Libri consigliati: “La casa di Luna” di Mario Sammarone

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È appena uscito il nuovo libro di Mario Sammatone, “La casa di Luna” (Carabba). Si tratta di una raccolta di racconti a sfondo storico, psicologico ed esoterico, alcuni dei quali sono stati pubblicati sul nostro blog, altri su riviste come Effe e Watt. “Purificazione”, ad esempio, narra le avventure di un giovane Empedocle, il filosofo allievo di Pitagora, alle prese con la riunione dei principi maschile e femminile, secondo le teorie psicologiche di Neumann e Jung, e ricostruisce le vicende della scuola pitagorica, la grande accademia del mondo antico in cui si insegnavano ai giovani più meritevoli i segreti del cosmo.
“L’uomo con il vestito violetto” racconta di un ambizioso fantasma-critico d’arte alle prese con un misterioso e magico quadro di Durer che va incontro alla trasformazione alchemica sotto il segno del pianeta Saturno.
“Publio Licinio” invece, ambientato nella Roma del III sec. d. C, è la storia di un giovane senatore romano, a cui la Pizia ha predetto che sarebbe diventato imperatore a patto però di perdere la sua amata. Claudia, la sua amata, si ammala e muore, ma Publio Licinio arriverà a sfidare persino la volontà degli dèi pur di riaverla.
Tutti i racconti hanno come tema di fondo la trasformazione dell’individuo e testimoniano come il cambiamento dell’esistenza verso una sfera luminosa, più alta dell’essere sia possibile solo a patto di svolgere un intenso lavoro su di se. La casa di Luna vuol raccontare come la vita umana sia fatta di stagioni diverse e mai uguali a se stesse, ma che proprio per questo non devono essere tralasciate ma portate sempre con noi nel grande viaggio nel mondo.
Uno dei protagonisti del libro, Julien, afferma: “La trasformazione interiore riflette e precede sempre la trasformazione esteriore”. Il racconto finale della casa di Luna ha una valenza politico-sociale nel momento in cui Julien, dopo essere diventato un grande musicista, torna nella sua terra di origine per operarvi il cambiamento e cercare di trasformare ciò che ha intorno per creare una realtà migliore e affine alle aspirazioni di tutti.

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Libri: “Problemi in paradiso” di Slavoj Zizek

