La pena d’amore

Lo strepitare di un passero alle gronde
La luna che risplende e il cielo latteo,
E l’armonia solenne delle foglie avevano
Cancellato l’immagine e il grido dell’uomo.

Una fanciulla sorse con le rosse labbra
Dolorose e sembrò la grandezza
Di tutto il mondo in lacrime,
Dannata come Ulisse, le navi infaticabili, fiera
Come Priamo assassinato insieme alla sua gente;

Sorse, e all’istante le gronde clamorose, e la luna
Che arrampicava sopra un cielo vuoto, e tutto
Quel lamento di foglie non poterono
Che ricomporre l’immagine e il grido dell’uomo.

William Butler Yeats

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Mi nasconda la notte

Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.
Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.
La luna si nasconde e poi riappare
lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.

Sandro Penna

Centinaia di fiori in primavera

Centinaia di fiori in primavera,
la luna in autunno,
la brezza fresca d’estate,
la neve in inverno.
Se non occupi la tua mente
in inutili cose,
ogni stagione è per te
una buona stagione.

Wu-men

Apparizione

La luna s'attristava. Serafini piangenti,
L'archetto alzato, in sogno, dalle viole morenti
Traevan, nella calma di vaporosi fiori,
Bianchi singhiozzi a petali dagli azzurri pallori.
- Era quel santo giorno del nostro primo bacio.
La fantasia, martirio cui da sempre soggiaccio,
S'inebriava sapiente al profumo di tristezza
Che pur senza rimpianto lascia e senza amarezza
La vendemmia d'un sogno al cuore che l'ha colto.
Dunque erravo, alle vecchie pietre l'occhio raccolto,
Quando per via, col sole sui capelli splendente,
E nella sera, tu m'apparisti ridente,
Ed io vidi la fata dal cappuccio di luce
Che un tempo sui miei sonni di fanciullo felice
Già passava, lasciando, dalle sue mani belle,
Nevicar bianchi fiori di profumate stelle. 

Stéphane Mallarmé

 

Mi nasconda la notte

Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.
Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.
La luna si nasconde e poi riappare
lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.

Sandro Penna

Quando mi coglie il buio

Quando mi coglie il buio
una soffocata luna
dietro il cancello
solleva misteriosi grovigli
e sul sagrato d’abissi
mi fiacca l’anima

Maria Allo

Magnete Divino

Gioia non vidi in entrambi mondi,salvo te,
anima mia,molte meraviglie ho visto,
ma non vidi miracolo simile a te!
Dicono che sorte dei miscredenti è fuoco bruciante:ma privo del fuoco tuo
ho visto solo
Abù Lahab!
Alla finestra del cuore spesso ho accostato
l’orecchio dell’anima,molte parole ho sentito,
ma non ho sentito le labbra.
D’improvviso effondesti il favore tuo
sipra questo tuo servo,ed io non ne vedo ragione
se non la tua grazia infinita.
O eletto coppiere,o gioia degli occhi miei,
a te simigliante nessuno apparve fra gli Arabi,
nè fra i Persiani l’ho visto!
Versami tanto vino ch’io scenda giù da me stesso
perchè nell’io,nell’essere,non ho trovato che pena.
O tu che sei zucchero e latte,o tu che sei
Sole e Luna,o tu che sei madre,sei padre,
non ho parenti che Te!
O indistruttibile amore,o menestrello divino,
sei tu appoggio,sei tu riparo,
non trovo nome a te pari!
Siamo frammenti d’acciaio e
l’amor tuo è calamita,
sei origine d’ogni attrazione,
chè in me attrazione non vedo!
Silenzio, fratello, abbandona scienza e finezza;
finchè tu non parlasti finezza alcuna non vidi.

Mevlana Jalaluddin Rumi

Ora che sale il giorno

Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.

È cosí vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
per restare solo a ricordarti.

Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli.

Salvatore Quasimodo

Potessero le mie mani sfogliare

Potessero le mie mani sfogliare
Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.

Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura,
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della dolce pioggia.

T’amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!

 
Federico Garcia Lorca

Una virgola di luce

Una virgola di luce,
sul quaderno della mia mente.
La signora dello spazio,mi alluna
l’anima. piccolo satellite,nel cielo
nuvoloso della vita.

Gina Tota

Alla Luna

Il sabato del Villaggio

 La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di Fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che percorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vò; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Giacomo Leopardi

Blues

Parte delle stelle mattutine
La luna e la posta
L’insaziabile X, il dolore delirante,
– la luna Sittle La
Pottle, teh, teh, teh, –
I poeti in vecchie stanze gufose
che scrivono curvi parole
sanno che le parole furono inventate
perché il nulla era nulla
Usando le parole, usate le parole,
le X e gli spazi vuoti
E la pagina bianca dell’Imperatore
E l’ultimo dei Tori
Prima che la primavera si metta in moto
Sono una montagna di nulla
di cui volenti o nolenti disponiamo
Così di notte contratteremo
nel mercato delle parole.

