Il 27 ottobre 2014 con me a “LEZIONI DI ANIMA”

Carissimi viaggiatori,

lunedì 27 ottobre 2014, alle ore 21.00, al Teatro dell’Angelo di Roma, prenderò parte a LEZIONI DI ANIMA – VENDUTA AL DIAVOLO”, intervista impossibile con il dottor Faust di Idalberto Fei, con Mariano Rigillo e con la conduzione di Laura De Luca e la regia di Antonello Avallone.

Teatro dell’Angelo
Via Simone de Saint Bon n. 19, Roma – tel. 06/37513571- 06/37514258
Direttore artistico: Antonello Avallone – Presidente onorario: Manlio Santanelli
http://www.teatrodellangelo.itinfo@teatrodellangelo.it

LEZIONI DI ANIMA

Da un’idea di Laura De Luca e Donatella Caramia
Direzione artistica Antonello Avallone

Crisi di valori, smarrimento di idee e di ideali, alienazione, virtualizzazione dei rapporti, incomunicabilità, egoismo… Se abbiamo perso l’anima, cioè la connessione con essa, il teatro accetta di offrire il suo contributo e il suo patrimonio per tentare un’inversione di tendenza. Recuperando la sua originaria vocazione “sacra”, ovvero la sua missione di aggregazione e di risveglio delle coscienze attraverso il rispecchiamento. Le Lezioni di Anima sono leggere performances a metà fra spettacolo e conversazione aperta. Un personaggio, un’idea, un’arte, un tema. Danza, prosa, poesia, musica, pittura si alternano in scena attraverso la genialità e la competenza di artisti e professionisti diversi: i primi incontrano pubblico e specialisti dopo la loro esibizione, in un teatro-forum provocante e il più possibile sensibile al dinamismo delle emozioni, che prolunga in direzione imprevedibile lo spettacolo, sotto la guida alternata dalla giornalista e dalla neuropsichiatra ideatrici del progetto.

Uno spunto per riattivare il pensiero simbolico. Per ridestarci, tutti insieme, e ascoltare l’anima.

Con la partecipazione di:

Ennio Morricone, Umberto Galimberti, Paolo Portoghesi, Valeria Valeri, Ernesto G. Laura, Giuseppe Manfridi, Gianni Guardigli, Adriano Mazzoletti, Italo Moscati, Enzo Garinei, Stefano Massimo, Idalberto Fei, Lorena Fiorini, Raffaele Vincenti, Gina Lollobrigida, Rino Caputo, Franco Cardini, Ennio Cavalli, Elio Pecora, Mariano Rigillo, Maria Rosaria Omaggio, Gianpiero Gamaleri, Mario Morcellini, Pippo Franco, Raffaele Vincenti, Stefano Onofri, Annamaria Barbato Ricci, AnnaPaola Tantucci, Gino Manfredi, Raffaella Castelli, Lina Sergi, Gabriele La Porta, AnnaMaria Barbato Ricci, Arnoldo Mosca Mondadori, Cinzia Carrea, Elio Sena, Alessandro Orlandi, Enrica Bonaccorti, Maria Romana De Gasperi e molti altri….

 

“In questo mondo c’è bisogno di più anima” cantava qualche tempo fa Pino Daniele.

E in un’altra stracitata canzone, Riccardo Cocciante se la prendeva con una spietata amante, “bella senz’anima”.

“Animula, vagula, blandula”, la rimpiangeva quasi venti secoli fa l’imperatore Adriano, commiserandola per il suo smarrimento.

Platone nel Fedone si sentiva obbligato a dimostrarne l’esistenza, segno che la schiera degli scettici era corposa già ai suoi tempi. Eros si innamorava di lei, Agostino la considerava un nocchiero del corpo, Plotino ne dimostrava l’immortalità, Faust era pronto a perderla …

L’anima: quel soffio di vento leggero che non si vede di cui maggiormente si è parlato su questa terra.

.Chi è che ci confeziona i sogni? Esistono i neuroni dell’anima?

