro destino e siamo in grado di prendercene cura.
Albert Kreinheder, Il corpo e l’anima, Moretti e Vitali, 2001, pag. 45
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Sopra: John William Waterhouse, “Il cerchio magico”, 1886
[…]
La mappa del cielo non è più un quadro ben proporzionato di corpi fisicamente determinati, in posizioni e distanze misurabili, in rapporti numerati, con radiazioni che si assommano o si elidono, che agiscono variamente secondo gli angoli d’incidenza, o le intensità. Ci avvolge un padiglione meraviglioso e terribile, da cui esseri demoniaci, divinità maligne o benevole, con i loro sterminati corteggi, dardeggiano influssi d’ogni sorta, esiziali e vitali. Perfino il «dolce» Petrarca canta: «hec supra horrificis diversa animalia passim / vultibus et variis cernuntur[…] figuris». E qui, nel mondo, bisogna giostrare per neutralizzare, o sviare e trasformare le radiazioni cosmiche, ora facendole convergere e concentrare, se benefiche, ed ora disperdendole, o attenuandole, se malefiche, con l’aiuto di pietre, di anelli, di sigilli, e così via. Non solo: bisogna esorcizzare dèmoni e pregare dèi; bisogna imprigionarli in immagini ingannevoli e seducenti – bisogna entrare, insomma, nel cerchio magico degli spiriti.
Eugenio Garin, “Lo zodiaco della vita “, Laterza, Roma-Bari 1976
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Il daimon è quell’entità intermedia tra il piano divino e umano, quel compagno “unico e tipico nostro” affidatoci, secondo il mito platonico di Er, prima della nascita. È ciò che chiamiamo “vocazione”, “chiamata”, “carattere”. È il portatore del nostro destino. Nel venire al mondo dimentichiamo tutto questo: è così che il daimon interviene per ricordarci il contenuto della nostra “immagine” e ricondurci ad essa.
Daimon (1)
In ultima analisi, ogni vita è la realizzazione di un tutto, cioè di un Sé, ragion per cui tale realizzazione può essere chiamata “individuazione”. Tutta la vita è legata a portatori individuali che la realizzano ed è semplicemente inconcepibile senza di loro. Ma il portatore è anche soggetto ad un destino ed una destinazione individuali ed è soltanto la realizzazione di questo che dà un senso alla vita.
Carl Gustav Jung, citato in Joseph Campbell, Riflessioni sull’arte di vivere, Guanda, 1998, pag. 60
Daimon (2)
Jalal ‘uddin Rumi, il più grande poeta del suo secolo, e forse di tutti i tempi, fu altrettanto chiaro riguardo alla necessità cogente del daimon: “C’è una sola cosa al mondo che non dovete mai dimenticarvi di fare. Se dimenticate tutto il resto, ma non questo, non c’è da preoccuparsi; se invece ricordate tutto ma dimenticate questo, allora non avete fatto niente nella vostra vita. “È come se un re vi avesse mandato in qualche paese a eseguire un compito, e voi faceste mille altri servizi, ma non quello che vi ha mandato a compiere. Dunque gli esseri umani vengono al mondo per realizzare una particolare opera. Quell’opera è lo scopo, ciascuno specifico per ogni persona. Se non la compi è come se una spada indiana di valore incalcolabile venisse usata per affettare carne putrefatta”.
Noel Cobb, Maestri per l’anima, Moretti e Vitali, 1999, pagg. 20-21
Daimones
Jung fu sommerso da “un flusso incessante di fantasie”, una “molteplicità di contenuti psichici e di immagini”. Per far fronte a questa tempesta di emozioni annotò queste fantasie e lasciò che le tempeste si trasponessero in immagini […] Le figure che Jung incontrò per prime e che lo convinsero della realtà della loro essenza psichica […] derivano dal mondo ellenistico e dalla sua fede nei demoni. (Daimon è l’espressione greca originaria per queste figure, che in seguito divennero demoni, a causa della visione cristiana, e demoni in contraddizione positiva con tale visione) […] Conosci te stesso alla maniera di Jung significa divenire familiari con i demoni, dischiudersi ad essi e ascoltarli, cioè conoscerli e distinguerli.
