L’immaginazione ermetica I

Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.

 

Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.

Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).

Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.

Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.

Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).

In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.

Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.

Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?

Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.

«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.

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La Grande Madre — Dove si racconta di alcuni incontri con Elémire Zolla e con Giorgio Colli e dove tornano i “segni”

«Chiunque berrà a questa coppa sarà immediatamente assalito dal desiderio di Afrodite dalla splendida ghirlanda.»

O. MURRAY, La Grecia delle origini.

 

Sono sempre stato un lettore di Zolla e per anni ho sperato di conoscerlo. L’occasione si presentò nel 1977. In quegli anni ero responsabile delle trasmissioni radiofoniche del DSE diretto da Luciano Rispoli con la collaborazione di Enrico Gabutti, incarico che, grazie alla loro fiducia, potevo svolgere in massima autonomia. Con me lavorava Laura Fortini che, con una semplice telefonata, mi mise in contatto con il filosofo. In un minuto presi accordi per una serie di conversazioni radiofoniche sull’alchimia.
Zolla, la cui fama era già riconosciuta nel mondo, accettò senza remore di legare il suo nome a una serie di trasmissioni dirette da un giovane programmista quale ero io all’epoca. Devo dire con obiettività che questa è una caratteristica dei grandi pensatori. Non credono mai che qualcosa possa sminuirli. Si preoccupano soltanto di aver modo di esprimere compiutamente il proprio pensiero.
Mentre, settimana dopo settimana, realizzavamo il programma in diretta telefonica, decisi di andare a trovarlo. Detto, fatto.
Mi recai quindi nella sua abitazione di allora, sull’Aventino a Roma. Stava al piano terra di un albergo. Desidero raccontare di questo incontro con una persona eccezionale, in ogni senso, soltanto un piccolo episodio. Apparentemente piccolo.
Le stanze che occupava pullulavano di gatti. A un certo punto non si trovava più una chiave. Allora, mentre i felini vagavano dappertutto, tra i libri, sul tavolo, sul letto, sulle mensole, sulle sedie e tra le nostre gambe, disse con la massima naturalezza a una micetta: «Mi aiuti a trovarla?». Pochi secondi dopo la creaturina cominciò a giocherellare con un foglio sul tavolo di lavoro del professore. E lui, subito: «Oh, grazie. Alzò la carte e sotto c’era la chiave.
Semplicissimo.
Non era l’animale ad aver “trovato” l’oggetto. Era stato Zolla a leggere il “segno” della zampetta giocosa.
Non desidero aggiungere altro: i suoi libri parlano di questo uomo di conoscenza. Basta leggerli. Magari anche “attraverso”, e tutta la simbologia sul telaio del Femminile l’ho tratta da lui e va letta come una citazione, un omaggio alla sua sapienza.

 

In quello stesso anno ho incontrato un altro filosofo, Giorgio Colli, e anche con lui ho realizzato una serie di conversazioni radiofoniche sul tema della sapienza greca. Per Colli doveva essere collocata non da Socrate in poi, come comunemente veniva fatto, ma da Socrate andando indietro nel tempo. Insomma, la sapienza era di quelli che non scrivevano o quasi. Per comprendere il suo pensiero basta leggere La nascita della filosofia e anche La sapienza greca.
Ho cominciato ad ammirarlo leggendo il primo dei suoi testi che ho appena citato. L’avevo con me mentre mi trovavo a Visso, un paese del centro Italia coperto dalla neve. Ero lì per una breve vacanza a casa di un giovane valentissimo, Roberto Nardi. Dopo averne divorato le pagine, come preso da un impulso irresistibile, ero uscito fuori nella neve. Avevo vagato per ore nella campagna a ripensare a quanto avevo appena letto. Mi sentivo a casa. Il Dioniso dio dell’estasi, descritto da Colli, mi aveva fatto toccare un mondo che sentivo mio e che non ero riuscito fino ad allora a identificare pienamente. Erano ormai quasi dieci anni che frequentavo intellettualmente la magia e l’ermetismo, ma mi mancava l’aggancio con la profondità dei misteri eleusini, con quella abissalità del Dioniso del cuore che Colli mi aveva restituito in assoluta pienezza.
Ero tornato a casa bagnato fino al midollo ma con una certezza. Dovevo conoscere quell’autore. Anche in questo caso fu facilissimo. Una semplice telefonata. Fu ancora la brava Fortini a farmi da tramite.
Il filosofo abitava sulle colline sopra Firenze, in una casa rinascimentale dove il genio di quest’uomo, mi piace pensarlo, trovava l’ambiente ideale per i suoi studi. Anche per Colli non credo sia giusto dare definizioni, è uno di quegli intelletti universali che si comprendono soltanto leggendo e rileggendo le loro opere. Basti dire che di fatto ha rivoluzionato il nostro modo di concepire la filosofia greca. Inoltre ha consentito il riaprirsi della conoscenza nei confronti di Nietzsche, curando con Mazzino Montinari l’edizione organica della sua opera in anni in cui una certa pruriginosità ne vietava addirittura la pubblicazione nel nostro paese.
Quando me lo trovai davanti provai una profonda felicità. Avrei voluto sommergerlo di complimenti, ma invece non dissi nulla. Parlammo esclusivamente dei contenuti della trasmissione radiofonica che avremmo registrato, in varie fasi, nella sua abitazione. In uno di questi appuntamenti mi scrisse una dedica su uno dei suoi volumi, il primo dedicato a La sapienza greca. “All’alunno dei misteri”, queste le sue parole per me. È una delle cose che ho più care.
Purtroppo Colli morì poco tempo dopo e non poté concludere il suo lavoro dedicato alla sapienza greca, il terzo volume infatti è stato curato da uno dei figli. Anche il ciclo delle conversazioni per la radio rimase a metà, ma ebbe comunque un grande successo di pubblico.
La notizia della sua morte me la diede un mio studente, Paolo Fiocca, a sua volta morto prematuramente. Provai un dolore acutissimo. E ancora adesso sento il vuoto che ha lasciato. Magari non avrei avuto altre opportunità di frequentarlo, ma mi sarebbe stato sufficiente il suo lavoro. Una perdita davvero enorme per la cultura italiana.
Ebbi occasione, in compenso, di frequentare per un periodo di tempo suo figlio Marco, che un giorno, in treno, mi confidò una cosa bellissima. Gli avevo chiesto se il padre gli mancasse. Non mi sentii indelicato nel chiedergli una cosa simile, perché la sua assenza pesava anche sulla mia vita e in nome dell’affetto mi sentivo autorizzato a porgli quella domanda. Mi rispose che «Essergli stato vicino era come aver avuto modo di frequentare Spinoza», un altro grande filosofo che sostiene che tutto quello che conduce all’uno è bene e quello che allontana dall’uno è “non bene”. Poi mi raccontò un episodio della sua vita di ragazzo, con il padre.
Giorgio Colli usava fare apparecchiare la tavola, oltre che per sé e per i suoi familiari, anche per Platone e Aristotele.
Ecco, credo che questo sia il miglior aneddoto per ricordare questo studioso. Il mondo greco era presente in lui senza separazioni temporali.
C’è di più. In questo che sembra un piccolo vezzo, si vede tutto un universo, dove passato e presente coesistono e dove le intelligenze legate ad altri tempi interagiscono con il tessuto vivente in una armoniosa unitarietà.
Se Colli in qualche modo “viveva” con Platone e Aristotele, devo dire che io, nel mio piccolo, non ho mai smesso di vivere con lui, tanto è presente in me il suo ricordo.
Se le idee di Platone sono reali, come credo, spero un tempo di potermi riavvicinare, con umiltà, alla sua e a quella di persone come lui.
Amo pensare che non si tratti soltanto di una speranza.

