Vestire un’opera d’arte

Nino La Barbera
e la corporeità del Bello
di Valeria Arnaldi

Uscire dai confini della tela per portare l’arte nel
quotidiano, contaminando l’orizzonte in tutte le sue
superfici. Liberarsi degli spazi riservati all’opera, che di
fatto la imprigionano limitandone effetto, comunicazione e
soprattutto compartecipazione, per diventare linguaggio
concreto, materico, materiale ma al contempo concettuale,
e conquistare l’aggiuntiva dimensione del movimento –
morbido, sensuale, naturale – usando come primo
supporto il corpo a metafora dell’universo, possente nella
sua naturalezza, magico nella sua interpretazione e
costruzione. Sono protesta e proposta a incontrarsi nel
nuovo lavoro di Nino La Barbera che, stanco dell’attuale
“stasi” dell’arte, gravata da una concezione retrò – non
necessariamente classicista – comunque abusata
dell’immaginario creativo, trasporta il suo stile e le sue
figure su nuove “tele” da indossare, portando pennelli e
colori sugli abiti femminili a rendere più intimo il rapporto
tra pittore, modella o musa e opera, celebrando la
femminilità nelle sue diverse accezioni, da Eva a Venere,
senza dimenticare Minerva. La donna, seduttrice per
vocazione e tradizione, diventa così strumento di
diffusione di fantasia e fantastico, per risvegliare
attenzione e sensibilità, più ancora emozione e riflessione,
su una contemporaneità distratta che, spesso, non ha
tempo né desiderio di prendere coscienza di sé. Le forme
pittoriche, passibili di più letture tra estetica e simbolismo,
si animano sotto gli occhi dell’osservatore, irrompendo
nella sua quotidianità per costringerlo a prendere atto del
Bello come categoria filosofica. Eva medita su se stessa e
la sua vanità di individuo finito per acquisire attraverso la
riflessione di Minerva la consapevolezza dell’infinitudine
del genere, conquistando così, tra cielo e terra, l’energia di
una novella Venere capace di sovvertire l’ordine del
cosmo con e per amore della Vita nelle sue manifestazioni,
dalla danza di una foglia che lotta strenuamente contro
l’inclemenza dell’autunno fino alla vertigine dell’uomo
demiurgo che appone la sua firma sull’orizzonte,
semplicemente esistendo.

—————

ABITI DIPINTI da Nino La Barbera
(Mi onoro di esserne amico, avendone assoluta stima e considerazione umana e professionale)
Gabriele
 
Per chi volesse contattarlo:
(nino.labarbera@gmail.com) (rosainblu@gmail.com)

 

Pubblicità

Giuliano Giuggioli

Grande artista contemporaneo

GIULIANO GIUGGIOLI
di Vittorio Sgarbi

L’arte di Giuliano Giuggioli riveste interesse in quanto le sue immagini scaturiscono da una cultura interiorizzata ricollegabile all’iconografia surrealista, da cui tuttavia egli si differenzia per un atteggiamento più romantico e letterario, abbastanza prossimo alle elaborazioni visive di Max Ernst.
La sua operatività febbrile lo rende infatti alieno dagli automatismi, scegliendo piuttosto la riaffermazione visiva di una mitologia rivelatrice non solo delle profondità dell’inconscio, ma anche della persistenza della memoria della letteratura classica, così come è percepita nelle prime letture fatte da ragazzo.

Se questi dati contribuiscono alle premesse creative di un esercizio quasi concettuale della fantasia, dal punto di vista stilistico Giuggioli imprime ai suoi lavori una corposità sensuosa, neobarocca, evocativa di un’ arcaicità fuori della storia, che si attua in assunti scenografici proposti visivamente come una concreta esperienza di viaggio nel tempo e nello spazio. I suoi lavori sono quanto mai avvincenti , in quanto propongono una situazione antinaturalistica, che ricorda molto da vicino quello che teorizzava Alberto Savinio, per il quale la cosa dipinta va tenuta lontana dai pericoli della natura. Nel senso proprio di questo ammonimento antidogmatico, Giuggioli ama evidenziare una sorta di quella divina incertezza che si situa ben al di là dell’irrazionalismo, e che spinge l’impaginazione dei suoi paesaggi mentali nel territorio di una costante verifica e messa in discussione dei loro stessi valori narrativi.