Anima, vocazione, talento, DNA: qual è il nesso?

E noi?

Sentiamo di avere un’anima oppure non ne sospettiamo minimamente l’esistenza? Sappiamo identificarla, collocarla in un punto preciso del nostro corpo, sovrapporla al respiro dell’universo o la deleghiamo solo al confessore, confinandola tra superstizioni bigotte?

Dialoghiamo ogni tanto con essa oppure ne facciamo spensieratamente a meno?

E siamo sicuri che questa assenza non ci pesi?

Il dramma dell’uomo contemporaneo non è tanto l’assenza di Dio, quanto il non accorgersi di provarne nostalgia, affermava papa Benedetto XVI …

Eppure ciascuno di noi sperimenta giorno per giorno smarrimento, erosione di speranze, desolazione di progetti, mancanza di idee, logorio di slanci ed esaurimento di entusiasmi… E quante volte ci siamo sentiti dire che la devastante crisi economica di inizio millennio è stata originata da una ben più grave crisi di valori, ovvero da una crisi di anima?

I pochi maestri di humanitas, se ancora ne esistono, vagano inascoltati o avvizziscono sepolti in inattuali nascondigli. Così come il patrimonio di bellezza di cui il genere umano è stato capace nei secoli giace a impolverarsi in biblioteche e musei deserti.

Alziamo la voce solo per gridare al nulla. I nostri occhi sono fissi su schermi luminosi. Ondate di rumore ci sommergono, sempre più diventiamo incapaci di solidarietà e di ascolto e perdiamo il meglio.

 

Esiste però nel nostro cervello un sistema che determina di identificarci in chi abbiamo di fronte come se ci trovassimo dinanzi a uno specchio. E’ un meccanismo presente nel nostro codice genetico e sta alla base della nostra capacità di apprendimento e sviluppo. I neuroni a specchio sono cellule che si attivano nel momento in cui osserviamo e inconsciamente mimiamo ciò che vediamo, come se a compiere l’azione osservata fossimo noi stessi. Questo sistema varrebbe anche per le emozioni e sarebbe alla base dell’empatia: “io sento quello che provi tu.”

E’ il motivo per cui abbiamo scelto il teatro per chiedere aiuto… Un luogo dove riconoscere un modello su cui riorganizzare il nostro caos.

Fenomeno originario della rappresentazione, capace di intercettare la dimensione mimetica dell’anima come specchio delle nostre azioni e intenzioni, il teatro ingaggia lo spettatore in una sorta di simulazione incarnata. Spazio archetipico d’incontro fra terra e cielo, diventa il luogo ideale, dove piacevolmente ascoltare e riflettere empaticamente.

Chiediamo dunque al teatro e al suo immenso patrimonio di idee e di ingegni, di mettere in moto molecole di emozione con lezioni di anima. E cerchiamo maestri di anima intonati alle verità perenni e alla vita e alle scoperte di oggi. Li porteremo in scena: saranno poeti, musicisti, attori, filosofi, pittori, scienziati, personaggi molto popolari oppure totalmente sconosciuti. Uno per volta, una volta al mese. Insceneranno ciò che sanno fare e ciò che è stato scritto per loro. Racconteranno storie e si racconteranno. Attraverso brevi performances, concerti estemporanei, interviste spettacolo, lievi coreografie, mix di prosa, proiezioni, musica, letture…. Uno spettacolo ogni volta diverso coniugato a un dibattito.

Il teatro scuola d’anima e il palcoscenico come cattedra luminosa: autori, artisti e personaggi come insoliti professori, la platea come aula senza banchi, gli spettatori come allievi curiosi e anticonformisti.

 

Una richiesta di “Anima” come direbbe Jung, ma anche l’esperimento di un teatro nuovo, sinaptico, galvanico, leggero e insieme denso, che torni ad aggregare persone in nome di un’idea comune: la condivisione di un bisogno sempre più inascoltato e di un richiamo eterno, quello della ricerca dell’uomo e per l’uomo.