James Hillman, Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Raffaello Cortina Editore, 1984, pagg. 67-69
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Carissimi,
vi chiedo, oggi, di riflettere insieme su questa famosa illustrazione del visionario William Blake, che, come sempre, nasconde profondi messaggi e simbolismi.
Buona giornata!
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(William Blake, Ancient of days, 1794)
I tempi son tutti eguali, ma il genio è sempre al di sopra del suo tempo”.
William Blake
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Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista.Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori.
James Hillman, “Il codice dell’anima”
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E’ in corso, fino al 20 marzo, nelle sale di Palazzo Reale di Milano, la mostra “Alfons Mucha e le atmosfere Art Nuoveau”. In un percorso ricco e variegato, l’esposizione mira a ricostruire il gusto dell’epoca proponendo le creazioni di Alfons Mucha (1860-1939), uno dei maggiori esponenti del periodo, e gli arredi d’arte decorativa di artisti e manifatture europei. Il nucleo principale della mostra si articola in 220 opere, delle quali 149 sono pannelli decorativi e affiches di Mucha, provenienti dalla Richard Fuxa Foundation. Le immagini femminili belle e potenti che occupano i suoi manifesti ai tempi erano molto diffuse e popolari, tanto che lo hanno reso eterno simbolo dell’Art Nouveau. Il suo stile artistico spaziò in diversi contesti, dalle decorazioni di interni ai poster, dalle pubblicità di alcune tipologie di prodotti fino alle illustrazioni, dalle produzioni teatrali a quello che è il design di gioielli fino alle opere architettoniche. Dopo Milano, la mostra, dal 30 aprile al 18 si sposterà a Palazzo Ducale di Genova.
(Princess Hyacinth, 1911)
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(Perugino, Fortezza e Temperanza sopra sei eroi antichi, 1497-1500)
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(Roma, monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori)
“E’ il più importante mago rinascimentale. Seguace della filosofia ermetica non riesce mai a nascondere le proprie idee ed è costretto a girovagare per l’Europa.In ogni circostanza è prima osannato e poi perseguitato. Eppure mai retrocede dalle proprie convinzioni che oscillano tra un panteismo divinizzante la Natura e l’Infinità dell’Universo. Mai sottomesso al materialismo e al fideismo brutale, vede nell’uomo la possibilità di ascendere di grado in grado verso il divino mediante un radioso entusiasmo e un “Furor” che consente allo studioso di travalicare se stesso fino a un’intuizione partecipativa che conduce alla vera Sophia. Crede fortemente nei Simboli dell’ermetismo e nel presupposto della Magia come Amor omnia vincit, l’amore trionfa su tutto e tutti. Non a caso scrive: “Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi”. Questi mondi infiniti potrebbero avere una vita come sulla terra. Queste ultime sue posizioni gli costeranno l’accusa di eresia, il processo, la tortura e il rogo. Ma prima dell’arresto, avvenuto a Venezia, su delazione dell’esecrando Mocenigo, porta la sua ideologia a Parigi e a Londra, dove ottiene le cattedre di filosofia più importanti dell’epoca. Strano davvero questo frate senza saio, che incanta a oltre quattro secoli dalla morte, osteggiato già a ventotto anni, e costretto a scappare dal convento nel 1576. Nella capitale francese e in quella inglese pubblica alcune opere importantissime, come il “De Umbris idearum”, il “Cantus Circaeus” e po “La Cena delle Ceneri”, “De la causa, principio e Uno”, “De l’infinito, universo e mondi”, lo “Spaccio de la bestia trionfante” e altri scritti che influenzeranno sia il pensiero della grande regina Elisabetta sia lo stesso Shakespeare. Poi altri viaggi e altre opere, sempre manifestando il suo pensiero intessuto di slanci infiniti e speranze immense, fiducia nelle possibilità dell’uomo e sospetti profondi verso ogni forma di massimalismo e fondamentalismo. Per questo morì atrocemente, a imperitura damnatio memoriae dei suoi carnefici. Eppure Bruno parlava d’Amore anche a loro. E’ vissuto cinquantadue anni, di cui otto in prigione. Le lacrime di tutti i suoi seguaci non sono bastate a spegnere il rogo, ma servono tutt’ora a far comprendere l’importanza della tolleranza”.
