dr. Massimo Lanzaro

http://www.fattitaliani.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=1108:ebook-%E2%80%9Cnel-punto-atomico-dove-scompare-il-tempo%E2%80%9D-di-massimo-lanzaro&Itemid=201

(In foto: Dr. Massimo Lanzaro)

“Studiare i miti e le fiabe è un buon modo di studiare l’anatomia comparata dell’inconscio collettivo” da questa osservazione di Carl Gustav Jung parte l’idea di Massimo Lanzaro, medico, psichiatra e psicoterapeuta napoletano classe 1971, di raccogliere nell’ebook “Nel punto atomico dove scompare il tempo” (scaricabile gratuitamente all’indirizzo http://www.editoredimestesso.it/ebook/lanzaro/) le sue riflessioni in merito pubblicate negli ultimi anni su riviste internazionali. “Non esiste cultura, antica o moderna, arcaica o civilizzata, che non possieda i suoi miti e molti si assomigliano: l’intreccio di base ed il significato sostanziale delle storie, restano gli stessi, in maniera trans temporale – spiega Lanzaro -.
Le fiabe, i miti, le narrazioni in generale consentono pertanto di ipotizzare paragoni tra l’ieri e l’oggi degli strati profondi della psicologia collettiva”.

In questi “Scritti di psicologia” (come da sottotitolo dell’eBook) i temi più importanti affrontati sono: la valenza simbolica delle fiabe e dei “miti di oggi”, gli stadi di reazione psicologica alla perdita ed ai momenti di crisi; le costanti naturali presenti nell’arte contemporanea; la decodifica dei relativi messaggi e la potenziale valenza catartica; alcuni effetti psicologici del consumismo e della società dello spettacolo; le patologie mentali viste da un punto di vista poco ortodosso ed originale. La lettura di questo lavoro si consiglia a studenti di psicologia, psicologi ad orientamento analitico, operatori sociali, medici, antropologi, studenti di letteratura e storia dell’arte, ma risulta piacevole anche a chi non ha una formazione specifica. Leggendo ci s’imbatterà nella teoria del Super Ego o nell’esortazione a “fare anima” con leggerezza e profondità al tempo stesso. Lanzaro affronta i temi più complessi tenendo il lettore per mano. Eccone una dimostrazione.

“Riassumo innanzitutto la nota tesi di Hillman espressa nel suo ‘Il mito dell’analisi’: gli ‘Dei’ rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici – dice Lanzaro -. Prendiamo come esempio la sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) è oggi diffuso e diverse evidenze suggeriscono che fattori psicologici possono essere rilevanti, ed in particolare l’incapacità di riconoscere ed identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel descrivere, esprimere agli altri tali stati d’animo. La body art e l’arte estrema contemporanea nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una sorprendente inversione dei processi di somatizzazione (passivi) descritti, attraverso la produzione attiva d’immagini e l’uso del corpo”.

Poi si può riflettere a partire da un classico. “In sostanza – dice Lanzaro – il fatto che ne ‘Il signore degli anelli’ il tema del potere e del controllo (orwelliano) delle persone sia così prominente e relativamente nuovo rispetto alle narrazioni del passato (remoto), tanto da offuscare più o meno insolitamente gli altri molteplici elementi classici della mitologia (conquista/liberazione di fanciulle, palingenesi dell’eroe etc.). Anche quando questi temi sono sviluppati sono sempre secondari e le storie d’amore, le imprese degli ‘dèi’, dei nani, degli elfi, degli uomini e dei giganti ruotano sempre intorno al tema liberarsi dall’influenza dell’anello, ovvero del potere e del controllo di pochi (o uno) su molti”.

Autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali e membro dell’International Association for Jungian Studies, il dottor Lanzaro è stato primario al Royal Free Hospital di Londra e direttore sanitario in Italia ed in Inghilterra. Attualmente collabora con il Centro Raymond Gledhil di Roma e con l’Università del Cile.

In che direzione stanno andando le sue ricerche? “In questo momento – risponde – sto approfondendo le applicazioni della Schema Therapy, un nuovo sistema di psicoterapia che integra elementi di terapia cognitiva comportamentale, della Gestalt, della psicoanalisi, della teoria dell’attaccamento, della psicoterapia costruttivista, della psicoterapia focalizzata sulle emozioni, in un modello esplicativo chiaro ed esaustivo formulato dal Dr. Jeffrey Young. La Schema Therapy è particolarmente utile nel trattamento di ansia e depressione cronica, disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata), difficili problemi di coppia, difficoltà di lunga data nel mantenere relazioni sentimentali soddisfacenti e nell’aiutare a prevenire la ricaduta nel disturbo da uso di sostanze. E’ dimostrata, inoltre, la sua efficacia nel trattamento di pazienti con difficoltà complesse e di lungo termine come i Disturbi di Personalità, in particolar modo il Disturbo Borderline di personalità”.

