Riflessioni sulla psicologia del film “Maleficent”, con Angelina Jolie. Perchè il successo Disney non convince del tutto

“Maleficent” è un film del 2014 diretto da Robert Stromberg, al debutto da regista.

La protagonista Angelina Jolie, qui anche produttrice esecutiva della pellicola, veste i panni della celebre Malefica, la malvagia strega del mondo Disney.

Il film è il remake del classico Disney “La bella addormentata nel bosco” del 1959, pur discostandosene non poco nella trama. Attraverso I secoli (con le successive rielaborazioni) le fiabe trasmettono significati nascosti e palesi, comunicandoli in modo tale da raggiungere la mente “ineducata” del bambino e quella “sofisticata” dell’adulto.

Vari autori, da Marie Louise Von Franz a Bruno Bettelheim, hanno mostrato come le fiabe popolari parlino il “linguaggio inconscio” di problemi comuni a tutti gli uomini, con i conflitti, le crisi e le trasformazioni tipiche dello sviluppo dell’individuo e della collettività, al di là dell’intento narrativo contingente.

Questa è la mia prima perplessità: questo film parla davvero un linguaggio autenticamente inconscio?

Della fiaba ci sono un po’ tutti i personaggi, ma sono pallide presenze spesso puramente accessorie o per nulla indagate, completamente piegate alla volontà revisionista della sceneggiatura. Alcuni personaggi sembrano messi lì solo per far approdare (fin troppo) celermente lo sviluppo dove gli autori hanno in mente.

Seconda perplessità: la fiaba insegna, senza insegnare, che la liberazione di ciò che dorme, inconscio o bloccato, può richiedere molto lavoro: solo dopo cent’anni riesce ad arrivare il principe azzurro (nella fiaba originale), il principio vitale, la vita che ci ama. Egli deve faticosamente avanzare all’interno di una selva intricata e bisogna attendere molto per vedere il tanto atteso emergere (come in una psicoterapia del resto).

Nel film il principe azzurro non fatica affatto, la sua apparizione è quantomeno forzata, quasi sbrigativa… manca complessivamente l’elemento della necessaria attesa.

Terza perplessità sul messaggio nucleare del film: i figli “sono” di chi li ama davvero, non tanto di chi li partorisce (e infatti non vediamo quasi mai la vera mamma, la regina, avvicinarsi alla figlia). Angelina, che ha adottato tre figli, lo sa bene.

Nell’epoca della famiglia allargata (i cui problemi sono tutt’altro che risolti) è un’idea sicuramente trendy, buonista e rassicurante. Qualcuno ha inoltre notato che ancora una volta l’archetipo maschile è marginalizzato e inflazionato dalla cieca bramosia di potere (sottovalutando un po’ la figura di Fosco a mio avviso).

Dopo Hunger Games, Frozen e Divergent sembra comunque che in questo senso la riscossa femminile al cinema prosegua. Cerchiamo qualche pregio (ma ce ne sono di sicuro tanti): il film tenta di esplorare le zone grigie e più umane che esistono nella polarità tra bene e male. Non ci sono solo eroi o solo cattivi, l’ambivalenza è ben rappresentata ed il problema morale si integra in più di un personaggio.

Inoltre non è una natura propriamente disneyana quella che ci racconta Maleficent, in cui invece il rapporto uomo-natura si avvicina piuttosto alle idee di Tolkien.

Le musiche e il comparto artistico sono buoni e gli effetti speciali, notevoli, riescono a ricreare un ambiente e delle creature che si combinano egregiamente con gli attori.

Considerazione conclusiva: Jung affermava che studiare le fiabe è un buon modo per studiare l’anatomia comparata dell’inconscio collettivo, ovvero di quelli che si pensa siano gli strati più profondi e arcaici della psiche. In tal senso alcuni sostengono anche che il materiale delle fiabe sia compensatorio alle idee e ai valori del conscio collettivo nel momento storico in cui la fiaba è stata prodotta. Può pertanto offrire un nuovo punto di vista su problemi che magari la cultura dominante non sa come affrontare.

Come ho già accennato, la mia perplessità è che invece le trasposizioni cinematografiche rischiano da un po’ di tempo a questa parte di fornire sempre di più unicamente la prospettiva personale di sagaci sceneggiatori (e, volendo essere molto cospirazionisti, forse anche il punto di vista di chi li finanzia).

Massimo Lanzaro

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Tra ipocondria, supercondria e rupofobia. A marzo in Italia il nuovo film di Dany Boon, il regista di “Giù al Nord”

 

Dany Boon, nome d’arte di Daniel Hamidou (Armentières, 26 giugno 1966), è un comico, attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese, di padre cabilo e di madre francese. Dopo il clamoroso successo di “Giù al Nord” e quello più contenuto di “Niente da dichiarare?”, Boon scrive, dirige e interpreta una nuova commedia che conferma il suo senso del contemporaneo e il suo fiuto per il commerciale. Distribuita da Eagle Pictures dal 13 marzo esce infatti Supercondriaque, titolo tradotto in italiano come “Supercondriaco”, un funzionale apax per quanto ne sappia il sottoscritto.

La storia: all’alba dei 40 anni, Romain Faubert non è “ancora” sposato e non ha figli. Fotografo per un dizionario medico online, Romain è vittima di timori patologici che segnano la sua vita ormai da tempo. Il suo unico vero amico è il dottor Dimitri Zvenka, suo medico curante.

“Questo film è diventato un modo per esorcizzare le mie manie, riuscendo a far ridere gli altri attraverso me stesso. – ha dichiarato Boon – Il mio film da regista senz’altro più riuscito”. Nel cast anche Alice Pol, Jean-Yves Berteloot e Judith El Zein.

Lo consiglierei? Tutto sommato forse si. Perchè è sufficientemente divertente, diciamo oltre la media di quello che si trova in giro di questi tempi. Ed è una idea originale ben sceneggiata. Tecnicamente inesatto, forse pure inelegante ma poco importa. Se invece interessasse l’aspetto scientifico e il merito delle “inesattezze”, di seguito ecco qualche definizione e alcune considerazioni.

Abbiamo detto che la supercondria non esiste. L’ipercondria invece è lo stato mentale di colui che, pur presentando dei sintomi di una qualsiasi malattia, ritiene comunque di essere in buona salute.