 

(DC e LDL)

 

Informazioni e prenotazioni:

 

info@teatrodellangelo.it; segreteria@teatrodellangelo.it

 

 

Biglietto unico: € 11,00

Orario botteghino:

dal lunedì al sabato ore 10.00-13.30 / 15.00-20.00
domenica ore 12.00-13.30 / 15.00-17.00

Con la collaborazione di: 
Sapienza Università di Roma-Coris, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale 
Università degli Studi Tor Vergata, Dipartimento di Scienze e Tecnologia della Formazione 
Radio Vaticana 
Fidapa, sezione Roma 
Ecole Instrument de Paix-Italia 
Uninettuno 

Con il patrocinio 
dell’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica del Comune di Roma

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Pessoa

Perchè dici di voler comprendere
se dici di voler sentire?

Fernando Pessoa, Faust

L’immaginazione ermetica VI

La natura è divinizzata. L’uomo partecipa dell’essenza di Dio. Il corpo umano riproduce il mondo. È possibile catturare le forze dell’universo con talismani e rituali. L’azione mentale dell’umanità non ha limiti perché trae la sua origine dal perfetto ordinatore del cosmo. Questa può essere una sintesi schematica, ma suggestiva, del pensiero di Ficino, che abbiamo cercato di riportare nell’articolo precedente. Sono contenuti che potrebbero entusiasmare molti giovani d’oggi, figuriamoci un ragazzo ardente e intelligentissimo come Pico della Mirandola. Alto, colto, dal portamento sicuro, capace di parlare tutte le lingue antiche, esperto di ebraismo e di cabala, poeta, filosofo, letterato, matematico, artista: Pico è tutto questo e anche di più. Uno spirito universale, vero anticipatore del Rinascimento in tutti i suoi aspetti, anche in quelli imprevedibili e avventurosi. Un giorno arriva a rapire in chiesa una ragazza, di cui è follemente innamorato, che è pronta a convolare a giuste nozze con un altro.

A un’anima così poliedrica ed entusiastica, le parole di Ficino giungono come acqua per un assetato. Il Mirandola diventa in breve il migliore allievo di Marsilio, sino a oscurare la fama del suo stesso maestro. A venticinque anni Pico è già conosciuto in tutte le università d’Italia e d’Europa. Il suo ingegno precocissimo desta ammirazione in tutti, anche negli avversari. Certamente la gioventù lo porta a essere impetuoso, ad accentuare le posizioni del fondatore dell’Accademia platonica. Il suo scopo principale è dimostrare l’unitarietà dell’intelletto, quindi della verità, al di là e al di sopra di tutte le differenze fittizie, legate allo spazio e al tempo.

In un’opera monumentale e mirabile, le 900 tesi, Pico intende valorizzare l’uomo e la sua intelligenza, mediante un raffronto con tutte le cose del mondo. Alberi, pietre, acque, animali sono e saranno sempre alberi, pietre, acque, animali. Ogni cosa è dunque quello che è perché una sua essenza interiore la determina; l’uomo invece è signore di se stesso in quanto edifica da sé la sostanza di se medesimo. Il significato che Pico rivendica all’attività umana è non già di ordine civile (come per gli altri umanisti pedanti), ma cosmico. L’uomo è il nodo vivente dell’universo perché partecipe della materia con il corpo e della spiritualità con la mente.

Dio – argomenta Pico – ha concesso all’uomo la libertà di orientarsi verso uno dei due mondi di cui fa parte. Egli non ha definito nell’umano un essere assolutamente determinato, ma, dandogli la scelta orientativa, ha costituito un essere degno di rispetto e di ammirazione, innalzandolo all’essenza di un dio che conosce il mondo divino, vincendo quello che ha in sé di materiale e conseguendo il congiungimento con il divino. Il vincolo d’amore permetterà all’essere di abbracciare ogni cosa, una volta giunto nella dimensione eterna. L’immaginazione di Pico colloca l’umano al centro del tutto, amante delle creature inferiori e amato da quelle superiori. «Coltiva la terra» dice il filosofo «gareggia con gli elementi, il suo pensiero giunge nel profondo dei mari, la sua scienza l’innalza al culmine del cielo».