Jack Kerouac

C’era

L’agnello belava dolcemente.
L’asino, tenero, si allietava
in un caldo chiamare.
Il cane latrava
quasi parlando alle stelle.
Mi svegliai…Uscii. Vidi orme
celesti sul terreno
fiorito
come un cielo capovolto.
Un soffio tiepido e soave
velava l’alberata:
la luna andava declinando
in un occaso d’oro e di seta
apersi la stalla per vedere se Egli
era là
C’era.

Juan Ramon Jimenez

Insonnia

La Luna nello specchio del comò
guarda milioni di miglia lontano
(e forse con orgoglio, a se stessa,
ma non sorride, non sorride mai)
via lontano lontano oltre il sonno,
o forse è una che dorme di giorno.
Se l’Universo volesse abbandonarla,
lei gli direbbe di andare all’inferno,
e troverebbe una distesa d’acqua
o uno specchio, sul quale indugiare.
Tu dunque metti gli affanni in un sacco
di ragnatele e gettalo nel pozzo
nel mondo alla rovescia dove
la sinistra è sempre la destra,
dove le ombre in realtà sono corpi,
dove restiamo tutta la notte svegli,
dove il cielo ha tanto poco spessore
quanto è profondo il mare e tu mi ami d’amore.

Elizabeth Bishop

Per Map che ci ha ricordato Gianni Togni

Orlo

La donna è infine perfetta.

Il suo corpo

Morto porta il sorriso del compimento

L’illusione di una greca necessità

Fluisce, nelle pieghe della sua toga,

I suoi piedi

Nudi sembrano dire:

Abbiamo camminato tanto, è finita.

Ogni bimbo morto, riavvolto, bianco serpente

Uno ad ogni piccola

Brocca di latte, ora vuota

Li ha piegati

Di nuovo nel corpo di lei come petali

Di una rosa si chiudono quando il giardino

S’intorpidisce e odori sanguinano

Dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.

La luna non ha nulla di cui essere triste,

fissando dal suo cappuccio di osso

è abituata a questo tipo di cose.

Le sue macchie nere crepitano e tirano.

Silvia Plath

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu s è queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
– Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? –
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
 
Giacomo Leopardi

 

Quando mi coglie il buio

Quando mi coglie il buio
una soffocata luna
dietro il cancello
solleva misteriosi grovigli
e sul sagrato d’abissi
mi fiacca l’anima

Maria Allo da “Riflessi di rugiada”, edizioni Albatros

Microcosmo e Macrocosmo

Sopra: “Santa Ildegarda di Bingen e l’uomo al centro dell’universo”,
miniatura dal “Liber divinorum operum” di Ildegarda di Bingen, 1230, Lucca, Biblioteca Statale

Sappi che sei un altro mondo in miniatura e hai in te Sole e Luna e anche le stelle.

ORIGENE, “Homiliae in Leviticum”, 5,2

Se il Sole e la Luna…

Se il Sole e la Luna dovessero dubitare
Subito si spegnerebbero.

William Blake

Presenza

Tutto è annuncio di te!
Appare il sole radioso, e tu dietro a lui, spero.
Esci fuori in giardino e sei rosa fra le rose,
e sei giglio fra i gigli.
Quando nel ballo ti muovi si muovono le stelle,
insieme e intorno a te.
Notte! E così sarebbe notte!
Tu superi lo splendore soave e seducente della luna.
Seducente e soave sei tu, e fiori,
luna e stelle a te s’inchinano, o sole!
Sole, sii anche per me artefice di giorni radiosi!
Questa è vita, è eternità.

Johann Wolfgang Goethe

Il libero arbitrio

Se la luna, mentre completa il suo eterno viaggio intorno alla terra, ricevesse il dono dell’autocoscienza, sarebbe certamente convinta di stare viaggiando secondo la propria decisione lungo la sua strada con la forza di una decisione presa una volta per tutte. Allo stesso modo un Essere dotato d’intuizione superiore e di una perfetta intelligenza, che osservasse l’uomo e le sue azioni, sorriderebbe dell’illusione umana che lo spinge a credere di poter agire secondo il proprio libero arbitrio.

Albert Einstein

Il mio corpo si perde

l mio corpo si perde,
da vivo, nella mia anima,
come il raggio dell’ultimo sole
nel primo raggio della luna.

Juan Ramòn Jiménez

Canzone

Quando le tue mani erano luna,
colsero dal giardino del cielo
i tuoi occhi, violette divine.

Che nostalgia, quando i tuoi occhi
ricordano, di notte, il loro cespo
alla luce morta delle tue mani!

Tutta la mia anima, col suo mondo,
metto nei miei occhi della terra,
per ammirarti, moglie splendida!

Non incontreranno le tue due violette
il leggiadro luogo a cui elevo
cogliendo nella mia anima l’increato?

Juan Ramòn Jiménez

La luna

Quando spunta la luna
tacciono le campane
e i sentieri sembrano
impenetrabili.

Quando spunta la luna
il mare copre la terra
e il cuore diventa
isola nell’infinito.

Federico García Lorca

Nuda sei semplice

Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
hai linee di luna, sentieri di mela,
nuda sei delicata come il grano nudo.

Nuda sei azzurra come la notte a cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,
nuda sei enorme e gialla
come l’estate in una chiesa d’oro.

Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finché nasce il giorno
e t’addentri nel sotterraneo del mondo.

Come in una lunga galleria di vestiti e di lavori:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda.

Pablo Neruda

Ho acceso un falò

Ho acceso un falò

nelle mie notti di luna

per richiamare gli ospiti

come fanno le prostitute

ai bordi di certe strade,
ma nessuno si è fermato a guardare 

e il mio falò si è spento.

Alda Merini

Divina creatura

Divina creatura, quante volte
ho appannato la tua limpida
pace dorata
svelandoti il segreto della vita
e del dolore. Perdona e dimentica!
Pensami Nuvola
che passa sulla luna piena,
e torna a splendere, dolce luce,
nella tua ferma bellezza, serena.

Friedrich Holderlin

Io pronuncio il tuo nome

Io pronuncio il tuo nome
nelle notti oscure,
quando giungono gli astri
a bere nella luna,
e dormono i rami
delle fronde occulte.
Ed io mi sento vuoto
di passione e di musica.
Folle orologio che canta
antiche ore defunte

Io pronuncio il tuo nome
in questa notte oscura,
e il tuo nome mi suona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della mite pioggia.

Ti amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha commesso il mio cuore?
Se la nebbia si scioglie
quale nuova passione mi aspetta?
Sarà tranquilla e pura?
Se potessi sfogliare
con le dita la luna!!

Federico García Lorca

Alla tua salute amore mio

Accarezzami, amore,
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.

Alda Merini

Senza più desiderare

Alla luce della Luna
riposerò il mio sguardo
che non vuol vedere oltre.
Ho visto troppo,
troppo anche per me,
ora, basta guardare.
Discosterò lo sguardo,
calerò il velo,
eviterò gli specchi d’acqua.
M’immergerò in me stessa,
sognerò di me,
ricorderò, senza più desiderare…
aspettando che torni l’Aurora.

Marina

Serena notte

Filosofia della Luna

Amici, vi lascio Marina che attraverso molteplici sentieri percorre un ambito di Filosofia Ermetica.

Caro Signore dei Rimpianti,
non ridere di me…ma visto che non mi allacciano internet e che la maggior parte dei commenti che riesco a mandare a fatica non vengono poi pubblicati a causa del mal funzionamento della linea internet a cui fa capo la chiavetta…io oggi sono all’aperto, in macchina, su un’altura, sotto un ripetitore della Tim!
Eheheh…il carattere vuol dire molto nella vita! Cercherò di condensare i miei vissuti interiori dell’ultima settimana in questo commento.

Allora, riguardo ad Odin Wotan, oltre ai suoi due corvacci neri, Pensiero e Memoria, che sono rimasti appollaiati per lungo tempo davanti alla finestra della mia camera, dove all’epoca avevo cominciato a scrivere il libro, mi si presentò con l’immagine di uomo cosmico capace di sacrificare un occhio pur di attigere all’Antica Sapienza e con una indicazione ben precisa (naturalmente all’epoca non capii bene, poi col tempo…questa faccenda degli archetipi e dei miti va interiorizzata e soprattutto esperita per esserne coscienti alla luce delle sue ragioni):
“Word by word gave me word.”

Riguardo a Er, un giorno, all’esordio, aprii una pagina a caso di un libro:
“Lete, fiume dell’oblio, le cui acque avevano il potere di fare dimenticare l’esistenza passata alle anime avviate alla nuova nascita”. Era una semplice coincidenza? In molti l’avrebbero liquidata considerandola tale, non io, però, che leggendo lo stralcio di quel mitico racconto me ne sentii sfiorata, anzi, animata dall’istantanea intuizione, o forse la memoria, di come sia impossibile rintracciare il senso della propria esistenza se si resta fermi solo sul quotidiano e sul visibile…
Nella mia vita, dunque, sembrerebbe non esserci più posto per il cosiddetto caso…

…ed ecco apparire all’improvviso Psiche e il suo Cupido…e non è lui a cercare lei ma lei a cercare lui, pur se lui non vuole…ed ecco entrare in scena Venere che con l’intercessione di Saffo si pronuncia contro ogni aspettativa del mito, a favore dell’amor mortale che non permetterebbe a chi amato di non riamare a causa di invisibili intricatissime trame immortali!
Ahhhh questo fato!

“…e così per una serie di avvenimenti prodottisi in una sfera di cui egli era completamente inconscio, il destino del riluttante “amorino” si compì, senza la collaborazione della sua volontà conscia.” (Campbell)

Anche perché non bisogna dimenticare che l’arte del fuso è appannaggio delle divinità lunari! Queste donne…quando si mettono in testa una cosa fanno sempre un qualcosa di più…

Baaaci!