In medicina, e più informalmente nel linguaggio comune, il termine ipocondria (o patofobia) si riferisce ad un disturbo psichico caratterizzato da una preoccupazione eccessiva e infondata di una persona riguardo alla propria salute, con la convinzione che qualsiasi presunto sintomo avvertito dalla persona o una qualsiasi visita medica di routine possa essere segno o rivelare una qualche patologia. Chi soffre di ipocondria viene detto nel linguaggio comune “malato immaginario”.

La rupofobia (dal greco ῥύπος, rùpos, «sudiciume») è il timore pervasivo, eccessivo e per lo più ingiustificato dello sporco e della conseguente possibilità di contaminazione. Il soggetto che ne è vittima compie ripetutamente l’atto della pulizia su se stesso (ad esempio il lavaggio continuo delle mani) o sull’ambiente che lo circonda (ad esempio la casa).

Viene annoverato nei disturbi di ansia che rivela, secondo l’interpretazione della psicologia analitica, che non riusciamo a gestire la dimensione ombra (Jung), cioè le parti nascoste di noi; nel rito della pulizia si cercherebbe, pertanto, ipersempificando, di sbarazzarcene. Secondo altri il problema originario sarebbe legato a tematiche sessuali irrisolte, ma non mi dilungherò sull’argomento in questa sede.

Qualche esperto ritiene che il paradigma della pulizia imposto dai mezzi di comunicazione, dalla letteratura, dalle arti e così via, possa influire sulla diffusione di questa fobia. Altresì è possibile che il fenomeno sia interpretabile come un’esasperazione del fatto che si possa, banalmente, aver paura di rimanere sporchi. E’ meno infrequente di quel che si pensi: si narra ad esempio che Winston Churchill soffrisse di rupofobia.

A questo punto consentitemi anche una ulteriore digressione a riguardo.  Mezzo secolo fa veniva pubblicato Miti d’oggi, il saggio con cui Roland Barthes analizzava la società di massa degli anni Cinquanta. Sotto la sua lente, gli oggetti della vita quotidiana e dei media diventavano la chiave di lettura per capire il proprio tempo e la società.

Per Barthes, il mito non sta nelle cose in sé, ma nel modo in cui esse vengono comunicate. Il principio della cultura di massa “sta nella capacità di trasformare il culturale in naturale”. Ciò che è stato artificialmente costruito diventa, attraverso la comunicazione di massa, qualcosa che ci appartiene indissolubilmente. Riaprendo le pagine che esaminano la differenza narrativa fra liquidi saponificanti e polveri detersive verrà fuori che laddove i primi vengono pubblicizzati come prodotti eroici che uccidono brutalmente lo sporco, le seconde assumono il ruolo dell’infido agente di polizia che scopre la sporcizia nei meandri più segreti dei tessuti.

Questo apre una riflessione stimolante sull’intreccio contemporaneo tra comunicazione di massa, sociologia, antropologia e psicopatologia. Ma è di una commedia che stavamo parlando qui, vero?

Massimo Lanzaro

Lovelace. Tra fama, pornografia, violenze domestiche, sesso e sfruttamento

Lovelace è un film biografico diretto da Robert Epstein e Jeffrey Friedman. La pellicola tratta la storia vera di Linda Susan Boreman, dall’incontro col primo marito Chuck Traynor fino alla sua crociata contro l’industria del porno. La pellicola viene presentata il 22 gennaio 2013 al Sundance Film Festival ed in febbraio al Festival internazionale del cinema di Berlino. E’ stata distribuita nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 9 agosto 2013 e in Italia sarà nelle sale il 27 marzo 2014, a cura di Barter Multimedia.

I fatti vengono riproposti a distanza di 40 anni. Nel 1972, prima dell’avvento di Internet e dell’esplosione dell’industria del porno, “Gola Profonda” fu un fenomeno: si trattava del primo film pornografico pensato per il cinema, con una vera e propria trama, dello humour ed una sconosciuta ed improbabile protagonista. Costato complessivamente 25.000 dollari, la pellicola ne incassò, nelle varie trasmissioni mondiali, 100 milioni (600 con l’uscita in home video): il guadagno è (in proporzione al costo del film) vicino a quello di opere come “Titanic”, “E.T.” e “Biancaneve e i sette nani”.

In Italia il film arrivò nel 1975 con il titolo “Gola profonda”, successivamente cambiato in “La vera gola profonda”, per via di un’omonimia (“Gola profonda” uscito nel 1974). Il grande successo di questo e di altri film pornografici determinarono verosimilmente qualche anno dopo la comparsa delle prime sale “a luci rosse”.

Questa la storia (spoilers):

Nel tentativo di fuggire dalla morsa di una famiglia severa e religiosa (Sharon Stone interpreta Dorothy Boreman), Linda scoprì la libertà quando si innamorò e sposò il carismatico amante e protettore Chuck Traynor (Peter Sarsgaard). Sotto lo pseudonimo di Lovelace divenne una celebrità a livello internazionale, non tanto come pin up di Playboy (“non aveva i fianchi giusti”), ma in quanto “accattivante ragazza della porta accanto con lentiggini ed una capacità notevole nella pratica della fellatio” (sic). Completamente immersa nella sua nuova identità, Linda assurge ad entusiasta portavoce della libertà sessuale e dell’edonismo senza freni. Sei anni più tardi presentò al mondo un’altra versione dei fatti, in cui emergeva come sopravvissuta ad una storia molto buia. Si sottopose alla macchina della verità per certificare l’attendibilità del suo racconto ad un editore, e raccontò la sua storia nell’autobiografia “Ordeal”, dove scrisse di essere stata costretta a girare film a luci rosse dal marito, “che la picchiava, la faceva prostituire e che non aveva esitato a puntarle addosso una pistola”.

A portare sul grande schermo questa storia sono il duo di registi Rob Epstein e Jeffrey Friedman che hanno da sempre mostrato grande capacità nel riprendere personaggi complessi e/o controversi: dall’opera Premio Oscar “Common Threads: Stories from the Quilt”, passando per “Lo schermo velato”, l’adattamento della pioneristica ricerca di Vito Russo sull’evoluzione degli stereotipi sugli omosessuali nei film di Hollywood, fino all’analisi delle vite degli omosessuali in Germania prima e dopo il Terzo Reich in “Paragraph 175”.

