Cinema da non perdere: “Il caso Spotlight” di Tom McCarthy

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Che “Il caso Spotlight” si sia guadagnato due Oscar, uno come miglior film e l’altro come migliore sceneggiatura originale,  non sorprende affatto. Mai dare nulla per scontato, come ha precisato Leonardo DiCaprio al microfono dopo aver ottenuto la statuetta come miglior attore protagonista per “Revenant”, ma la vittoria del film diretto da Tom McCarthy che lo ha co-scritto con Josh Singer, per molti più che una speranza era una certezza. A partire dalla storia, vera, che vi si narra. Nel 2001 la squadra giornalistica “spotlight” (la sezione del giornale che si occupa dei casi difficili)  del “Boston Globe”, guidata dal nuovo direttore editoriale Marty Baron, partendo da diversi casi di abusi perpetrati dal prete cattolico John Geoghan, inizia una clamorosa indagine che svelerà una situazione ancora più drammatica. Baron, Ben Bradlee Jr., supervisore dell’inchiesta, e i quattro membri della squadra investigativa del “Boston Globe”, Walter Robinson, Mike Rezendes, Sacha Pfeiffer e Matt Carroll, pur sapendo dei rischi che avrebbero corso mettendosi contro un’istituzione forte come la Chiesa cattolica, cominciarono a trovare testimoni, raccogliere documenti e dati con la ferma volontà di portare a galla la verità. Far luce cioé su una vicenda che per anni era stata sottovalutata dai media e ignorata dalle autorità, che, sapendo dell’indagine, cercano in tutti i modi di impedirla per evitare lo scandalo. Nell’occhio del ciclone finisce l’arcivescovo Bernard Francis Law, accusato di aver coperto i casi di pedofilia avvenuti in diverse parrocchie. Grazie all’aiuto dell’avvocato Mitchell Garabedian, difensore delle vittime, l’équipe verificherà alla fine il coinvolgimento di circa ottanta sacerdoti nella pratica degli abusi sessuali sui minori, usata come pratica sistematica, tenuti insabbiati dalla Chiesa. Nel 2003, i giornalisti vennero premiati con il Pulitzer di pubblico servizio.Spotlight_film_2015

La storia trattata quindi è di portata eccezionale e fa la sua parte. Mano a mano che le indagini procedono lo stupore e l’indignazione di chi guarda cresce di pari passo con la narrazione, che si articola in maniera pulita e lineare. Ci si trova dentro sempre di più, in una vicenda così torbida da rimanerne coinvolti e da uscire cambiati dalla sua visione.  La bravura del cast contribuisce a rendere “Il caso Spotlight” il miglior film dell’anno. Michael Keaton, Liev Schreiber, John Slattery, Brian D’Arcy James, Marc Ruffalo e Rachel McAdams, entrambi candidati all’Oscar come attori non protagonisti, sono così aderenti ai loro ruoli tanto da sembrare più veri dei giornalisti reali. La regia di Tom McCarthy è ritmata, drammatica, rigorosa, emozionante e potente, senza aver bisogno di ricorrere a sensazionalismi. Un cinema che ricorda la grande tradizione americana che comprende “Tutti gli uomini del presidente” di Alan Pakula, i film di Sydney Pollack e di Sidney Lumet. Un film che è una vera scuola di giornalismo, che mostra, senza retorica, come si deve fare un’inchiesta. Raccogliere meticolosamente racconti, dati, informazioni, telefonare, convincere avvocati reticenti e testimoni rassegnati, mettere insieme tutto e andare avanti con testardaggine fino ad ottenere un risultato. Non lasciarsi spaventare ed essere sicuri del proprio obiettivo: scoprire la verità.  Lavora così il giornalista autentico  e “Il caso Spotlight” fa tornare la voglia di intraprendere questo mestiere. Non si tratta di essere eroi, ma significa semplicemente eseguire il proprio lavoro.