Femminile

Perché la magia è femminile, splendidamente femminile. Occorre intendersi su questo elemento: femminile. …non si tratta di una qualità esclusivamente delle donne, ma di una facoltà dello spirito. È la tolleranza, è la capacità di abbandono e di tenerezza, è la curiosità verso il nuovo, è l’accettazione del diverso, del debole, dello straniero. È l’energia che guida il mondo. È il sentimento dolce e rutilante, forte e languido, erotico e avvampante che sussurra alle creature il mistero della vita. È la Luna, è Artemide, è Persefone, è Iside, è Ishtar, è la madre che osserva, riflette, ama e non giudica. È la nostra capacità di intendere e di comprendere, priva di pregiudizi e di rancori. È l’energia raggiante che si dispiega benevola sulle creature. È la possibilità di un mondo privo di lotte e odi. È la pace della mente e del corpo. È la follia, la conoscenza. È contemporaneamente luce e buio, notte e giorno. È la possibilità del mutamento e della trasformazione. È insomma la parte migliore di noi, che la storia della violenza patriarcale ha soffocato per privilegiare il sangue e la lotta all’estasi dell’intuizione radiosa.

Nell’Interiorità di Anima — “Anime umide”…

Un passo ancora verso Anima… Porfirio è uno dei più illustri rappresentanti della scuola neoplatonica. Nella sua opera confluiscono i grandi temi della filosofia magico-occultistica di derivazione orientale. Esploriamone insieme alcune folgori da quel compendio di saggezza interiore che è “L’antro delle Ninfe”.

 

Anime umide

Con Ninfe Naiadi indichiamo in senso specifico le potenze che presiedono alle acque, ma i teologi designavano tutte le anime in generale che discendono nella generazione. Essi, infatti, ritenevano che tutte le anime si posassero sull’acqua che, come dice Numenio, è divinamente ispirata; egli afferma che proprio per questo motivo anche il profeta disse: «il soffio divino si muoveva nell’acqua». Per questo – dice – gli Egiziani collocano gli esseri divini non sulla terraferma, ma tutti su una barca, sia il Sole sia, in generale, tutti: bisogna sapere che questi sono le anime che, planando sull’acqua, discendono nella generazione. Di qui il detto di Eraclito:  «per le anime è piacere, non morte, divenire umide», cioè è un piacere cadere nella generazione, e altrove egli dice: «noi viviamo la morte di quelle, e quelle vivono la nostra morte». Perciò, per Numenio, il poeta chiama «umidi» coloro che sono nella generazione, avendo anime umide. Esse, infatti, amano il sangue e il seme umido, e le anime delle piante si nutrono di acqua.

(Porfirio, L’antro delle Ninfe, Gli Adelphi, 2006, pag. 51)

 

 Armonia e tensione di contrari

Poiché la natura ha origine dalla diversità, ovunque l’entrata a due porte ne è simbolo. Il cammino, infatti, può avvenire o attraverso l’intellegibile o attraverso il sensibile, e quello attraverso il sensibile o attraverso la sfera delle stelle fisse o attraverso i pianeti, e ancora, o attraverso un cammino immortale o mortale. C’è un centro sopra la terra e uno sotto terra, uno a oriente e uno a occidente, la sinistra e la destra, la notte e il giorno; e per questo è «armonia e tensione dei contrari» e scocca dardi dal suo arco per l’esistenza dei contrari. Platone parla di due imboccature: attraverso una si risale al cielo, dall’altra si scende sulla terra, e i teologi fecero del sole e della Luna le porte delle anime che risalgono per la porta del Sole e discendono per quella della Luna; e in Omero ci sono due orci:

dei doni che concede, l’uno dei cattivi, dei buoni l’altro.

(Porfirio, L’antro delle Ninfe, Gli Adelphi, 2006, pag. 77)

Un grande amore, il tempo e la giovinezza. Due scomparse misteriose.

UN GRANDE AMORE, IL TEMPO E LA GIOVINEZZA.

DUE SCOMPARSE MISTERIOSE

(Parte III)

 

La luna adesso è ancora più vicina, sembra abbracciare i due amanti che quasi si compenetrano in uno slancio di puro reciproco abbandono. Ugualmente il tempo lascia cadere i suoi attimi gli uni dentro gli altri per formare il lento giro delle ore, fino alla luce lontana che annuncia il nuovo giorno.

«Dio, non mi hai ascoltata!» pensa Donata tremante. Ades­so i singhiozzi scuotono il suo bel seno rigoglioso a suscitare commozione nel nobiluomo. Ma per ben altri motivi. Ancora terribili addii si muovono spaventosi nei ricordi. Incancellabili come soltanto le cerimonie funebri possono esserlo. Una, due, cinque, venti. Quanti cortei di morte ha visto? Innumerevoli. Cambiano le città, le persone, i vestiti. Rimangono solo quelle processioni ammantate di dolore. Perciò si era imposto di non amare più. E aveva mantenuto la parola per molto tempo. Fino a lei. A quell’esserino tutto abbandono e sensualità che l’ha imprigionato in una storia senza fine. O meglio, dal finale obbligato, purtroppo.

La Stati alza il volto per imprimersi nella mente gli occhi celesti di lui come gemme incastonate nella collana dei pensieri. Da ora, per sempre.

Poi si scuote: «Occorre andare,» sussurra, «non puoi far tardi rispetto a quel… quel…».

Non trova le parole, ma altre lacrime.

«Non ti preoccupare,» le sussurra il conte. «C’è qualcun altro che deve rammaricarsi e non lo sa, purtroppo per lui.»