Il loro approccio ponderato e rispettoso è stato applicato anche nella loro prima prova in un film non documentario, il biopic su Allen Ginsberg “Urlo”, con James Franco, Jeff Daniels, Jon Hamm e Mary-Louise Parker. Ora il duo racconta con discreta sensibilità (e qualche passaggio a vuoto) la storia di Linda (Amanda Seyfried, bravissima), in cui il respiro sulla presunta libertà ed emancipazione raggiunta dalla donna negli anni Settanta viene soffocato da una violenza graduale che si fa ragnatela e a cui è difficile sottrarsi.

Massimo Lanzaro

Allacciate le cinture, di Ferzan Ozpetek. Psico-recensione di un film commovente sul mutare dei sentimenti nel tempo

Dal 6 marzo in 350 copie con la 01 della Rai e la produzione del duo Tilde Corsi e Gianni Romoli, quelli dei primi cinque film di Ozpetek, esce il melò corale costruito intorno al personaggio di Kasia Smutniak.

La Smutniak interpreta una ragazza di buona famiglia che vive con una madre un po’ mesta, Carla Signoris, e una zia eccentrica, Elena Sofia Ricci. E’ fidanzata con Francesco Scianna mentre la sua amica del cuore ha un flirt con Francesco Arca, un meccanico rozzo dal torace possente. Nell’arco dei successivi anni ci vengono raccontati i cambiamenti della fisicità, delle emozioni e degli equilibri esistenziali che si intersecano con le inevitabili turbolenze di percorso (da cui il titolo).

Poiché tutti hanno già detto quasi tutto di questo film, a partire dall’ubiquitario aneddoto raccontato da Ozpetek, di aver pensato a questo film vedendo una coppia di amici e scoprendo l’intensità del loro amore, proverò a dire qualcosa che forse non troverete altrove.

Elisabeth Kübler-Ross (Zurigo, 8 luglio 1926 – Scottsdale, 24 agosto 2004) è stata una psichiatra svizzera che ha lavorato con malati di neoplasie, ha scritto “La morte e il morire”  pubblicato nel lontano 1969. Chiave del suo lavoro è la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica.

Il suo modello a cinque fasi rappresenta uno strumento che permette di capire le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnosticata una malattia grave, ma gli psicoterapeuti hanno constatato che esso è valido anche ogni volta che ci sia da elaborare un lutto solo affettivo o ideologico. Ed è anche e forse soprattutto di questo parla Ozpetek, di amore e sofferenza nell’arco di micro e macro fasi della vita.

Quelle descritte dalla Kübler-Ross possono anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo, con diversa intensità, e senza un preciso ordine, dato che le emozioni non seguono regole particolari, ma anzi come si manifestano, così svaniscono, magari miste e sovrapposte:

1. Fase della negazione o del rifiuto: “Ma è sicuro, dottore, che le analisi siano fatte bene?”, “Non è possibile, si sbaglia!”, “Non ci posso credere”.

2. Fase della rabbia: dopo la negazione iniziano solitamente a  manifestarsi emozioni forti quali rabbia e paura, che esplodono in tutte le direzioni, investendo i familiari, il personale ospedaliero. Una tipica domanda è “perché proprio a me?”.

3. Fase della contrattazione o del patteggiamento: in questa fase la persona inizia a verificare cosa è in grado di fare ed in quali progetti può investire la speranza, iniziando una specie di negoziato, che a seconda dei valori personali, può essere instaurato sia con le persone che costituiscono la sfera relazione del paziente, sia con le figure religiose. “se prendo le medicine, crede che potrò…”, “se guarisco, poi farò…”. In questa fase, la persona riprende il controllo della propria vita, e cerca di riparare il riparabile.

4. Fase della depressione: rappresenta un momento nel quale il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire e di solito si manifesta quando la malattia progredisce ed il livello di sofferenza aumenta.

5. Fase dell’accettazione: quando il paziente ha avuto modo di elaborare quanto sta succedendo intorno a sé, arriva ad un’accettazione della propria condizione ed a una consapevolezza di quanto sta per accadere.

Orbene non è che Ozpetek ha “inventato” e descritto una fase ulteriore, quella della sublimazione ironica post-accettazione, fatta di forza, garbo e delicatezza, ma nei suoi dialoghi ci va molto, molto vicino.

Credo che anche in questo risieda la forza del film: riesce a sdoganare con eleganza e tatto classici argomenti ostici, mescolando sapientemente lacrime e risate. Un pò si vede che gli attori si erano concentrati principalmente sulla parte drammatica, al punto che quella iniziale un po’ ne risente.

Dimenticavo: chi riesce a non farsi emozionare dalla voce di Rino Gaetano che inonda prepotentemente i titoli di coda, mi dica come si fa.

 

Massimo Lanzaro

Guida Perversa. Il cinema che legge tra le righe della realtà

A sei anni dall’uscita di ‘The Pervert’s Guide to Cinema’, torna (uscito all’inizio del mese, ma in questi giorni si trova ancora in qualche sparuta sala) una nuova “guida” del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Žižek, realizzata nuovamente in collaborazione con la regista Sophie Fennes (sorella di Ralph e Joseph): ‘Guida perversa all’Ideologia’.

Roba di nicchia, di quella che passa inosservata, tuttavia a mio modesto avviso un must per chi ama il cinema e forse non solo. Žižek è stato o è un collaboratore regolare di numerosi giornali e riviste, fra cui New Left Review, London Review of Books, Critical Inquiry e The Guardian. Lo conosce già, dunque, chi lo ha letto in lingua originale, o in italiano sulla rivista ”Internazionale”. In questo nuovo film, attraverso i classici del cinema e i brand più pop del nuovo millennio lo scrittore sloveno  prova a spiegarci “che cos’è l’ideologia”.

