L’immaginazione ermetica V

Dopo il 1473 Ficino si sente così sicuro delle sue ricerche e dell’appoggio di Lorenzo de’ Medici da iniziare un’ardua e pericolosa dimostrazione speculativa: l’unità tra filosofia e ragione.

Il lettore, che non si interessa specificatamente di filosofia, dovrà adesso compiere una piccola fatica per esaminare il pensiero di Ficino (e poi di Pico), ma sarà ricompensato nel constatare la forza e il coraggio delle loro concezioni.

La novità teorica è il concetto di centralità di tutti i gradi dell’essere, che racchiude in sé l’universo, dove, conseguentemente, non vi sono “parti” privilegiate da un punto di vista “qualitativo”, bensì tutto concorre a un disegno unitario. In tale sistema è vitale l’azione dell’uomo, perché con la sua azione concreta deve ricondurre il mondo della materia alla divinità. La storia dell’uomo è insomma la storia stessa dell’universo e della sua redenzione mediante la razionalità umana, che tutto investiga e conosce. L’uomo è dunque un mediatore tra mondo e Dio, una copula mundi in perenne tensione per diventare Dio, processo di adeguamento al divino che si attua allorché l’umanità esplica il dono della ragione. Quando l’uomo pensa, specula, riflette, proprio in quell’istante si avvia sulla strada che lo conduce a adeguarsi alla divinità.

Il contatto tra l’uomo e Dio si è sempre manifestato nei secoli mediante la luce intellettuale che il Perfetto ha instillato, come goccia irradiante, nei profeti, nei pensatori, nei poeti. Dio è perciò vivente nell’uomo, e nello stesso modo è presente nella natura, che nella propria essenza ha la qualità dell’essere infinito. La differenza, che Ficino evidenzia in questi concetti, è totale rispetto al pensiero degli scolastici contro cui polemizza.

L’uomo e la natura sono visti come partecipi del divino in senso qualitativo, elementi di un mosaico universale, in cui occupano un posto indispensabile.

Questo è il punto, l’umanità e il mondo sono necessari all’armonia dell’essere, quindi non eliminabili secondo il capriccio di Dio.

Tali pensieri fanno parte di due opere di Marsilio, la Religione cristiana e la Theologia platonica. In quest’ultima il filosofo si spinge anche oltre, fino ad affermare l’unità filosofico-religiosa della tradizione che, partendo dai profeti biblici ed evangelici, dai poeti dell’antichità, dai saggi mistici del Medioevo, dai cantori ispirati del tempo presente, dimostra come la verità sia una sola, e quanto le differenze tra ebrei, cristiani, islamici, platonici, aristotelici, siano fittizie. Artifici creati da uomini spregevoli per dividere e separare l’umanità. Ma c’è sempre stata una corrente di pensiero che ha riportato la verità, che ha testimoniato l’unità della sapienza. È la tradizione platonica, neoplatonica, ermetica.

Gli argomenti della Theologia platonica sono tutti riconducibili al Corpus hermeticum, cui abbiamo accennato precedentemente. Insomma Ficino, partito da Platone, è arrivato a far proprie tutte le tesi magiche del Corpus. Anche questo testo afferma che la filosofia di Platone ha unificato tutte le culture, creando un sapere unitario, che può appunto definirsi magia.

«I testi ermetici» sostiene Garin «costituiranno per Ficino un punto di riferimento costante, una testimonianza privilegiata della prisca theologia, un documento mirabile che manifesta gli arcana mysteria, ben degno di essere collocato da Lattanzio fra le Sibille e i Profeti. Orbene è proprio in questa prospettiva che egli trovava la conferma e il fondamento metafisico e teologico della astrologia e della magia.»

L’intervento che abbiamo riportato anticipa anche un’altra questione. Oltre alla magia, trova ospitalità in Ficino, e in altri umanisti, la cosiddetta astrologia esoterica. Ovvero una disciplina che non vuole predire il futuro degli individui, dei popoli, o delle nazioni, ma studiare il carattere della persona che ne faccia richiesta, le sue costanti, le prerogative specifiche, le potenzialità. E superfluo dire che l’astrologia esoterica era presente nel Corpus hermeticum, sempre più studiato dagli umanisti della Accademia platonica fiorentina. Ormai la magia occupa le menti di questi filosofi. Tanto è vero che Ficino, nel terzo libro del De vita (opera successiva alla Theologia), compie un’esaltazione totale dell’Asclepius (uno dei testi ermetici presenti nel Corpus), opera attribuita a Ermete Trismegisto. Un sapiente immaginario, ritenuto invece dagli umanisti realmente vissuto, e persino collocato in un preciso tempo storico, quello di Mosè. Invece Ermete Trismegisto (ovvero tre volte grande) è solo un simbolo, adoperato in Alessandria per designare la figura del maestro immaginario dagli studiosi di magia del II secolo dopo Cristo che si definiscono “ermetici” perché custodiscono il segreto dei riti più significativi della scientia.

Tornando al De vita coelitus comparanda (terzo volume del De vita), Ficino afferma che l’opera di Ermete Trismegisto, ovvero il Corpus, è consona al cristianesimo e a tutte le verità rivelate. Come lui, Marsilio crede che ogni momento della vita dipenda dagli astri, o meglio, dal Sole, che si irraggia attraverso di essi. Ma non è una posizione deterministica, perché il Sole non decide del destino degli uomini. Influenza esclusivamente il corpo, la materia, mentre l’anima è guidata dalla intelligenza universale delle stelle. Le costellazioni e le configurazioni planetarie sono i simboli concreti che esprimono il pensiero di Dio; attraverso di esse si manifestano le leggi della intelligenza eterna.

Tutta l’astrologia è la traduzione, in linguaggio celeste, della realtà. Occorre saper leggere ogni espressione: dai colori delle pietre sino alle configurazioni astrali. Sono tutti parte del discorso dell’universo, punti diversi dell’Uno. Ficino compie precise analogie fra il corpo umano e il cosmo: erbe e alberi come peli e capelli, pietre e metalli come denti e ossa, tutto è reso vivo dalla vita che, come lui afferma: «Sboccia anche ancora più sopra la terra nei corpi più sottili e più vicini all’anima. Per il suo intimo vigore l’acqua, l’aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l’aria e il fuoco più della terra e dell’acqua. Infine vivifica al massimo i corpi celesti quasi capo, cuore e occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle come suoi occhi, diffonde ovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili ma veggenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 83).

Tra i gradi dell’universo esiste così un perenne scambio di radiazioni e forme, ma esso è ambivalente. E possibile riverberare le forze del cielo nel cielo. Bisogna imitare le figure celesti in adatti e specifici talismani per captare e concentrare gli influssi delle intelligenze (attraverso le stelle). In tale messa a profitto di simili forze consiste appunto l’opera del mago.

Anche le parole e i canti servono allo scopo: sono utilizzabili come le figure astrali (costellazioni) immaginate dagli egizi e dai caldei (le immagini mentali, capaci di assumere in sé e quindi di convogliare sulla mente che le ha pensate gli influssi dei corpi celesti, saranno poi gli strumenti dell’opera di immaginazione di Giordano Bruno), oltre a quelle create da Albumasar e da altri esponenti della tradizione magica platonica.

Le potenze del cielo sono catturate dal simulacro che le imita, riproducendole in maniera adatta, e agiscono mediante lo spirito. Per questo, sostiene Ficino, si scolpisce un Mercurio di marmo, nell’ora di Mercurio, quando sorge Mercurio, nelle sembianze di un uomo che scaglia frecce, per agire contro la febbre. Questa è l’operazione magica del tipo naturalis; essa si inserisce nell’universo per rendere la vita sulla terra più armoniosa, correggendo qualsiasi alterazione di ritmo, prendendo a modello il cielo.

Non è comunque sufficiente riprodurre l’universo nel suo proprio archetipo e osservarlo; occorre interiorizzare questa immagine dall’uomo riprodotta, contemplare nel nostro interno questo archetipo e assimilarlo. La meditazione sarà favorita se all’interno delle stanze della casa in cui si vive saranno riprodotte in immagini le componenti dell’archè. L’arte e la magia si incontrano per permettere all’uomo-microcosmo di adeguarsi al macrocosmo, grazie alla tecnica della contemplazione delle immagini. Botticelli, Tiziano, Giorgione e altri si pongono così come fabbricatori di immagini “universali”, archetipiche, infinite perché riproducenti la speranza di simboli antichissimi, per l’armonizzazione dell’umano.