Ancora una volta una scossa nella testa di Donata. Quel momento perduto riaffiora. Un decimo di attimo. Poi più nulla. La protezione inconscia ha funzionato ancora.

II chiarore si fa strada nella notte sconfiggendo negli angoli più riposti il manto del buio. II nobile si è vestito. Con cura. Poi finalmente ha preso la spada. Se l’è cinta con mossa rapida di chi è abituato alle armi. Quindi si volta nella stanza. Sta per salutare la sua diletta, ma la trova vestita: «Ti prego, non mi lasciare. Ne morirei».

Sente che è vero. Quel soffice grumo di passioni potreb­be davvero spezzarsi. E sarebbe così inutile. Così assurdo. Ma non può spiegarle quanto e come sia sciocco stare in pensiero. Quindi non può fare a meno di acconsentire. Contrariamente a tutte le regole, la conduce al duello.

«È inteso,» le spiega, «che non potrai muoverti dalla gondola. Osserverai dal mare. Anche perché il mio incontro, chiamiamolo così avverrà davanti alla basilica, di fronte all’imbarcadero. E ti supplico: non stare in pensiero.»

La osserva, ascolta dalla sua pelle, dalle sue fibre, dalle pupille travagliate, quanto lo ami. È felice, perché adora quella sincerità animale. Vera più di mille parole. Nel contempo una tenebra cupa torna a gettare panico nel suo sentimento più riposto.

«Non ti abbandonare,» sussurra una parte di lui, «all’amore che avvampa. Non ricordi? Quanto vuoi soffrire an­cora? Lasciala, lasciala, lasciala.»

Si ritrae con un passo indietro. La osserva in tutta la figura. Tenue, malgrado il corpo bello e forte. Sottile nel sentimento di totalità che gli porta. Così un fortissimo rifiuto si fa strada nel suo io più lontano. Un «no» imperioso che abbatte tutte le difese. Accetta quella tenerezza. La ricambia. Ne è invaso. Non vuole rinunciare.

Donata sente un calore avvampante che emana dal corpo di lui. Gli occhi celesti sembrano fiaccole del tempo. C’è un vortice in quelle pupille. Forse qualcosa di pericoloso si annida negli abissi oculari. Ma non importa. Non capisce bene. Anche intuendo una minaccia, si lascia trasportare. Si allaccia a lui. Vuole averlo un’ultima volta. Forse una lama tra poco gli strapperà la vita, ma ora le spire dei palpiti sono più forti e quella stessa vita reclama, scalpita, urla il suo diritto all’amore.

«Vorrei stare insieme.» Così gli dice con gli occhi chiusi. Che si arresti dunque il tempo.

Così è. II conte prende quel groviglio di attese e speranze vicino alla finestra. Vestito. Come nei giochi d’amore che mille e mille volte hanno fatto.

«Mi piace che sei serio,» gli ha sussurrato in centinaia di rapporti. «Mi eccita che sei vestito con la giacca mentre mi prendi di spalle.»

Anche ora avviene quel dolce struggimento. Poi è il momento di terminare l’incanto. Ma questa volta il nobile non si tira indietro. Per la prima volta in due anni accetta di fluire in lei. Donata avverte la vita scorrerle nel profondo del cor­po. Intuisce che quell’uomo è suo. Totalmente. Sì, il leggendario nobiluomo, vincitore su legioni di cuori, è in suo possesso. Finalmente. Una gioia senza pari la inonda. Poi un lampo crudele le schianta la mente. Un guerriero bestiale le è balzato nell’immaginazione. È il marchese Veniero con il suo fioretto. Lo vede con gli occhi della mente e lancia un grido. Ora ha tutto. Tra breve, nulla.

Si sente mancare. Trova ugualmente nel suo essere energie impensabili. Si distacca. Osserva l’uomo che è tutta la sua vita e mormora flebilmente come una piuma: «Andiamo».