Perché “guida perversa”? In realtà l’aggettivo “pervert” si lega per zeugma anche al sostantivo cinema. Il cinema è perverso! Nonostante sia comunemente associata a connotazioni sessuali, la perversione è anche un termine tecnico che la psicanalisi lacaniana usa per indicare la certezza che un soggetto ha di sapere ciò che l’Altro vuole. Il perverso è definito da una mancanza di interrogazione. E parafrasando Žižek, il cinema è un’arte perversa perché non ci offre quello che desideriamo, ma, al contrario, ci dice precisamente come desiderare, ci addestra a farlo mentre ne siamo più o meno consapevoli.

Questo concetto lo spiegano benissimo due delle pellicole prese corposamente in esame in questa “guida”: ‘Essi vivono’ (1988) di John Carpenter e ‘Operazione diabolica’ (1966) di John Frankenheimer.

Consideriamo la prima, ad esempio. ‘Essi vivono’ è un film di fantascienza degli anni Ottanta che include bizzarri alieni, un improbabile lottatore e un sacco di occhiali da sole. Mentre a prima vista, la pellicola può sembrare insomma un calderone pieno di sciocchezze, contiene in realtà un forte messaggio riguardo all’utilizzo dei mass media. Le lenti “radiografiche” indossate da John Nada sono la modalità operativa necessaria per disoccultare la menzogna ideologica; per metterla a fuoco occorre inforcare gli occhiali e non toglierli come recita il luogo comune.

Nei suoi 134 minuti poi ‘The Pervert’s Guide to Ideology’ estrae dal cilindro sequenze da: ‘Tutti insieme appassionatamente’, ‘Arancia meccanica’, ‘M*A*S*H’, ‘Full Metal Jacket’, ‘Il trionfo della volontà’, ‘Lo squalo’, ‘The Fall of Berlin’, ‘Gli amori di una bionda’, ‘Titanic’, ‘Brazil’, ‘Sentieri selvaggi’, ‘Taxi Driver’, ‘Zabriskie Point’. Žižek usa le varie situazioni narrative per illustrare punti teorici o per riflettere sull’ideologia contemporanea.

Immagino sia lecito attendersi che qualcuno storca il naso per la logorrea dogmatica e l’esibizionismo di questo istrionico narratore, che la Fiennes asseconda in tutto e per tutto. Ad altri poi non piacciono le opere che sembra  “dimostrino un teorema”, un po’ alla Michael Moore. Personalmente mi limito ad augurare che prima o poi questi due film diventino una trilogia.

Massimo Lanzaro

Monuments Men: Clooney ci ricorda il valore dell’arte come elemento di memoria storica

La pellicola è la trasposizione cinematografica del libro omonimo, basato, come si suol dire, su una storia vera (The Monuments Men: Allied Heroes, Nazi Thieves, and the Greatest Treasure Hunt in History) scritto da Robert M. Edsel nel 2009.

“Mi trovavo a Firenze” – raccontò Edsel – “Un giorno stavo attraversando Ponte Vecchio, l’unico ponte che i nazisti avessero risparmiato durante la loro fuga nel 1944, quando ho ripensato a quello che è stato il peggiore conflitto della storia e mi sono domandato come fossero riusciti a sopravvivere tanti tesori artistici e chi li avesse salvati. Ho voluto trovare una risposta a queste domande.”

La risposta è (pressapoco): mentre le forze alleate stavano sferrando il loro attacco alla Germania lo storico dell’arte Frank Stokes (Clooney nel film) ottiene l’autorizzazione da Roosevelt in persona di mettere insieme un gruppo di esperti che cerchi di recuperare le opere d’arte trafugate dai nazisti per salvarle e restituile ai legittimi proprietari. Si trova quindi alla guida un gruppo di sette non più giovani e poco in forma  direttori di museo, curatori, artisti, architetti e storici dell’arte, insomma un singolare manipolo di eroi improbabili, arrugginiti e volenterosi.

I Monuments Men erano di fatto impegnati in una corsa contro il tempo. Mentre gli Alleati convergevano su Berlino, Hitler era poco propenso ad accettare una resa incondizionata: se non avesse potuto avere la Germania, nessun altro l’avrebbe avuta. “Con quello che fu chiamato ‘Ordine Nerone’”, ha spiegato Clooney, “Hitler ordinò la distruzione di tutto: ponti, ferrovie, apparecchi di comunicazione – e anche le opere d’arte. Tutto”.

Cosa convince: il cast è un plotone di star, per lo più in forma: George Clooney, Matt Damon, John Goodman, Jean Dujardin, Hugh Bonneville e Bill Murray (sulla sua scelta e sulla esilarante coppia che forma con Bob Balaban ci sono però pareri discordanti). Ad aiutarli inoltre una raffinatissima Cate Blanchett nei panni della “collaborazionista” Rose Valland. Tutti al servizio di una riflessione sul valore dell’arte e della vita umana.

Cosa non convince: la trionfante retorica patriottica e militarista, alcune sbavature nella sceneggiatura e una dose eccessiva di spensieratezza stridente, data la drammaticità del periodo storico narrato. Aggiungiamo le caratterizzazioni vaghe dei personaggi e la sensazione che di arte si sarebbe potuto parlare in maniera più approfondita, avendo creato “l’occasione”.

Conclusione: non si tratta di Schindler’s List, ma è un ritratto della seconda guerra mondiale da una prospettiva abbastanza inedita ed un gradevole omaggio ai protagonisti silenziosi di una pagina sconosciuta della storia contemporanea.

Massimo Lanzaro

La depressione: un tentativo di trovare spiragli di luce nel male oscuro (Parte II) La depressione: un tentativo di trovare spiragli di luce nel male oscuro (Parte II) Il ruolo dello stress nella depressione atipica

Con il termine “depressione atipica” si intende un particolare sottotipo di disturbo dell’umore, caratterizzato essenzialmente da depressione con umore reattivo (in pratica l’umore “migliora se capita qualcosa di buono, peggiora se capita qualcosa di negativo”; questo non succede nelle altre forme di depressione dove l’umore è “stabilmente giù” e non reagisce agli stimoli e agli eventi stressanti esterni). Altri sintomi sono: iperfagia, ipersonnia ed estrema astenia (sorta di profonda stanchezza cronica); spesso la sintomatologia depressiva si accompagna ad ansia rilevante. C’è di solito peggioramento serale, il contrario di ciò che accade nella depressione maggiore endogena, in cui le persone riferiscono quasi sempre di sentirsi “peggio al mattino”.

