L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).

 

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Filosofia e Sapienza: Le radici del platonismo

In genere, la storiografia moderna e contemporanea interpreta la filosofia greco-italica basandosi sui pregiudizi evoluzionistici correnti, ormai divenuti una specie di norma inappellabile, senza considerare minimamente il punto di vista degli antichi.

Che cosa pensavano della nascita della filosofia i suoi maggiori esponenti? Quali furono i rapporti con le epoche precedenti? Per rispondere, niente di meglio dell’autorevole testimonianza di Platone.

«Si dice che Pitagora sia stato il primo a chiamare se stesso filosofo, non limitandosi a introdurre questo nuovo nome, ma spiegandone l’effettivo significato […]. La Sapienza è un reale sapere intorno al Bello, al Primo e al Divino sempre identici a se stessi, di cui le altre cose partecipano. La filosofia è invece desiderio di siffatta contemplazione speculativa. Bello è pertanto anche questo sforzo interiore di formazione spirituale, che per Pitagora contribuisce all’emendazione degli uomini»1.

La definizione riportata da Giamblico a proposito di Pitagora, può ben applicarsi anche al pensiero di Platone, il quale nelle sue opere mostra di condividere il modo pitagorico di intendere il rapporto Filosofia-Sapienza. I numerosi riferimenti presenti nei Dialoghi alludono ad una Sapienza arcaica, originaria, che sarebbe compito delta filosofia riscoprire e far rivivere. Non a caso, Platone parla degli “antichi, che erano più valenti di noi e vivevano più vicino agli dei”2, aggiunge inoltre che essi ci hanno tramandato la rivelazione secondo cui ogni cosa porta in sé connaturato illimite e limite: si tratta di un aspetto della dottrina tradizionale dell’integrazione degli opposti, di cui si dovrà parlare in un’altra occasione. Qui basterà ricordare che l’esemplificazione particolarmente significativa fornita nel Filebo chiarisce che tale importante dottrina, essendo stata tramandata, non può essere un prodotto della filosofia greca, la quale si limita a raccogliere e rivalutare un insegnamento ben noto a coloro che dimoravano nei pressi degli dei.
Si potrebbero proporre molti altri esempi del genere, i quali abbondano nelle opere platoniche, e a volerlo fare non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per il momento ci limiteremo a richiamare quanto si dice nel Timeo (III, 22 B):

«Ma uno di quei sacerdoti, che era molto vecchio, disse: o Solone, voi greci siete sempre dei fanciulli, e un greco vecchio non esiste. […] Voi siete tutti giovani d’anima, perché in essa non avete riposto nessun insegnamento di antica tradizione, nessun insegnamento canuto per l’età”.

Qui si narra che il grande Solone abbia incontrato i sacerdoti egizi di Sais, e abbia riconosciuto la loro superiorità spirituale, sottolineata da uno di quei sacerdoti stessi, il quale contrappone l’insegnamento tradizionale all’anima greca, giovane e inesperta se confrontata con quella egizia, saggia e matura. Il brano è interessante perché, oltre a confermare quanto abbiamo sostenuto in precedenza, indica esplicitamente l’Egitto come culla della Sapienza, considerazione questa che può avvalorare la discussa ipotesi del viaggio di Platone in Egitto, notizia per altro riportata senza alcuna esitazione da Diogene Laerzio nel III libro delle Vite dei filosofi.
In ogni caso è fuor di dubbio il prestigio riconosciuto all’antica cultura egizia, riconoscimento questo del tutto normale nelle scuole gravitanti nell’orbita pitagorica, dato che Pitagora stesso avrebbe appreso le dottrine esoteriche soprattutto nel corso dell’iniziazione presso i sacerdoti egizi.

Tale supremazia viene attestala anche nell’Epinomide, dove si ricordano Egitto e Siria come esempi di civiltà superiori, che seppero fondare la loro vita su una adeguata visione dei fenomeni cosmici,

«ed è da quei paesi che tali osservazioni si sono poi diffuse ovunque, anche qui, dopo un’infinita serie di anni”3.

Qui si fa notare, ancora una volta, il carattere arcaico di conoscenze che poi sono state diffuse anche in altre aree, oltre a quelle originarie.
Detto questo, non è nostra intenzione assolutizzare il ruolo dell’antico Egitto come fonte di Sapienza, dato che i dialoghi presentano una grande ricchezza di riferimenti, non tutti e non sempre riconducibili alla civiltà egizia; in ogni caso, pur nella loro varietà, essi confermano la realtà di una dimensione sapienziale preesistente, articolantesi secondo varie modalità.

Non possiamo che sottoscrivere le belle parole del Colli, là dove dice che

«Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti i sapienti […]. Amore, della Sapienza non significa, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto”.4

In base a quanto sopra esposto, il platonismo non risulta essere una filosofia originale che si affianca ad altre forme di pensiero, come volentieri immaginano i moderni, ossessionati dalla ricerca della novità capace di giustificare una storia della filosofia che si vuole evolutiva a tutti i costi; al contrario esso emerge quale momento fondamentale di recupero e rivitalizzazione di dottrine appartenenti a varie correnti tradizionali del passato. La creatività di Platone è data dalla geniale capacità di ricomprenderle (almeno in parte) e reinserirle in un sistema di pensiero organico ed aperto nello stesso tempo, con tutte le difficoltà che un’impresa di tal genere comporta; da questo punto di vista, l’Accademia continua ed integra l’attività delle scuole pitagoriche, che già prima di Platone avevano impostato un progetto orientato in tale direzione.