La celebrazione delle possibilità umane rende esplicito in Pico, più ancora che in Ficino, l’accentuazione del discorso magico, inteso come “parte pratica delle scienze naturali”. Il Mirandola aborre però la negromanzia superstiziosa e l’astrologia che predice il futuro: il suo discorso verte sulla “scientia scientiarum naturalis”, ovvero sulla magia concepita quale disciplina capace di dare all’uomo un completo dominio sulle forze fisiche, attraverso una giusta conoscenza delle cause.

Si tratta senza dubbio di concetti estremi, e in quel tempo producono un effetto scardinante, che conduce Pico dinanzi al tribunale ecclesiastico di Roma, dove però viene assolto grazie a una mirabile orazione, poi raccolta nelle 900 tesi, la celebre De hominis dignitate, rivendicante all’umanità il diritto di “signoreggiare” sul mondo, sull’ipocrisia, sui preconcetti, sull’ignoranza. Un vero inno alla tolleranza in nome della cultura e della conoscenza.

Gli effetti dell’opera di Ficino e di Pico sono di immensa portata. Gli artisti ne rimangono influenzati così profondamente da esser condotti a creare opere totalmente ispirate al pensiero di questi filosofi. Botticelli, loro intimo amico, diviene il “rappresentatore” geniale della visione del mondo dei due filosofi. La sua Primavera è uno dei capolavori assoluti dell’umanità, perché in esso sono esplicitati tutti i contenuti di un’epoca, in cui si intrecciano perfettamente la gioia di una vita riconquistata e la sublime certezza di una ragione libera e investigatrice. Appartiene alla sfera della Divina Commedia, del Faust di Goethe, della Nona sinfonia, del Partenone. Di quelle opere che non sono attribuibili a un paese, a un’epoca, a una corrente culturale, ma all’umanità intesa nella sua globalità.

Chiunque osservi il dipinto, anche se completamente digiuno di arte, rimane colpito dall’atmosfera di soavità, di leggiadria, di gioia profonda che emana dalle figure. Il dipinto “parla” un linguaggio sottile all’osservatore, un inno silenzioso alla vita nei suoi valori più alti. Tolleranza, amore, gaudio, corporeità, spiritualismo si intrecciano in un mosaico geniale, che colpisce direttamente al cuore il turista anche più frettoloso. In effetti questo è lo scopo di Ficino e di Pico. No, non è un errore, nominare Marsilio e il signore di Mirandola, perché l’opera compiuta da questi due filosofi viene assegnata a Botticelli, perché ritenuto il più sensibile ai temi della rinascita platonica e della magia. Il pittore non viene scelto per la sua tecnica, ma essenzialmente per la capacità di apprendere totalmente la nuova visione del mondo delineata dalla Accademia platonica fiorentina. La sua genialità nel dipingere, la conoscenza dei «contenuti» da trasmettere, l’influenza dei testi ermetici, l’insegnamento ficiniano, contribuiscono alla nascita del capolavoro. Vediamo allora nei particolari il dipinto, dal punto di vista di chi osserva.

Sulla destra c’è Zefiro, poi la ninfa Chloris, e Flora. Quindi, al centro, Venere, l’unica di cui non si intraveda il corpo nudo, sul cui capo c’è Amore che scocca una freccia con gli occhi bendati. Poi le tre Grazie, Pulchritudo, Castitas e Voluptas. Infine, al fondo, Hermes. La “chiave” di interpretazione a noi particolarmente utile è racchiusa nelle tre Grazie, perché ci introduce per la prima volta a contatto con le immagini “magiche”, ovvero contenenti significati esplicitamente esoterici.