Il percorso pittorico di questo artista si sviluppa negli ambiti eterogenei di una formazione culturale che attiene anche all’interpretazione onirica di una vissuto archetipico. Facendosi coscientemente coinvolgere da una realtà fantasticata, egli opera una mediazione visiva per ottenere una rappresentazione quasi sacrale, dove la sua esplorazione nel mito si riveste di una dimensione archeologica, ovvero del senso di una riscoperta oggettiva. Ma le sue ricognizioni sono comunque serene a causa del gioco mentale che le guida, e si mantengono sul filo di un’ironia sottile e di un distaccato senso dell’assurdo, come nel caso de La casa dei gemelli, o come nell’opera magicamente sospesa de La notte prima dell’inaugurazione. Giocando sui simboli dell’inconscio in Archeologia industriale, o in Preparativi per la partenza, Giuggioli mostra tutta la sua attenzione agli aspetti più scenografici della raffigurazione, che comunque riferisce dei suoi stessi viaggi interiori, riportati su un territorio famigliare. Sono quindi evocati i particolari di una città o di un interno, che sostanziano una visione metafisica, o che alludono a un evento del tutto insolito. Quando ad esempio la sua cultura lo riporta nell’antichità romana, e quindi a paesaggi come Il Restauro, avviene una ricostruzione ludica della nobile architettura, fatte con i legnetti colorati dai bambini e giocata sui contrasti cromatici. Il nucleo della ricerca espressiva di Giuliano Giuggioli sta proprio nella confutazione del reale e nella tipologia immaginifica della sua pittura, alla quale il suo colorismo conferisce una bellezza infuocata.

 

 

“Star” o “Siberia”

Alfons Mucha, "Star" o "Siberia", 1923

Alfons Mucha, “Star” o “Siberia”, 1923

Vergine delle Rocce

Amici cari,
vi propongo uno dei più celebri dipinti di Leonardo. Credo che meriti di essere guardato con la giusta “dimensione degli occhi” (a proposito di Rumi).
Aspetto le vostre considerazioni.
Buona giornata!

Leonardo da Vinci, “Vergine delle Rocce”, 1483-1486

Caspar David Friedrich, “Il sognatore”, 1820-1840

Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, “Gemelli”, 1907

Care amiche e cari amici,

continuo a con-dividere con voi questi dipinti del grande artista lituano. Vi confesso che uso queste opere anche in alcune delle mie lezioni univesitarie. Oggi entraimo nello “zodiaco” di Mikalojus Konstantinas Čiurlionis.

Buon sabato!

Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, “Tranquillità”

Amici carissimi,

voglio con-dividere con voi questo dipinto che trovo colmo di emozione e di sensazioni latenti… è di un artista lituano che amo moltissimo: Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Buona serata!

Mostre da vedere

Carissimi, avete tempo fino al 22 gennaio 2012 per vedere la mostra “Gli Orientalisti. Incanti e scoperte nella pittura dell’Ottocento italiano”, in corso a Roma presso il Chiostro del Bramante. Assolutamente da non perdere!

Gabriele

(Augusto Valli, Semiramide morente sulla tomba di Nino, 1893)

Il mondo invisibile

“Domande come: che cosa significa questo quadro? Che cosa rappresenta? Sono possibili solo se si è incapaci di vedere un quadro nella sua verità, se si pensa macchinalmente che un’immagine molto precisa non mostri ciò che essa è con tanta precisione. Ciò equivale a credere che il sottinteso(se ce n’è uno?) valga più dell’inteso. Nella mia pittura non ci sono sottintesi”.