La Grande Madre — Dove si parte per Chartres grazie a una Colombina veneziana

Sono state tre le donne della mia vita. Laura, la mia prima moglie, Donatella Scatena, la seconda, e Stefania, con cui ho soltanto convissuto. Con tutte sono stato a Venezia e sempre mi è accaduto “qualcosa” di strano.
Così nel 1968 un evento sconcertante mi obbligò a recarmi a Chartres. Questo è il racconto fedele, per quanto possano esserlo i ricordi, di come ricevetti quella sorta di comando.
Nell’anno della contestazione studentesca la laguna non era di moda e chi ci andava era considerato poco meno di un cretino. Avevo ventitré anni e da qualche mese ero entrato con un buon contratto alla RAI. Mi sembrò un miracolo. Per questo ero felicissimo. E chi non lo sarebbe stato al posto mio? Avevo la possibilità di un lavoro stabile e per di più come programmista nella maggior azienda culturale e informativa d’Italia. E, come se la manna non fosse sufficiente, avrei viaggiato di continuo.
Era dicembre e dovevo realizzare un servizio nell’istituto del Professor Zennaro che tentava un esperimento di scuola a “tempo pieno”, a quell’epoca un fatto quasi eccezionale. Laura era in stato interessante e decisi di portarla con me. Scendemmo dal treno a piazzale della Ferrovia alle otto di sera. Uscimmo dalla stazione ed entrammo in quel sogno che era una Venezia piena di nebbia e del tutto abbandonata. Non l’avevamo mai vista e ci sembrò fantastica. I banchi opalescenti andavano e sparivano come soffiati dalla bocca di un dio gentile e facevano improvvisamente apparire vestigia e case putrescenti. Da una finestra si intravedevano tende strappate, da un’altra stipiti divelti e ogni tanto una luce fioca lasciava indovinare un interno con una vita dimessa e malinconica. Tanto più struggente se confrontata con chissà quale magnificenza del passato. Sì, sembrava di attraversare con il traghetto una dimensione onirica. Poi sulla nostra destra si delineò un giardino protetto in parte da un muro sbrecciato. Nel mezzo la statua di un angelo con una faretra. Come una folgorazione ci rapì il cuore e Laura mi disse trasognata: «Sembra l’arcangelo Michele».
Probabilmente non era vero e non seppi mai che cosa autenticamente raffigurasse. Magari un normale cupido. Ma la creatura che aspettavamo nacque maschio e si è poi chiamato Michele.
Scendemmo in questa aria di impalpabile vagheggiamento alla Salute e da lì andammo alla pensione Cici, in calle della Kabalà. Quasi un presagio, questo nome, di quello che ci sarebbe accaduto di lì a poco. Cominciò con l’arredo. La stanza in affitto era satura di antichi ricordi, non nostri, ma che ci sembravano tali. Ogni oggetto improvvisamente cominciò a evocarci pensieri che non ci appartenevano, ma che si riverberavano su di noi come in un infinito effetto specchio. In verità, non eravamo completamente in noi. Ubriachi di un senso inesprimibile che non riuscivamo neppure per un istante a identificare. Quasi non ci parlammo, tanto eravamo presi da un’emozione fortissima e sconosciuta, mai provata prima. Non potemmo cenare subito. E senza concordare nulla, decidemmo di uscire. La nebbia era ancora più densa e copriva praticamente ogni cosa. Alla vista nulla era concesso. Andammo trascinati da una percezione stringente, vincolante. Proseguì con la musica. La sentimmo leggera. Una pianola persa tra mura e acque. Seguirla fu facile.
Ci trovammo così ai piedi di un pontile. Non vedevamo il fondo. Quindi un soffio di leggerissima brezza. Così al centro della costruzione la scorgemmo. Una Colombina. Una maschera? Forse. Ma non avevamo la mente per porci domande. Era una sorta di epifania. Non osavamo muoverci. Fu lei a scendere i gradini. Ci si avvicinò e senza dire una parola mi porse un biglietto. Poi risalì e scomparve risucchiata dalla stessa dimensione onirica da cui era emersa. Rimasi con il foglietto in mano. Solo dopo alcuni momenti guardai di cosa si trattava. Era un disegno circolare con molti percorsi al suo interno. Laura mi disse: «Sembra un labirinto». Le sue parole svegliarono entrambi.