Gabriele La Porta, da “Dizionario dell’inconscio e della magia” (Sperling & Kupfer)
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L’opera di Fernando Botero offre molteplici livelli di lettura. Botero ha costruito sempre mondi sensuali, popolati da esseri colmi di un piacere immenso e felice, attraverso quell’abbondanza tranquilla e suntuosa delle forme che trova la sua maturità verso la fine degli anni ‘70. C’è qui un crocevia nel quale i ricordi della sua città, del suo Paese, vengono attraversati fortemente da pratiche religiose profondamente radicate nella propria cultura e iconografia. Le dolci sembianze, le idee e le forme che sembrano così stabili, vengono attraversate da quello sconvolgimento in cui dolore e tragedia si plasmano, impiegando il linguaggio figurativo che caratterizza l’artista colombiano senza abbandonare il suo particolare sguardo deformante.
Si dovrebbe considerare queste opere, nelle quali il drammatico fa la propria incursione, come una nuova dimostrazione in cui si identificano trasformazioni interne che arricchiscono e amplificano il suo lavoro. Il tono ironico viene sostituito dal compassionevole per riflettere intorno alla poesia e al dramma, all’intensità e alla crudeltà della Passione di Cristo.
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(Montagna blu, 2003)
“C’è una logica colorata: il pittore non deve che obbedire a lei, mai alla logica della mente”. Così dichiarava Paul Cézanne i cui cromatismi rappresentavano l’impronta, unica ed indelebile, della sua poetica pittorica. Dal colore e dalle sue suggestioni, il Maestro Paolo Salvati (febbraio 1939 – giugno 2014) si è sempre lasciato sedurre e la sua arte ha seguito costantemente il richiamo del cuore e dei suoi bagliori colorati, come dimostrano le numerose opere che ne attestano l’estro e il talento.
(Il Maestro Paolo Salvati)
Nell’anniversario della sua nascita (il 22 febbraio) il ricordo di questo artista viene celebrato ripercorrendo le tappe più significative della sua carriera, una carriera che si è declinata non soltanto nelle arti figurative ma anche nel ritratto, nel disegno, nella miniatura spaziando anche nella musica – nel progetto di una serie di chitarre classiche da concerto – e nell’attività di liutaio.
Note musicali e note colorate quindi. Non a caso il blu è anche una delle tinte dominanti dei suoi quadri. Simbolo di chiarezza, esso nei mandala tibetani sta ad indicare il superamento del turbine delle passioni e la raggiunta consapevolezza di una coscienza che può osservare (al)le cose con sguardo nitido.
Il Maestro sapeva, infatti, catturare i sogni e le sensazioni e restituirle in pennellate di brillante lucentezza, come nelle sue marine che richiamano i tocchi poderosi di Turner e, nel contempo, lasciano che le onde si infrangano con un ritmo melodico che sembra ricordare la musicalità di un verso di una poesia o il brano di un romanzo.
(Marina, tempera su carta, 1980)
L’arte a tutto tondo, infatti, è presente nelle opere di Salvati che, per vent’anni (dal 1973 al 1993) è stato uno dei personaggi di spicco a Piazza Navona, spazio artistico per eccellenza che ha vissuto appieno la Golden Age della creatività e, ancora oggi, resta un’area di “libertà” (come amava definire la piazza il Maestro) di grande suggestione.
La vita di Paolo Salvati non è stata facile ma improntata alla passione autentica per il suo lavoro, al cesello dell’ispirazione e alla realizzazione (tangibile) della materia impalpabile dei sogni.
I suoi quadri raccontano una storia umana di grande profondità, fatta di emozioni e di riflessioni ma, soprattutto, di colori.
Ad essi, infatti, l’artista demandava il compito di esprimere il suo genio in grado di narrare, in punta di pennello, racconti di vita vissuta, di sogni avverati o desideri ancora da realizzare.
Del resto, “vivere di arte” – come lui stesso dichiarò – “è un atto di coraggio… e l’opera compiuta è il dono che l’artista fa alla comunità, per il bene comune”.
Ciò che il Maestro ha prodotto è, infatti, patrimonio di tutti, a conferma che tale ricchezza appartiene a chiunque abbia voglia di godere della generosità d’animo di chi la realizza.