 

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L’immaginazione ermetica IV

Un nuovo culto della bellezza, della fisicità, della creatività congiunta all’eros, unitamente all’irrazionale passione verso la magia, reputata come summa di tutte le scienze, sono gli elementi che abbiamo trovato per dare una spiegazione più esauriente alla nascita di Umanesimo e di Rinascimento.

Sono principi indispensabili per comprendere le Carte della memoria, ovvero i tarocchi della immaginazione creati da Giordano Bruno.

Ma prima è meglio approfondire il pensiero di Ficino e Pico, considerati “maestri” dallo stesso Bruno.

Marsilio Ficino è persona mite, scrupolosa, sensibile, contemplativa, filologo, studioso di filosofia greca sino a giungere al fanatismo. Pare che abbia una curiosa abitudine: quella di parlare con Platone, Plotino, Porfirio, e anche Aristotele come se fossero viventi e a lui presenti. Così gli capita di andare a tavola con i suoi parenti e di lasciare posti simbolici a questi filosofi del passato. (Particolarità questa che aveva anche Giorgio Colli, che addirittura faceva parlare i figli con Platone, secondo quanto afferma Marco, il terzogenito.)

È insomma un uomo caro a tutti, sempre pronto al dialogo, alla discussione franca, alla ricerca senza prevenzioni. I suoi contemporanei dicono sia un piacere sentirlo parlare; tanto la sua cultura è universale. Si esprime correttamente in latino e in greco antico, citando a memoria centinaia di passi dei suoi autori preferiti. Un filosofo dunque che custodisce nel cuore la leggiadria e la soavità dei poeti, degli spiriti sognanti ed entusiastici.

Eppure quest’uomo poco incline alla diatriba, quando fonda l’Accademia platonica, grazie al patrocinio di Lorenzo il Magnifico, è spinto soprattutto da una forza polemica contro gli aristotelici del suo tempo (bisogna anche tenere presente l’opera della cultura ferrarese di quegli anni. Basti citare, per tutti, l’azione di Gustino Veronese che, traducendo e lavorando alla Vita di Platone, promosse violenti attacchi alla tradizione aristotelica).

Che cosa rimprovera Ficino a costoro? Quali motivi lo spingono al diverbio con i seguaci di Aristotele, che in alcuni momenti assume le caratteristiche di una vera e propria rissa intellettuale? Le origini della questione vanno ricercate oltre un secolo prima, allorché gli insegnanti universitari del XIII secolo studiano Aristotele, lo parafrasano, lo chiosano, lo adattano al pensiero cristiano. Un’opera di assimilazione che riesce tanto bene da rendere cattolicamente accettabile anche la filosofia di Averroè, un pensatore di ispirazione aristotelica, ma pur sempre di religione islamica (tale assimilazione fu resa possibile grazie al principio della diversità tra «verità di ragione e verità di fede». Entrambe vere, quindi eterne, quindi fatalmente presenti in Dio. Avendo coincidenza nell’essere supremo, non possono contrastare tra di loro). L’autorità di Aristotele doveva servire agli accademici come una sorta di scudo, dietro il quale poter esercitare liberamente l’uso della ragione.

“Se il greco, fonte di ispirazione di san Tommaso D’Aquino, adopera la mente razionale, altrettanto possiamo fare noi.» Questo, in parole semplicissime, doveva essere stato l’intento degli universitari (tali universitari saranno poi definiti da Giordano Bruno «pedanti», ovvero noiosi e reverenti verso il potere). Purtroppo, con i decenni, avvenne esattamente l’opposto: invece di trasformarsi sul modello aristotelico, strutturarono Aristotele su quello della scolastica più chiusa e intransigente, diventando non più esponenti di una nuova ricerca bensì sostenitori di quella mentalità contro cui volevano esercitare il diritto di critica. Giungendo addirittura alla condanna di ogni pensiero divergente (basti pensare al Cremonini, che pure era un aristotelico tra i più blandi, che fu uno dei firmatari della denuncia di “eresia perniciosa” contro Bernardino Telesio).

In realtà Marsilio e il suo gruppo di umanisti divengono platonici non contro Aristotele, ma per avversione all’aristotelismo scolastico, alla cultura cattedratica, avvertita come ipocrita e soffocante.

«Chi non intende la carica polemica» sostiene Garin «a volte violenta del ritorno a Platone, che diventò un po’ alla volta ritorno a Epicuro, ritorno alla Stoa, ritorno al naturalismo presocratico… e, finalmente, ritorno ad Aristotele logico e fisico contro l’aristotelismo metafisico, ossia contro una fisica fattasi teologia; chi non intende questo significato del platonismo, rischia di non capire nulla della cultura filosofica, e non solo filosofica, dal Quattrocento al Cinquecento.» (Anche gli Aristotelici erano però feroci contro i platonici. Giorgio da Trebisonda, per fare un esempio, avvertì il pericolo rappresentato dai neoplatonici, nei confronti di una presunta “ortodossia” cristiana, e arrivò a formulare una “preghiera” diretta ai martiri cristiani, affinché “disperdessero” i platonici che “risorgevano” in Italia. La preghiera è riportata per intero da Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza, pagg. 88-89). Entriamo allora nella villa di Careggi, dove Ficino traduce gran parte dell’opera non solo di Platone, ma anche e soprattutto di Plotino. Cura personalmente la versione in latino, permettendo poi a vari allievi una nuova formulazione in volgare, affinché le opere dei filosofi greci conoscano la più ampia diffusione possibile.

Nicola Abbagnano ebbe a dirmi un giorno che solo del Simposio, a Firenze, circolavano oltre cinquemila copie. Rapportata all’epoca è una cifra a dir poco sbalorditiva.

 

L’immaginazione ermetica III

In un contesto in cui tutti gli umanisti sono dediti a febbrili ricerche di antichi testi, è ovvio che si aggiungano nuove scoperte. Si reperisce il Corpus hermeticum, ovvero una serie di scritti a carattere magico del II-IV secolo dopo Cristo, ma ritenuti erroneamente molto più antichi dagli umanisti. Soprattutto il Picatrix e il Poimander sempre contenuti nel Corpus, parlano di profonde corrispondenze tra cose, esseri viventi e spiriti, che sono poi traducibili in formule magiche, in incantesimi, talismani, amuleti. Con la parola magicamente ritualizzata è possibile giungere alle divinità stellari, agli spiriti ultimi delle cose, alle idee presenti nella mente di Dio: quia verbum in se habet nigromantiae virtutem (il discorso è la specie più virtuosa della magia) (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 66 e segg.).

Pomponazzi, per esempio, che non può essere citato come un umanista che portò alle estreme conseguenze l’armonica concezione platonica, non nega la magia naturale, anzi accetta gli effetti di qualità e potenze umane ignorate. Per similitudine, seguendo la teoria, delle consonanze, il filosofo si chiede perché se certe erbe, o certi odori, producono effetti terapeutici, non sia possibile per certi uomini agire analogamente.

Perché altresì non accettare che l’immaginazione non si ripercuota sul corpo producendovi modificazioni anche perpetue, come le stimmate? Pomponazzi trova la dimostrazione di questa ipotesi nella notte di tregenda in cui i cittadini dell’Aquila riuscirono con intense preghiere ad allontanare il temporale. Fenomeno spiegabile attraverso un processo fisico analogo a quello che si ottiene suonando le campane a stormo, movimenti e modificazioni dell’aria che spostano le nubi per vibrazioni continue. Garin riporta un commento del filosofo quanto mai appropriato: «La si chiami magia poiché solamente i più sapienti fra gli uomini la capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago in persiano significa sapiente. E per il popolo che si sono introdotti angeli e demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono come bestie… Il linguaggio delle religioni, come dice Averroè nella sua poetica, è simile a quello dei poeti… Tali favole servono a condurci alla verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e ritrarre dal male, come si fa per i bambini con la speranza del premio e la paura della pena (op. cit., pagg. 115-116).