Poiché in questo tipo di sindrome come detto la persona “risente degli eventi esterni”, ritengo utile descrivere il  modello per spiegare l’origine del malessere psichico che viene chiamato in gergo “la teoria vulnerabilità-stress-appraisal-coping”. Questo modello rappresenta una via di uscita nel dibattito serrato fra teorie psicosociali (che ignorano o sottostimano l’importanza dei fattori biologici) e teorie biologiche (che ignorano o sottostimano l’importanza dei fattori psicologici o sociali).

La vulnerabilità va intesa come una predisposizione congenita, in parte ereditaria e in parte acquisita, probabilmente associata ad anomalie del metabolismo di alcuni neurotrasmettitori; tale predisposizione interagisce con fattori psicologici.

Questo determina una specifica soglia di vulnerabilità di base per ciascuno di noi, che se superata in seguito ad eventi stressanti, dà origine all’episodio di malessere o ad una conclamata sindrome psichiatrica.

Lo stress contribuisce in modo rilevante allo sviluppo di condizioni patologiche, fisiche e psicosociali, negli esseri umani. “Str” è un prefisso che suggerisce esercizio di pressione: il greco “strangalizein” e il suo derivato inglese e sinonimo “to strangle” (strangolare), analogamente al latino “stringere” (stringere), hanno le loro origini in un passato molto lontano.

Sono identificabili due tipologie di stress: lo stress quotidiano e quello legato ad eventi improvvisi.

Lo stress quotidiano è quello collegato agli abituali eventi di vita familiare, sociale e lavorativa. Lo stress legato ad eventi acuti ed improvvisi è stato associato all’insorgere di vari disturbi psichiatrici, quali appunto la depressione, la schizofrenia, la mania, e i disturbi post-traumatici.

Quindi l’interazione tra stressors che disturbano l’omeostasi e le risposte adottive (coping) attivate dell’organismo (inteso in senso psico-fisico) può avere di massima tre esiti possibili. Primo, la partita può essere “vinta”; secondo, la risposta adattiva può essere inappropriata (ad esempio inadeguata, eccessiva e/o prolungata) e l’organismo “soccombe manifestando sintomi di malessere”; terzo, l’organismo trae da questa esperienza una nuova, migliore capacità omeopatica.

Il coping, inteso come l’insieme di strategie mentali e comportamentali (come decidiamo di giocare la partita) che sono messe in atto per fronteggiare una certa situazione, è stato tradizionalmente considerato come una caratteristica piuttosto stabile di personalità. In seguito le modalità di coping sono state analizzate come reazioni flessibili e mutevoli a eventi di vita quotidiana stressanti.

Gli orientamenti più recenti considerano il coping come un processo che nasce da interazioni che superano o sfidano le risorse di un soggetto e che è formato da molteplici componenti, quali la valutazione cognitiva (appraisal) degli eventi, le reazioni di disagio, le risorse personali e sociali, etc.

Il modello della bilancia ad esempio distingue tra interno (individuo) ed esterno (contesto) e tra richieste e risorse, e individua i seguenti fattori:
– le “richieste esterne”: in generale, le domande del contesto, la pressione ambientale;
– le “risorse interne”: le risorse dell’individuo, le capacità e abilità personali;
– le “richieste interne”: i bisogni e le aspettative della persona;
– le “risorse esterne”: i supporti esterni di varia natura.

L’appraisal invece è la personale attribuzione di significato agli eventi e la percezione della propria capacità di far fronte alle conseguenze (Quello che è terribile e traumatico per una persona può non esserlo affatto per un’altra; le risorse che riteniamo di avere non corrispondono sempre a quelle disponibili in realtà etc.).

Dati i fattori descritti si comprende come gli obiettivi di un trattamento efficace, anche nel caso di una depressione (specialmente atipica) dovrebbero essere: innalzare la soglia di vulnerabilità, diminuire lo stress, migliorare le capacità di coping ed analizzare le attribuzioni (sovente erronee) di significato.

E’ intuitivo che nel caso di patologie gravi tutte queste componenti raramente possono essere affrontate unicamente con un trattamento psicofarmacologico, ma bisogna avvalersi di un approccio terapeutico integrato.

Massimo Lanzaro

Una negoziazione tra il simbolico ed il sublime. L’arte di Caroline Le Méhauté a Bologna Arte Fiera 2014

Il curatore Alberto Mattia Martini ha detto: “Caroline Le Méhauté, pur non potendo essere annoverata tra gli artisti della Land Art sia per una questione anagrafica che per una contestualizzazione dell’oggetto artistico non solamente finalizzato al naturale, interpreta perfettamente il senso del sublime naturale.”

RISVOLTI PSICOLOGICI

In psicoanalisi (Freud), la sublimazione è un meccanismo che sposta una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta non sessuale o non aggressiva. Questo consentirebbe una valorizzazione a livello sociale delle pulsioni sessuali o aggressive nell’ambito della ricerca, delle professioni o dell’attività artistica. “La macchina psicologica che trasforma l’energia è il simbolo” diceva invece Jung nel 1928.

In una piccola opera dal titolo “Energetica Psichica” affrontò il tema in termini evolutivi rispetto all’opera di Freud, sostenendo che la libido subisce in gran parte una trasformazione naturale (metabolica), ma che in piccola parte può essere dirottata per produrre altre forme. Dal corso naturale delle cose, possiamo sottrarre “energia eccedente” con cui fare un lavoro, produrre cioè oggetti e attività di valore individuale e collettivo.

L’energia vitale espressa da una cascata ad esempio – dice Jung – acquisisce un valore funzionale e non solo estetico, nel momento in cui viene convogliata in una diga e dunque in una centrale idroelettrica. L’energia naturale acquisisce valore nel mondo degli uomini quando, ricondotta in un sistema dotato di senso, viene spinta a fare un lavoro. Lo strumento che Jung suggerisce per distogliere energia dal corso naturale (ovvero per la sublimazione) è il simbolo. Il simbolo è un segno ricco di possibilità interpretative in parte individuali, in parte archetipiche. Il simbolo spinge l’uomo a “dare senso”, deviando il corso naturale dell’accadere psichico.