Emanuela Santoro
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Paolo Sala, “Leggendo Praga”, 1886
“Leggere, leggere, leggere! Libri, giornali, lettere nella pittura dell’Ottocento” è il titolo della mostra in corso nella Pinacoteca Giovanni Zust di Rancate, nel Canton Ticino. L’esposizione, che avrà termine il 24 gennaio, mette in evidenza, attraverso una nutrita scelta di opere pittoriche che hanno immortalato l’arte della lettura, il momento di fondamentale sviluppo dell’alfabetizzazione delle classi popolari tra Otto e Novecento.
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Presentato in anteprima al Festival “ARCIPELAGO” e uscito ieri nelle sale “87 ore – gli ultimi giorni di vita di Francesco Mastrogiovanni” di Costanza Quatriglio, un film documentario che racconta gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, originario di Castelnuovo Cilento, legato al letto di contenzione fino alla morte, sopraggiunta appunto dopo 87 ore. Continuamente ripreso da nove videocamere di sorveglianza poste all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, il racconto mostra il lato disumano di quel ricovero coatto. Si tratta di un documento unico perché per la prima volta le telecamere hanno dato la possibilità di vedere come il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) venga spesso usato come strumento di repressione e punizione, piuttosto che come mezzo di contenimento. Una violazione dei diritti umani all’ordine del giorno nel nostro paese, sulla quale si battono da anni l’associazione “A Buon Diritto” di Luigi Manconi. Scritto da Costanza Quatriglio con Valentina Calderone e con la collaborazione di Luigi Manconi, avvalendosi della testimonianza della nipote di Francesco Mastrogiovanni, Grazia Serra, e dei suoi genitori, il film è prodotto da Marco Visalberghi (“Sacro Gra”) per DocLab col patrocinio di Amnesty International e in collaborazione con Rai 3, che lo manderà in onda il 28 dicembre. Cosa è successo per aver indotto i medici a ricorrere ad un simile trattamento? Partiamo dall’inizio. E’ il 31 luglio 2009. Il maestro viene bloccato e prelevato dalla spiaggia di un campeggio del Cilento da un grande dispiegamento di forze tra carabinieri, polizia municipale e guardia costiera,, perché la sera precedente aveva guidato velocemente nella zona pedonale di Acciaroli in stato confusionale. L’uomo viene trasportato con un’ambulanza presso il reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania in provincia di Salerno per essere sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio. Addormentato per la forte sedazione, Mastrogiovanni viene spogliato, legato al letto con le cinghie che gli bloccano polsi e caviglie, lasciato ad agonizzare con la noncuranza di medici ed infermieri che gli passano accanto. Il 4 agosto morirà di edema polmonare.
“In quel mondo a circuito chiuso, le videocamere di sorveglianza servivano a osservare i pazienti. – dichiara Costanza Quatriglio – Immagini a scatti che restituiscono la meccanicità della procedura, la reificazione dei corpi, una disumanità filmata da un occhio disumano che si sostituisce alla relazione degli esseri umani con gli altri esseri umani. Quando ho cominciato a studiarle, mi sono apparse immediatamente come l’espressione del grado zero della coscienza. I corpi bidimensionali, privati di ogni soggettività, inseriti in un meccanismo che porta all’assuefazione, all’addormentamento della ragione. Tutt’altro che facile decidere di realizzare il film e tutt’altro che facile portarlo a compimento. Ma a dirci come è morto Mastrogiovanni non è infatti il racconto della sua sofferenza, né la crudele indifferenza di quelle immagini, ma uno sguardo, uno sguardo umano, quello del medico legale che osserva il corpo ormai libero da quelle cinghie di contenzione che per giorni hanno stretto caviglie e polsi. L’osservazione diretta, l’unica osservazione possibile, di un essere umano verso un altro essere umano. La relazione con un corpo che non può più parlare ma che può essere ancora ascoltato.” La Quatriglio, autrice di docu-film molto apprezzati, integra queste riprese, che occupano gran parte del documentario, con le testimonianze della nipote e della sorella che si sono battute affinché i responsabili venissero puniti. “87 ore” si presenta come un esempio di cinema civile, che ci mostra e analizza i fatti così come si sono svolti, passando dalla crudezza del film-inchiesta all’orrore del thriller claustrofobico.