zizek-problemiUna nuova categoria ontologica accompagna il cittadino occidentale medio in questo primo scorcio di secolo. Se un tempo si parlava di essere-per-la-morte (vedi Heidegger e Sartre), ovvero dell’uomo destinato naturaliter ad andare incontro al proprio trapasso, alla fine, nella contemporaneità 2.0 del neo-liberismo e della reificazione dell’uomo, della natura e di tutto, in cui si vorrebbe portare a rimozione perfino la morte, ecco che “il filosofo più pericoloso d’Occidente” – così è stato definito Slavoj Zizek dal giornale New Republic – torna con un nuovo libro, “Problemi in paradiso” (Ponte alle grazie, 2015) e tira fuori una nuova categoria ontologica, che ben si adatta al nostro tempo di cambiamenti etero-diretti e subiti un po’ masochisticamente dalla massa, e cioè l’essere-per-il-debito.
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> Si tratta di una forma di dipendenza costitutiva e (auto)imposta, una mutazione genetica del vecchio homo hoeconomicus, un individuo che vive, produce e (soprattutto) consuma per ripagare il debito che ha contratto verso il sistema e di cui il sistema si serve per tenere a freno le sue istanze di trasformazione sociale. Vecchia storia quella di cambiare il mondo: quando uno ha da pagare le rate del mutuo, della macchina e della carta di credito, deve mantenere ex moglie e magari due figli, a stento ha la possibilità di cambiare l’arredamento di casa, figurarsi se può pensare a cambiare il mondo o se stesso.
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> Meglio rimanere prudentemente (e comodamente) al proprio posto. Scrive Zizek: “Il soggetto indebitato effettua contemporaneamente il lavoro salariato e il lavoro su di sé necessario affinché egli sia in grado di assumere su di sé la colpa connessa all’indebitamento”. Oggi la vetero dicotomia marxista tra salariato e capitalista è stata superata in quanto il lavoratore non è più separato dal capitale, ma ne è diventato lui stesso portatore con un sostanziale livellamento antropologico per cui ognuno è diventato “imprenditore di se stesso”. Adesso l’uomo medio sfrutta al meglio il proprio patrimonio di conoscenze e abilità – “il capitale umano” – per metterlo sul grande tavolo da gioco della vita, o in altre parole, per ottenere la capacità di consumare e quindi, come insegna Baudrillard, di distinguersi nella simbolizzazione gerarchica per mezzo degli oggetti acquistati ed esibiti come feticcio.
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> Per Zizek quello del debito, o anche simbolo di una dipendenza verso una forma di potere patriarcale, è un concetto che già gli antichi avevano elaborato. Nel mito di Orfeo – il mitico suonatore di lira che discese negli Inferi per salvare Euridice – Zizek vede un impulso assai moderno, la stessa volontà del debitore che vuole dimostrare alle banche o alle agenzie di rating di essere in grado, con il suo comportamento virtuoso che in Orfeo raggiungeva l’ascetismo e l’eccellenza, di poter ripagare il debito. Orfeo dimostra al Plutone-padrone di essere meritevole della sua pietà così come oggi lo è quel professionista che merita una tripla A nella valutazione della propria affidabilità grazie al suo comportamento (capitalisticamente) virtuoso.
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> E nemmeno gli stati fanno eccezione a questa regola, basti osservare quanto è accaduto in Grecia la scorsa estate, con la crisi del debito ellenico che ha messo a dura prova il processo di integrazione europeo e mostrato i limiti delle politiche di austerity. Ma come osserva Zizek “in Europa oggi i ciechi guidano i ciechi”, perché molto spesso sono quegli attori – leggi alta finanza – che hanno portato alla crisi del 2008, attraverso una mal calcolata gestione dei derivati bancari, a pretendere poi di impartire le strategie di risanamento, generando un circolo vizioso dalle profondità insondabili.
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> Ma se all’”inferno” – così chiama Zizek i paesi della stagnazione economica – le cose non vanno troppo bene nemmeno in “paradiso”, e cioè in quei paesi dove l’economia cresce a ritmi poderosi e in cui il sistema sembra mosso verso una rapida modernizzazione e occidentalizzazione. Quanto accaduto in Brasile, ad esempio, dove la presidente Dilma Roussef è stata incriminata e la classe politica messa sotto accusa, potrebbe essere il sintomo che qualcosa si è inceppato in questo meccanismo di rapido sviluppo che non tiene conto della variabile umana e della legittima aspirazione di ogni uomo e donna ad andare incontro alla propria realizzazione. Perché ogni rivoluzione, ogni potenziale cambiamento – osserva Zizek – porta con sé i germi di una nuova divisione e della creazione di un nuovo potere che favorisce pochi a discapito di molti (basti ricordare cosa accadeva dalle parti della fattoria degli animali di George Orwell, per intendersi).
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> Attraverso il suo libro, il filosofo sloveno affronta molti problemi del nostro tempo e arriva ad analizzare quello del fondamentalismo islamico. Per Zizek il problema del fondamentalismo islamico si inquadra in una logica di lotta di classe e a suo modo “il fondamentalismo è il marxismo del XXI secolo”. Molti credono che quella del fanatismo sia soltanto un problema religioso connaturato a un’aspirazione retrograda di alcuni che vogliono uscire dalla modernità per ritrovare nei valori della religione tradizionale la panacea di tutti i mali. Questo ragionamento racchiude un fatale errore, avverte Zizek, secondo cui il problema del fondamentalismo è la continuazione con altri mezzi della vecchia lotta di classe marxista, perché dimenticare di far fronte alla barbarie, ignorare le istanze di giustizia sociale e di prosperità dei popoli, vuol dire consegnare milioni di uomini e donne alla propaganda retrograda.
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> Del resto la violenza religiosa (e non) fa breccia nei cuori di chi sente di non avere vie d’uscita dall’ingiustizia e dalla miseria e ha dimenticato cosa rende una vita degna di essere vissuta. Il fondamentalismo è chiusura ai valori occidentali di libertà e favorevole all’instaurazione di un regime teocratico, ma parte della sua forza, specialmente a livello di propaganda, si insinua quando il potere dimentica le masse più deboli che poi prestano ascolto alle sirene jihadiste, in quanto “l’ascesa dell’islamismo radicale è in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani”. Si pensi a quanto accaduto in Afghanistan, del resto, dove i talebani strumentalizzarono le divisioni e le tensioni di classe, sfruttando la sventura dei poveri contadini, non per raggiungere l’armonia o la pace sociale, ma mirando a tutt’altro, e cioè l’obiettivo dello stato teocratico.
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> Secondo Zizek, un sistema capitalista e liberale è tanto più forte quando le forze liberali riescono ad andare a braccetto con quelle della sinistra riformista, perché non tenere conto delle istanze di cambiamento e di armonizzazione sociale espone la società all’azione di forze violente e rivoluzionarie, siano esse di sinistra o di destra – è interessante l’accostamento del fondamentalismo al fascismo, e non a caso Zizek parla di “islamo-fascismo”. Ciò che ha insegnato la storia d’Europa è che occorre sempre tenere alta la guardia ed esercitare l’esercizio della libertà insieme alla ricerca della giustizia e dell’armonia sociale, a livello collettivo e individuale. È questa la sfida in cui l’Europa e tutto l’Occidente si trova impegnato.