Clara Martinelli

 

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Cinema da non perdere: “Dio esiste e vive a Bruxelles” di Jaco Van Dormael

 

immagine-nuovo-testamento-e1448487623803«Dio esiste e vive a Bruxelles. Appartamento tre camere con cucina e lavanderia, senza una porta di entrata e di uscita. Si è parlato molto di suo figlio, ma poco di sua figlia… sua figlia sono io». Chi parla è Ea (la promettente Pili Groyne), una bambina di dieci anni, che ha un padre veramente fuori della norma,  anzi, lui è il Padre per eccellenza: il Padre Eterno. Ma Dio (interpretato da Benoit Poelvoorde) non è come comunemente lo immaginiamo misericordioso e benevolo. Tutt’altro: è odioso e antipatico e passa le giornate davanti al computer, abbrutito in vestaglia e pantofole, a rendere miserabile l’esistenza degli uomini.  E’ collerico e violento anche con la figlia e la moglie (Yolande Moreau), ridotta all’obbedienza più assoluta, nonostante sia anche lei una Dea. Dopo l’ennesimo litigio con il Padre, Ea scende tra gli uomini per scrivere un nuovo Nuovo Testamento, che dia la possibilità alle persone di cercare la felicità. Ma, prima di andarsene, usa il computer di Dio,  inviando a ciascun essere umano un sms con la data della propria morte, creando scompiglio e incertezza tra gli abitanti della terra. Grazie ad un passaggio che dall’oblò della lavatrice la porterà direttamente tra la gente, Ea vagherà per Bruxelles alla ricerca dei sei nuovi apostoli, da aggiungere ai dodici già esistenti, per arrivare al numero di una squadra di baseball, sport preferito da sua madre e da suo fratello Gesù, che la bimba chiama JC. Il Padre la inseguirà in una rocambolesca caduta sulla terra, lasciando campo libero alla moglie che “rifiorirà” letteralmente, dando vita ad una sorta di religione della Grande Madre, dove tutto il mondo vive in armonia. dio-esiste-e-vive-a-bruxelles-deneuve-van-dormael
Candidato all’Oscar per il Belgio come miglior film straniero, “Dio esiste e vive a Bruxelles” di Jaco Van Dormael è diventato l’esordio dell’anno tra le uscite d’essai della stagione, grazie all’entusiasmo che il pubblico italiano gli ha dimostrato con un fortissimo passaparola.  Jaco Van Dormel fa di questa pellicola  un inno al matriarcato (il regista nella stesura della sceneggiatura, scritta con Thomas Gunzig, ha analizzato i testi apocrifi e il ruolo delle donne che in essi è rilevante), con situazioni surreali che si tingono di rosa, come la ricca  e annoiata Martine (un’ironica Catherine Deneuve) che, trascurata dal marito, si invaghisce di un gorilla rinchiuso in uno zoo, che la ricambia con passione. O ancora un aspirante serial killer, stanco di un finto matrimonio, s’innamora di una ragazza molto bella, alla quale manca un braccio. Un bambino, massacrato dalle ossessioni della madre,  vuole diventare femminuccia e va a scuola con un vestito rosso. Un frequentatore di nightclub, fissato con il sesso ma ancora vergine, troverà finalmente la donna giusta. Un impiegato lascia il suo lavoro per inseguire gli sciami degli uccelli migratori, trovando la sua vera personalità. Tutti, conoscendo il giorno e l’ora della propria morte, si sentono in dovere di fare qualcosa per loro stessi, inseguendo i sogni e le passioni, assecondando la propria natura autentica. Ea li recluterà per essere i nuovi apostoli e ognuna delle loro esperienze sarà scritta nel suo Nuovo Testamento. “Dio esiste e vive a Bruxelles” unisce  il grottesco ad immagini d’immensa poesia, scandite dalla musica di sottofondo, utilizzata per restituire l’interiorità dei personaggi.

