L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

 

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Microcosmo e Macrocosmo

Sopra: “Santa Ildegarda di Bingen e l’uomo al centro dell’universo”,
miniatura dal “Liber divinorum operum” di Ildegarda di Bingen, 1230, Lucca, Biblioteca Statale

Sappi che sei un altro mondo in miniatura e hai in te Sole e Luna e anche le stelle.

ORIGENE, “Homiliae in Leviticum”, 5,2

L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

La Grande Madre — Dove si va in Puglia, a Patù, dove si parla dei “segni” e dell’importanza di osservarli…

La Puglia ha un fascino “obliquo”, come l’Apollo illustrato da Giorgio Colli ne La nascita della filosofia. Per Colli il dio è il signore della razionalità, che però coltiva al suo interno insospettabili ambiti di violenza e di irrazionalità legati alla sfera della conoscenza. Così, questa regione piena di sole sembra tutta manifesta e logica. Invece nutre segmenti sotterranei impensabili, da cui la dimensione magica irrompe improvvisa, scardinando le coordinate dell’ovvio. Basti pensare a Castel del Monte di Federico II. Una costruzione che non serve alla guerra, alla caccia e di fatto neppure per essere abitata. Hanno scritto innumerevoli libri su questo castello, ma a mio parere, l’unico ad averne capito il senso è stato Antonio Thiery in una pubblicazione universitaria scarsamente divulgata. Questo edificio ottagonale sarebbe un simbolo del celebre “inganno” ermetico della “quadratura del cerchio” , ovvero un’idea impossibile a realizzarsi e pure a concepirsi. Invece Thiery, partendo dall’ottagono e dilatandolo all’infinito, un ottagono dentro un altro ottagono, e così via, fa coincidere in una proiezione illimitata proprio il quadrato, di cui l’ottagono è una espressione, con il cerchio.

Ma non c’è soltanto Castel del Monte; che dire infatti di Monte Sant’Angelo, dove è apparso l’arcangelo Michele che scaccia i demoni maligni? Basti riflettere che per salire su questo monte i crociati deviavano di centinaia di chilometri dai propri itinerari. Ma non voglio dilungarmi troppo, voglio soltanto aggiungere che il primo racconto gotico di tutti i tempi è Il castello di Otranto, ambientato appunto da Walpole nel Salento.
Nulla avviene “per caso”: dobbiamo abbandonare questa logica riduzionista per cui nell’universo e in noi, ovvero nel microcosmo, non possono che accadere eventi casuali. Tutto è uno e quindi tutto è necessariamente collegato. Purtroppo abbiamo perso la facoltà, tipica del Femminile, di collegare gli eventi tra di loro e di decifrare i “segni” che la tela della nostra vita ci pone davanti. Occorre riappropriarsi del potere di leggere attraverso i fatti e quindi di cogliere i fili dell’imperscrutabile tessuto che compone l’esistenza nel suo apparente “farsi”. Aguzzare i sensi e guardare i particolari apparentemente insignificanti è una delle tecniche di Don Juan, lo sciamano guida di Carlos Castaneda; questo scrittore inizia il suo personale percorso di conoscenza proprio imparando a osservare “i filamenti” di collegamento.

Non ero mai stato in Puglia per “vederla” davvero fino al 1984, quando vi feci un lungo viaggio partendo da Bari, passando dal Gargano, da Monte Sant’Angelo, da Castel del Monte, fino al Salento, dove mi è accaduto l’episodio che desidero raccontarvi. Fa parte di quei segmenti della mia vita che hanno a che vedere con la brillantanza. Per carità, nulla di eccezionale, ma egualmente significativo per iniziare a sviluppare quella particolare strategia dell’attenzione indispensabile a chi desideri realizzare in sé un sentiero che conduca all’ermetismo pratico.
Ero con due amici dei tempi del liceo, Pino e Giovanna Marango. Lei è una sensitiva inespressa che non ha mai sfruttato le proprie potenzialità. Semplicemente non vi ha dedicato sufficiente attenzione, come purtroppo capita a moltissime donne che non sanno di essere le eredi di una cultura “altra”, quella che un tempo, secondo alcuni, dominava il mondo, e che tanto ha spaventato e spaventa gli uomini da quando hanno preso il potere nella notte dei tempi. Avremo modo di parlarne ancora in seguito; la lotta è aperta e dichiarata da sempre. La violenza del patriarcato, delle sue istituzioni, delle sue religioni ha distrutto la cultura del matriarcato, delle sciamane e dei suoi maghi-guerrieri, ma la notte stellata ha protetto i ricordi e nei labirinti, nelle selve, nei boschi, nelle valli rigurgitanti alberi, fiumi, e ctonie atmosfere ha continuato a propagarsi l’estasi del Femminile con la sua immaginazione rutilante. Basta andare con i sensi aperti in una qualsiasi foresta all’alba o al tramonto per avvertire la presenza del mondo “diverso”. Non è tempo però di nostalgie: si annuncia il nuovo-antico mondo. La brutalità del patriarcato si sta rivolgendo contro se stessa e la legge dell’esclusione e dell’eliminazione del più debole ha messo in moto l’infinita spirale dell’annientamento progressivo. Si dilanieranno a vicenda. Bisogna soltanto stare attenti al mutamento proteiforme che il patriarcato può mettere in atto.