René Magritte

(René Magritte, Il mondo invisibile, 1954)

Uomo ermetico

Sopra: Giuseppe Arcimboldi, “L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo in veste di Vertumno”, 1590-91

Cari amici,

oggi andiamo nella magica Praga di Rodolfo II con questo celebre dipinto di Giuseppe Arcimboldi, nel quale l’imperatore è rappresentato come Vertumno, la divinità di origine etrusca che personificava il mutamento delle stagioni e presiedeva alla maturazione dei frutti. Gli si attribuiva, inoltre, la capacità di trasmutarsi in ogni cosa.
Non a caso il geniale artista lombardo raffigura le fattezze del sovrano attraverso la composizione antropomorfa dei frutti delle quattro stagioni. In questo modo il Rodolfo-Vertumno rappresenta la sintesi delle energie sia vitali sia psichiche del creato, e il suo corpo diviene un hortus (la radice della parola homo è molto vicina a quella di humus). Questo intreccio tra piano reale e piano immaginale, tra spirito e materia, è fondamentale per comprendere la figura del sovrano, poichè fu uno dei più appassionati esoteristi dell’epoca. Non a caso, anche qui, la figura di Giordano Bruno fu determinante. Vi lascio, a proposito, questo mio vecchio scritto:

Nel marzo del 1588 l’italiano è a Praga dove conosce Rodolfo II. È un incontro fondamentale per entrambi, decisivo per il re, Rodolfo è un appassionato esoterista, ha conosciuto i massimi maestri contemporanei dell’ermetismo ed è felice di poter parlare con il “mago di Nola”, la cui fama è ormai diffusa in tutta Europa. Nel palazzo che prende nome dallo stesso re avviene uno dei dialoghi più suggestivi di quell’epoca. “Ritorno a Platone”, così lo definisce il Turnejser, fedelissimo al filosofo, forse accecato dall’amore. Ugualmente, al di là dell’enfasi, Rodolfo muterà di fatto la intelligenza che può divenire universale, di una memoria edificata sul modello dell’universo, di una immaginazione dilatata sino alle stelle, alle idee eterne e infinite, presenti nella “mente di Dio” (De umbris idearum e Cantus circaeus, Atanòr, cura di G.L.P,  “Introduzione” pag. 24 e 27).

Il principe è come folgorato. Da questo momento farà ricercare tutti i testi di alchimia esistenti, i compendi di ermetismo, i testi neoplatonici, costituendo una biblioteca unica nel suo genere. È una sorta di malia. Da un punto di vista prettamente culturale è un evento foriero di grandi iniziative, sia per la filologia, sia per il nascente sperimentalismo. Politicamente provocherà l’isolamento progressivo di Rodolfo; alla sua morte si scatenerà la lotta per l’investitura che finirà per precipitare l’Europa nella guerra dei trent’anni. (F.A. Yates, L’Illuminismo dei Rosacroce, cit., pag. 65 e segg., dove è esaminata la cosiddetta “questione di Praga”, con la relativa defenestrazione degli ambasciatori della Lega cattolica. I boemi, abituati allo spirito di tolleranza e alle aperture religiose e filosofiche di Rodolfo, non potevano accettare l’idea di essere governati da un fanatico cattolico. «Il problema fu per breve tempo rinviato con l’elezione all’impero e alla corona di Boemia del fratello di Rodolfo, Mattia, vecchio e inetto, che morì presto a sua volta, e dopo di lui non fu più possibile rimandarlo. Le forze della reazione si stavano raccogliendo. Solo pochi anni di tregua vi sarebbero stati prima della ripresa delle guerre di religione. Il candidato più prossimo all’impero e al trono di Boemia era l’arciduca Ferdinando di Stiria, un Asburgo fanaticamente cattolico, educato dai gesuiti e risoluto a sgominare l’eresia. Nel 1617 Ferdinando di Stiria diventò re di Boemia. Fedele alla sua educazione e alla sua natura, egli pose immediatamente fine alla politica di tolleranza religiosa di Rodolfo» (F.A. Yates, op. cit., pag. 23). Questi motivi spinsero i boemi a nominare nel 1619 Federico del Palatinato legittimo successore di Rodolfo, di cui condivideva gli interessi esoterici. Non a caso era stato in Inghilterra e aveva conosciuto gli stessi nobili fedeli all’ermetismo bruniano. L’elezione finirà nel disastro della battaglia della Montagna Bianca, e la perdita della libertà per i boemi e i moravi. Fornirà inoltre l’occasione per la guerra dei trent’anni. Molti storici fanno risalire al mancato intervento dell’Inghilterra, a fianco del Palatinato, la vera motivazione della sconfitta e della futura interminabile guerra. I nobili elisabettiani di ispirazione ermetica avevano infatti consigliato re Giacomo di entrare nello scontro.)