 

Clara Martinelli

Cinema: “Still Alice” e Julianne Moore nominata agli Oscar come Miglior attrice protagonista

  • Alice Howland è una donna alla soglia dei cinquant’anni, orgogliosa degli obiettivi raggiunti. È un’affermata linguista e insegna alla Columbia University, ha una solida famiglia composta dal marito chimico e da tre figli, Anna, Tom e Lydia, tutti e tre realizzati. Ma improvvisamente la sua vita cambia, quando le viene diagnosticata una forma presenile di Alzheimer. Tutte le sue certezze crollano, diventando una donna fragile e indifesa, anche agli occhi della famiglia che l’ha sempre vista come un pilastro.

    La pellicola è stata presentata in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival l’8 settembre 2014, ed ha partecipato in concorso alla 9ª edizione del Festival internazionale del film di Roma, dove ho avuto il piacere di vederla il 17 ottobre 2014.

    Il morbo di Alzheimer è la forma più frequente di demenza: è un deterioramento mentale che inizia il suo processo evolutivo in età senile ma può anche manifestarsi prima dei 65 anni. La malattia di Alzheimer, infatti, può comparire già dai 45 anni (la forma descritta nel film), con disturbi della memoria e manifestazioni di disorientamento, soprattutto spaziale. I primi sintomi sono alterazioni delle funzioni simboliche: afasia (difficoltà a tradurre le parole in pensiero e viceversa), agnosia (incapacità di riconoscere gli stimoli provenienti dai sensi), aprassia (incapacità a compiere movimenti complessi mirati a una certa attività). L’evoluzione della malattia è ascrivibile a una progressiva distruzione dei neuroni a causa della betamiloide, una proteina che finisce per incollare e raggrumare i neuroni; allo stesso modo diminuisce nel cervello la presenza di acetilcolina, una molecola di primaria importanza per la comunicazione tra i neuroni.

    Non si può parlare di cura del morbo di Alzheimer quanto piuttosto di accompagnamento nella sua evoluzione: la terapia farmacologica, infatti, si limita a rallentare la riduzione di acetilcolina, ma molte nuove ricerche sono in corso per bloccare il processo neurodegenerativo. Possono essere di sostegno sessioni di riabilitazione cognitiva per aiutare il malato di Alzheimer nella gestione della vita quotidiana. Come non c’è terapia, allo stesso modo non ci sono esami o analisi di laboratorio per diagnosticare il morbo di Alzheimer: per formulare una diagnosi serve la ricostruzione clinica delle alterazioni mentali del malato da parte della famiglia, nonché una valutazione accurata delle sue capacità fisiche e mentali.

    Il film verrà distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 16 gennaio 2015, ma precedentemente è stato proiettato in un numero limitato di cinema nel dicembre 2014 per avere la possibilità di partecipare agli Oscar 2015. In Italia arriverà il 22 gennaio, distribuito dalla Good Films.

    Massimo Lanzaro

Cinema: le enantiodromie da Oscar di “Gone Girl”

David Fincher, Ben Affleck e Rosamund Pike già in odore di Oscar a mio modesto avviso per “Gone Girl”, film il cui titolo è stato tradotto in italiano in maniera incomprensibile e su cui pertanto non mi soffermo. Gone Girl (tratto dal romanzo omonimo di Gillian Flynn) riprende la storia di Nick e di Amy Dunne e del loro matrimonio che vacilla quando Nick perde il suo lavoro come giornalista a causa della crisi economica e decide di trasferire se stesso e sua moglie da New York City per la sua piccola città natale di Nord Carthage, Missouri. Lì apre un bar utilizzando l’ultimo fondo fiduciario di sua moglie, e lo gestisce insieme a sua sorella gemella Margo. Il bar offre una vita decente per i tre Dunnes, ma il matrimonio sembra diventare sempre più disfunzionale. Il giorno del loro quinto anniversario di matrimonio, Amy scompare. Nick diventerà il primo sospettato della sua scomparsa per vari motivi.