Giovanna è dunque una delle tante donne che hanno realizzato un centesimo della brillantanza che si annida nel loro cuore. Ma di tanto in tanto ecco che traspare il senso riposto. Come accadde a Patù, nell’entroterra tra Otranto e Gallipoli. Eravamo andati a cena da Mamma Rosa, uno di quei posti dove la tradizione della terra si riversa immacolata sulla tavola per restituire sapori persi con l’industrializzazione. Sarà forse anche per questo che si aprì l’ingresso dell’oscura dimensione. A Patù si trovano vestigia considerate preistoriche. Basse costruzioni che affondano nei millenni. Dopo cena le visitammo facendoci luce soltanto con fiammiferi. Cominciai qui ad avvertirmi diverso. È raro che percepisca i mutamenti che avvengono nei sotterranei del mio essere; lì mi capitò. Un senso indecifrabile che mi permette di cogliere i “segni”. Dopo il giro negli edifici protosacrali uscimmo nella notte. Davanti a essi notammo un edificio di cui non ci eravamo accorti prima. La notte senza luna ricopriva tutto con il suo manto. Era una chiesa sconsacrata. Entrai con Giovanna; Pino decise di rimanere all’esterno.
Aprimmo a fatica il pesante battente. Ci aspettava la pece dell’oscurità totale. Il tempo di abituare gli occhi e in alto, davanti a noi, brillava di nero il rosone del tempio. Nel senso che sembrava ancora più scuro del resto. Un buio assoluto che risaltava rispetto al resto. Tenebre che si evidenziano rispetto ad altre meno intense. Qui ci fu il battito d’ali. Qualcosa volteggiava intorno a noi e non si trattava di pipistrelli, di cui tra l’altro non ho paura. Come tutti quelli che sono vissuti in campagna so riconoscerne il fruscio. Quelli erano invece piccoli volatili. Decisi di accendere un fiammifero e in quel preciso istante lo vedemmo. Un uomo gigantesco con una lunga barba si affacciava bonario da una parete. Un disegno che si ergeva su un muro al nostro fianco. E la mia fiamma corrispondeva esattamente al centro di una lampada che lui protendeva davanti a sé, proprio all’altezza delle nostre teste. La mia fiamma sembrava collocarsi proprio nel cuore del suo lume. Presi la mano di Giovanna e, mentre il fiammifero si spegneva, pronunciai parole gentili.
«Siamo venuti in pace con l’anima aperta» dissi a voce alta. Come l’eco della mia voce si spense, ci fu la risposta. Uno schiocco potente proveniente da “dentro” le mura e le assi. Un rumore viscerale del luogo che si propagò potente in un riverbero sotterraneo fino ad aprire le gallerie celate del nostro petto. Sentimmo entrambi la continuità tra i nostri corpi e ciò che ci circondava.
Per pochi secondi i fremiti d’ali vibrarono armoniosamente nel nostro tempio interiore mettendolo in contatto con l’insieme esterno. Quanto tempo durò la “comunicazione”? Il necessario per farci sentire quel senso di comunione. Lo schianto interno alle cose aveva aperto il varco. Un solo istante, ma fu sufficiente. Credo che esista davvero il passaggio comunicante con la natura nella sua totalità. C’è la via di accesso, ma non sappiamo più aprire soavemente il cancello d’ingresso al giardino incantato dell’unità. Purtroppo dobbiamo aspettare circostanze eccezionali. Ecco ciò che abbiamo perso. Il contatto con le stelle e quel cielo che si riverbera identico nella nostra psiche.