Fondata una biblioteca ermetica, stabiliti due corsi allo Studio, creata una rete di fedeli allievi, Bruno si muove ancora. Le motivazioni non sono quindi da ricercare in un ambiente ostile e respingente, bensì nell’esigenza del filosofo di cercare altri da sensibilizzare alla sua visione teorica e pratica dell’uomo e del suo compito sulla Terra.

Sopra: La Cattedrale di San Vito a Praga, dove riposa l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo

“Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù”

Sopra: Dosso Dossi, “Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù”, 1523-24 ca.

Amatissimi,

vi propongo oggi questo particolare dipinto del grande pittore Giovanni di Niccolò Luteri, detto comunemente Dosso Dossi (1486? – 1542 ca.), uno dei principali artisti attivi alla corte ferrarese degli Este all’epoca dell’Ariosto.

Caliamoci ora in quell’epoca e nella Ferrara nel primo Cinquecento, e comprendiamo i complessi intrecci allegorici ed esoterici che animano l’opera. Che vi sia un messaggio nascosto, “secreto”? Aspetto le vostre riflessioni.

Valeria Corvino

Arte e ragione

Carissimi, ecco Isabella. Racconta di sé e mi chiede un parere. Leggete lei e poi me.

Una richiesta di aiuto.
Dott. La Porta , le scrivo con la speranza di ricevere una sua risposta che possa alleviare quel dolore che mi divora dentro nell’anima.
ho perso l’amore di un uomo perché non sono stata capace di soffocare il mio amore per l’arte così come la sento io … Sono stata “condannata” perchè ho bisogno di dipingere , disegnare, incidere , anche se poi non sono capace di guadagnarci ..perché non mi so vendere e non so vendere i miei lavori e … se non si ha un lavoro non si è nessuno , se non si guadagna , non si ha valore. Ho fatto quadri su quadri , ma lui condanna”non hai mai fatto niente di concreto! ti adagi su cose astratte come una bambina incapace di vivere e realizzare cose concrete!Ti lascio perché è impossibile amarti, realizzare un futuro con te” … Ieri ho partecipato ad una collettiva..desideravo tanto che lui potesse essere fiero di me , lo desideravo tanto …. e invece mi ha detto “solo chi ha tempo e sta a carico di altri , può dedicarsi alla cultura , a cose astratte , belle ma inutili!ma chi sta a carico di altri , per me non ha dignità. io non ti stimo!”

Cara Isabella, sarò sincero con te. Non hai e non puoi avere nulla in comune con questa persona. Non perché lui sia cattivo, è semplicemente un uomo tutta RATIO. Attenta a non soffrire troppo. Leggi Luisa Colli, La morte e gli addii, Moretti e Vitali.

L’immaginazione ermetica VI

La natura è divinizzata. L’uomo partecipa dell’essenza di Dio. Il corpo umano riproduce il mondo. È possibile catturare le forze dell’universo con talismani e rituali. L’azione mentale dell’umanità non ha limiti perché trae la sua origine dal perfetto ordinatore del cosmo. Questa può essere una sintesi schematica, ma suggestiva, del pensiero di Ficino, che abbiamo cercato di riportare nell’articolo precedente. Sono contenuti che potrebbero entusiasmare molti giovani d’oggi, figuriamoci un ragazzo ardente e intelligentissimo come Pico della Mirandola. Alto, colto, dal portamento sicuro, capace di parlare tutte le lingue antiche, esperto di ebraismo e di cabala, poeta, filosofo, letterato, matematico, artista: Pico è tutto questo e anche di più. Uno spirito universale, vero anticipatore del Rinascimento in tutti i suoi aspetti, anche in quelli imprevedibili e avventurosi. Un giorno arriva a rapire in chiesa una ragazza, di cui è follemente innamorato, che è pronta a convolare a giuste nozze con un altro.

A un’anima così poliedrica ed entusiastica, le parole di Ficino giungono come acqua per un assetato. Il Mirandola diventa in breve il migliore allievo di Marsilio, sino a oscurare la fama del suo stesso maestro. A venticinque anni Pico è già conosciuto in tutte le università d’Italia e d’Europa. Il suo ingegno precocissimo desta ammirazione in tutti, anche negli avversari. Certamente la gioventù lo porta a essere impetuoso, ad accentuare le posizioni del fondatore dell’Accademia platonica. Il suo scopo principale è dimostrare l’unitarietà dell’intelletto, quindi della verità, al di là e al di sopra di tutte le differenze fittizie, legate allo spazio e al tempo.