Clara Martinelli
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Shakespeare o Dostoevskij, pensavo io, illuminano i labirinti morali fino ai loro ultimi meandri, dimostrano che l’amore è in grado di condurre all’assassinio o al suicidio e riescono a farci provare compassione per psicopatici e malvagi; è loro dovere, pensavo io, perché il dovere dell’arte (o del pensiero) consiste nel mostrarci la complessità dell’esistenza al fine di renderci più complessi, nell’analizzare come funziona il male, per poterlo evitare, e perfino il bene, forse per poterlo imparare.”
Javier Cercas
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Creatura complicata è l’uomo: sa tanto di tante cose, ma conosce davvero pochissimo se stesso.
Il problema di cosa sia l’uomo è sempre l’ultimo che ci poniamo.
L’uomo è anche ciò che né lui né gli altri sanno di lui; si è contenti di non conoscere se stessi, perché niente più di questo disturba il roseo bagliore delle illusioni.
L’incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante.
L’uomo dovrebbe prima di tutto sforzarsi di conoscere sé stesso, per poi vivere in armonia con la propria verità.
Chi è in condizione di vedere la propria ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito’.Carl Gustav Jung
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“Conosci te stesso” alla maniera di Jung significa familiarizzarsi con i demoni, aprirsi a essi e ascoltarli, cioé conoscerli e distinguerli”.
James Hillman, “I fuochi blu”
Filed under: Citazione, Psiche | Tagged: Conosci te stesso, dèmoni, I fuochi blu, James Hillman, Jung | Leave a comment »
D. Secondo James Hiilman le nostre nevrosi e la nostra cultura sono inseparabili. Dopo le fumisterie verbali della politica, i gergalismi e il pentagonese, dopo lo scientismo sociologico ed economico, l’abuso mediatico della parola e tutte le altre violenze inflitte si son prosciugate le parole del loro sangue e chi lavora nel campo della psicologia ha smarrito la fede nella potenza della parola. Come “guarire” il nostro linguaggio? Basterà perorare il ritorno alla parola piena di senso e di materia, un po’ come accadeva ai testi alchemici? Confucio sosteneva che la terapia della cultura parte dalla rettificazione del linguaggio e Hillman sostiene che la psicologia alchemica offre spunti per questa possibilità di rettificazione. Che ne pensa?
R. Per me vale molto di più James Hillman che l’opinione di innumerevoli cosiddetti esperti in camice paludato. Questo è il tempo del mutamento. Non capire la cateratta psichica è come rinunciare allo scandaglio mentale e costringersi ad una dolorosa prigionia”.
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(Pieter Bruegel il Vecchio, Trionfo della morte, 1562)
Prima di morire tutti gli uomini dovrebbero sforzarsi di apprendere da che cosa stanno fuggendo, dove e perché”.
James Thurber
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Questo intenso dialogo tra uno psichiatra, psicoterapeuta ed un filosofo si sofferma su vari punti cruciali e attualissimi nella storia dell’anima e delle sue cure: il nuovo DSM-V, le polemiche sullo stigma, sulla crisi delle psicoterapie e sulle cure psicofarmacologiche. “Gli Dei sono diventati malattie” scrisse una volta C.G. Jung, concetto poi ribadito da James Hillman (anche nel suo celebre “Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”). Elaborando queste idee nell’ebook si discute, tra l’altro, la questione più immediata per ogni disciplina della mente: Che cos’è la normalità psichica? A partire da quale soglia entriamo oggi nel regno incontrollabile della cosiddetta “non normalità”? E dove sono finiti gli Dei rimossi?
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Al Mitreo-Arte Contemporanea di Roma, mercoledi 23 settembre, a partire dalle ore 16,30, si terrà il X° Simposio Filomatico Internazionale. Il tema del Simposio è “Etica, Impresa e Lavoro”. La relazione di Massimo Lanzaro si intitola “La sindrome del burnout: cause, sintomi e prevenzione”. Si parla di una Sindrome complessa a componente prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo prolungato e che viene definita da tre dimensioni caratteristiche: l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la mancata realizzazione personale. Si tratta di un processo derivante dallo stress, che può manifestarsi in qualsiasi organizzazione di lavoro; non è sufficientemente conosciuto e spesso sottovalutato, complici le lacune legislative o la loro applicazione approssimativa nei vari ambiti lavorativi. Venite per saperne di più!