Garin aggiunge una sua personale conclusione, secondo cui quando un sentimento religioso decade, anche gli effetti delle preghiere si attenuano e i miracoli non avvengono più, a comprova degli effetti fisici delle preghiere e dei loro propri corollari (ibidem). Insistendo nella sua tesi Garin afferma che Pomponazzi: «tradusse in forma quasi brutale la teoria della fisicità, empiricamente comprovabile, del culto religioso» (ibidem).

Dunque il buon Pomponazzi, filosofo e umanista tra i più tiepidi nei confronti della magia, si lascia andare ad affermazioni quasi paradossali, spiegando tutto il fenomeno religioso in termini di magia pratica, fisica. Arriva addirittura a fornire una spiegazione “razionale” dei miracoli, che sarebbero legati al mutamento delle religioni, in quanto simili cambiamenti rendono difficile il «trapasso da ciò che è consueto a quel che è sommamente inconsueto, [per far ciò] è necessario che la successione della nuova religione sia accompagnata da miracoli straordinari e stupefacenti. Per questo i corpi celesti all’avvento di una nuova religione devono far venire uomini che facciano i miracoli. Così uomini del genere possono far venire e far scomparire piogge, grandine e terremoti, comandare ai venti e al mare, guarire ogni sorta di malattie, svelare i segreti, predire il futuro e ricordare il passato, andare oltre il comune senso della gente. Altrimenti non potrebbero introdurre nuove religioni e nuovi costumi tanto diversi» (Ibidem).

Abbiamo citato Pomponazzi, che ribadiamo era pure un tiepido nei confronti della magia, per mostrare come ormai tale scientia avesse influenzato nel profondo moltissimi intellettuali dell’Umanesimo.

 

L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).

 

L’immaginazione ermetica I

Carissimi amici, affronteremo in una serie di articoli successivi il tema dell’immaginario, così come fu inteso durante l’Umanesimo e il Rinascimento, e in particolar modo da quel vulcano di idee, di iniziative, di colpi di scena quasi teatrali, che fu Giordano Bruno.

 

Il lettore dovrà però compiere uno sforzo di fantasia, almeno inizialmente, per immedesimarsi nel panorama italiano ed europeo della prima metà del secolo quindicesimo. Questa fatica è indispensabile per meglio comprendere quanto accadde quasi improvvisamente in Occidente: una frattura con i secoli precedenti netta e decisa, non tanto da un punto di vista culturale, quanto psicologico, sia a livello individuale sia collettivo.

Con gli occhi dell’immaginazione osserviamo una città dell’epoca, già ricca e fiorente, come era Lucca, per esempio. Diamo anche una precisa collocazione temporale: l’anno 1396. Malgrado le lotte tra il popolo e i nobili siano terminate, troviamo ancora nelle strade lunghe catene, che servono di sbarramento tra quartiere e quartiere, per impedire l’accesso di uomini a cavallo (Lauro Martines, Potere e fantasia: le città stato nel Rinascimento, Laterza, 1981, pag. 89 e segg.); agli angoli delle case esistono torrette con feritoie, mentre ogni centoventi passi ci sono piccoli anfratti per i “penitenti”, ovvero per coloro che, colti da improvvisi sensi di colpa, volessero gettarsi in ginocchio e chiedere perdono a Dio dei propri misfatti. Le corporazioni delle arti e dei mestieri sono chiuse in se stesse, tese a non ingrandirsi troppo, a non concedere privilegi a estranei, a erodere il potere alle congreghe rivali. Vi sono fiammate di fanatismo religioso; proprio in questo anno una donna è accusata di stregoneria perché allevava sette gatti neri (Mauro Donnabella, “Fobia felina e potere negromantico nel XIV sec.”, Rivista di studi filosofici, pag. 45 e segg.).

Quando si discute di filosofia, tra gli intellettuali, i docenti, i clericali, si sta bene attenti ad affermare contenuti sempre approvabili dagli studiosi di san Tommaso, punto di riferimento finale per qualsiasi argomento. L’odio per le città vicine, poi, è all’ordine del giorno, e si preferirebbe mille volte agevolare una provincia lontana anziché una prossima. Ovviamente non tutti gli uomini si assoggettano a un clima simile, perché molti intellettuali sono più aperti, lungimiranti, indulgenti, liberali, tesi alla conoscenza e alla ricerca. Ma sono pochi, una élite di persone colte e disposte al dialogo. Poi ecco che in pochi anni il panorama muta completamente, si abbattono le divisioni, le barriere, le intolleranze. È come se un vento diverso spirasse ovunque, cambiando le menti e gli atteggiamenti. Certamente gli economisti rigorosi, i filologi, gli accademici puri ci potrebbero insegnare come questa trasformazione sia stata graduale, conquistata anno dopo anno, grazie soprattutto alle mutate condizioni economiche, ai commerci sempre più estesi, che mettevano le genti a contatto l’una con l’altra, facendo cadere prevenzioni e fobie. Hanno ragione, ma quando si paragonano gli scritti, gli studi, le leggi, gli insegnamenti della fine del 1300 con quelli del 1450, si trova una così radicale differenza, le cui ragioni non sembrano esaurirsi nella spiegazione economica, sociale, ambientale, politica.

Vogliamo dire che è successo qualcosa “in più” rispetto alle giustificazioni portate dai docenti universitari.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere e di essere amico, come discepolo e ammiratore, del filosofo Giorgio Colli.

Un giorno, mentre passeggiavo con lui davanti alla sua casa vicino a Firenze, il discorso verteva sull’esplosione dell’Umanesimo in Italia e sulle conseguenze di questa “deflagrazione”, così come la chiamava lo stesso Colli. Ebbene il filosofo, con quella capacità che gli era propria di sintetizzare grandi temi, mi disse testualmente: «Il ritrovamento e la traduzione dei filosofi greci e soprattutto di Platone operarono un miracolo intellettuale, modificando le anime di tutti» (conversazione registrata e trasmessa dal DSE della RAI, sul secondo programma radiofonico, nell’ottobre 1978).

In effetti è tutto qui, la spiegazione “in più” è solo questa: si diffonde un pensiero greco civilissimo, portato alla ragione, alla comprensione dell’anima umana con tutti i suoi problemi, capace di investigare ogni cosa senza preclusioni, universale. Certamente altre epoche storiche hanno visto la diffusione di testi rivoluzionari, in senso culturale, rispetto al momento, senza che questi però incidessero radicalmente sulle menti e sui costumi. Perché dunque il pensiero ritrovato di Platone crea i presupposti dell’Umanesimo e del Rinascimento? Forse una spiegazione esclusivamente razionale non è possibile, anche perché nel quadro che abbiamo sommariamente tratteggiato occorre inserire un altro elemento, dai contorni sfumati, impalpabili, ambigui, imponderabili.

Ecco, occorre un altro sforzo di fantasia. Immaginarsi studiosi e filosofi eccezionali, come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicola Cusano, Poliziano, e statisti illuminati come Lorenzo il Magnifico, architetti sublimi come Leon Battista Alberti, scienziati come Galileo Galilei, meditare sulla portata storica dei loro scritti, delle loro ricerche e delle loro opere e poi riflettere su un dato incontestabile: tutti costoro credevano nella magia. Non che fossero superstiziosi, anzi. Ma la consideravano una scienza, una disciplina, una forma di conoscenza. A noi uomini contemporanei la parola “magia” fa sorridere, anche perché ci evoca le facce comprese, seriose, risibili dei vari taumaturghi nostrani, così come ci appaiono dagli spazi pubblicitari che costoro comprano su riviste, quotidiani e organi di stampa vari. E una galleria sconcertante di superstizione e imbecillità prezzolata. Il mago di Pozzuoli, di Napoli, di Roma, di Vercelli, e così via, promettono guarigioni miracolose, filtri d’amore, amuleti provvidenziali, cure anti malocchio, armi contro le fatture, la iella, le malattie in genere, dalla scarlattina al giradito. Mentre si apprendono le loro “specialità” si rimane soprattutto colpiti dai volti di questi “maghi” contemporanei, serissimi e compresi nella propria buffonesca parte, peraltro molto redditizia.

Possibile dunque che i filosofi, gli artisti, che tante volte abbiamo studiato e apprezzato, credessero a simili fandonie?