Mario Sammarone

Libri: “Notturno bizantino”, intervista all’autore Luigi de Pascalis

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Scrittore da più di cinquant’anni ormai, Luigi de Pascalis è diventato uno dei nuovi interpreti della narrativa storica italiana. Romanzi come “Rosso velabro” e “Il mantello di porpora” – entrambi pubblicati dalla casa editrice La Lepre – raccontano la vita dell’Impero Romano tardo-antico, una civiltà al tramonto e di fronte all‘incombente età di mezzo, grande crogiolo in cui si forgiò la moderna civiltà occidentale. Ma quello di Luigi de Pascalis è soprattutto un prezioso lavoro ermeneutico che tenta di scavare nelle profondità della Storia, restituendo un discorso sui comportamenti e sulla natura umana che permane immutata anche in tempi passati e in civiltà lontane dalla nostra.

Con “Notturno bizantino” (La Lepre, 2015), ultima fatica dello scrittore di origine lancianese, si è voluto cambiare punto di riferimento storico e la narrazione si è mossa dal IV secolo d. C. alla Costantinopoli di un millennio più tardi. I racconti di Lucas Pascali – medico di origine greca, personaggio principale del libro – testimoniano gli ultimi giorni di una grande città e quelli di una storia molto spesso dimenticata, ma che in fondo appartiene anche alla nostra. Si tratta di una storia di frontiera, che percorre quell’antico confine tra Oriente e Occidente, e che riguarda la caduta della millenaria città fondata dall’Imperatore Costantino come capitale dell’Impero Romano d’Oriente, sulle vestigia dell’antica Bisanzio.

Professor De Pascalis, con “Notturno bizantino” ha raccontato la fine di un mondo e il drammatico assedio di Costantinopoli ad opera delle truppe del sultano ottomano Mehmet II. Perché ha voluto rievocare quella storia?

Perché l’ho trovata per certi aspetti simile a cose che stanno accadendo oggi. Ho voluto ricordare i nostri rapporti con gli ottomani che non sono stati sempre facili, e con il mondo orientale in generale. E poi perché la caduta di Costantinopoli rappresentò in fondo la caduta dell’ultima parte del mondo antico. Una civiltà tramontata ma che, come si evidenzia dal libro, fu anche responsabile dell’avvento del Rinascimento europeo, grazie alla fuga di molti filosofi da Costantinopoli verso l’Europa occidentale.

Non a caso uno dei personaggi del romanzo è Gemisto Pletone, grande filosofo bizantino neoplatonico. Secondo lei, in un mondo che corre veloce e in cui gli individui sono immersi nelle logiche del calcolo, la filosofia contemplativa degli antichi può rappresentare una cura contro i mali del mondo moderno.

Ho voluto mostrare come un certo tipo di pensiero che sembrava finito, come quello neoplatonico rimasto nella cenere per circa mille anni, tornò a farsi sentire nell’Europa occidentale. Temo però che il pensiero contemplativo degli antichi non sia molto in auge: oggi abbiamo una civiltà di massa guidata dal mercato che ha poco o nulla a che fare con il pensiero in sé. Ma a suo modo anche questo è un nuovo tipo di religione: oggi si crede in maniera a-critica alle logiche della crescita, del mercato e a modelli che stanno mostrando i loro limiti.

Lei scrive come la caduta della città fu favorita dalle divisioni tra cristiani, in quanto le potenze del tempo, italiane in primis, subordinavano un intervento a sostegno dell’ultimo imperatore bizantino, Costantino XII, a una sottomissione degli orientali alla chiesa di Roma. Crede che le divisioni politiche siano responsabili delle crisi internazionali, allora come oggi?

Oggi la divisione tra Chiesa d’Oriente e di Occidente non è più all’ordine del giorno, naturalmente, ma lo scarto sulle visioni politiche su cui si registra una debolezza intrinseca dell’Europa credo che sia un problema attuale. In realtà, sotto il velo delle divisioni religiose, molto spesso si nascondono interessi economici. Nel XV secolo c’erano potenze occidentali da un lato, come Genova e Venezia, che avevano interesse a commerciare con l’Oriente e che avevano rapporti economici con gli Ottomani da preservare, dall’altro potenze per così dire “minori” che non avevano risorse per andare in aiuto di Costantinopoli.