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Si stanno approfondendo molti aspetti riguardanti la salute mentale. Da un lato c’è un flusso costante di nuove ricerche e potenziali trattamenti, dall’altro la promessa di una migliore assistenza medica, di recente negli Stati Uniti, dove grazie alle disposizioni della legge per la tutela del paziente (Obamacare), gli assicuratori sanitari sono finalmente obbligati a coprire i disturbi mentali, tanto quanto quelli “fisici”.
Il pregiudizio sui disturbi mentali è (ed è stato) parte integrante di tutto questo, nonostante si basi, il più delle volte, su dati aneddotici. Anche in Italia la situazione riguardante lo stigma è ancora problematica.
Le più recenti ricerche concordano nel considerare essenziali gli aspetti e le strategie di psicoeducazione rivolte alle famiglie e ai giovani, sia per migliorare le capacità di gestione della malattia già esistente che per informare la popolazione generale (ad esempio tramite le scuole) con fatti, spiegazioni e rassicurazioni, invece che aneddoti infondati.
Il termine psicoeducazione indica una metodologia introdotta nel campo delle scienze della salute mentale negli anni ’80 del 1900, che punta a rendere consapevole la persona portatrice di un distubo psichico, e i membri della sua famiglia, circa la natura della patologia di cui è sofferente e circa i mezzi per poterla fronteggiare. Ma è anche uno strumento per informare le persone “sane” e prevenire l’insorgenza di disagi.
Essa prende le mosse dagli studi sulle “famiglie ad alta emotività espressa”, condotte dal gruppo che faceva capo a Julian Leff della Social Psichiatry Unit di Londra sulle famiglie con un membro affetto da psicosi schizofrenica, tese a prevenire le ricadute e i nuovi ricoveri in reparto psichiatrico. Successivamente negli anni ’90 del 1900 è stata estesa ad altri distubi psichici (distubi d’ansia, depressione e disturbi bipolari, disturbi dalla personalità) grazie soprattutto a Ian Falloon dell’Università di Auckland (Nuova Zelanda).
In questa circostanza sono state anche applicati alcuni interventi, ricavati dal cognitivismo e dal comportamentismo, tesi a ridurre lo stress e il carico familiare con il rischio di favorire la ricaduta, come le abilità di comunicazione efficace (esprimere richieste in maniera positiva, esprimere sentimenti piacevoli e spiacevoli, ascolto attivo) e l’abilità di risolvere i problemi (problem solving). La psicoeducazione può contare su numerose pubblicazioni scientifiche sulle riviste internazionali, che ne convalidano l’efficacia.
Più recentemente è stata infatti utilizzata nei programmi intensivi per la prevenzione dell’esordio psicotico (McGorry a Melburne, Birchwood in Inghilterra, Hafner in Germania, Cocchi e Meneghelli in Italia).
Per la prima volta, che io sappia, postulo qui (molto brevemente) l’integrazione possibile del metodo psicoeducativo ortodosso con l’approccio Hillmaniano.
Fare anima è -come sappiamo- il concetto folgorante, davvero rivoluzionario, di Hillman: significa rovesciare il verso del proprio processo di crescita, pensare che anziché ascendere si debba discendere per conoscere le risposte ai propri interrogativi. Il cammino della comprensione è un progressivo oscuramento, un bagno nell’incertezza, volto alla ricerca di una verità obliqua e trasparente, mai rettilinea e cristallina. Psicoeducazione a ben vedere è anche questo: comprensione, riduzione delle incertezze e dello stress tramite la conoscenza. Una psicoeducazione archetipica ed al contempo con fondamenti evidence-based potrebbe aiutare a vedere le manifeste sfaccettature di quell’anima mundi che dobbiamo assolutamente recuperare per non inaridire del tutto (inaridimento che è la base per lo sviluppo della sofferenza psichica e, in definitiva del malessere, della depressione, dell’ansia e di altri disturbi).
James Hillman, con profonda levità e pensosa ironia, ha teso un ponte intellettuale non solo teoretico ma soprattutto pratico tra passato e futuro, tessendo gli scenari culturali necessari per una psicologia più adatta all’uomo moderno. Mi permetto di postulare che la corretta divulgazione, la psicoeducazione integrata, in questo senso, potrebbero essere un elemento di questi scenari, uno strumento informativo importante per prevenire la sofferenza ed alimentare alcuni aspetti individuali e collettivi del fare anima.