Per cogliere questo apparente paradosso, che poi serve anche per illuminare il quadro complessivo dell’epoca in tutto il suo splendore, occorre fare un’opera di pulizia mentale. Ovvero cancellare tutto quello che sappiamo oggi della magia e dei suoi odierni rappresentanti. Insomma la magia è tutt’altra cosa rispetto a quella che comunemente si crede essere: è una forma di filosofia e di conoscenza, collegata alla diffusione del platonismo a Firenze e in Italia durante il quindicesimo secolo.

«Ogni uomo tende, che lo sappia o meno, a diventare uno sciamano o a venerare chi lo sia diventato» (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. X). Così Zolla ha sintetizzato un sentimento primitivo, che accomuna l’umanità in una sorta di fascinazione nei confronti del misterico. Nel nostro paese tale emozione è stata espressa soprattutto durante I’Umanesimo e, come abbiamo già affermato, è impossibile capirne le cause se non si collega il “fenomeno magia” al pensiero di Platone e alla diffusione straordinaria di uno dei suoi dialoghi, il celebre Simposio.

 

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

 

Newton

Carissimi,
vi chiedo, oggi, di riflettere insieme su questa famosa illustrazione del visionario William Blake, che, come sempre, nasconde profondi messaggi e simbolismi.

Buona giornata!

 

…a Bari insieme a “IL MISTERO DI DANTE”

“O voi ch’avete l’intelletti sani.
Mirate la dottrina che s’asconde.
Sotto il velame delli versi strani!”
(Inferno IX, 61-63)

L’ALTROFILM

Presenta

In collaborazione con EDIZIONI GIUSEPPE LATERZA

GIOVEDì 6 MARZO ore 20:30
presso
CINEMA ARMENISE
(Via Pasubio 178 -Bari-)

INCONTRO e DIBATTITO CON IL REGISTA LOUIS NERO
e GABRIELE LA PORTA

A seguire proiezione del film

IL MISTERO DI DANTE

“Un segreto si cela dietro al più grande poeta italiano”

con

F Murray Abraham Taylor Hackford
Franco Zeffirelli

Il “Mistero di Dante”, l’ultimo film di Louis Nero, per rivelare i segreti che si celano dietro ad una tra le più importanti figure della nostra storia.
A partire dal 6 marzo 2014, il film sarà in programmazione per una settimana.

Per maggiori informazioni – Cinema Armenise: 080.5428281 – dalle 17:00 alle 23:30

A raccontare il “Sommo Poeta”: i Premi Oscar F Murray Abraham e Taylor Hackford, il Maestro Franco Zeffirelli e ancora Valerio Massimo Manfredi, Gabriele La Porta, Roberto Giacobbo, S.E. Mons. Agostino Marchetto, Rabbino Capo Riccardo Di Segni, Shaykh’ Abd Al Wahid Pallavicini, Silvano Agosti, Christopher Vogler, Massimo Introvigne, Gran Maestro Luigi Pruneti, Sommo Sacerdote Emilio Attinà, Giancarlo Guerreri, Marcello Vicchio, Carlo Saccone, Aurora Di Stefano, Mamadou Dioume, Imam Yahia Pallavicini e gli attori Diana Dell’Erba, Diego Casale, Elena Presti.
“Un viaggio dalla circonferenza verso il centro. Dall’esteriore all’interiore. Un misterioso linguaggio, antico come il mondo. Viaggiatori trasformati in pionieri esploratori di nuovi mondi. Una reminiscenza del meraviglioso mondo dantesco: da un’analisi esteriore alla scoperta della verità celata “sotto ‘l velame de li versi strani“. Un’indagine poliziesca negli innumerevoli cunicoli d’interpretazione dell’opera del più grande genio italiano del 1300: Dante Alighieri. Un viaggio, alla fine del quale, forse, lo spettatore avrà a disposizione gli strumenti per farsi una propria opinione su cosa stia dietro a questo misterioso autore. Guide virgiliane di questo pellegrinaggio saranno eminenti studiosi che cercheranno di accendere qualche luce nell’intricato groviglio di interpretazioni simboliche che si sono succedute nel tempo. L’obbiettivo di tutti, anche se in apparenza divergente, sarà quello di suggerire nuovi percorsi che porteranno a nuove strade più illuminate. Un dubbio nasce spontaneo: esiste ancora, anche sotto diverso nome, quel gruppo iniziatico del 1300 che andava sotto il nome de “I Fedeli D’Amore”? Siamo stati contattati da alcuni di loro. Ecco il racconto di questa ricerca”.

Louis Nero

TRAILER

“IL MISTERO DI DANTE” a Trastevere

Carissimi,
a partire da Venerdi 21 Febbraio per una settimana esce a Roma “Il Mistero di Dante” al cinema FilmStudio a Trastevere.
Una nuova opportunità per il pubblico romano di poter godere del fascino che emana della pellicola del regista Luois Nero.
Non perdete questa occasione!

www.altrofilm.it

L’ARTE DI ESSERE

Amici carissimi,
martedì 11 febbraio, alle ore 19:00, prenderò parte alla presentazione della rivista “L’ARTE DI ESSERE” e della sua collana editoriale; l’evento avverrà presso la libreria Harmonia Mundi a Roma. Vi aspetto con gioia!

L'Arte di Essere

La Grande Madre — Giordano Bruno, il mago irascibile, il filosofo dell’immaginazione

Un post del 2009 
Un tornare indietro, nel progredire ancora….

«Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi»

Giordano Bruno (1548-1600)

Non sono stato io a incontrare Giordano Bruno, ma fu lui a venirmi incontro. È successo per caso, quando ero ancora un ragazzo. Mi chiesero: «Che filosofo preferisce?» e io per darmi un contegno e per non citare sempre gli stessi, i notissimi, feci il suo nome. Non avevo letto neppure un rigo e nel programma liceale ancora non l’avevamo toccato. Al buio.

Da allora mi è rimasto dentro. È impossibile toccarlo senza che lui ti avvolga, definitivamente. Un po’ come i miti secondo Hillman, «Non toccarli se non vuoi che ti ritocchino». Grande verità. Basta farne l’esperienza per comprendere come tutto questo sia reale. Lo dissi anche un giorno, credo fosse il 1991, a Michele Ciliberto, notissimo studioso bruniano e autore di un fondamentale testo sulla sua filosofia. Dunque ero con il professore per preparare un’arringa di difesa del filosofo e letterato nolano. Qualche giorno prima uno studioso inglese aveva accusato Bruno di essere stato una spia della regina Elisabetta. Allora la città di Nola organizzò un dibattito pubblico ma me e quel “pensatore” anglosassone. Ciliberto faceva parte della giuria. Ebbi la meglio sul povero pseudo storico: lo misi subito all’angolo in quanto tutte le sue prove consistevano in alcune lettere che Bruno avrebbe segretamente mandato a Elisabetta I relative a movimenti e trame dei cattolici. Ebbene, non aveva compiuto la perizia calligrafica. Le lettere insomma non erano neppure di Bruno. Una cantonata imbarazzante. La stampa diede qualche attimo di celebrità al “ricercatore”, ma credo che ormai nessuno si ricordi di lui. È la classica fine di chi cerca notorietà infangando il nome dei grandi. Tornando a Ciliberto, fu in quell’occasione che mi chiese, in una splendida mattinata di sole davanti a un ristorante sopra la città di Nola, come mai amassi tanto Bruno. Gli risposi che l’avevo toccato per caso e che non mi aveva più abbandonato. «È successo così anche a me» mi rispose.

