L’importanza di (imparare a) non avere successo

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L’importanza di (imparare a) non avere successo

Blue Jasmine, di Woody Allen, con Blanchett antieroina tragica

Il film racconta la storia della moglie mondana di un ricco uomo d’affari che dopo la separazione si ritrova senza soldi e senza casa. Partita da origini di certo non facoltose, per anni Jasmine pensa di aver conquistato quello che meritava: un marito (Alec Baldwin) – conosciuto sulle note di Blue Moon – che la riempie di frasi cortesi e costosi regali, villa a New York, cocktail in piscina, Martini da sorseggiare in giardino tra ameni e ricchi consimili.

Due precisazioni per cominciare.

Prima: quella che parte con l’aria di essere un’altra incantevole commedia confuta l’assioma di George Steiner secondo cui non ci sono oggi molte possibilità per la tragedia come forma d’arte, a meno di cercare il tragico in qualcosa di estraneo all’arte stessa (l’uomo d’oggi è infatti, secondo Steiner, saturato da catastrofi e da atrocità di fronte alle quali reagisce spesso con indifferenza).

Seconda: il personaggio di Jasmine sarebbe rimasto anonimo e appunto, “indifferente” senza l’interpretazione di Cate Blanchett (alcuni dicono “da Oscar”, personalmente non so: forse nella versione originale).

Questa pellicola diventa la feroce puntuale descrizione di un disagio personale che è però tremendamente attuale e che Allen mette a nudo e descrive con impietosa maestria. Alla radice della inquietudine, labilità affettiva e depressione disforica di Jasmine sembra infatti esserci l’”ansia da status” che minaccia tutti gli individui delle società a capitalismo avanzato. Quelle, per dirla con Alain De Botton, formatesi dopo la rivoluzione industriale e perfezionatesi in Europa e negli Stati Uniti nel Novecento. Uno stato di malessere profondo cui non giovano l’effetto dei cocktail di psicofarmaci e l’uso di superalcolici, che provoca profonde sofferenze e terribile fragilità.

Jasmine vola a San Francisco, dove vive la sorella, Ginger,  cassiera in un supermercato che ha per compagno un uomo rozzo e ignorante che “vive una vita felice e ancora ha l’energia per sognarne una ancora più felice”. Mentre Jasmine bussa alla sua porta quando ormai ha perso tutto eppure ancora è incapace di accettare fino alle estreme conseguenze la sua nuova condizione e la sconfitta. Arriva allo scacco matto di fronte alla contrapposizione senza via di uscita fra rassegnazione e successo, in una dimensione in cui l’accettazione è impossibile.

Il pensiero va alle riflessioni di Schopenhauer, agli esempi di romanzieri (Jane Austen) che smascherano i meccanismi dello snobismo e della esclusione sociale, così come si potrebbe passare agli artisti d’avanguardia, da Baudelaire a Bukowski, che si collocarono fuori dalla guerra per il successo a ogni costo.

“Loooser” contiene l’estrema accezione negativa che gli americani danno a questo termine e che in italiano si tradurrebbe più come “sfigato” che come “perdente”, epiteto chiave (a mio modesto avviso) che la  Jasmine dell’ora attuale proietta continuamente sugli altri.

C’è una grossa differenza tra uno sfortunato (“unfortunate”, non baciato dalla fortuna, termine ormai in disuso nella cultura anglosassone) e un perdente (“looser”). E questo forse mostra 400 anni di evoluzione nella società e la nostra idea di chi sia responsabile per le nostre vite. A chi sarebbe venuto in mente, del resto, di dare dello “sfigato” o del “perdente” ad Amleto?

Massimo Lanzaro

 

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Diogene in manicomio

Nel 1975 (addirittura sull’autoritario Lancet) e poi in consistenti pubblicazioni successive, ad alcuni psicologi e psichiatri venne in mente di coniare la diagnosi “Sindrome di Diogene”, un disordine comportamentale che sarebbe:
“caratterizzato da un’estrema disattenzione alle necessità basilari, come l’igiene personale e le cure mediche. La sindrome è conosciuta anche con altri nomi, ad esempio come sindrome dello squallore senile. Colpisce per lo più anziani che vivono soli. I sintomi includono principalmente l’abbandono delle norme igieniche personali. La sindrome è accompagnata spesso da malattie fisiche. Si manifesta in associazione a syllogomania, l’accumulo patologico di oggetti, anche immondizia, che il malato considera che possano essere ancora utili. Lesioni al lobo frontale possono giocare un ruolo nel sorgere della sindrome”.
Orbene, personalmente ho incontrato una paziente che aveva la singolare abitudine di accumulare multe che sottraeva dalle automobili, nella bizzarra e purtoppo infondata convinzione che in questo modo avrebbe evitato alle persone di doverle pagare. In effetti il suo stato in termini di igiene personale era deteriorato col passar del tempo, e non accettava di buon grado di incontrare alcun medico. A parte il caso specifico, so bene quanto alcune forme di demenza o psicosi senili (o altre sindromi organiche) interferiscano con l’autonomia e la dignità della persona e possano essere motivo di sofferenza non soltanto ai pazienti ma anche ai famigliari.
Tuttavia Diogene di Sinope, a mio modesto avviso, non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Non solo non è mai stato considerato nella tradizione un accumulatore compulsivo, ma solamente come una persona che aveva vissuto con il minimo indispensabile.
Visse a Corinto dopo essere stato esiliato perché accusato di forgeria e per il resto della sua vita si dedicò interamente a predicare le virtù dell’autocontrollo. La virtù, per lui, consisteva nell’evitare qualsiasi piacere fisico superfluo, rifiutare drasticamente, non senza esibizionismo, le convenzioni e i tabù sessuali, oltre che i valori tradizionali come la ricchezza, il potere, la gloria; tutte le crescite artificiali della società gli sembravano incompatibili con la verità e la bontà; la moralità porta con sé un ritorno alla natura e alla semplicità.
Secondo quanto ci tramanda il sesto libro della “Vita dei filosofi” di Diogene Laerzio, Diogene è stata la prima persona conosciuta ad aver utilizzato il termine “cosmopolita”. Difatti, interrogato sulla sua provenienza, Diogene rispose: “Sono cittadino del mondo intero”. Si trattava di una dichiarazione sorprendente in un’epoca dove l’identità di un uomo era intimamente legata alla sua appartenenza ad una polis particolare. Citando le sue parole, “l’Uomo ha complicato ogni singolo semplice dono degli Dei”. Ai Giochi Istmici tenne discorsi a pubblici consistenti che lo seguivano dal periodo di Antistene. Fu probabilmente ad uno di quegli eventi che incontrò Alessandro il Grande. La storia narra che Alessandro, affascinato dalla possibilità di incontrare faccia a faccia il famoso filosofo (nella sua botte), chiese se non ci fosse qualche desiderio che avrebbe potuto esaudirgli. Diogene gli rispose di non frapporsi tra lui e il sole, al che Alessandro replicò: “Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene”.
Mi chiedo dunque: cosa accadrebbe oggi se il vero Diogene finisse nelle mani di uno psichiatra “troppo ortodosso”? Finirebbe sotto psicofarmaci?
E mi chiedo infine: ma non sarà che l’uomo ancora oggi continua a complicare un po’ i “semplici doni degli Dei”?

Dr Massimo Lanzaro