RISVOLTI FILOSOFICI

Nel 1790, Immanuel Kant, muovendo da una contrapposizione tra estetica del bello ed estetica del sublime, torna su quest’ultimo concetto nella Critica del Giudizio, ampliandolo e distinguendo tra sublime dinamico (espressione della potenza annientatrice della natura, di fronte alla quale l’uomo prende coscienza del limite) e sublime matematico (che nasce dalla contemplazione della natura immobile e fuori dal tempo). Al primo tipo appartengono fenomeni spaventosi quali gli uragani o le grandi cascate, al secondo tipo gli spazi a perdita d’occhio del deserto, dell’oceano e del cielo.

CAROLINE

Ora mi soffermerò su qualche pensiero ispirato da una mia conversazione con la stessa Caroline Le Méhauté, artista francese – vive e lavora tra Marsiglia e Bruxelles – che già vanta numerose esposizioni artistiche internazionali.

La galleria Spazio Testoni di Bologna inaugura la sua prima personale in Italia, che si concentra prevalentemente su un nucleo preciso di opere che in una dimensione di “silenzio”, accentuano una comune matrice e sintesi tematica, che indaga la correlazione che intercorre tra “natura, umano, aria, spazio e terra”.

La stessa Caroline mi spiega che “Négociation rappresenta un peculiare dialogo aperto ad esempio tra fruitore e artista, tra natura e uomo, da cui però traspaiono congiunture politiche profonde”.

A supporto della sua poetica, fatta di levità, concorrono anche i molteplici materiali di cui si avvale nella sua ricerca come: torba, fibra di noce di cocco, metallo, chine, acquerelli, paraffina, pigmenti ed elementi naturali di vario genere, dalle quali prorompe sempre un’energia creativa unica.

Négociation è il titolo che la Le Méhauté assegna praticamente a tutti i suoi lavori: Négociation più un numero, che identifica nello specifico a quale opera si sta facendo riferimento. Il termine Négociation che vede la sua traduzione letterale in italiano con negoziazione o trattativa implica e desidera interazione e reciprocità.

Le decisioni presuppongono sempre una rinuncia o comunque una scelta (anche non scegliere implica una scelta), comportando innanzitutto un dialogo/conoscenza/ascolto con il sé, un’introspezione. Questa dinamica intrapsichica è il punto di partenza della installazione Négociation 59, “décisions sourdes”. Una stanza, una lampada, una sedia e un tavolo interamente ricoperti da torba di cocco. Sullo scrittoio si intravede uno specchio. Chiaramente il simbolismo rimanda ai dialoghi intersoggettivi e successivamente tangibile è l’allusione alla morfogenesi della politica se non della società. Mentre la fibra della natura contempla guardingamente la presenza/assenza dell’uomo.

CONCLUSIONE

La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell’universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell’anima, individuale e collettiva. La sordità, l’incapacità di vedere e ascoltare se stessi, gli uomini e la natura, il tumulto che è solo rumore di fondo, creano  disintegrazione, interiore ed esteriore. E Caroline, con la sua arte, sublima tutto questo nell’hic et nunc, ma in silenzio.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/una-negoziazione-tra-il-simbolico-ed-il-sublime/

La depressione: un tentativo di trovare spiragli di luce nel male oscuro (Parte I)

Una premessa, qualche definizione e tre equivoci sulle sindromi depressive

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la depressione è la prima causa di disfunzionalità nei soggetti tra i 14 e i 44 anni di età. Sembra colpisca nel mondo circa 350 milioni di persone, deteriorandone (tra le altre cose) la capacità di lavoro e di relazione. Nella sua forma più grave può portare al suicidio e sarebbe responsabile di quasi un milione morti ogni anno.

Quello della depressione è un tema che negli ultimi anni è diventato assai popolare, ma sul quale esistono molta confusione e diversi equivoci; l’esperienza mi suggerisce che anche se non esistono affatto ipersoluzioni, un buon punto di partenza dovrebbe sempre essere la corretta definizione del problema o, se appropriato, un globale inquadramento diagnostico con l’aiuto di uno specialista. Vorrei dunque cominciare questa serie di brevi scritti descrivendo alcuni dei suddetti elementi confusivi.

Il primo equivoco consiste nel confondere la condizione clinica chiamata depressione con la tristezza normale o con la demoralizzazione. Secondo me sono ancora validissime le parole di Arieti, che nel 1978 diceva della tristezza e della demoralizzazione: “sono il comune dolore che coglie l’essere umano quando un avvenimento avverso colpisce la sua esistenza precaria, o quando la discrepanza tra la vita com’è e come potrebbe essere diventata il centro della sua fervida riflessione”, mentre “è meno comune, ma abbastanza frequente da costituire uno dei principali problemi psichiatrici, il dolore che non si attenua col passare del tempo, che sembra esagerato in rapporto al presunto evento precipitante, o inappropriato, o non collegato ad alcuna causa evidente”. Questa è la depressione, che a sua volta può essere graduata su un continuum di severità (di nuovo, compito che spetterebbe ad un professionista della salute mentale) e fa  parte dei disturbi dell’umore, insieme ad altre patologie come la mania e il disturbo bipolare. Essa può assumere la forma di un singolo episodio transitorio (si parlerà quindi di episodio depressivo) oppure di un vero e proprio disturbo (si parlerà quindi di disturbo depressivo). Quando i sintomi sono tali da compromettere l’adattamento sociale si parlerà di disturbo depressivo maggiore, in modo da distinguerlo da depressioni minori che non hanno gravi conseguenze e spesso sono normali reazioni ad eventi della vita.