In un’opera monumentale e mirabile, le 900 tesi, Pico intende valorizzare l’uomo e la sua intelligenza, mediante un raffronto con tutte le cose del mondo. Alberi, pietre, acque, animali sono e saranno sempre alberi, pietre, acque, animali. Ogni cosa è dunque quello che è perché una sua essenza interiore la determina; l’uomo invece è signore di se stesso in quanto edifica da sé la sostanza di se medesimo. Il significato che Pico rivendica all’attività umana è non già di ordine civile (come per gli altri umanisti pedanti), ma cosmico. L’uomo è il nodo vivente dell’universo perché partecipe della materia con il corpo e della spiritualità con la mente.

Dio – argomenta Pico – ha concesso all’uomo la libertà di orientarsi verso uno dei due mondi di cui fa parte. Egli non ha definito nell’umano un essere assolutamente determinato, ma, dandogli la scelta orientativa, ha costituito un essere degno di rispetto e di ammirazione, innalzandolo all’essenza di un dio che conosce il mondo divino, vincendo quello che ha in sé di materiale e conseguendo il congiungimento con il divino. Il vincolo d’amore permetterà all’essere di abbracciare ogni cosa, una volta giunto nella dimensione eterna. L’immaginazione di Pico colloca l’umano al centro del tutto, amante delle creature inferiori e amato da quelle superiori. «Coltiva la terra» dice il filosofo «gareggia con gli elementi, il suo pensiero giunge nel profondo dei mari, la sua scienza l’innalza al culmine del cielo».

La celebrazione delle possibilità umane rende esplicito in Pico, più ancora che in Ficino, l’accentuazione del discorso magico, inteso come “parte pratica delle scienze naturali”. Il Mirandola aborre però la negromanzia superstiziosa e l’astrologia che predice il futuro: il suo discorso verte sulla “scientia scientiarum naturalis”, ovvero sulla magia concepita quale disciplina capace di dare all’uomo un completo dominio sulle forze fisiche, attraverso una giusta conoscenza delle cause.

Si tratta senza dubbio di concetti estremi, e in quel tempo producono un effetto scardinante, che conduce Pico dinanzi al tribunale ecclesiastico di Roma, dove però viene assolto grazie a una mirabile orazione, poi raccolta nelle 900 tesi, la celebre De hominis dignitate, rivendicante all’umanità il diritto di “signoreggiare” sul mondo, sull’ipocrisia, sui preconcetti, sull’ignoranza. Un vero inno alla tolleranza in nome della cultura e della conoscenza.

Gli effetti dell’opera di Ficino e di Pico sono di immensa portata. Gli artisti ne rimangono influenzati così profondamente da esser condotti a creare opere totalmente ispirate al pensiero di questi filosofi. Botticelli, loro intimo amico, diviene il “rappresentatore” geniale della visione del mondo dei due filosofi. La sua Primavera è uno dei capolavori assoluti dell’umanità, perché in esso sono esplicitati tutti i contenuti di un’epoca, in cui si intrecciano perfettamente la gioia di una vita riconquistata e la sublime certezza di una ragione libera e investigatrice. Appartiene alla sfera della Divina Commedia, del Faust di Goethe, della Nona sinfonia, del Partenone. Di quelle opere che non sono attribuibili a un paese, a un’epoca, a una corrente culturale, ma all’umanità intesa nella sua globalità.

Chiunque osservi il dipinto, anche se completamente digiuno di arte, rimane colpito dall’atmosfera di soavità, di leggiadria, di gioia profonda che emana dalle figure. Il dipinto “parla” un linguaggio sottile all’osservatore, un inno silenzioso alla vita nei suoi valori più alti. Tolleranza, amore, gaudio, corporeità, spiritualismo si intrecciano in un mosaico geniale, che colpisce direttamente al cuore il turista anche più frettoloso. In effetti questo è lo scopo di Ficino e di Pico. No, non è un errore, nominare Marsilio e il signore di Mirandola, perché l’opera compiuta da questi due filosofi viene assegnata a Botticelli, perché ritenuto il più sensibile ai temi della rinascita platonica e della magia. Il pittore non viene scelto per la sua tecnica, ma essenzialmente per la capacità di apprendere totalmente la nuova visione del mondo delineata dalla Accademia platonica fiorentina. La sua genialità nel dipingere, la conoscenza dei «contenuti» da trasmettere, l’influenza dei testi ermetici, l’insegnamento ficiniano, contribuiscono alla nascita del capolavoro. Vediamo allora nei particolari il dipinto, dal punto di vista di chi osserva.