Del resto, a guardare la storia del pitagorismo, anche dopo Platone riesce impossibile trovare una netta linea di demarcazione, non la si ritrova nemmeno nelle opere platoniche, le quali evidenziano di continuo linguaggi, contenuti personaggi vincolati alla cerchia orfico-pitagorica, che quindi per la formazione del platonismo appare importante non meno di Socrate.
Come si può facilmente intuire, l’interesse di Platone per i libri di Filolao pitagorico, era tutt’altro che esteriore; lo stesso dicasi per quanto riguarda i rapporti con il sodalizio di Archita, a Taranto. Tra gli amici di Socrate, condannato a morte, non a caso figurano Simia e Cebete, già discepoli di Filolao (essi restano ad Atene per tutto il periodo processuale, fino all’esecuzione).
Fedone racconta la morte di Socrate al pitagorico Echecrate. II pitagorico italico Timeo dà il nome all’omonimo dialogo, che è certamente uno dei più importanti. Per quanto concerne i principali insegnamenti, quasi tutte le opere platoniche presentano evidenti riferimenti all’Orfismo e al Pitagorismo: ciò vale per la concezione della medicina, le dottrine dell’anima, del risveglio spirituale, delle idee, dell’integrazione degli opposti, della purificazione e della contemplazione…

Egizi, orfici e pitagorici non sono i soli referenti di Platone, molti altri se ne possono ricordare, tra cui la Sparta licurgica, il sacerdote Abaris, scita iperboreo, Zalmoxis di Tracia, Minosse legislatore di Creta, il culto di Apollo ed Asclepio, e quello della Quercia.

Gli esempi citati non esauriscono minimamente l’argomento, ma almeno danno un’idea della varietà multiforme delle fonti platoniche, una rassegna delle quali esigerebbe uno studio a parte, data la loro grande ricchezza. A questo proposito aggiungiamo un’ultima rapida annotazione: spesso Platone si ricollega a tempi lontani ormai poco conosciuti, ed infatti nelle sue opere compaiono con insistenza elementi del passato appartenenti a dimensioni che sfuggono alle consuete ricerche storiografiche; non per questo essi possono essere sottovalutati, data l’importanza che rivestono per chi voglia avvicinarsi al Platonismo e più in generale alla filosofia classica.
Occorre invece riuscire a valorizzarli e riconoscere in essi le origini sapienziali del Platonismo stesso: di esso ci si vieta la comprensione, qualora ne vengano dimenticate le radici. Platone getta squarci di luce su mondi spesso inaccessibili allo storico: proprio per questo la documentazione inconsueta che ci fornisce merita un sovrappiù di attenzione, data la preziosa rarità delle informazioni e l’autorevolezza eccezionale della testimonianza.

Platone utilizza ripetutamente elementi mitici quali vie di accesso a quei mondi tradizionali che costituiscono l’humus fecondo del suo stesso filosofare; utilizza elementi mitici per suscitare la comprensione di quei contenuti sapienziali che dovrebbero costituire il fine di ogni autentica ricerca filosofica. Così facendo, egli propriamente non inventa nulla: piuttosto, riporta alla luce ciò che stava retrocedendo nell’oblio e nel far questo è stato impareggiabile, stimolando il risveglio di un’intera civiltà in via di assopimento e dando forma a quel movimento di pensiero e vita che possiamo chiamare Filosofia Classica.

Paolo Scroccaro
(Professore a riposo di Storia e Filosofia a Treviso, da molti anni è il principale animatore dell’Associazione Filosofica Trevigiana. Ha ottenuto il Diploma di perfezionamento in Filosofia delle scienze presso l’Università di Padova e Certificato Internazionale in Ecologia umana rilasciato dalle Università di Parigi, Bruxelles e Padova. Suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente).

Note

Giamblico, La vita pitagorica, XII, 58-59.

Filebo, VI, 15 C-D.

Epinomide, 987.

G. Colli, La nascita della filosofia, pagg. 13-14.

L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).

Porto VII

Nel Fedro Platone riporta un’affabulazione egizia contro la scrittura. Il suo viso, dice, disabitua gli uomini a esercitare la memoria e l’immaginazione, rendendoli schiavi dei segni impressi sulla carta. I volumi sarebbero come dei ritratti: sembrano vivi, ma se si rivolge loro la parola, rimangono muti.

Nella VII lettera prosegue con maggior veemenza e afferma che nessun sapiente che sia veramente tale si sognerebbe mai di affidare alla scrittura la propria saggezza.

Prosegue idealmente su questa linea Clemente di Alessandria, che assicura: «Scrivere un intero libro (di cose sagge) è come lasciare una spada ad un bambino».

Insomma, la sapienza non è possibile comunicarla a tutti, a meno che non siano persone di coscienza elevata. Ma se sono tali riusciranno a comprendere il sapere anche se è velato. Per questo, sempre Platone, nel Timeo dice: «Duro compito è quello di scoprire l’artefice del creato e anche se lo scopri è impossibile farlo conoscere a tutti gli uomini».

La coscienza va insomma gentilmente nascosta, velata, per impedire che gli stolti possano impadronirsene.

Basta pensare a quanto è accaduto con l’energia atomica per provare un profondo rispetto per gli antichi maestri.

Bisogna dare per scontato dunque che esista un sapere «coperto», i cui segni sono stati lasciati a chi riesca a decodificarli? La tradizione neoplatonica vuole che esistano numerose «schegge» e che si possa accedere a esse mediante una continua ascesi individuale. Non si tratta di trasformarsi in mo­naci o mistici, tutt’altro. È come andare in palestra, ma con la mente. Come gli esercizi ginnici sviluppano i muscoli, così quelli psichici ampliano l’intelligenza e la comprensione.

Con il tempo ciò che era muto improvvisamente parla all’anima.