Secondo la versione più recente del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) l’episodio depressivo maggiore è caratterizzato da sintomi che durano almeno due settimane causando una compromissione significativa del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

Fra i principali sintomi vengono elencati i seguenti:
– Umore depresso (es. tristezza, melanconia accentuate) per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
– Marcata diminuzione o perdita di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (anedonia o apatia).
– Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
– Affaticabilità, perdita o mancanza di energia o slancio vitale quasi ogni giorno (astenia).
– Disturbi d’ansia (es. attacchi di panico).
– Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
– Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno.
– Diminuzione o perdita di motivazioni personali, capacità di pensare, concentrarsi, risolvere problemi, prendere iniziative, decisioni, agire (inerzia, svogliatezza o abulia) e pianificare il proprio futuro quasi ogni giorno.
– Tendenza all’isolamento, alla solitudine e alla sedentarietà con diminuzione dei rapporti sociali e affettivi.
– Tendenza alla sfiducia e al pessimismo o negativismo marcato sulla realtà e i problemi di vita.
– Sentimenti di impotenza, autosvalutazione (es. diminuzione di autostima) fino a senso di sconforto o disperazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa, risentimento e rimurginazioni eccessive quasi ogni giorno (fino a casi limite di angoscia e deliri con distacco dalla realtà).
– Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, l’elaborazione di un piano specifico per commetterlo oppure un tentativo di metterlo in atto.

I sintomi non son necessariamente tutti presenti, ma per parlare di episodio depressivo maggiore è importante sottolineare che è necessaria la presenza contemporanea di almeno cinque dei sintomi sopra elencati.

Mario Maj recentemente ha scritto: “come mai la distinzione tra depressione e demoralizzazione non viene chiarita quando si parla alla gente? A volte per ignoranza. Altre volte per malafede, perché indubbiamente quanto più si rinforza il messaggio che la depressione è una condizione a cui tutti prima o poi andiamo incontro, tanto più ampia è l’audience di cui si richiama l’interesse. Le conseguenze di questa confusione tra depressione e demoralizzazione possono essere molto serie. Accade abbastanza frequentemente, ad esempio, che personaggi pubblici raccontino la loro storia alla televisione o su una rivista dichiarando di essere stati colpiti dalla depressione e di esserne usciti grazie alla propria forza di volontà o al calore dei familiari o degli amici, e invitando le persone depresse a diffidare dei farmaci e di qualsiasi altro intervento specialistico”.

Nella quasi totalità dei casi si tratta di persone che non hanno sofferto di una vera depressione, ma hanno soltanto attraversato un periodo di demoralizzazione, e il loro messaggio può essere dannoso per le persone veramente depresse e per i loro familiari, che possono essere indotti a non iniziare o a interrompere una terapia che sarebbe stata efficace.

Il secondo equivoco fondamentale nasce dal fatto che la depressione viene spesso considerata una condizione unitaria e omogenea, che si manifesta sempre allo stesso modo, che ha sempre la stessa origine e che si cura sempre allo stesso modo, mentre in realtà non esiste la depressione, ma esistono le depressioni, cioè una gamma di condizioni depressive che si manifestano in maniera differente, nella cui genesi i fattori biologici, psicologici e sociali intervengono in misura differente, e che si curano in modo differente.

Il terzo equivoco, che abbiamo forse tacitamente mutuato dalla belligerante cultura anglosassone è che la depressione sia “un male che si deve combattere”: attingendo all’arsenale farmacologico, con le tecniche di psicoterapia più alla moda (inclusa quella cognitivo-comportamentale) o con una combinazione di varie strategie. Di nuovo, non voglio agitare la bacchetta magica o ipersemplificare, ma se c’è una cosa che una persona realmente depressa dovrebbe fare, in un certo senso, è proprio il contrario: smettere di combattere, almeno per un po’. La depressione – diceva Jung -è una signora in nero, quando appare non bisogna scacciarla ma invitarla alla nostra tavola per ascoltarla.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/la-depressione-un-tentativo-di-trovare-spiragli-di-luce-nel-male-oscuro-parte/

 

Violenza sulle donne e uomini cattivi

 

Ricordi e riflessioni ispirati da una pellicola di Chabrol del lontano 1993

Lo spunto per questo scritto, viene dalla recentissima giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nel mondo c’è una vera e propria “epidemia”: una donna su tre ha subito, a livello mondiale, abusi almeno una volta nella vita (dati OMS) e il 30 per cento di questi atti viene inflitto da un partner intimo. Anche in Italia, dove i casi sono aumentati da 84 nel 2005 a 124 nel 2012. E nel primo semestre del 2013 i casi di violenza sono stati 65. Molte di queste vittime riportano lesioni gravissime, qualcuna viene uccisa, le altre subiscono violenze di tipo persecutorio da cui escono segnate nel corpo e nell’animo.

In genere le cronache e le convinzioni popolari tendono ad applicare agli omicidi di donne lo schema del delitto passionale, commesso magari durante un “raptus” (termine ormai non più accettato dalla comunità scientifica) o sotto la spinta di una “temporanea follia” (definizione altrettanto molto discutibile). Questo modo di ragionare perpetua di solito due gravi malintesi: che siano delitti normalmente inevitabili, in quanto difficili da prevedere, oppure che si tratti di tragedie familiari e perciò appartenenti alla sfera privata, slegati da ogni contesto sociale più ampio e non privo di responsabilità.

Il fenomeno non ha né tempo né confini e non risparmia nessuna nazione, sia essa industrializzata o in via di sviluppo, in pratica una fragilità del sistema che si nutre di valori condivisi. Non conosce nemmeno differenze socio-culturali, perché vittime e aggressori appartengono a tutte le classi sociali e perché, al di là di quello che ci viene mostrato dai media, i rischi maggiori vengono da familiari, mariti, fidanzati o padri che siano, seguiti da amici, vicini di casa e colleghi di lavoro.

Ma cosa c’è dunque dietro gli uomini “cattivi”? Non credo di essere nel contesto appropriato per dare una risposta esaustiva o sistematica, c’è una vastissima letteratura in merito, e questa è una rubrica dove si parla di cinema. Tuttavia oggi rispolvero un film che parla proprio di violenza sulle donne: “L’inferno”, diretto da Claude Chabrol, che mi sento sinceramente di suggerire (a chi non lo abbia visto). Perché? Forse perché prova a descrivere una delle possibili risposte alla domanda precedente, ovvero: in alcuni casi, dietro (e dentro) gli uomini “cattivi” c’è una sindrome psichiatrica che si manifesta in modo subdolo e che può avere conseguenze anche terribili.