Un tempo le donne e gli uomini vivevano in un’armonia interattiva? Chi può dirlo? Forse la magia non è altro che il tentativo di riaprire i circuiti di comunicazione? Forse la Melancholia di Dürer è l’impossibilità di rientrare nell’hortus conclusus della totalità? Forse l’architettura dei giardini rinascimentali, come quello voluto da Federico V nel Palatinato, non è altro che l’imitazione dell’immenso bosco cosmico? Non c’è risposta se non quella che ciascuno può dare nel sé interno.
Con Giovanna non abbiamo mai parlato di quello che ci accadde “dentro”. Non era necessario. Questa è la prima volta che ne parlo. E sarà anche l’ultima.

La Grande Madre — Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce

Heidelberg appare sul fiume Neckar nel Baden-Württemberg, il celebre Palatinato. “Appare”, sì, perché è come un’epifania, al di là del corso d’acqua con il centro storico che inizia dal ponte vecchio e termina nei boschi, nei giardini alla fine dell’abitato. Sulla destra, per chi guarda da fuori del paese, c’è il castello con il palazzo di Federico e tutt’intorno la natura che entra ancora oggi nelle case e nei palazzi come un unico tessuto vivente. Heidelberg è un corpo unico, anzi, è materia vivente. Da qui la sua malia che terrorizzò Heinrich Böll, visitato da incubi cattolici. In un suo racconto tutti rimproverano al giovane protagonista: «Vai troppo spesso a Heidelberg». Glielo dicono la fidanzata, i genitori e i professori, ovvero tutte le forze che simbolicamente “costringono” la vita di un giovane borghese in un ambito di “correttezza”, cioè di prigionia dorata. In verità le persone retrive provano una spontanea repulsione per questo luogo. Non fa per loro. È come uno di quei miti, di cui parla Hillman, circondati da un’aura energetica invisibile che allontana le anime brute. La città di Federico ed Elisabetta è stata concepita e voluta come il paradiso in Terra, come luogo ideale, un po’ come Pienza di papa Enea Silvio Piccolomini, solo molto più in grande. E un microcosmo che rappresenta l’infinita armonia dell’universo. Il castello, eretto sul luogo dove viveva Jetta, la maga più celebre di Germania, è la testa pensante. Il paese è il corpo armonioso e i giardini sono le terminazioni nervose, le vene, le arterie e i sentimenti. Questi sono meglio noti come l’Hortus Palatinus, e furono commissionati dallo stesso Federico V all’architetto e alchimista francese Salomon de Caus, che ha realizzato un miracolo di proporzioni e di dolcezza distribuito su cinque terrazze collegate da numerose scale e fontane. Una sensazione di benessere pervade chiunque li attraversi. E pensare che quello che è rimasto è nulla rispetto al progetto originale. Immaginiamoci il suo splendore all’epoca di Federico ed Elisabetta. I due sposi giunsero nella città nel 1613 e trasformarono il borgo fortificato in uno scrigno tardo rinascimentale. Via bastioni, merlature, garitte e trincee inutili. Al loro posto costruzioni che ripetevano in Terra il periodare eterno delle stelle. Così nacque il Friedrichsbau, la dimora di Federico che si affaccia nello stesso cortile dove c’è l’Ottheinrichsbau, forse il palazzo rinascimentale più completo, in senso ermetico, dell’intera germanità. Un intreccio di mitologia e concezioni filosofico-ermetiche che proietta il visitatore in una dimensione di riflessione tutta interiore. L’esterno porta all’interno. Conduce nei giardini dell’anima e in questo stato psicologico può accadere di tutto. Successe così anche a me.
Provenivo dall’Hortus, dove ciò che avevo osservato era coniugato con quanto avevo letto sul primitivo splendore del giardino, mirabilmente descritto da Frances Yates nel suo L’Illuminismo dei Rosacroce. Tra le siepi vedevo con l’immaginazione le statue che cantavano e le fontane che cambiavano colore secondo il progredire delle costellazioni zodiacali. Così mi figuravo la vita della città ideale dove arte, filosofia ed ermetismo si intrecciavano come in una sublime partitura musicale. Imbevuto di sogni avevo imboccato il sottopassaggio che si incuneava tra le torri “delle polveri” e “del farmacista” ed ero sbucato davanti ai resti del palazzo di Federico, deturpato da un incendio appiccato dagli sgherri degli eserciti cattolici dopo che ebbero conquistato la città nel 1620. Ma forse le rovine erano ancora più suggestive. Il non visto mi suscitava fantasie rutilanti e improvvisamente mi venne in mente una