Medico affermato, all’estero è conosciuto anche come fotografo. Ha esposto con successo a Londra ed anche a Lincon, nelle Midlands. La fotografia che valore ha per lei? “E’ il mio modo di produrre immagini. E forse talora di proiettare le immagini che ho dentro. Altre volte soddisfa il mio bisogno di mettermi alla ricerca di un silenzio adeguato: la fotografia ha un suo carico di potenzialità riflessive – risponde -. Per altri aspetti, mi è poi cara la riflessione di Robert Adams che, in sostanza, fa coincidere la bellezza – nella fotografia così come nell’arte in generale – con il parametro della Forma, o, se si vuole, della composizione; Forma, a sua volta, intesa come sinonimo della coerenza e della struttura sottese alla vita (un concetto, a mio avviso, molto vicino a quello di ‘archetipo’). «Perché la forma è bella? – si chiede Adams: – Lo è, perché ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, cioè a dire il timore che la vita non sia che caos e che la nostra sofferenza non abbia dunque alcun senso; quell’elemento (la Forma) ha in sé il potere di consolare, rassicurando sull’esistenza di un ordine, per quanto abilmente dissimulato, in ciò che lo circonda»”.

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Dai fenomeni di somatizzazione alla body art: riflessioni sul corpo e sugli attacchi di panico