Anche al più disattento osservatore contemporaneo balzano agli occhi le caratteristiche di Voluptas, l’ultima delle tre Grazie, a sinistra del dipinto; il capo leggermente reclinato sulla sinistra sembra abbandonato, eppure accenna a un invito coinvolgente in un movimento come di danza. I capelli sciolti sul collo a piccole ciocche rafforzano il senso del darsi e nel contempo dell’accettazione della persona oggetto dello sguardo sognante e denso di inviti riscontrabili anche nella bocca, il cui labbro inferiore è sotteso all’altro nell’espressione della proposta. Un insieme rispecchiante fedelmente il nome della donna-grazia incarnata in quel viso. Voluttà nel senso pieno del significato latino, che intende il desiderio di ricevere, del dare e del sapersi abbandonare. Il dipingere questo volto con le intenzioni citate, il fatto che potesse essere creato, determina appunto una rottura con gli antichi canoni artistici, introducente l’uomo nel mondo permeato del senso pieno dell’esistere.

I concetti filosofici del dipinto sono stati più volte esaminati (anche se con notevoli divergenze) dagli studiosi. In questo ambito è utile concentrare l’attenzione sulla parte sinistra del dipinto, perché i volti delle Grazie e i loro movimenti possono essere assunti a simbolo della nuova concezione tendente a liberalizzare gli intelletti. Nella tradizione Castitas, Pulchritudo e Voluptas venivano rappresentate sempre con Voluptas in posizione subalterna o paritetica rispetto alle altre. Botticelli rivoluziona tale schematismo immettendo nel gruppo il movimento (come farà poi Raffaello). Castitas è sempre di spalle, come vuole l’usanza, ma la gamba sinistra ha appena compiuto un passo in avanti perché la destra rimane come sospesa in attesa di un nuovo movimento. Il viso è chiaramente visibile di profilo, con lo sguardo assorto, teso, calmo e fiducioso verso un’altra Grazia che le si fa incontro, Voluptas (questa chiave di interpretazione è data da Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, pag. 23 e segg).

Questo è il motivo dirompente, la Castità che si muove verso la Voluttà. La stessa spalla sinistra completamente nuda, il velo-vestito slacciato, alcune ciocche di capelli liberatesi dall’elmo, l’intrecciarsi delle dita della mano sinistra, attestano come questa sia coinvolta nell’ambito della Voluttà. Il suo movimento di coinvolgimento sembra aspettarla, invitarla e nello stesso tempo avvolgerla con lo sguardo. Il loro incedere l’una verso l’altra è osservato da Pulchritudo, dalla bellezza, che intreccia le mani con le altre due, assistendo all’incontro distante, e tuttavia partecipe. Voluttà perciò comanda il gruppo attirando a sé le altre in un movimento sincronico danzante e rituale. Castità a sua volta viene come posseduta dalla vicina in un abbraccio in movimento. L’interdipendenza delle tre, il predominio dell’elemento erotico, il possedimento di Castitas e lo sciogliersi delle sue naturali remore, ricordano una danza d’amore a sfondo dionisiaco, unico elemento di questo ambito riscontrabile nelle opere dei partecipanti al circolo platonico fiorentino. A tale proposito è utile rammentare come lo psicoanalista Rollo May ricordi quanto, nella danza rituale presso i cosiddetti popoli primitivi, l’indigeno si identifichi con la figura che egli ritiene padrona di se stesso. Insomma il ballerino, nella danza frenetica del rituale, invita gli dèi ctonii, li riceve, li accetta identificandosi con essi, accogliendoli come una parte costitutiva del proprio essere. Questo implica il principio dell’identificazione con ciò che ossessiona, non tanto per liberarsene, ma per assumerlo in quanto parte costitutiva della personalità precedentemente rifiutata (Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, pag. 131).