Massimo Lanzaro
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(Vittorio Matteo Corcos, Pomeriggio al portico)
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(Albrecht Dürer, Melancolia I, 1514)
“La psicologia conosce degli stati […] di ‘svuotamento’ dell’Io, quando il senso di realtà si fa così inquieto e confuso da tradursi in un dolore uniforme che inutilmente va in cerca di un ricordo o di un’immagine contenitrice: ciò avviene tipicamente nelle stagnazioni della melanconia. Aristotele pensava che la passività piena di affanno melanconico non possa essere risolta ‘finché l’oggetto ricercato non sia raggiunto’ e tuttavia nel melanconico qualcosa di irremovibile sembra opporsi a questo esito guaritore, come se l’Io non potesse in alcun modo ‘richiamare’ le immagini di cui è in ricerca”.
Luisa Colli (La morte e gli addii, Moretti e Vitali)
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E’ nelle sale italiane il bel film documentario della regista e produttrice americana Lydia B. Smith “Sei vie per Santiago: Walking the Camino”. Il cammino di cui si parla è il percorso di 500 miglia che migliaia di pellegrini attraversano a piedi ogni anno per raggiungere il Santuario di Santiago de Compostela nella Spagna settentrionale. Luogo di pellegrinaggio fin dal medioevo, la cattedrale, che ospita le spoglie mortali di Giacomo il Maggiore apostolo di Gesù, è uno dei riferimenti religiosi più importanti d’Europa. La stessa Santiago e il cammino del pellegrinaggio sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1985. Nel documentario, Lydia Smith racconta il viaggio di sei pellegrini, molto differenti tra loro che per diverse ragioni hanno intrapreso il cammino. I motivi non sono tutti di ordine religioso, ma piuttosto per molti di loro è un mettersi alla prova, accettare una sfida con se stessi oppure per lasciarsi una vita che non li soddisfa alle spalle attraverso un percorso catartico. “Quando la gente affronta a piedi il Cammino, si stacca dalle proprie convinzioni per abbandonarsi ad una visione che è unica al mondo”, spiega la regista. “Non c’è lezione migliore e per questo il cammino deve essere intrapreso. E’ una metafora della vita – non esiste un modo giusto o sbagliato per farlo, tutto dipende dal modo in cui lo si affronta. Il viaggio è individuale – ognuno di noi deve trovare la sua strada. E’ tutta una questione di scoprire se stessi”.
Chi sono le persone che la Smith ha scelto per documentare la fatica e le motivazioni del Cammino? Annie di Los Angeles che lo ha intrapreso per ragioni spirituali, Jack e Wayne, due pensionati canadesi, Misa, una studentessa di sport danese, Sam, una donna brasiliana, Tomas, trentenne atletico, in cerca di un’esperienza “molto fisica”, Tatiana, madre single francese, che compie il suo percorso con il figlio di tre anni e il fratello Alexis, con il quale discute spesso. Con loro e attraverso di loro percorriamo anche noi il Cammino e ci ritroviamo a provare gli stessi problemi, sensazioni e sentimenti. Li vediamo all’inizio entusiasti e incuriositi da quest’avventura, li osserviamo e sentiamo con loro il dolore fisico, la fatica, la sensazione di non riuscire a proseguire e mentalmente li incoraggiamo a non arrendersi. Con loro vediamo splendidi paesaggi, i paesi caratteristici della zona e vorremmo andarci in vacanza, perché tutto il percorso per arrivare a Santiago ha una personalità tutta sua anche dal punto di vista turistico. Ti colpiscono l’ospitalità della gente del posto e dei volontari disseminati lungo la strada, che offrono ai pellegrini un pasto caldo e un posto per dormire. Affronti con loro i problemi legati al viaggio come le vesciche ai piedi che non fanno camminare, gli ostelli dove ti trovi a dividere letto o pavimenti con degli sconosciuti, la pioggia che fitta cade sulla schiena e sulla testa. Condividi con loro la gioia dell’arrivo, una felicità contagiosa che rende leggero anche te che sei stato seduto a vedere il film. Una lotta contro tutte le contrarietà, fuori e dentro il film, e all’uscita dal cinema ci si sente cambiati anche noi. Sì, Santiago de Compostela è un luogo magico.
