Restai insaziata tutti i miei anni.
Arrivato il pomeriggio, tremante
avvicinai il tavolo per mangiare
e assaggiai un vino strano,
quello che avevo visto sulle tavole
quando affamata – tornando a casa –
guardavo attraverso i vetri la ricchezza
che non speravo di possedere mai.
Non conobbi l’abbondanza del pane –
era diversa la briciola
che avevo divisa con gli uccelli
nella sala da pranzo della natura.
Il troppo mi urta – è così insolito.
Mi sentivo a disagio, spaesata –
come una bacca ai fratta montana
trapiantata sulla strada.
E non avevo fame. Allora capii
che la fame è un istinto
di chi guarda le vetrine dal di fuori.
L’entrare, la disperde.
Emily Dickinson
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E’ una sincronicità: lo sguardo di un angelo, Alexandros, che non può più guardare oltre la vetrina… Sognare… Un angelo… con un ala sola!
Alexandros, G. PASCOLI, da Poemi Conviviali
I
– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell’aria,
quella che in mezzo del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,
l’ultimo fiume Oceano senz’onda.
O venuti dall’Haemo e dal Carmelo
ecco, la terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida del cielo.
II
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare;
il sogno è l’infinita ombra del Vero.
III
Oh! più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!
Ad Isso! Quando divampava ai venti
notturno il campo, con le mille schiere
e i carri oscuri e gl’infiniti armenti.
A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere
sempre più lungi, ardea come un tesoro
IV
Figlio d’Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l’auleta:
soffio possente d’un fatale andare,
oltre la morte; e m’è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente…
e il canto passa ed oltre noi dilegua. –
V
E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall’occhio nero come morte:
piange dall’occhio azzurro come cielo.
Chè si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano:
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.
Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,
come trotto di mandre d’elefanti.
VI
In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita,
le grandi quercie bisbigliar sul monte.
A commento della Poesia di Emily:
Non era fame, ma “sete” d’amore: la percezione di ciò che è umido e la percezione di ciò che umido non è… e che si può condividere. Il “vino sulla tavola” non è una formula esatta, dice Jovanotti… 🙂 E’ sempre troppo!
Mi viene in mente quel senso di sazietà, non dato dalla pancia piena, ma da quella sensazione che pervade l’ animo, quando ci si sente così sazi, ricolmi.. che non si ha bisogno di niente,in quel momento non manca proprio niente, anzi ci si sente pienamente completi, non si ha neanche fame(quella fisica)..ci si sente pienamente soddisfatti di sè e di quello che si è, una dolce sensazione di calore accarezza ogni singola particella del cuore e si sorride, si sorride perchè si è felice..
Non so meglio di così è una sensazione che non riesco a descrivere,
spero si capisca lo stesso…
L’ho capita lo stesso, Mel!