Tornammo indietro estasiati da quell’incontro, che giudicammo soltanto di buon augurio per la nostra vita. Invece fu determinante. Ma allora non lo sapevo. Capii tutto solo tre anni dopo, per puro caso.
Antonio Di Raimondo, responsabile della rubrica culturale TVM, spazio di aggiornamento culturale del mattino dedicato ai giovani di leva, decise di mandarmi a Chartres per realizzare un documentario sulla cattedrale francese. Felicissimo dell’incarico andai a riferirlo al mio collega, ben più autorevole di me, Sandro Meliciani. Ero nella sua stanza a fantasticare sul viaggio, quando da una tasca mi cadde un pezzo di carta. Non sapevo assolutamente di aver riposto in quell’indumento il foglietto che mi aveva dato la Colombina di Venezia. Anzi, non credevo neppure di averlo ancora. Lo avevo cercato a lungo, rassegnandomi infine all’idea di averlo perso. Invece il disegno era per terra, nell’ufficio al terzo piano di via Novaro. Mentre lo guardavo sbalordito, Meliciani si chinò e lo raccolse. Osservandolo sorrise: «Vedo che ti sei già documentato. Questo è il labirinto rappresentato in un mosaico a Chartres. Pensa, nessuno ha mai saputo a che cosa servisse, né che cosa rappresentasse. Non ci crederai, ma è davvero un mistero».
Che dire. Non feci parola al mio collega, tanto colto quanto incredulo, dell’incontro veneziano. E perché poi fare parola? Per farmi deridere, come succede a tutte le persone che si imbattono nella dimensione della “brillantanza”? Tacqui. Ma andai a Chartres. Partii con l’immancabile amico e compagno di lavoro Ezio Lavoretti, un operatore di grande bravura e di grande sensibilità.Aveva un notevole fascino congiunto a un’intuizione prodigiosa. Di lui si narravano aneddoti straordinari, come la dolce storia d’amore con Anna Magnani. Ma Lavoretti non ne fece mai parola. Certamente, conoscendolo, non ci sarebbe stato nulla di strano se la grande attrice avesse davvero avuto in gioventù una cotta per un uomo al tempo stesso tanto schivo e vibrante.
Ecco, le sue qualità silenti sono state per me di grande aiuto nei viaggi, che vedremo anche in seguito, alla scoperta dei segreti “luccichii” che molti luoghi custodiscono. Percepibili soltanto da chi possiede un poco di quella vista “occulta”, di cui spesso scrive Elémire Zolla, un maestro di conoscenza, come ne Le meraviglie della natura o nel recente Lo stupore infantile.
La brillantanza è come uno sguardo “obliquo”. Un misto di intuizione, curiosità e predisposizione alla meraviglia. Facoltà che hanno quasi tutti i bambini, ma che l’educazione tende ad annebbiare. Non so perché in me non sia andata persa. L’ho attribuita alla mia predisposizione alla mano sinistra, ovvero alla Luna. Sono infatti ambidestro. Ma forse questa specie di qualità è più semplicemente da attribuire al mio infantilismo cronico che, malgrado le ovvie controindicazioni, mi consente, però, di non nutrire pregiudizi e di cogliere le tenui vibrazioni che emanano tutte le cose, animate e inanimate, presenti nel creato.
E proprio così: tra le cose che ho appreso negli anni di lavoro, di ricerca, di studio e di osservazione, c’è sicuramente quella capacità di percepire il mondo come animato. Non è un atteggiamento razionale, tutt’altro, è sentire l’anima in ogni essere, sia esso pianta, sasso o persona. È quest’anima che unifica il mondo e che lo rende uno. Credo fermamente in quello che affermava Spinoza: tutto è Uno e quello che porta all’unità è bene, mentre quello che divide conduce alla lontananza dal bene. Se si potesse applicare questo elementare, semplicissimo principio ai movimenti culturali e politici, si disporrebbe di un ottimo metro di giudizio con cui valutare idee e uomini nella storia passata e presente. D’altronde la magia, di cui parleremo spesso, non è che la ricerca continua e incessante dell’unità, sia interiore sia esteriore. Certo, il magico non si esaurisce in questa facile formula, ma è “anche” questo desiderio di Uno. Senza rinnegare però il molteplice. L’Uno coesiste nei molti e i molti non sarebbero tali se non ci fosse una tela di Penelope a riunirli. E anche questo è un concetto espresso da Zolla nella sua ultima fatica, La nube del telaio.
Ma è ora di tornare a Chartres e alle sue meraviglie.

