Certe volte un bambino

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Certe volte un bambino’ non è solo un racconto ma anche un progetto.

Nato per caso (vedi ‘storia del romanzo’), è diventato via via la storia di un bambino e della sua malattia.
 La consapevolezza che dietro ogni storia di malattia non c’è solo una sofferenza ma anche un percorso di conoscenza di sè e della vita, mi ha spinto a usare la narrazione come mezzo per sensibilizzare i lettori nei confronti di malattie che un tempo non potevano essere curate, mentre oggi, grazie all’impegno della ricerca scientifica e della assistenza medica e paramedica, posso essere affrontate, curate e spesso anche guarite.
Il protagonista del racconto, mentre dapprima è inconsapevole della sua malattia, acquista poi maggiore conoscenza di sè e della sua situazione. E’ spinto a crescere più in fretta, ma
crescere da malati non è per forza sinonimo di depressione o disperarzione. E’ più spesso una spinta per imparare a vedersi con occhi diversi e non per questo meno pieni di gioia per la vita e di speranza per il domani.
La malattia può e deve essere occasione di crescita tanto per il malato quanto per chi è solo spettatore.
Il malato è suo malgrado attore.
Gli ‘spettatori’ possono vivere nell’indifferenza passiva o diventare essi stessi protagonisti, adoperandosi per quanto loro possibile in favore di chi soffre.
Ci sono molti modi per dare aiuto.
Questo progetto vuole essere una via di aiuto.
Se una storia riesce a muovere e commuovere l’animo del lettore, allora si apre una piccola finestra che può dare alla fine grandi risultati collettivi, somma di ogni piccolo impegno dei singoli
Questo è stato lo spirito iniziale che mi ha portato a ideare il progetto che sto cercando di realizzare.
E’ nato così il progetto per aiutare la ricerca e l’assistenza ai malati e alle loro famiglie
che si è concretizzato nella collaborazione con l’Assiciazione Italiana per le Lucemie
Ma ho pensato di allargare l’idea stessa di ‘aiuto’ per non confinarlo solo all’aiuto che può portare il messaggio del libro. 

L’AUTORE
Riccardo Tomassini

Di giorno sono medico e, quando trovo il tempo, scrittore.
Di notte sono scrittore, specie mentre dormo e sogno.
Se di notte vengo chiamato per una urgenza, sono di nuovo anche medico. A volte insonnolito, ma nel momento di necessità anche lucido.
Insomma, questo è per dire che ho avuto, sto avendo, una vita da medico, ma al tempo stesso porto dentro di me questa necessità di scrivere: si tratta di una tendenza condivisa con milioni di altri esseri umani. A quanto si dice, in Italia pare vi sia una particolare concentrazione di scrittori e io non faccio eccezione.
Dopo anni di scrittura rigorosamente personale, ho finalmente deciso di seguire dei corsi di scrittura creativa, se non altro per capire a che punto stavo, per trovare un confronto e un conforto.
Sono state esperienze bellissime, molto ricche di spunti e fonte di crescita personale non solo dal punto di vista letterario ma anche umano in senso ampio e completo.
Un corso di scrittura creativa non insegna a scrivere se non si sa scrivere, ma insegna come si scrive a chi sa scrivere almeno un po’. Sembra un gioco di parole ma non è affatto così. Senza dilungarmi dirò che alla fine di questo percorso formativo mi sono deciso a scrivere qualcosa in più che non semplici racconti fatti per restare nel cassetto. Così ho pubblicato alcuni racconti in raccolte di Autori Vari, senza per altro avere l’ambizione di uscire dall’anonimato.
Di fatto questa è la mia opera seconda, ma per gli strani casi della vita, l’opera prima, costituita da una raccolta di racconti brevi, è ancora nel cassetto. Se devo aggiungere altro, vivo e lavoro a Roma, cosa d’importanza davvero marginale.
Altre eventuali curiosità posso soddisfarle se mi contatterete via mail: sarà un piacere per me rispondervi!
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Felipe, il pastore di nuvole