Porto II

Soltanto nelle biblioteche pubbliche di Roma esistono oltre cinquemila testi di alchimia o saggi sull’argomento. Tranne che in pochissimi casi, nessuno li consulta. È stato più volte dimostrato che in tutta Europa i libri o i manoscritti alchemici sono oltre centomila. Sì, proprio centomila.

Si investiga in ogni campo, si finanziano le «imprese» più incredibili e non esiste fondazione che finora abbia stanziato del denaro per permettere a una commissione di crittografi, biologi, storici, di studiare in senso interdisciplinare queste pagine che riportano tutte le intestazioni: scienza pratica e sperimentale.

Malgrado le premesse, sono considerati volumi di scienza arcaica, di spe­rimentalismo primitivo dei primordi dell’investigazione. Eppure nessuno ha mai calcolato che tutti i grandi esperti di esoterismo, da Campanella in poi, hanno sempre parlato della «scienza» come magia secondaria inferiore. La conoscevano, ma attribuivano più importanza alle discipline dell’introspezione. Comunque sapevano come ricercare le leggi della natura. Basta rileggere la Nova Atlantide di Francesco Bacone, il fondatore della prima Accademia delle Scienze al mondo, per capire come questo sia vero. Ma nulla. Il silenzio imposto dall’arroganza del secolo tecnologico, dai razionalisti, dai positivisti, ha vinto e ha ricoperto quelle migliaia e migliaia di pagine.

E anche quando uno studioso accademico si avvicina a quelle fonti di sapere, lo fa in modo prevenuto. Crede che siano testi mistici, intrisi di sentimentalismo. Se non addirittura delle fantasie prive di contenuto.

Non si è tenuto conto del celebre saggio di Elémire Zolla sulla Storia del fantasticare e sulla differenza fondamentale tra fantasia e vagheggiamento.

Recentemente, un noto docente di Storia delle religioni, durante una riunione di lavoro per una trasmissione del DSE-RAI sulla Storia della magia, ha affermato che Eliphas Levi è un millantatore, appunto un mistico. Come se i due attributi fossero analoghi.

Levi è uno dei massimi studiosi di tutte le religioni e filosofie del secolo scorso. Ma si dichiara ermetista sperimentale e afferma che l’alchimia è una «scienza esatta e pratica».

Così è. Per questo i centomila testi sono relegati nella soffitta della memoria di noi occidentali. Convinti che sperimentalismo sia soltanto un campo della robotica o dell’ingegneria genetica. Non ne abbiamo abbastanza di catastrofi, forse c’è un desiderio autodistruttivo di chiudere gli occhi verso conoscenze che potrebbero finalmente coniugare tecnologia e coscienza. E pensare che Giordano Bruno, non ci si stanca mai di raccontarlo, aveva avvertito Copernico: «Sto dalla tua parte,» affermava. «Ma ogni scoperta sarà inutile se gli uomini non faranno altrettanti passi in avanti nella loro interiorità».

Non c’è verso. Il pensiero dominante, oggi razionalista, ieri religioso, ha imposto la sua legge. Tutto tace. Ma orecchie attente sanno udire una voce significativa oltre il clamore dei motori, dei radiatori, dei razzi, delle centrali nucleari, delle foreste avvampanti.

I centomila libri attendono. Occorrono però occhi nuovi per leggerli e cre­dere, non per fede, ma per aver sperimentato che in essi si cela veramente un «tesoro» da ritrovare. Basta volerlo.

Questo viaggio è un tentativo di recuperare un’emozione che spinga alla curiosità e alla ricerca persone che desiderino davvero possedere pupille opache.