Giordano Bruno è il più grande mago rinascimentale. Anche Giorgio Galli ha affermato che i filosofi ermetici del 1500 sono stati gli unici alleati del pensiero Femminile; Bruno quindi, a sua volta, sarebbe un sostenitore di questa cultura alternativa, che si esprime soprattutto mediante la magia.
Siamo di fronte a un pensiero vastissimo la cui somma importanza è però essenzialmente ascrivibile all’ambito ermetico-esoterico, come ha evidenziato, appunto, Frances Yates, mentre in Italia questa componente è stata quasi del tutto trascurata.
La vita di Giordano Bruno é essa stessa “esemplare” in relazione al nostro discorso. È un racconto vero che serve a portare alla luce lo scrigno occultato del Femminile arcano. Per questo è utile ripercorrerla. È un viaggio straordinario da compiere tutti insieme. Una profonda malinconia e una grande gioia di vivere. Giordano Bruno vive tra questi due opposti stati d’animo. Cerca continuamente il dialogo, ma trova solo i volti arcigni del bigottismo. Calvinisti, protestanti, riformati, anglicani e cattolici sono tutti della stessa pasta fondamentalista, alla fine del Cinquecento.
Il Rinascimento purtroppo appare lontano. Ha messo le gemme con Pico della Mirandola, con Marsilio Ficino e il grande Lorenzo. Poi è germogliato sotto la forte influenza del Simposio di Platone e del suo inno all’amore e alla vita. Ed è infine ripiegato, dopo un breve periodo di assestamento, grazie agli odi di religione. E il manto nero che ricopre la mente dei bigotti a intristire Bruno, lui che è un mago e tale ha voluto essere per tutta la vita. Con ciò che ne consegue. Quindi la chiesa l’ha aborrito in quanto eretico e una componente del pensiero marxista l”ha sottovalutato perché da sempre diffida di chiunque si occupi di filosofia ermetica e di occultismo, giudicate tendenze di destra. Personalmente mi rifiuto di avallare questa visione, che ha portato una certa sinistra a bandire personaggi come Giordano Bruno e scrittori come Tolkien.

Bruno comunque è un mago. È utile ripeterlo perché tutta la sua vita è immersa in un’aura di mistero e di fascino. E in buona parte deve essere ancora interpretata. I continui viaggi, le lezioni, i dialoghi con i grandi del tempo sono forse più significativi degli scritti, almeno di quelli in chiave “essoterica”. Cerchiamo perciò di andare al di là della coltre gettata dagli ignoranti – veri o finti – e vediamo nella tela di questo scampolo di Rinascimento la storia di un uomo vivo, allegro, coltissimo, amante del vino, dell’amicizia, della creatività e, come ovvio coronamento, di Eros, il padre di tutti gli dèi. Senza dimenticare che ci troviamo di fronte a una persona coraggiosa fino all’inverosimile e capace di ogni sacrificio pur di mantenersi coerente.

Nel 1572 Bruno ha ventiquattro anni ed è ordinato sacerdote. Proviene da una famiglia della piccola nobiltà di Nola. Sua madre, Fraulissa Fravolino, è dotata di un ingegno vispo, curioso e duttile. A quindici anni ha preso l’abito domenicano e a diciannove ha già iniziato a criticare la curia vaticana. Dal 1572 al 1575 Bruno, il cui nome di battesimo è Filippo mentre Giordano è quello assunto da frate, passa i migliori anni della sua burrascosa vita. Studia la teologia e l’arte della memoria, di cui, da sempre, i domenicani, quelli del suo ordine, sono i principali esperti in Europa. Si tratta di un’antichissima disciplina che aiuta ad associare immagini e concetti. Della sua efficacia testimoniano Pico della Mirandola e lo stesso Bruno che da questi studi ricava il massimo profitto. Sembra accertato che ricordasse tutto in modo indelebile. Gli bastava consultare un libro per non dimenticarlo mai più. Quindi la sua cultura, con gli anni, diventò sterminata. Pensate ai vantaggi, anche per una persona qualunque, di poter rammentare dalla A alla Z tutto quanto si è letto durante la vita.

La felicità di Bruno ha corso breve. Nel 1576 viene raggiunto dalla prima accusa di eresia. Non è una voce o un rimprovero, ma una vera ingiunzione. A quell’epoca significava subire un interrogatorio iniziale della durata di uno o due giorni e poi, in caso di resistenza alle accuse, essere trasportato nella sala delle “domande” dove giungeva un signore vestito di nero accompagnato da un aiutante. Contemporaneamente facevano il loro ingresso frusta, tenaglie opportunamente infuocate, cavadenti, magli e altri strumenti per spaccare le ossa.
Bruno conosce la “procedura” e fugge immediatamente.
Iniziano così i suoi pellegrinaggi.

È solo, è giovane, ha indosso soltanto il saio che deve necessariamente abbandonare. E ormai spretato, condizione assai pericolosa perché chiunque può denunciarlo per ricevere una congrua ricompensa.
La sua prima tappa è Roma, dove una diceria lo vuole partecipe dell’assassinio di un prete. Un perfetto esempio di falso perpetuato nel tempo. Nessuno sa chi fosse quel prete, di cui non è stato tramandato il nome in alcun atto o documento. Non sono noti neppure la data dell’omicidio e il luogo dove sarebbe avvenuto. Non si conoscono nomi di testimoni, di accusatori e neanche dei giudici. Ciò nonostante su molti libri si continua a leggere di questa ignominia. Una vera diceria da untore sopravvissuta nei secoli.
Comunque sia, a maggior ragione, Bruno deve proseguire nella sua fuga. Ecco Genova, Nola, Savona, Torino, Ginevra, Parigi, Londra, Württemberg. Poi ancora Praga, Helmstad, Francoforte e infine Venezia, nel 1590.
Sono quattordici anni di peregrinazioni incessanti. Sempre povero e solo. Sempre spretato ed eretico, sempre studioso e insegnante di filosofia nelle università delle città dove si sofferma, che poi sono le migliori del mondo. Sempre accolto a corte. A Parigi, a Londra, a Praga.
Un sapiente itinerante che cerca ospitalità e rifugio. Scrive, pubblica finché l’Inquisizione lo ghermisce a Venezia per il tradimento dell’infido Mocenigo.
Questo è, in sintesi, tutto ciò che si sa di lui.
Eppure, qualcosa sfugge.

Rivediamo un momento questa cronaca “ufficiale” della sua vita. Bruno, dunque, è un perseguitato, eretico e squattrinato, che vaga per l’Europa. Fin qui nulla di strano, ce ne sono stati tanti altri e molti ancora ne verranno dopo di lui. Ma appunto costoro “vagano”, non hanno un itinerario né una meta. Cercano asilo e quando lo trovano non guardano tanto per il sottile. Trangugiano angherie in cambio di un tetto e di una mensa. Ben contenti di non essere riconosciuti – sono eretici, non dimentichiamolo – e del tutto lieti di non finire in una segreta o in mano al torturatore. Bruno invece ovunque vada viene accolto con tutti gli onori e gli si affidano le cattedre più prestigiose. A uno spretato si assegnano quindi le materie di maggior prestigio culturale e politico.
E un assurdo che contravviene a qualsiasi logica.
Non solo, a Parigi e a Londra frequenta assiduamente la ristrettissima cerchia dei reali.
Bruno riesce sempre, ovunque si trovi, a pubblicare le sue opere di filosofia e di magia. E questo, nonostante che la filosofia ermetica sia perseguitata da tutte le religioni e confessioni.
Dovremmo forse iniziare a chiederci da chi sia continuamente “accolto”.
Nel 1576, all’inizio delle peregrinazioni, è un perfetto sconosciuto. Perché dunque le autorità dei vari paesi, in cui si sofferma, avrebbero dovuto dargli incarichi importantissimi?
È evidente che si muove come su un circuito preordinato. Si reca dove sa di poter andare. Il mago, definiamolo così perché è l’unico modo davvero corretto per identificarlo, percorre rotte sicure. Deve esistere una confraternita, un gruppo, un’associazione, chiamiamola come vogliamo, che gli tesse una tela su cui possa muoversi senza timori. Che riconosce in lui il rappresentante di un sapere alternativo e giusto, gli apre perciò tutte le porte.
La coerenza del nolano, la forza con cui afferma le proprie idee, che poi sono quelle magico-ermetiche, unitamente a un’assoluta incapacità di ipocrisia, gli rendono ostili i bigotti e le autorità religiose. Ma questo avviene “dopo” l’accoglienza.
È un’ipotesi che potrebbe costringerci a rivedere tutta la storia culturale di questo periodo. Dobbiamo necessariamente ipotizzare che sia esistita una segreta associazione di menti aperte e antifondamentaliste, che gli consentiva i movimenti e che lo proteggeva in ogni situazione.
Prima abbiamo detto che Bruno, al momento della sua fuga iniziale, non era un personaggio noto, almeno non a tutti. Ma sicuramente doveva essere conosciuto ai membri di questo “gruppo” di cui finora la storia ufficiale non si è mai occupata. Perché costoro sapessero chi era, Giordano Bruno doveva essere in contatto con loro da molto tempo prima dei cosiddetti “vagabondaggi”. Era stato affiliato dalle persone che professavano la luce del bene e della conoscenza?
È certo che dovunque Bruno giunga lascia come un “segno”. Tanto è vero che in ogni città da lui toccata sorgono congreghe che possiamo paragonare a logge massoniche. Forse quella misteriosa associazione confidava nelle sue capacità di entusiasmare gli animi e organizzare la gente intorno a sé. Qualcosa di simile è accaduto, molto tempo dopo, anche a Casanova, e a Cagliostro.
Comunque i suoi spostamenti e l’ospitalità “innaturale” che riceve richiamano alla memoria i nove Cavalieri Templari e la quanto meno generosa accoglienza riservata loro da re Baldovino di Gerusalemme.
Dobbiamo ipotizzare, finalmente, l’esistenza di una sorta di cerchia di eletti da sempre “nascosta”, che tenta di scongiurare le persecuzioni dei fanatici religiosi, che propugna la libertà di espressione e di ricerca? Forse un gruppo, che oggi definiremmo “di scienziati”, all’esplorazione di campi del sapere a quell’epoca vietati e del tutto ignoti alle masse. Una congrega “coperta”, perché in quei secoli di oltranzismo non è davvero possibile dichiarare simili intenti alla luce del sole.
Affronta inoltre campi che le moltitudini devono ignorare, e questo è forse il più fitto di tutti i misteri. Perché al sapere-potere non possono accedere quelle persone che non si sono purificata l’anima, per usare un’immagine del Dolce stilnovo.
È una questione fondamentale, uno dei massimi arcani della nostra storia. Per questo è utile continuare il racconto di Giordano Bruno e cercare di vederne la “trama”.