Sulla destra c’è Zefiro, poi la ninfa Chloris, e Flora. Quindi, al centro, Venere, l’unica di cui non si intraveda il corpo nudo, sul cui capo c’è Amore che scocca una freccia con gli occhi bendati. Poi le tre Grazie, Pulchritudo, Castitas e Voluptas. Infine, al fondo, Hermes. La “chiave” di interpretazione a noi particolarmente utile è racchiusa nelle tre Grazie, perché ci introduce per la prima volta a contatto con le immagini “magiche”, ovvero contenenti significati esplicitamente esoterici.

Anche al più disattento osservatore contemporaneo balzano agli occhi le caratteristiche di Voluptas, l’ultima delle tre Grazie, a sinistra del dipinto; il capo leggermente reclinato sulla sinistra sembra abbandonato, eppure accenna a un invito coinvolgente in un movimento come di danza. I capelli sciolti sul collo a piccole ciocche rafforzano il senso del darsi e nel contempo dell’accettazione della persona oggetto dello sguardo sognante e denso di inviti riscontrabili anche nella bocca, il cui labbro inferiore è sotteso all’altro nell’espressione della proposta. Un insieme rispecchiante fedelmente il nome della donna-grazia incarnata in quel viso. Voluttà nel senso pieno del significato latino, che intende il desiderio di ricevere, del dare e del sapersi abbandonare. Il dipingere questo volto con le intenzioni citate, il fatto che potesse essere creato, determina appunto una rottura con gli antichi canoni artistici, introducente l’uomo nel mondo permeato del senso pieno dell’esistere.

I concetti filosofici del dipinto sono stati più volte esaminati (anche se con notevoli divergenze) dagli studiosi. In questo ambito è utile concentrare l’attenzione sulla parte sinistra del dipinto, perché i volti delle Grazie e i loro movimenti possono essere assunti a simbolo della nuova concezione tendente a liberalizzare gli intelletti. Nella tradizione Castitas, Pulchritudo e Voluptas venivano rappresentate sempre con Voluptas in posizione subalterna o paritetica rispetto alle altre. Botticelli rivoluziona tale schematismo immettendo nel gruppo il movimento (come farà poi Raffaello). Castitas è sempre di spalle, come vuole l’usanza, ma la gamba sinistra ha appena compiuto un passo in avanti perché la destra rimane come sospesa in attesa di un nuovo movimento. Il viso è chiaramente visibile di profilo, con lo sguardo assorto, teso, calmo e fiducioso verso un’altra Grazia che le si fa incontro, Voluptas (questa chiave di interpretazione è data da Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, pag. 23 e segg).

Questo è il motivo dirompente, la Castità che si muove verso la Voluttà. La stessa spalla sinistra completamente nuda, il velo-vestito slacciato, alcune ciocche di capelli liberatesi dall’elmo, l’intrecciarsi delle dita della mano sinistra, attestano come questa sia coinvolta nell’ambito della Voluttà. Il suo movimento di coinvolgimento sembra aspettarla, invitarla e nello stesso tempo avvolgerla con lo sguardo. Il loro incedere l’una verso l’altra è osservato da Pulchritudo, dalla bellezza, che intreccia le mani con le altre due, assistendo all’incontro distante, e tuttavia partecipe. Voluttà perciò comanda il gruppo attirando a sé le altre in un movimento sincronico danzante e rituale. Castità a sua volta viene come posseduta dalla vicina in un abbraccio in movimento. L’interdipendenza delle tre, il predominio dell’elemento erotico, il possedimento di Castitas e lo sciogliersi delle sue naturali remore, ricordano una danza d’amore a sfondo dionisiaco, unico elemento di questo ambito riscontrabile nelle opere dei partecipanti al circolo platonico fiorentino. A tale proposito è utile rammentare come lo psicoanalista Rollo May ricordi quanto, nella danza rituale presso i cosiddetti popoli primitivi, l’indigeno si identifichi con la figura che egli ritiene padrona di se stesso. Insomma il ballerino, nella danza frenetica del rituale, invita gli dèi ctonii, li riceve, li accetta identificandosi con essi, accogliendoli come una parte costitutiva del proprio essere. Questo implica il principio dell’identificazione con ciò che ossessiona, non tanto per liberarsene, ma per assumerlo in quanto parte costitutiva della personalità precedentemente rifiutata (Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, pag. 131).