Portare al pascolo le nuvole non era mai stato un lavoro da poco.
Non tutti possono diventare loro pastori, nè si può riconoscere lì per lì chi è adatto e chi no. Quelli con la testa per aria non è detto che siano i più dotati.
Le nuvole sono per natura riottose, e mutevoli per forma e movimento come il vento che le spinge, ma non sono cattive. Sono selvatiche e non è facile prenderle e condurle là dove si vuole, questo sì.
Il fatto è che bisogna svegliarsi al mattino presto per cercare di imbrigliarle quando sono ancora assonnate. Ma in alto il giorno arriva prima e così di solito sono già sveglie quando in basso si sta al buio con il cappio in mano in attesa di lanciarlo al momento giusto. Se si riesce a prenderne una al volo, va domata con ben dosata fermezza. Poi si devono usare le briglie. Ci vuole un pastore per ogni nuvola e nei giorni di vento forte vanno tenute anche in due o tre per non essere trascinati via non si sa dove, come appesi a palloncini.
Una volta accalappiate però seguono mansuete e si lasciano tirare docilmente verso la prateria. Lì pascolano indisturbate e basta farle andare con delicatezza da una parte all’altra.
Felipe era stato pastore di nuvole fin da bambino come il padre e il nonno.
Suo padre lo portava con sè insegnando l’arte del lavoro e i segreti delle nubi e lui gliene era grato.
Diceva ‘Padre, da dove vengono le nuvole?’
E lui ‘Da laggiù, dietro l’orizzonte’
Oppure ‘Dove vanno dopo?’
‘Cosa vuoi che importi di dopo?’ rispondeva l’altro.
O anche ‘A che servono?’
Il padre scrollava la testa ‘Bada, tira bene le briglie, sennò ti scappa via… e ricorda: l’importante è non farsi mai bagnare dal loro pianto’
‘Perchè?’
‘Perchè è così da sempre’
Stava zitto per un po’, ma non tanto.
‘E che si fa se piange?’
‘Devi lasciarla andare subito via, libera. Però è toccato a pochissimi di noi’.
‘Perchè piangono?’ insisteva il ragazzo. Ma il padre guardava lontano senza dire nulla.
Allora a volte proseguiva ‘E se voglio toccare il loro pianto che succede?’
‘Ma che ti frulla per la testa, quante cose vuoi sapere tu? Sei un pastore e si può fare solo così’
‘Davvero?’ diceva lui fissandolo negli occhi
‘Basta ora’ troncava il padre voltandogli le spalle.
Col tempo l’anziano chiamò a sè il figlio. ‘Questa è la cavezza che ho sempre avuto, Felipe; d’ora in avanti la userai tu per me’.
Poi, come era usanza tra le loro genti, si allontanò in solitudine.
Felipe prese cavezza e briglie e fece il suo dovere a lungo.
Un giorno era seduto su una pietra, con una mano teneva alla briglia una nuvola che pascolava in un angolo remoto di prateria e lui lì a godere il profumo dei fiori selvatici e a ripensare alla sua vita.
Dall’alto la nube vagava con lo sguardo intorno, sazia del mondo già visto, piena di ogni sensazione e senza idea di cosa farne.
Si era fatta domare da un pover’uomo sperso nella grande pianura, indossava pantaloni rattoppati e una giubba scolorita. Lo guardò a lungo, ma infine lo vide; era vestito di quiete, di ricordi e di innocenza tutto, e d’improvviso pianse.
Felipe restò sorpreso perchè non gli era mai capitato. Tenne fede all’insegnamento e subito la liberò, ma la nuvola restò a piangere lì accanto.
Si allontanò e lei lo seguì da presso. Si avvicinò di un passo e lo stesso fece quella dall’alto.
Guardò intorno, non c’era nessuno. Esitò un poco ma allungò una mano nel pianto; la retrasse in fretta per osservarla attentamente. ‘E’ soltanto bagnata’ disse tra sè e la mise di nuovo dentro; quindi infilò il braccio e alla fine entrò con tutto il corpo. Era felice di lasciarsi bagnare dalle lacrime di nuvola, sembravano d’argento.
Accadde allora che lei si abbassò da lui in un abbraccio di nebbia, poi si dissolse lasciandolo zuppo e stralunato; niente però sembrava cambiato.
Tornò come sempre nell’antica casa a riposare e come sempre stava solitario, abituato ai lunghi silenzi. Ma quella sera prese ad avere caldo e freddo insieme, dovette camminare su e giù più volte per le stanze senza motivo, non servì a niente bere una tazza di brodo tiepido e sentì infine un desiderio e la voglia mai provata di dire del suo lavoro, di sè e di altro ancora.
Così fu costretto ad andare in paese per incontrare qualcuno e iniziò a raccontare e raccontare e ogni giorno veniva spinto a farlo dal bisogno e dalla necessità e non guarì mai più.
Passarono molti anni, Felipe il vecchio accudì come prima le nubi; nessuna pianse per lui.
I paesani ormai lo conoscevano e spesso lo accoglievano con un cenno di saluto. Lo lasciavano fare, per tutti era una brava persona.
La sera sedeva all’osteria davanti a un buon bicchiere di vino e si metteva a raccontare storie di nuvole e pascoli, pastori e briglie, venti e lacrime e per questo molti lo chiamavano visionario; solo alcuni, poeta.

Riccardo Tomassini