Città ideale

…una città ideale senza esseri umani, viventi… o quasi…

Anonimo, “Città ideale”, 1480-1490

Ancora su “Il libro rosso”

Cari viaggiatori sulle ali di Psiche,
vi chiedo, ancora, di riflettere su questa immagine dell’immenso Carl Gustav Jung, tratta dal suo “Libro rosso” , pubblicato dalla Bollati Boringhieri!
Chi è il protagonista?

Vi chiedo scusa ma, purtroppo, ho dovuto eliminare l’immagine… (diritti riservati)

 

“La Grande Madre” su ECORADIO

Carissime amiche e carissimi amici,

oggi andrà in onda la mia rubrica letteraria La Grande Madre su ECORADIO, ogni sabato alle ore 15:30 e in replica la domenica sempre alle ore 15:30. Un momento della giornata, questo vuole essere il programma, in cui fermasi a riflettere, insieme, attraverso i libri che più ci “aprono” alla nostra interiorità, e quindi al pensiero ecologico vissuto in profondità, ri-avvicinandoci all’intimità della natura, alla Grande Madre. Presenteremo saggi, romanzi, raccolte poetiche, testi di filosofia, ecc., con l’intervento anche di autori ed editori. Le frequenze sono per Roma 88.3 FM e per Napoli 92.1 FM. È possibile, inoltre, seguire la trasmissione su internet sul sito www.ecoradio.it cliccando, in alto, su “ascolta”. Vi aspetto. Un abbraccio!

“L’artista”

“L’artista”

Sono artista e pittore, faccio idoli ogni istante,
poi li spezzo tutti ai Tuoi piedi!

Suscito cento visioni e vi infondo lo spirito
ma quando vedo la Tua visione, le scaglio nel fuoco!

Il coppiere degli ebbri sei Tu, sei Tu il nemico della sobrietà?
Sei Tu Chi distrugge ogni casa che erigo?

L’anima in Te si dissolve, si mescola con Te:
io carezzo la vita soltanto perché profuma di Te!

Ogni goccia di sangue che sgorga da me, dice alla Tua polvere:
ho il colore del tuo amore, sono il fedele della Tua passione.

Nella casa d’acqua e d’argilla il cuore è distrutto senza di Te:
entra nella casa, Amato, o io la lascerò.

Rûmî in “La poesia del mondo. Lirica d’Occidente e d’Oriente“, a cura di Conte, G. , Parma, Ugo Guanda Editore, 2003.

Newton

Vi chiedo, oggi, di riflettere insieme su questa famosa illustrazione del visionario William Blake, che, come sempre, nasconde profondi messaggi e simbolismi.

Buona giornata!

William Blake, “Newton”, 1795. Tate Gallery, Londra

Sotto&Sopra

Vi propongo un percorso alternativo in Chagall, o meglio, “sottosopra”.
Dove vi riconoscete?
Lasciate volare Psiche!

…tra il nulla e il tutto

Ma alla fine,cos’è un uomo nella natura? Un
nulla davanti all’infinito, un tutto davanti al nulla,
qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto…

Blaise Pascal (1623-1662)

…il nostro compito è

…il nostro compito è quello di compenetrarci,
così  profondamente,  dolorosamente  e
appassionatamente con questa terra provvisoria e
precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente
in noi.

Rainer Maria Rilke (1875-1926)

Natura e umanità

Sopra: Michael Maier, “Nutrix ejus terra est.”, incisione dall'”Atalanta Fugiens“, 1618

Il dominio dell’uomo consiste solo nella
conoscenza: l’uomo tanto puo’ quanto sa; nessuna
forza puo’ spezzare la catena delle cause naturali;
la natura infatti non si vince se non ubbidendole.

FRANCESCO BACONE (1561-1626)

La rivolta contro il nonsenso

Le trasformazioni di Pictor

Sopra: Hieronymus Bosch, “Il Giardino delle delizie”, 1480-1490 circa (part.)

Cari amici,
pubblico un commento/dono di Anna Ferrara, che ringrazio sentitamente, contenente uno scritto dell’immenso Hermann Hesse:

Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l’albero con riverenza e chiese: “Sei tu l’albero della vita?”. Ma quando, invece dell’albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era tutt’occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita.

E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor chiese: “Sei tu l’albero della vita?”.

Il sole annuì e sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e non sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore cantò la profonda ninna nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del giardino dell’infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e selvaggio, come di resina e di miele, ma anche come di un bacio di donna.

Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l’ignoto, verso il magicamente prefigurato.

Pictor scorse un uccello sull’erba posato e di luminosi colori ammantato, di tutti i colori il bell’uccello sembrava dotato. Al bell’uccello variopinto egli chiese: “Uccello, dove è dunque la felicità?”.

“La felicità?” disse il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, “la felicità, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e nei cristalli”.

Con queste parole l’uccello spensierato scosse le sue piume, allungò il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un’ultima volta e poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si erano trasformate in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l’uccello si era fatta pianta. Pictor vide questo con meraviglia.

E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più radici, scuotendosi un po’ si innalzò lentamente e fu una splendida farfalla, che si cullò nell’aria, senza peso, tutta di luce soffusa, splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.

Ma la nuova farfalla, l’allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erbe e piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che stava svanendo a la tirò a sè. Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento di una piena beatitudine.

All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il serpente gli sibilò nell’orecchio:” La pietra ti trasforma in quello che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!”.

Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacchè più di una volta aveva desiderato essere albero, perché gli alberi gli apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.

Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò verso l’alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della terra e con le sue foglie sventolò alto nell’azzurro. Insetti abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.

L’albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d’albero. Finalmente potè vedere, e divenne triste.

Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sè più d’un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori.

Lui invece, l’albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza.

Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalla veste azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una scimmia sapiente sorrise al suo passaggio, più di un cespuglio l’accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece cadere al suo passaggio un fiore, unanoce, una mela, senza che lei vi badasse.

Quando l’albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda meditazione, perché era come se il suo stesso sangue gli gridasse :” Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità”. Ed egli ubbidì.

Rammemorò la sua origine, i suoi anni di uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo particolare quell’istante prima che si facesse albero, quell’istante meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si ricordò dell’uccello che allora aveva riso e dell’albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.

La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei. Attratta dalla forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l’albero rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario? L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sè ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione. Ohimè, perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in un albero! Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco, davvero allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito, ohimè! E con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna!

Venne volando un uccello, rosso e verde era l’uccello, ardito e bello , mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come sangue, rosso come brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.

Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.

Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria. Era trasformato. E poichè questa volta aveva raggiunto la vera, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato un tutto, da quell’istante potè continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.

Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e uccello. In ogni forma però era intero, era un “coppia”, aveva in sè luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre, stava come stella doppia in cielo.