Rileggendo la triade delle Grazie del Botticelli con il contributo psicanalitico del May appare manifesta la tensione di Castitas ad assorbire gli elementi erotici di Voluptas, per farli propri in un intreccio creativo. In effetti l’Accademia ficiniana ha agito concretamente con i mezzi dell’arte e della filosofia per affermare la nuova concezione della vita, tramite gli scritti ermetici e platonici. (Tra gli scritti tramandati come Corpus hermeticum ebbe grande influsso soprattutto il Picatrix. Esso è una summa, con stile diseguale, raccolta in Spagna tra il 1047 e il 1051. Biqratis – Buqratis, quindi, alla latina, Picatrix – sembra esserne stato il compilatore. Del Picatrix c’è una versione latina del 1256 voluta da Alfonso d’Aragona, ma tale versione è incompleta e contiene varianti. Oggi esistono due manoscritti latini fedelissimi. Uno è nella Biblioteca nazionale di Parigi e l’altro nella Biblioteca nazionale di Firenze. Questo scritto fu quello che Ficino e Pico diedero a Botticelli come fonte di ispirazione per la Primavera.) L’influenza di tali scritti fu vasta e riscontrabile persino in Galilei, nella lettera a monsignor Pietro Dini del 2 marzo 1615, come riporta ancora Garin. Tale testo «dimostra la presenza nello scienziato di echi di ogni genere: accanto ad una metafisica di matrice neoplatonica perfino il tema cabalistico della concentrazione della luce, e del suo esplosivo irraggiamento» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pagg. 12-13). L’ascendente, a decenni di distanza, nei confronti di uno scienziato come Galilei, mostra l’influenza del gruppo filosofico fiorentino su ogni campo del sapere.

Insomma la Primavera, negli intenti di Ficino, ha il compito di propagandare il pensiero magico e platonico, come uno splendido supporto visivo, capace di parlare ai cuori molto più rapidamente di qualsiasi libro.

Ma torniamo adesso al dipinto. Dopo le Grazie, c’è Hermes, il dio della intelligenza, che con un bastone sembra scostare delle fronde, per far penetrare la luce tra i rami. La danza delle tre donne pare condurre proprio al dio. Questo significa che, una volta trovata la pienezza del corpo, l’uomo può spingere la propria mente verso la luce. Ecco, adesso il messaggio è chiaro.

Quando la natura fiorisce, mentre spira il vento di Zefiro, recante i doni della conoscenza delle cose, è giusto che l’uomo riscopra il suo stesso corpo, e una volta che si è riappropriato anche del piacere fisico, può conquistare le vette dello spirito. Perché l’unica saggezza possibile è quella che equilibra perfettamente, amorosamente, la carne con l’anima, senza privilegiare nessuno dei due a discapito dell’altro. La sapienza è di chi armonizza il finito (il corpo) con l’infinito (anima), sotto il segno dell’amore. Infatti la “signora” del dipinto è proprio l’antica dea dell’amore, Afrodite, che non a caso Esiodo definiva “la saggia”. Ricorrere alle figure delle divinità mitiche è una valenza propria anche di Guarino Veronese e della cultura di Ferrara. La lingua con cui si scriveva era il latino di Lucrezio, i contenuti erano platonici ed epicurei, la finalità era la restaurazione di una ipotetica antichissima religione fatta di convergenze, espresse mediante l’uso sistematico di nuclei mitici. (Eugenio Garin, Ritratti di umanisti. Guarino Veronese e la cultura di Ferrara, Biblioteca Sansoni, pagg. 84-85).

Un grande amore, il tempo e la giovinezza. Due scomparse misteriose.

UN GRANDE AMORE, IL TEMPO E LA GIOVINEZZA.

DUE SCOMPARSE MISTERIOSE

(Parte V)

 

II conte ne ha visti tanti di volti come quello. Inizialmente tracotanti e progressivamente impauriti, fino al terrore. Con il moltiplicarsi delle stoccate l’angoscia si impadronisce del morituro. Perché si tratta proprio di questo. Della presa di coscienza della morte. E sì che il conte non vorrebbe. Ma gli eventi lo spingono sempre nella stessa direzione. Per proteggere il suo segreto è costretto a uccidere. Anche ora quel Veniero comincia a terrorizzarsi. La sua spada è più lenta. II braccio meno fermo. Lo avrebbe potuto ucci­dere da molto. E ha sempre fatto così. Per abbreviare le pene dei suoi rivali, normalmente affonda deciso e la vita è subito spenta. Dalla lama. Qualcosa però lo trattiene. Non è per proseguire l’agonia dell’avversario. II conte non ha queste meschinità nell’animo. Diversi pensieri imprigionano la sua mente. Gli anni sono passati setacciando i sentimenti mini­mi, le meschinità, le tracotanze e hanno lasciato una visione ampia, riposata e tragica. Un destino apparentemente ineluttabile lo imprigiona. Ora come sempre. Da quando ha compiuto quegli studi di alchimia con un maestro imperscrutabile.