La pellicola è stata distribuita nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 3 ottobre 2014 e sarà in quelle italiane dal 18 dicembre.

Qualcuno ha scritto di questo film che è “diabolico”. Postulando di essere d’accordo non si può non dire che questo film è anche il contrario di diabolico: altamente simbolico. Simbolo è una parola greca: sumballein (o siumballein), che vuol dire mettere assieme, significati, o frammenti di senso, laddove “diabolico” (diaballein) è esattamente il contrario (fare a pezzi, distruggere, dilaniare). Sappiamo quanto Jung (cui rimando) ad esempio tenesse all’importanza di queste parole e a questa distinzione nell’ambito della psicologia analitica, ma non è il caso di dilungarsi a riguardo in questa sede.

Ficher ci prende per mano attraverso una diabolica frammentazione (della psiche e degli eventi) per poi ricomporre lentamente i pezzi del puzzle che finisce per assurgere a simbolo. Simbolo di un mondo alla rovescia (diabolico) in cui, mancanza di scrupoli, di responsabilità, tendenza alla menzogna e alla manipolazione, cinismo, instabilità, comportamenti apertamente devianti, aggressività non controllata sono tratti del carattere di persone “di successo”.

Una ricerca di Belinda Board e Katarina Fritzon, dell’Università del Surrey, ha comparato un gruppo di 39 manager di successo con criminali e pazienti psichiatrici gravi. La loro classificazione finale ha diviso la popolazione esaminata in «psicopatici di successo» e «psicopatici senza successo».

Paradossalmente non è difficile temere gli effetti rovinosi di certi personaggi ai vertici di banche, industrie o altri gangli vitali delle nazioni (occhio ai giornalisti televisivi nel film), se non addirittura leader di intere nazioni. E’ più difficile fare una analisi invece quando le dinamiche antisociali si annidano e si dipanano, ad esempio, all’interno di mura domestiche o nell’ambito di una ristretta rete sociale.

Gone Girl ci traghetta agilmente da un territorio all’altro, dal micro al macro, dalla psiche individuale dei protagonisti a quella collettiva. Dalle contraddizioni (diaboliche) di un mondo in cui la finanza domina l’economia, che domina la politica (mentre della politica dovrebbe essere strumento) che a sua volta domina la ricerca scientifica, la formazione e l’educazione, che da strumenti di critica e consapevolezza, diventano mezzi di propaganda (il ruolo dei media è icastico in questa narrazione). Insomma, quello che dovrebbe servire gli esseri umani, li mette all’ultimo posto. E che quel “posto” di estrema vulnerabilità contribuisca allo sviluppo di una malattia mentale o di una psicopatia (di successo o meno, ma che a volte sembra l’unica via percorribile per sopravvivere) è intuitivamente plausibile. Corollario: la geniale genesi filmica di un mondo fatto di criminali diabolici e matti simbolici, in cui ci si smarrisce tra le infinite sfumature e gamme di grigio.

Dopo questa lunga digressione qualche parola su un film dal ritmo incalzante, complice la struttura narrativa a canone inverso, in cui i due protagonisti dimostrano di essere qualcosa in più che semplicemente “bravi attori”. E che riesce su vari livelli e sottotesti ad essere specchio fedele e attualissimo della realtà.

Per il ruolo di Amy Dunne, andato a Rosamund Pike, sono state prese in considerazione le attrici Reese Witherspoon (produttrice della pellicola), Charlize Theron, Natalie Portman, Emily Blunt, Rooney Mara, Olivia Wilde, Abbie Cornish e Julianne Hough. Ben Affleck dal suo canto ha rinviato le riprese di un suo film pur di lavorare con David Fincher in questo film. Credo di aver capito il perché di entrambe ed altre scelte. Tutte magistrali.

Massimo Lanzaro