Sopra: Hieronymus Bosch, “Uomo-Albero”, 1475 circa

I dormienti

SottoSopra

Sopra: Marc Chagall, “L’uomo con la testa rovesciata”, 1919. Collezione privata

Cari amici del temenos, vi propongo, oggi, un percorso alternativo… aspetto le vostre riflessioni!

Uomo ermetico

Sopra: Giuseppe Arcimboldi, “L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo in veste di Vertumno”, 1590-91

Cari amici,

oggi andiamo nella magica Praga di Rodolfo II con questo celebre dipinto di Giuseppe Arcimboldi, nel quale l’imperatore è rappresentato come Vertumno, la divinità di origine etrusca che personificava il mutamento delle stagioni e presiedeva alla maturazione dei frutti. Gli si attribuiva, inoltre, la capacità di trasmutarsi in ogni cosa.
Non a caso il geniale artista lombardo raffigura le fattezze del sovrano attraverso la composizione antropomorfa dei frutti delle quattro stagioni. In questo modo il Rodolfo-Vertumno rappresenta la sintesi delle energie sia vitali sia psichiche del creato, e il suo corpo diviene un hortus (la radice della parola homo è molto vicina a quella di humus). Questo intreccio tra piano reale e piano immaginale, tra spirito e materia, è fondamentale per comprendere la figura del sovrano, poichè fu uno dei più appassionati esoteristi dell’epoca. Non a caso, anche qui, la figura di Giordano Bruno fu determinante. Vi lascio, a proposito, questo mio vecchio scritto:

Nel marzo del 1588 l’italiano è a Praga dove conosce Rodolfo II. È un incontro fondamentale per entrambi, decisivo per il re, Rodolfo è un appassionato esoterista, ha conosciuto i massimi maestri contemporanei dell’ermetismo ed è felice di poter parlare con il “mago di Nola”, la cui fama è ormai diffusa in tutta Europa. Nel palazzo che prende nome dallo stesso re avviene uno dei dialoghi più suggestivi di quell’epoca. “Ritorno a Platone”, così lo definisce il Turnejser, fedelissimo al filosofo, forse accecato dall’amore. Ugualmente, al di là dell’enfasi, Rodolfo muterà di fatto la intelligenza che può divenire universale, di una memoria edificata sul modello dell’universo, di una immaginazione dilatata sino alle stelle, alle idee eterne e infinite, presenti nella “mente di Dio” (De umbris idearum e Cantus circaeus, Atanòr, cura di G.L.P,  “Introduzione” pag. 24 e 27).

Il principe è come folgorato. Da questo momento farà ricercare tutti i testi di alchimia esistenti, i compendi di ermetismo, i testi neoplatonici, costituendo una biblioteca unica nel suo genere. È una sorta di malia. Da un punto di vista prettamente culturale è un evento foriero di grandi iniziative, sia per la filologia, sia per il nascente sperimentalismo. Politicamente provocherà l’isolamento progressivo di Rodolfo; alla sua morte si scatenerà la lotta per l’investitura che finirà per precipitare l’Europa nella guerra dei trent’anni. (F.A. Yates, L’Illuminismo dei Rosacroce, cit., pag. 65 e segg., dove è esaminata la cosiddetta “questione di Praga”, con la relativa defenestrazione degli ambasciatori della Lega cattolica. I boemi, abituati allo spirito di tolleranza e alle aperture religiose e filosofiche di Rodolfo, non potevano accettare l’idea di essere governati da un fanatico cattolico. «Il problema fu per breve tempo rinviato con l’elezione all’impero e alla corona di Boemia del fratello di Rodolfo, Mattia, vecchio e inetto, che morì presto a sua volta, e dopo di lui non fu più possibile rimandarlo. Le forze della reazione si stavano raccogliendo. Solo pochi anni di tregua vi sarebbero stati prima della ripresa delle guerre di religione. Il candidato più prossimo all’impero e al trono di Boemia era l’arciduca Ferdinando di Stiria, un Asburgo fanaticamente cattolico, educato dai gesuiti e risoluto a sgominare l’eresia. Nel 1617 Ferdinando di Stiria diventò re di Boemia. Fedele alla sua educazione e alla sua natura, egli pose immediatamente fine alla politica di tolleranza religiosa di Rodolfo» (F.A. Yates, op. cit., pag. 23). Questi motivi spinsero i boemi a nominare nel 1619 Federico del Palatinato legittimo successore di Rodolfo, di cui condivideva gli interessi esoterici. Non a caso era stato in Inghilterra e aveva conosciuto gli stessi nobili fedeli all’ermetismo bruniano. L’elezione finirà nel disastro della battaglia della Montagna Bianca, e la perdita della libertà per i boemi e i moravi. Fornirà inoltre l’occasione per la guerra dei trent’anni. Molti storici fanno risalire al mancato intervento dell’Inghilterra, a fianco del Palatinato, la vera motivazione della sconfitta e della futura interminabile guerra. I nobili elisabettiani di ispirazione ermetica avevano infatti consigliato re Giacomo di entrare nello scontro.)

Fondata una biblioteca ermetica, stabiliti due corsi allo Studio, creata una rete di fedeli allievi, Bruno si muove ancora. Le motivazioni non sono quindi da ricercare in un ambiente ostile e respingente, bensì nell’esigenza del filosofo di cercare altri da sensibilizzare alla sua visione teorica e pratica dell’uomo e del suo compito sulla Terra.

Sopra: La Cattedrale di San Vito a Praga, dove riposa l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo

In cerca di SOPHIA

Sopra: Quentin Varin, “Tabula Cebetis”, 1600-1610, Rouen, Musée des Beaux-Arts

Viaggiatori cari,

oggi vi propongo questa allegoria complessa e articolata del pittore francese Quentin Varin (ca. 1570 – 1634). L’ispirazione è tratta dai contenuti della “Tabula Cebetis”, o “Pinax”, un trattato sulla vita umana attribuito erroneamente al filosofo tebano Cebeto, vissuto tra il V e il IV sec. a.C., ma in realtà probabilmente composto da un neopitagorico del I sec. d.C. Al di là di questo, c’è un messaggio importante in questa raffigurazione… Parliamone insieme.

“Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù”

Sopra: Dosso Dossi, “Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù”, 1523-24 ca.

Amatissimi,

vi propongo oggi questo particolare dipinto del grande pittore Giovanni di Niccolò Luteri, detto comunemente Dosso Dossi (1486? – 1542 ca.), uno dei principali artisti attivi alla corte ferrarese degli Este all’epoca dell’Ariosto.

Caliamoci ora in quell’epoca e nella Ferrara nel primo Cinquecento, e comprendiamo i complessi intrecci allegorici ed esoterici che animano l’opera. Che vi sia un messaggio nascosto, “secreto”? Aspetto le vostre riflessioni.

Marsilio Ficino: “La follia erotica”

Sopra: la cupola del Pantheon a Roma.

Carissime e carissimi,

eccovi l’ultima “follia” di Marsilio Ficino. Aspetto, come sempre, le vostre considerazioni:

Quando finalmente l’anima è stata resa uno, uno, dico, che è nella natura e nell’essenza stessa dell’anima, si ferma per ricondursi subito nell’uno che è al di sopra dell’essenza, cioè  in Dio.
Questo la Venere celeste porta a compimento attraverso l’amore, cioè attraverso il desiderio della bellezza divina  e l’amore appassionato per il bene.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

(vedi la “Follia poetica”; vedi la “Follia sacerdotale”; vedi la “Follia profetica”)

“Io credo che questo brano di Marsilio Ficino non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni, talmente è chiaro il suo significato: l’Amore in terra prelude all’Amore celeste. L’Amore dell’amante è propedeutico all’Amore divino. Ed entrambi, nel pensiero Sufi, l’Amore divino rende possibile l’Amore umano”.

Gabriele

(Grazie per i vostri contributi, tutti di un buon livello psichico). 