La narrazione descrive il percorso di un giovane uomo, Paul, proprietario di un albergo in riva ad un lago sui Pirenei, acquistato a costo di grossi sacrifici economici. Raggiunto lo scopo della sua vita, Paul si mette alla ricerca di una donna e conquista la “bella del paese”: l’esuberante e procace Nelly, che ben presto lo rende padre di un bel bambino.

L’albergo è accogliente e ben frequentato e costringe Paul a sottoporsi ad un lavoro di gestione continuo e stressante, a cui si aggiungono le frequenti bevute in compagnia degli ospiti, che lo rendono nervoso e insonne, tanto che si ritrova costretto a far (ab)uso di ipnoinducenti. Nelly, sua moglie, cerca di rendersi utile, aiutandolo nel lavoro e intrattenendo affabilmente gli ospiti. Ma tutto ciò non è visto di buon occhio dal marito. La donna cerca più volte di sdrammatizzare la situazione, ride della gelosia del marito, crede si tratti di un eccesso di amore, pensa si tratti di normalità. Purtroppo si intuisce che date le circostanze e gli sviluppi quella forse non era “la cosa giusta da fare”.

In psichiatria, il disturbo delirante è una forma di delirio cronico basato su un sistema di credenze illusorie che il paziente prende per vere e che ne alterano la percezione della realtà. Queste credenze sono in genere di tipo verosimile, come la convinzione di essere traditi dal proprio partner. Escludendo l’incapacità di valutare oggettivamente il sistema di credenze illusorie che danno origine al delirio, il paziente mantiene le proprie facoltà razionali e in genere le sue capacità di relazione sociale non sono inizialmente compromesse. Alcune forme di disturbo delirante venivano  tradizionalmente indicate come casi di paranoia, termine che oggi è in disuso nella comunità scientifica internazionale.

Come nel film la nascita del disturbo può non avere sintomi rilevanti dal punto di vista delle capacità dell’individuo di vivere una vita sociale relativamente normale, ma la sua degenerazione può insidiosamente modificare questa situazione. Inciso: purtroppo, senza alcun intervento adeguato, senza una identificazione precoce da parte di un professionista a volte questi uomini possono isolarsi progressivamente, diventare violenti e “cattivi”.

Tornando al film: lontano dal lirismo di un Bergman o dalle nevrosi intellettuali di un Allen, Chabrol segue la storia con l’occhio di uno scienziato, attenendosi al fatto reale e al dato psicologico. Ed è forse il motivo per cui a mio avviso è un autentico capolavoro.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/violenza-sulle-donne-e-uomini-cattivi/

 

Principi? No, principesse!

Principi? No, principesse!

Uno sguardo al nuovo prodotto della Disney, stabilmente in cima al box office

Frozen – Il Regno di Ghiaccio è un film del 2013 diretto da Chris Buck e Jennifer Lee. È un film animato al computer, prodotto dalla Walt Disney Animation Studios e distribuito dalla Walt Disney Pictures. È vagamente ispirato alla fiaba di Hans Christian Andersen “La regina delle nevi”. Diciamo invero che entrambe le storie hanno in comune la neve e nulla più: “La regina delle nevi” è una delle fiabe più belle e lunghe di Andersen, divisa in sette sezioni, ognuna delle quali descrive una vicenda compiuta. Questo invece è il 53° Classico Disney ed è stato distribuito negli Stati Uniti il 27 novembre 2013, mentre in Italia il 19 dicembre.

Vi si narra di una principessa, Elsa, primogenita della famiglia reale di Arendelle, nata con un particolare potere magico: può infatti creare e manipolare il ghiaccio e la neve. Finché è bambina, questo particolare dono sembra una simpatica magia, tanto che lei lo usa per giocare insieme alla sua sorellina Anna.

Il film segue fondamentalmente la formula Disney e fa un po’ di pasticci con alcuni ingredienti, in particolare la musica e i relativi testi, con passaggi addirittura un po’ fastidiosi. Molte cose tuttavia funzionano egregiamente, a cominciare dall’atmosfera magica e la cura per il dettaglio animato. I  bambini in sala trovano la renna e il pupazzo di neve molto divertenti, e si sentono fragorose risate ogni volta che sono sullo schermo.

La dicotomia tra calore, spirito di carità, energia cosmica che tende e fa tendere all’unità e l’indifferenza, la mancanza di compassione per le sofferenze degli altri, il disinteresse e “la freddezza nei rapporti” costituiscono il presupposto della coerenza cinematografica archetipica, con qualche significativa variazione.

Si assiste ad una navigazione nei simboli della psiche, come sempre accade quando si ha a che fare con la fiaba, genere che pare pretesto per trascrivere miti, sogni, ed esercitare un’immaginazione molto attiva che dà indicazioni esistenziali.

Anche questa è la storia di una crescita, il racconto simbolico di un itinerario femminile dall’infanzia all’età adulta. In simili drammi solitamente l’anima che diventata “di ghiaccio”, simbolo di lontananza inattingibile, segno di una ferita profonda (che in questo caso sembra essere la mera nascita/peccato originale?) è solitamente in attesa di un uomo/eroe, vero e responsabile, capace di rispondere, che sappia scioglierla dal doloroso incantesimo. Qui invece prevalgono le istanze femministe: entrambe le principesse di Frozen sono forti, con curve sospette, ma capaci di fornire la soluzione, di “parlare per risolvere le cose”, senza brandire mai armi per tutto il film. Dei due protagonisti maschili, quello che più si avvicina ad incarnare i tipici principeschi tratti maschili come cavalleria e coraggio fisico viene fatto addirittura diventare “cattivo”. Che siano queste in essenza le “indicazioni esistenziali dell’inconscio collettivo” che vengono da questa fiaba?

Qualcuno ha notato che: “vi si riesce a capire e ad apprezzare ciò che Papa Francesco ha recentemente sottolineato nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium (La gioia del Vangelo)”, che è “l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini.”

Ah, dimenticavo: la proiezione del film viene anticipata da un nuovo cortometraggio di Topolino (Get a Horse!, diretto da Lauren MacMullan), risalente al primo periodo disneyano, utilizzando sia l’originale in bianco e nero sia la CGI, con la voce di Mickey Mouse ancora doppiata da Walt Disney in persona. Un momento “diacronico” davvero gustoso, quasi imperdibile, anche per i bambini “senior”.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/principi-principesse/