Rileggendo la triade delle Grazie del Botticelli con il contributo psicanalitico del May appare manifesta la tensione di Castitas ad assorbire gli elementi erotici di Voluptas, per farli propri in un intreccio creativo. In effetti l’Accademia ficiniana ha agito concretamente con i mezzi dell’arte e della filosofia per affermare la nuova concezione della vita, tramite gli scritti ermetici e platonici. (Tra gli scritti tramandati come Corpus hermeticum ebbe grande influsso soprattutto il Picatrix. Esso è una summa, con stile diseguale, raccolta in Spagna tra il 1047 e il 1051. Biqratis – Buqratis, quindi, alla latina, Picatrix – sembra esserne stato il compilatore. Del Picatrix c’è una versione latina del 1256 voluta da Alfonso d’Aragona, ma tale versione è incompleta e contiene varianti. Oggi esistono due manoscritti latini fedelissimi. Uno è nella Biblioteca nazionale di Parigi e l’altro nella Biblioteca nazionale di Firenze. Questo scritto fu quello che Ficino e Pico diedero a Botticelli come fonte di ispirazione per la Primavera.) L’influenza di tali scritti fu vasta e riscontrabile persino in Galilei, nella lettera a monsignor Pietro Dini del 2 marzo 1615, come riporta ancora Garin. Tale testo «dimostra la presenza nello scienziato di echi di ogni genere: accanto ad una metafisica di matrice neoplatonica perfino il tema cabalistico della concentrazione della luce, e del suo esplosivo irraggiamento» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pagg. 12-13). L’ascendente, a decenni di distanza, nei confronti di uno scienziato come Galilei, mostra l’influenza del gruppo filosofico fiorentino su ogni campo del sapere.

Insomma la Primavera, negli intenti di Ficino, ha il compito di propagandare il pensiero magico e platonico, come uno splendido supporto visivo, capace di parlare ai cuori molto più rapidamente di qualsiasi libro.

Ma torniamo adesso al dipinto. Dopo le Grazie, c’è Hermes, il dio della intelligenza, che con un bastone sembra scostare delle fronde, per far penetrare la luce tra i rami. La danza delle tre donne pare condurre proprio al dio. Questo significa che, una volta trovata la pienezza del corpo, l’uomo può spingere la propria mente verso la luce. Ecco, adesso il messaggio è chiaro.

Quando la natura fiorisce, mentre spira il vento di Zefiro, recante i doni della conoscenza delle cose, è giusto che l’uomo riscopra il suo stesso corpo, e una volta che si è riappropriato anche del piacere fisico, può conquistare le vette dello spirito. Perché l’unica saggezza possibile è quella che equilibra perfettamente, amorosamente, la carne con l’anima, senza privilegiare nessuno dei due a discapito dell’altro. La sapienza è di chi armonizza il finito (il corpo) con l’infinito (anima), sotto il segno dell’amore. Infatti la “signora” del dipinto è proprio l’antica dea dell’amore, Afrodite, che non a caso Esiodo definiva “la saggia”. Ricorrere alle figure delle divinità mitiche è una valenza propria anche di Guarino Veronese e della cultura di Ferrara. La lingua con cui si scriveva era il latino di Lucrezio, i contenuti erano platonici ed epicurei, la finalità era la restaurazione di una ipotetica antichissima religione fatta di convergenze, espresse mediante l’uso sistematico di nuclei mitici. (Eugenio Garin, Ritratti di umanisti. Guarino Veronese e la cultura di Ferrara, Biblioteca Sansoni, pagg. 84-85).