Clara Martinelli
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(Ramon Casas, Jove Decadent, 1899)
Ramon Casas (1866 – 1932) fu uno dei protagonisti della vita culturale di Barcellona alla fin du siècle. Era solito dipingere ritratti, caricature e scene di vita quotidiana della buona società della città. Divenne famoso anche per i suoi quadri sulle rivolte sociali. Questo dipinto rispecchia pienamente lo spirito del tempo, quello del Decadentismo, la stanchezza di un’epoca che stava finendo e la noia di certi salotti ormai superati.
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(Seconda e ultima parte)
Il sacrificio invece del fare sacro
Spesso nell’antichità classica il rito sacrificale comportava l’uccisione di un animale: ciò ben poteva simbolizzare la scomparsa di un aspetto «inferiore» della personalità. Alcune parti della vittima, cotte, costituivano la base del successivo banchetto, mentre altre parti erano bruciate in offerta al Dio. Come dire che l’animale ucciso, dopo aver subito una trasformazione col fuoco che lo rendesse commestibile, veniva incorporato dai partecipanti (integrazione di parti dell’ombra) a un rito, il cui fine era quello di stabilire un contatto col divino (il sol niger, il divino oscuro).. Oggi si parla di sacrificio in maniera distorta. Invece di rendere omaggio agli dei (interiori, quelli che secondo Hillman se non onorati, riconosciuti, diventano sintomi), si intende “sopportare, sottomettersi” ai nuovi dei: la crisi, il denaro, la prepotenza, il sopruso etc. Cosa ha a che vedere la forzata rinuncia imposta dalle circostanze avverse con il compiere azioni sacre? La successiva evoluzione del simbolo del sacrificio in epoca cristiana vede la scomparsa dell’animale come presenza concreta e della sua fisica uccisione sull’altare. Nella messa cattolica, la vittima è lo stesso «Figlio dell’Uomo», realmente presente ad ogni ripetizione del cosiddetto sacrificio nel pane e nel vino. Il che, travisato, produce un alibi a chiunque crede di fare sacro agendo per così dire, da vittima. Il pane e il vino nello stato borghese (e cattolico) sono farmaci tranquillanti con letali effetti collaterali.
Buoni propositi
Il nostro scopo iniziale come terapeuti potrebbe dunque essere: 1. Utilizzare la psicologia alchemica e archetipica come terapia della cultura, analizzandone il linguaggio e i concetti che, come dice Hillman sono scomparsi dalla comunicazione di massa; 2. Spiegare le nevrosi e le psicosi individuali in termini di psicologia alchemica e psicologia archetipica e postulare una mediazione tra l’attuale positivismo scientifico/nosografico categoriale e l’approccio hillmaniano; 3. Tentare di comprendere quando nei confronti del mondo interno di un individuo o di una collettività vi è un’inversione dei normali rapporti fra conscio e inconscio.
Epilogo
Termino con una citazione da “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, la testimonianza di otto anni di lavoro di Pëtr Dem’janovič Uspenskij, filosofo russo, come discepolo del mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff: ogni ramo della scienza cerca di elaborare e stabilire un linguaggio esatto per se stesso. Non vi è però un linguaggio universale. Per una comprensione esatta è necessario un linguaggio esatto. Questo nuovo linguaggio si basa sul principio della relatività; vale a dire che introduce la relatività in tutti i concetti e perciò rende possibile un’accurata determinazione dell’angolatura di pensiero – rendendo possibile stabilire immediatamente ciò che si sta dicendo, da quale punto di vista ed in relazione a che cosa. In questo nuovo linguaggio, tutte le idee sono concentrate attorno ad una sola idea. Quest’idea centrale è l’idea di evoluzione…. e l’evoluzione dell’uomo è l’evoluzione della sua coscienza.
Massimo Lanzaro
Bibliografia e note 1. James Hillman, Psicologia Alchemica, Adelphi, 2013 2. Paolo Francesco Pieri, Dizionario junghiano, Bollati Boringhieri, Torino, 1998 3. Piotr Demianovich Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, 1978 4. The Mental Health Act 1983 (c.20), UK Parliament 5. Joseph Campbell, Il potere del mito, 1 ed., TEA, 1994 6. Jolande Jacobi, Symbols in an Individual Analysis, in C. G. Jung ed, Man and his Symbols (1978 [1964]) Part 5
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