La Grande Madre — Introduzione

Tutto cominciò alle cinque di un mattino del 1945, quando decisi di nascere causando interminabili doglie a mia madre. Ero grosso e quindi dopo alcune ore di travaglio, alle cinque appunto, il medico si stufa e decide di ricorrere al forcipe. Mi prende per la testa e mi tira fuori. Così facendo, però, ne esco con il cranio un po’ allungato.
Poi mi prende per i piedi, perché stentavo a respirare, ma non calcola bene le distanze e mi fa sbattere contro il lettino. Un po’ lo strumento ostetrico, un po’ l’urto, un po’ la natura, e la mia faccia non ne giovò certo. Tanto è vero che la mia povera mamma quando mi vide si impressionò e lanciò il fatidico urlo: «Non voglio vederlo, è troppo brutto!».
Be’, come inizio niente male. Finisco così da mia nonna Carla. È lei a darmi il latte al suo seno, non materno, ma “nonnerno”.
Sì, avete letto bene. È stata mia nonna ad allattarmi perché anche lei aspettava un bambino. La differenza d’età con mia madre era di appena diciotto anni e a sua volta lei mi ha partorito a diciassette. Purtroppo il bimbo di mia nonna morì dopo il parto. Per questo io riesco a succhiare al suo seno. Già questo credo sia un caso unico al mondo.
Ma c’è dell’altro.
Da questo momento in poi, in tutte le occasioni importanti della mia vita, compare il nome di questo neonato “caro agli dèi” invece del mio. Quando la RAI mi fa il primo contratto, quando scrivo il mio primo articolo per una testata, quando mi laureo, ecco che invece di Gabriele appare scritto il suo nome. Anche quando ho condotto la prima diretta è apparso in sovrimpressione al posto di quello giusto. Ci sono abituato e mi stupisco ormai quando non capita.
Come mi sono assuefatto a questa stranezza, ho affrontato con lo stesso spirito numerose altre occasioni che mi si sono via via presentate, fino al giorno in cui ha fatto irruzione, appunto, nel mio vivere quella dimensione che gli anglosassoni chiamano “brillantanza”.
Nel 1968 decido di sposarmi. Faccio le pratiche (inutile dire che devo fare i documenti due volte perché scrivono il mio nome di battesimo errato con il solito scambio) e quindi con la mia futura moglie, da cui sono oggi divorziato, decidiamo di andare a comprare le fedi nuziali.
Ci troviamo casualmente in via Nomentana a Roma e altrettanto casualmente entriamo nella prima oreficeria che incontriamo sul cammino. Al banco c’è un anziano signore. Diamo i nostri nomi e, quando dico il mio, il padrone se ne esce con un: «Lei è per caso parente di Arturo La Porta?». Gli dico di sì e lui immediatamente aggiunge: «Ma lo sa lei che suo padre e sua madre hanno comprato le fedi proprio da me?».
Quanti gioiellieri ci sono a Roma? Come ha fatto quell’uomo a ricordarsi? Perché si rammentava proprio di papà? Credo sia inutile tentare di dare una spiegazione. Come è altrettanto inutile tentare di spiegare ciò che mi accadde al Salone del libro di Torino, nel 1990.
Sono da sempre un ammiratore di Hugo Pratt. Lo incontro e sono emozionato, felice.
E non do peso al fatto che lui mi si rivolge subito con un «Ciao, da quanto tempo». Poi parliamo con grande intensità di esoterismo e al momento di salutarsi lui mi fa una dedica sul suo libro Il romanzo di Criss Kenton.
Ma invece della firma fa un disegno.
Il volto di profilo di un indiano irochese che porta un grande orecchino, con sopra incastonato un cerchio con la croce di re Salomone. Ovvero il sigillo di Geova con un agnello al centro. Ebbene io da anni portavo al collo un talismano: un pendaglio con sopra impressa la croce di re Salomone. Mi stupisco e gli racconto della “coincidenza”.
Mi guarda a lungo e sussurra: «Niente di nuovo sotto il sole». Ovvero mi cita una frase di Giordano Bruno, una delle mie preferite: io sono un biografo di questo filosofo.
Coincidenze. Come quelle che mi inducono a ventitré anni a sognare un grande portone in via Arbia a Roma. Una voce mi dice di andare. Il giorno dopo mi reco sul luogo e “casualmente” incontro un uomo che mi chiede un fiammifero per la pipa. Scambiamo due parole, ci attardiamo, facciamo amicizia e questo signore diventa determinante nella mia vita. Mi fa scoprire la filosofia emetica e tutto un universo che mi porto dentro. Mio figlio porta il suo nome, Michele.
Che in ebraico vuol dire: chi è come Dio? Per rispondere occorre un poco di “brillantanza”, come per leggere questo libro che ha un solo vero scopo. Rivelare una dimensione parallela, e spesso nascosta, della realtà. La storiografia ufficiale ha sistematicamente cancellato i ricordi del mondo magico perché giudicato irrazionale, quindi indegno di esistere. Cercheremo invece di mettere in evidenza questo universo sconosciuto e spesso perseguitato, sia a livello psichico che fisico. È un lungo viaggio verso una forma di conoscenza che si esprime con concetti non necessariamente obbedienti alla logica di causa ed effetto, ma non per questo meno potenti dello scientismo. Si avvale anche dell’intuizione, che spesso non rispetta né spazio né tempo. A questo punto, però, si rende necessaria un’avvertenza. Stiamo per entrare in un mondo femminile. Perché la magia è femminile, splendidamente femminile. Occorre intendersi su questo elemento: femminile. Per ora è importante comprendere che non si tratta di una qualità esclusivamente delle donne, ma di una facoltà dello spirito. È la tolleranza, è la capacità di abbandono e di tenerezza, è la curiosità verso il nuovo, è l’accettazione del diverso, del debole, dello straniero. È l’energia che guida il mondo. È il sentimento dolce e rutilante, forte e languido, erotico e avvampante che sussurra alle creature il mistero della vita. È la Luna, è Artemide, è Persefone, è Iside, è Ishtar, è la madre che osserva, riflette, ama e non giudica. È la nostra capacità di intendere e di comprendere, priva di pregiudizi e di rancori. È l’energia raggiante che si dispiega benevola sulle creature. È la possibilità di un mondo privo di lotte e odi. È la pace della mente e del corpo. È la follia, la conoscenza. È contemporaneamente luce e buio, notte e giorno. È la possibilità del mutamento e della trasformazione. È insomma la parte migliore di noi, che la storia della violenza patriarcale ha soffocato per privilegiare il sangue e la lotta all’estasi dell’intuizione radiosa.
Il viaggio è dunque un itinerario sia esteriore sia interiore. Nella storia vedremo dove e quando il Femminile, che correderemo di maiuscola in segno di rispetto, è riuscito a emergere o a lasciare tracce simboliche in pittura, scultura, filosofia, letteratura, poesia e politica. E una volta evidenziati questi momenti, ecco che l’itinerario diventerà anche sotterraneo, verso l’elemento psichico più recondito. Perché Femminile è anche l’inconscio, sia individuale sia collettivo. Scoprendo l’oscura trama di questo millenario movimento, faremo anche dei ritrovamenti nella nostra città interiore. Scopriremo la città dei gioielli celata tra la vegetazione del rimosso e dell’oblio. Scopriremo il tesoro perduto che non sapevamo di possedere e che invece era soltanto in attesa di una principessa che tramutasse l’orrido apparente in un folgorante essere manifesto.
È un viaggio tra folgori, lampi, acqua, squarci e vampe. Tra persecuzioni e indomite resistenze. È scoprire il sotterraneo del cuore. È ascoltare la musica che l’orecchio cupo non riusciva a percepire più.
È, insomma, Femminile.
Sognare, forse. Ma che le interiorità erranti ci siano propizie.