Marsilio Ficino: “La follia profetica”

Sopra: John Collier, “Priestess of Delphi”, 1891

Essendo state le singole parti dell’anima ricondotte a un’unica mente, l’anima da molte che era, è resa adesso un’unica cosa.
Ma è necessaria ancora una terza follia che riconduca la mente alla stessa unità, la testa dell’anima.
Questo fa Apollo attraverso la profezia.
Infatti quando l’anima sale nell’unità al di sopra della mente prevede il futuro.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

(vedi la “Follia poetica”; vedi la “Follia sacerdotale”)

“Pallade e il centauro”

Carissime amiche e carissimi amici,

vi propongo ancora un dipinto di Sandro Botticelli, “Pallade e il centauro”, 1482-83 ca. I soggetti mitologici e le scene del grande Maestro si prestano, come sempre, a molti e complessi livelli di lettura. Cosa si cela, secondo voi, in queste figure? Condividiamo le nostre emozioni, sensazioni, intuizioni…

Marsilio Ficino: “La follia sacerdotale”

Sopra: umanisti dell’Accademia neoplatonica. Da sinistra Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Agnolo Poliziano e Demetrio Greco. Affresco di Domenico Ghirlandaio, “Annuncio dell’angelo a Zaccaria”, Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, 1485-90.

La molteplicità infatti resta ancora nell’anima. Interviene allora il mistero legato a Diòniso, che, con espiazioni, sacrifici e ogni forma di culto divino, dirige l’intonazioni di tutte le parti verso la mente, con la quale Dio è adorato. Per cui, essendo state le singole parti dell’anima ricondotte ad un’unica mente, ora l’anima da molte cose diventa un’unica cosa.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

(vedi la “Follia poetica”)

Marsilio Ficino: “La follia poetica”

Giorgione o Tiziano, “Concerto campestre”, 1509 ca.

Oggi entriamo nel primo degi stadi della FOLLIA secondo Marsilio Ficino… aspetto le vostre riflessioni:

L’anima è tutta piena di discordia e dissonanza; quindi per prima cosa è necessaria la follia poetica, che attraverso i toni musicali risvegli ciò che è intorpidito, attraverso la dolcezza dell’armonia plachi ciò che è turbato, e infine attraverso la consonanza delle cose diverse cacci la dissonante discordia e temperi le varie parti dell’anima.

da “Libri de vita coelitus comparanda”

Sulla famiglia

Se poi passiamo dai grandi scenari a quel piccolo scenario costituito dalla famiglia, che resta il nucleo essenziale per la nascita, la crescita e il sostentamento dei figli, assistiamo, rispetto agli anni precedenti, a un maggior desiderio di generare figli, dovuto al fatto che tendenzialmente, i maschi hanno dismesso quello stile padre-padrone che aveva caratterizzato il comportamento maschile delle generazioni precedenti, e acquisito quel tratto di accudimento, un tempo riservato alle donne, nella cura dei loro figli. Questi ultimi, a loro volta, come tendenza generale, non sono più oggetto di trascuratezza o di violenza come un tempo, anche se al limite corrono l’eccesso opposto di essere un po’ troppo viziati da genitori che, per farsi perdonare la mancanza di tempo a loro disposizione da trascorrere con i loro figli, tendono a riempirli di regali e ad accondiscendere ai loro desideri, rendendo così più difficile il loro passaggio dal principio di piacere al principio di realtà.

Umberto Galimberti

L’uomo artigiano

Non significa solo artigianato, ma anche un’arte, un lavoro fatto bene, dove ci siamo applicati. Un lavoro così è un fine in se stesso, ci rende fieri. E questo si applica tanto a modellare un vaso, come a scrivere, diagnosticare una malattia. La vera chiave per la soddisfazione non è lavorare preferibilmente con le mani, ma lottare per acquisire competenza e impegno, cioé le qualifiche dell'”uomo artigiano”. Sperimentare, farsi delle domande, evolvere. E’ collaborare con gli altri, anziché competere a tutti i costi. Sono queste le qualità per sviluppare il rispetto di sé e cercare di vivere una vita che sia davvero degna.

Richard Sennet

Anima Animae 27

Iniziamo la settimana con un nuovo appuntamento di Anima Animae, la mia trasmissione in onda su Cinquestelle tv tutti i giorni alle ore 20:45 circa tranne il martedì. Vi ringraziamo per la partecipazione che ci mostrate con la quantità e la qualità delle opere che ci state spedendo alla redazione di Cinquestelle TV. Spediteci, è importante, insieme alle vostre opere una liberatoria che ci autorizzi a presentarle a titolo gratuito. In questa puntata leggeremo la raccolta di liriche “Il cielo dentro” di  Nunzio Granato, ed. UniService.  Approfondiremo alcuni passaggi  de “La rinascita di Afrodite”, di Ginette Paris, ed. Moretti & Vitali. Presenteremo poi il romanzo “Rosso Velabro”, di Luigi De Pascalis, ed. La Lepre, il libro doppio “L’onorevole e altri racconti”“Ora che si fa sera” di Salvo Geraci, ed. Panastudio Productions. Passeremo poi, per concludere, qualche passo de “Lo spirito del sesso” di Thomas Moore, ed. Sonzogno. Buona giornata!

CONTATTI

Indirizzo: Anima Animae – Cinquestelle Tv, via Alberto Cadlolo, 90 – 00136 – Roma

“La Grande Madre” 12-13 marzo 2011

Carissimi amici,

condivido con voi la trasmissione “La Grande Madre”, andata in onda sabato 12 e domenica 13 alle ore 15:30 circa su EcoRadio.  La puntata è divisa in due  video perchè youtube non permette la pubblicazione di video con durata superiore a 15 minuti. La qualità non è ottima, ma prossimamente cercheremo di migliorare. Spero di aver fatto cosa a voi gradita. Buona giornata e a presto!

Anima Animae 26

Carissime e carissime,

eccoci con una nuova puntata di Anima Animae, la mia trasmissione in onda su Cinquestelle tv tutti i giorni alle ore 20:45 circa tranne il martedì. Vi ringraziamo per la partecipazione che ci mostrate con la quantità e la qualità delle opere che ci state spedendo alla redazione di Cinquestelle TV. Spediteci, è importante, insieme alle vostre opere una liberatoria che ci autorizzi a presentarle a titolo gratuito. In questa puntata leggeremo la raccolta di liriche “Se la polvere non germoglia” di  Nicolò Sorriga, ed. UniService, e presenteremo il saggio “INCONSCIO LADRO! Malefatte degli psicanalisti”, di Elisabetta Ambrosi, ed. La Lepre.

Termineremo la puntata con le pagine di Ginette Paris e del suo “La rinascita di Afrodite”, ed. Moretti & Vitali. Buona giornata!

CONTATTI

Indirizzo: Anima Animae – Cinquestelle Tv, via Alberto Cadlolo, 90 – 00136 – Roma

 

Anima Animae 20

Gentili amiche e gentili amici,

nuovo appuntamento con Anima Animae, la mia trasmissione in onda su Cinquestelle tv tutti i giorni alle ore 20:45 circa tranne il martedì. Abbiamo ricevuto moltissime vostre opere, di cui parleremo, insieme, nel corso delle puntate. In questa presenteremo la raccolta di poesie “Se la polvere non germoglia” di  Nicolò Sorriga, il saggio Dal divano a Fronesi” e “L’onorevole e altri racconti” di Salvo Geraci,  e, la raccolta di poesie “Diari e Sentieri” di Nunzio Granato.

Per finire sfoglieremo ancora qualche pagina, sempre più trasgressiva, di “Lo spirito del sesso” di Thomas Moore, ed. Sonzogno. Buona giornata!

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Indirizzo: Anima Animae – Cinquestelle Tv, via Alberto Cadlolo, 90 – 00136 – Roma

Anima Animae 18

Care e cari,

continuiamo a “parlare” di Afrodite ad Anima Animae, la mia trasmissione in onda su Cinquestelle tv tutti i giorni alle ore 20:45 circa tranne il martedì, attraverso le pagine di “Lo spirito del sesso” di Thomas Moore, ed. Sonzogno. Un abbraccio!

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Anima Animae 16

Cari e gentili amici,

in questa puntata di “Anima Animae” ci occupiamo, nuovamente, di un testo veramente eccezionale e imperdibile di Thomas Moore, “Nel chiostro del mondo. Pensieri per la vita quotidiana”, ed. Moretti & Vitali. Buona giornata!

Anima Animae è  in onda su Cinquestelle tv tutti i giorni, alle ore 20:45 circa, tranne il martedì.

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Indirizzo: Anima Animae – Cinquestelle Tv, via Alberto Cadlolo, 90 – 00136 – Roma