Accadde allora. In una Praga senza tempo si fermò ogni cosa. Si ricorda ancora la faccia stupita del grande mago. Per meravigliarsi lui! Il conte aveva trovato la soluzione a una formula impossibile. Un segreto che doveva evidentemente rimanere tale. Averlo svelato gli procurò immediatamente una forza straordinaria e con essa una camicia di Nesso da cui tuttora gli è impossibile liberarsi. Pensare che al momento gli sembrò una benedizione. II sapiente praghese capì invece subito tutto.

«Hai studiato tanti anni,» disse, «e ora che sei giunto alla maturità hai fatto questa scoperta che arresterà tutto. Che la divina armonia ti assista!»

Nello studio il silenzio era totale. La verità è che il conte non capì subito le conseguenze del disvelamento del «grande mistero». In seguito però soffrì come una bestia. Città, amici, amori, affetti, case, carriere. Quante volte ha avuto tutto ciò per essere poi costretto ad abbandonarle? Cinque, dieci? Troppe.

II Veniero crede per un attimo, dato che il conte è assorto nella spirale dei ricordi, di potercela fare e decide di affondare, di osare il tutto per tutto.

Raccoglie ogni stilla di energia, tutti gli empiti dei muscoli e dei tendini.

Gira un attimo a destra come se stesse per perdere l’equilibrio e invita il conte ad affondare. È un trucco. Come l’altro tirerà la stoccata, lui si riprenderà e colpirà diritto sotto il cuore. Inevitabilmente l’altro obbedirà all’istinto e tenterà di chinarsi in avanti di poco, quel tanto che gli farà penetrare il ferro al centro del cuore. Un colpo fatale. Il corpo del Veniero è pronto.

In quell’istante il cielo si apre. La nebbia è spazzata via e Donata dal mare vede lo spasmo del giovane. Intuisce che sta per accadere qualcosa di spaventoso. II torace del suo uomo le appare totalmente scoperto, indifeso, vulnerabile. Intuisce l’irreparabile. La sua bocca vorrebbe gridare, avvertire il pericolo, ma la lingua si rifiuta di obbedire. II suo fisico sta per cedere. E cosi le barriere psicologiche che l’avevano protetta si abbattono e torna alla coscienza quel particolare rimosso della sera precedente, quella dell’offesa.

Quando il Veniero lo ha insultato, il conte ha detto tra le labbra una parola. Ecco, i ricordi si affacciano. Visivamente la scena si ripropone. Come al rallentatore. Dilatata nel tempo. La bocca del suo bene sta pronunciando un nome. Ma quale? Sì, sono poche sillabe.

«Pepo»: ha sussurrato questo nomignolo.

Il cuore sembra fermarsi nel petto ansante di Donata. Un ghiaccio tormentoso l’avviluppa. Quel «Pepo» è il nomignolo del Veniero da piccino. Lei giocava con lui, per questo lo sa. Ma come lo conosceva il conte?

Non è questo interrogativo a martoriarla. È un altro ricordo a straziarla. Rivede una scena di molti anni prima. Ritrova se stessa bimbetta che rincorre per il suo palazzo romano il «Pepo», appena giunto da Venezia. Lo insegue per androni e stanze, perché le ha rapito una bambola alla quale sta strappando i capelli. Lei piange, si dispera, lo supplica di restituirle il suo tesoro. Lui niente, la deride, si ferma e, come sta per essere raggiunto, scatta in avanti. Crudele già allora. L’inseguimento si protrae e a nulla valgono le sue suppliche di bimba. Finché il ragazzino va a sbattere contro le gambe di un uomo che è appena sopraggiunto.