L’uomo primitivo era governato dai propri istinti più dei suoi moderni discendenti “razionali”, che hanno imparato a “controllarsi”, piuttosto che ad esprimere. Nel corso di questo processo di civilizzazione abbiamo progressivamente scisso la nostra coscienza dagli strati profondi della psiche umana e infine anche dalla base somatica del fenomeno psichico. L’uomo contemporaneo, a causa di mancanza d’introspezione, è sovente ignaro che, pur con tutta la sua razionalità ed efficienza, è in balìa di “forze non controllabili”. Dei e demoni tengono molti individui in uno stato d’agitazione semplicemente attraverso vaghe apprensioni, o tramite un ingente fardello di nevrosi e di disturbi somatici.
La letteratura recente postula che un’inibizione più o meno forzata e costante del naturale comportamento biopsicomotorio del corpo si traduce in una cronica e sterile microattivazione del sistema nervoso vegetativo, psico-neuro-endocrino ed immunologico. Quest’attivazione produrrebbe le manifestazioni squisitamente cliniche di tale processo: gli attacchi di panico, i disturbi da somatizzazione gastro-intestinale, sessuale o pseudo-neurologica (si pensi ai vari tipi di cefalea), le sindromi algiche e l’ipocondria, per citare la nosografia di maggiore incidenza.
Giova ricordare in quest’ambito, anche se a margine ai fini del presente discorso, la concezione junghiana sul ruolo vitale della funzione compensatrice dei sogni e della loro elaborazione nell’alleviare la strutturazione di tali disturbi.
Analizzeremo ora come esempio la fenomenologia clinica della sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) dura generalmente solo alcuni minuti, ma causa una considerevole angoscia. Il coinvolgimento del corpo si manifesta con prepotenti sintomi organici come soffocamento, vertigini, sudorazione profusa, tremore e tachicardia cui si accompagnano spesso una sensazione di morte imminente od il timore di impazzire. Sebbene l’evidenza a favore di fattori neurofisiologici nella genesi di questo corteo sintomatologico sia ineludibile, tali osservazioni sono più persuasive nella spiegazione della patogenesi piuttosto che dell’eziologia del disturbo. Nessun dato neurobiologico è in grado di farci comprendere cosa scateni l’inizio di un attacco di panico, così come di altri disturbi psicosomatici.
Diverse evidenze suggeriscono invece che fattori psicologici possono essere rilevanti. Vari studi hanno dimostrato una maggiore incidenza in questi pazienti di eventi esistenziali stressanti, ed in particolare la perdita di persone significative nei mesi che precedono il disagio. Tutto questo suggerisce che l’eziologia riguardi il significato inconscio e simbolico degli eventi, nella misura in cui ciascuno lo elabora in maniera diversa, o non lo elabora per niente. La paura ha un oggetto, l’angoscia panica n’è priva, o meglio, il vissuto relativo è rimosso: non c’è insight. C’è un consenso quasi unanime nell’attribuire all’alessitimia, concetto centrale della psicosomatica contemporanea, parte della genesi dei processi di somatizzazione. Si tratta dell’incapacità di riconoscere e identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguerli dalle sensazioni corporee che si accompagnano all’attivazione emotiva e della difficoltà nel descrivere agli altri tali stati d’animo.
James Hillman postulava che alla base di processi analoghi vi sia il tradizionale approccio occidentale alla paura, ai vissuti che causano sofferenza, considerati non come un qualcosa da accettare, con cui prendere contatto, ma un problema morale da superare ad ogni costo, anche quello della rimozione e della repressione inconsapevole.
Cambiamo punto di vista ed apparentemente cambiamo argomento. Fino a qualche tempo fa lo sfoggio di tatuaggi su braccia, spalle e gambe era considerata la sfida dell’individuo contro le regole convenzionali delle società, un segno di distinzione, in alcuni casi di capacità creativa. Diffusa, inoltre, era la pratica del tatuaggio nel mondo penitenziario che sanciva l’appartenenza a gruppi e/o sottogruppi, esattamente come avviene nelle tribù primitive e quelle più “moderne”. Ad alcune persone tali tendenze inducono sensazioni sgradevoli, eppure tali fenomeni sono divenuti sempre più diffusi, fino ad interessare una certa fascia della società. Tutte le mode passano o si evolvono. Al tatuaggio si sono aggiunte altre forme di “body art”, sicuramente più spettacolari, e per certi versi anche potenzialmente dannose per la salute. Si fa riferimento al piercing, con perforazione di narici, ombelichi, lingua od altre parti del corpo.
A riguardo, ricordo le parole di una cliente ventiquattrenne: -è bello, mi piace. Inutile dire che lo ho fatto per sentirmi integrata, per essere alla moda, per sfidare il dolore…il piercing è una forma di arte che collega il corpo allo spirito. E’ l’anima che colpisce la propria carne per farla più sua, per sentirsi di più un “tutt’uno”-.
Procedendo in un ipotetico continuum nell’analisi di questo fenomeno, ho immaginato che un successivo gradino fosse individuabile nell’arte estrema contemporanea. A partire dagli anni Settanta le arti cosiddette “canoniche” subiscono un definitivo cambio di rotta approdando ad una privilegiata, inquietante terra di conquista: il corpo. Il lavoro di Ron Athey rileva l’estremizzazione del dolore fisico come manifestazione privilegiata del disagio esistenziale. Le scioccanti “esperienze” di Franko B, artista-performer italobritannico, conducono il discorso della sfida al dolore alle estreme conseguenze. Nelle sue opere arriva a farsi tramortire e torturare, da un lato mimando le limitazioni che il corpo naturalmente manifesta in alcune situazioni e dall’altro mantenendo un controllo assoluto sulla propria fisicità durante tali rituali. Questa forma d’arte ha una valenza peculiare: nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una inversione dei processi di somatizzazione attraverso la produzione attiva d’immagini “estreme”. Franko B ha dichiarato in una intervista di “non aver più paura di mostrare le proprie vergogne”, ovvero di non aver timore nell’esprimere verbalmente ed attraverso immagini d’arte il proprio stato affettivo, ideico ed emotivo, per quanto eccessivo possa risultare al fruitore.
A questo punto riassumo la nota tesi di Hillman espressa nel suo “Il mito dell’analisi”: gli Dei rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici. Alcuni esempi sono quelli di Dioniso e l’isteria, della relazione tra Crono-Saturno con gli aspetti paranoici della depressione e di Ermes-Mercurio con quello che chiamiamo comportamento schizoide. Si tratta di esplorare la psicopatologia in termini di psicologia archetipica.
Veniamo dunque a Pan. Il mito greco lo pose come dio della natura, dalle molteplici sfaccettature, dimorante in Arcadia, le “oscure caverne” dove lo si poteva incontrare, una località tanto fisica che psichica. Il suo habitat erano grotte, fonti, boschi e luoghi selvaggi (l’inconscio). A ben vedere esso sussume sia l’angoscia panica che si impadronisce del corpo (dall’alessitimia alla genesi del sintomo ad un polo) che gli aspetti erotici connessi alla sua natura satiresca, caprina, fallica e demonica (autoassertività, capacità di contatto ed elaborazione delle proprie emozioni, vissuti, istinti e pulsioni, simbolizzazione consapevole della sofferenza, produzione laconicamente esplicativa delle proprie immagini interiori).
Mi sembra suggestivo osservare ora da una prospettiva olistica le nuove manifestazioni del duplice, antitetico ruolo di Pan nel determinismo di vari aspetti della psiche individuale e collettiva dell’uomo moderno ed ipotizzare il suo potenziale disvelarsi per ciascuno di noi in un punto sito nel percorso che va da un polo all’altro dell’enantiodromia descritta (dalla sofferenza alessitimica all’espressione “spudorata” del dolore del body art performer).
Forse nel passaggio al contatto, alla progressiva capacità di dare forma e parola ai propri vissuti, di esprimere ed agire il bisogno di ascolto della voce del corpo e delle emozioni si concretizza il ruolo spirituale che noi scegliamo per Pan o che Pan sceglie per noi. E durante un percorso analitico il ruolo del terapeuta che incontra una persona con disturbi somatici diviene anche quello di mediare la riscoperta del livello di percezione e di esperienza delle immagini a cui la sua storia ha tentato di impedire l’accesso. In tal modo probabilmente incontreremo il dio che “rende pazzi”, consentendogli di “farci guarire”.

Dr. Massimo Lanzaro

Per ulteriori approfondimenti:

C.G. Jung. L’uomo e i suoi simboli. Tea, 2002.
James Hillman. Saggio su Pan. Adelphi, 2001.
Savoca G. Arte estrema. Castelvecchi,1999.