frase che avevo letto in un altro testo della Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare. La studiosa, parlando della morte di Enrico, il fratello di Elisabetta, aveva scritto testualmente: «Il 17 novembre 1612, appena un mese dopo l’arrivo [a Londra] dell’elettore palatino, il principe Enrico moriva a diciannove anni. L’elettore aveva circa la stessa età, la principessa Elisabetta era minore di poco. Il gruppo dei giovani, la speranza del futuro, aveva ricevuto un colpo schiacciante. Il loro più forte campione era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». Apparentemente nulla di strano in queste parole. Eppure in me provocarono una folgorazione.
Ecco perché.
«…era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». La Yates, studiosa di rigore, attentissima a ogni parola, adoperava una terminologia teatrale: “palcoscenico”… “recitato la sua parte”. Perché improvvisamente e volontariamente usava queste parole “fuori luogo”? Mi sovvenne anche una affermazione di James Hillman relativa proprio alle parole riportate nei Fuochi blu. Lo psicanalista scrive: «Abbiamo bisogno di una nuova angelogia delle parole… Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di un’anima tra una persona e l’altra. Abbiamo bisogno di ricordare che le parole non sono solo qualcosa che noi inventiamo o impariamo a scuola… le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile… perché le parole sono persone». Le parole-persone della Yates rimandavano al teatro. Questo era il messaggio nascosto della Yates, questi erano e sono gli angeli che la studiosa di filosofia ermetica ha occultamente mandato attraverso il suo libro. Mai prima di quel momento, in tutti i suoi scritti, si era servita di termini teatrali; se l’aveva fatto in questo preciso contesto, continuavo a rimuginare freneticamente, doveva avere un senso e volevo scoprirlo. Bisognava capire il perché di questo messaggio inviato nella “bottiglia” del libro. E mi vennero in mente alcune connessioni. Elisabetta e Federico, prima e dopo la morte del principe Enrico, furono in contatto con Shakespeare, uomo di teatro e inoltre i Rosacroce nei loro “manifesti”, la Fama e la Confessio, definiscono se stessi “teatranti”.
Una folgorazione dentro la folgorazione. Erano in tre a usare termini teatrali: Shakespeare, e fin qui nulla di strano, quindi i Rosacroce, e poi, in maniera alquanto sconcertante, la Yates nella descrizione di Enrico morente e del dolore di Federico ed Elisabetta.
La Yates non era certo tipo da usare le parole a caso e impunemente. Quindi voleva che qualcuno – e chissà in quanti l’hanno fatto al mondo e non dicono nulla – collegasse appunto Federico, sua moglie Elisabetta con Shakespeare è tutti loro con i Rosacroce. Il punto era capire il perché di questa arcana trama che la ricercatrice inglese aveva gettato nel suo libro. Esattamente come un ricamo invisibile tracciato “con sapienza” sulla stoffa del suo telaio Femminile.
Ho esaminato con molta attenzione la questione, e adesso propongo di seguire il filo che ho individuato nella tela della Yates per capire, o solo per tentare di capire, l’enigma gettato da lei come una sibilla “mascelle feroci”, che appunto non dice, come afferma Giorgio Colli, ma accenna appena. Occorre ripartire da quegli anni lontani, dal 1613. Dallo sfondo umbratile dove compaiono i personaggi che erano presenti alle nozze dell’elettore del Palatinato con la figlia del re di Inghilterra e che furono loro vicini nei sette anni, dal 1613 al 1620, in cui trasformarono Heidelberg nella città degli incantesimi e della speranza.
La vollero paese-crogiuolo dove ermetismo, filosofia, scienza, natura, riti e simboli indicassero ossessivamente, per tutto il tempo che ne ebbero il potere, lo stesso concetto e utopia: questo è il regno dell’accoglienza, dell’accettazione, dell’immaginario, della tolleranza. Questo è il regno del Femminile.
Ma nel frattempo sarebbe lecito domandarsi: se Federico ed Elisabetta sono stati così espliciti, ed erano tempi difficili, perché non lo è stata altrettanto la Yates?
I due giovani sposi avevano il potere. Mentre le donne, da sempre, sono costrette a nascondersi per affermare il loro mondo. Devono abbindolare e tessere in segreto. Altrimenti arrivano “i padri” supponenti che deridono e, deridendo, distruggono. La Yates si è “protetta”, ma non ha rinunciato ad “accennare”. Dobbiamo imparare a leggerne la trama.