«Non farla soffrire,» dice il nuovo venuto.

Dio, quella voce. Una sofferenza indicibile entra nella testa di Donata. Ora sa tutto. In piedi sulla gondola è diventata come una statua di dolore. Rivede tutto. Eccola in quel corridoio. Si sente protetta. Qualcuno è intervenuto finalmente in sua difesa contro quel suo perfido compagno di giochi. Alza la testa riconoscente verso quel signore pietoso. Così la bimba vede il volto bellissimo che da allora ha sempre rimosso. Ora lo riconosce. È lui, il conte. Identico a come è adesso. E sono passati più di vent’anni.

La Stati si porta le mani al petto davanti all’isola di Torcello. Sa tutto. Quello che il Veniero ha detto è vero. II suo uomo non invecchia. È eterno. II suo nobiluomo è il conte di Saint-Germain, ed è immortale.

Sempre in quel preciso momento l’uomo che non può invecchiare e che odia se stesso da quando ha scoperto il segreto di Faust vede avanzare la lama del Veniero e decide di non voler più fuggire. Non sopporta di vincere anche questo confronto, né di tornare dalla sua amata e di vederla, anno dopo anno, invecchiare inesorabilmente mentre lui rimane immutato. Giorno dopo giorno fino all’immancabile funerale. Ha visto morire mogli, figli. Ora basta. Implora con tutta la violenza, in completa sincerità di essere sciolto da quella gabbia in cui la sua vanità e la sua arroganza l’hanno rinchiuso da secoli.

Una preghiera sottile, abbandonata, gentile, vera, assoluta sale nello spazio, valica i tempi e raggiunge l’armonia sottesa a tutte le cose. È una supplica sublime che non ha bisogno di parole, per questo è accettata.

La lama del Veniero raggiunge il petto di Saint-Germain. Si apre un varco terribile. Offende la carne e lascia in eredità la morte. La preghiera ha raggiunto le orecchie giuste.

II conte si porta la mani al petto, il sangue sgorga copioso. Indietreggia verso l’attracco delle barche. Si volta a cercare ancora una volta il viso della sua Donata. Lo trova. È sempre bellissimo. È l’ultima cosa che vede prima di cadere in acqua.

Ora sì che la voce può uscire dalla bocca della Stati. È un urlo. Un lamento gridato con tutte le energie. È uno spasmo vocale che attira l’attenzione e la pietà di tutti. Dei padrini, del gondoliere, dello stesso Veniero. Ogni essere si ferma per osservare quello strazio.

Donata vede il suo uomo sprofondare. Lo cerca con lo sguardo sotto i flutti. Un’intelligenza segreta le ha fatto intuire tutto. È la fine. Non resiste più. Un’occulta misericordia la fa svenire e l’accompagna fuori dell’imbarcazione. Nel mare. E la fa sparire.

A nulla valgono le ricerche sia dell’uno che dell’altra. Si dragano le acque per tutto il giorno e la notte. Poi anche durante quelli successivi. Inutilmente.

Gli amanti non saranno più trovati. Qui finisce la leggenda del conte di Saint-Germain che per amore ha sacrificato l’immortalità e della sua compagna Donata Stati, detta «colei che dona».

Questa è la storia che sull’Hermes abbiamo sentito raccontare. Ma soltanto ai naviganti del vascello senza tempo è possibile ascoltare una confidenza di un pescatore di un isolotto perso nel mare. Lontanissimo da Torcello. Narra per la prima volta di vicende senza senso. Di un uomo ferito e di una donna bellissima raccolti dalle acque dove miracolosamente galleggiavano e di come siano rimasti con lui per anni, occupandosi di cose umili, ma in letizia. Felici come nessuna coppia.

E dice ancora di come siano morti nello stesso giorno e del loro riposo in pace nello stesso letto.

Appunto una storia semplice e priva d’interesse. Per tut­ti. Tranne che per i viaggiatori del veliero che solca i mari dei secoli.