Lei è un grande interprete del romanzo storico attuale. Da cosa nasce la sua passione per questo genere letterario?

Ho sperimentato negli anni diversi generi, ma quello storico mi interessa particolarmente perché mi permette qualcosa che altri generi non richiedono: la ricerca e lo studio. A mio parere non c’è niente come il romanzo storico. Attraverso di esso si può esprimere la natura e i comportamenti umani, sondare l’interiorità e descrivere – elemento che mi interessava specificatamente per l’ultimo romanzo – cosa accade nell’animo umano di fronte a cambiamenti ineluttabili.

Per “Notturno bizantino” è arrivata la candidatura al premio Strega 2016, un riconoscimento che premia anni di lavoro e un’opera molto intensa. Cosa si sente di dire?

Mi fa piacere, naturalmente. Ma l’accetto più come una sfida che come un riconoscimento, anche perché non è mai capitato che un piccolo editore vincesse questo riconoscimento. Non mi aspetto moltissimo, ma solo un minimo di attenzione per un’opera che dura da molto tempo – scrivo da più di cinquant’anni! Detto questo, la sfida mi interessa e l’accetto.

Mario Sammarone

 

Da oggi a Roma inizia il “Festival del Romanzo Storico”

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Oggi, a Roma, alle ore 18,30, con la presentazione del romanzo “L’ultima legione occulta” di Roberto Genovesi (edito da Newton Compton) avrà inizio una rassegna culturale dedicata al romanzo storico. L’evento, che si svolgerà presso la sala conferenze della FUIS in Piazza Augusto Imperatore 4, vedrà la partecipazione di alcuni maestri del genere come Luigi De Pascalis, Andrea Frediani, Fabrizio Cordoano. “Si tratta di un’occasione per riportare alla memoria storie di un mondo passato che possono offrire ancora grande testimonianza, perché una civiltà che perde il legame  con il proprio passato  è una civiltà che rischia di camminare sul nulla”, afferma Mario Sammarone, curatore della rassegna. Organizzate dall’Associazione Editori Abruzzesi, il ciclo di sei conferenze terminerà il 26 febbraio con la presentazione del libro “Le lacrime degli eroi” (Einaudi) di Matteo Nucci.

Oggi, a Roma, presentazione del libro “Un re chiamato Desiderio”

Carissimi, oggi a Roma, presso la Fuiss, in Piazza Augusto Imperatore 4, verrà presentato il libro “Un re chiamato Desiderio” di Danilo Campanella. Sarà presente l’autore, che verrà introdotto da Mario Sammarone. L’incontro avrà come relatore Massimo Lanzaro. Per l’occasione vi riproponiamo un articolo sul libro, scritto da Mario Sammarone, apparso qualche tempo fa su questo blog.

Gabriele

 

Un filosofo che voglia scrivere un racconto, non potrà che farlo in “maniera filosofica”. Ed è ciò che ha fatto Danilo Campanella nel suo ultimo lavoro, “Un re chiamato Desiderio” (Tabula Fati, 2014). Campanella, studioso di politica, si è sempre cimentato in saggi filosofici o storici, quale il suo ultimo lavoro su Aldo Moro presentato recentemente all’Istituto Luigi Sturzo.

In questo racconto, invece, pur con uno stile piano ed affabulatorio, a tratti quasi familiare, Campanella ci conduce a riflettere su quel re interiore che ci domina tutti: il desiderio. Un’entità che ha avuto il suo momento digloria negli anni passati, quando i suoi cantori lo hanno esaltato fino a farne un feticcio, con la rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari. Altro mondo è il nostro e la pretesa di poter indefinitamente avere tutto a disposizione si è scontrata con la presa di coscienza che dobbiamo porre limiti ai nostri sogni faustiani, per ragioni ecologiche, economiche, demografiche – recentemente Serge Latouche è stato in Abruzzo e ha parlato proprio di questo.

Eppure il desiderio ci domina tirannicamente, eterodiretti come siamo dal generale consumismo che ci alletta ogni momento e ci rende schiavi desideranti di cose, esperienze e oggetti al punto di non essere più capaci di sottrarci a queste allettanti sirene.

Il racconto parte da una situazione tipicamente familiare, dove Giovanni, il protagonista, un ragazzo figlio dei nostri tempi, arrogante nel suo fortino di certezze che gli arrivano dal posto sicuro che occupa nel mondo, con la sua vita prevedibile di studente universitario protetto dall’ambiente familiare, si trova a dover fronteggiare un inconveniente occorso a suo padre il quale, recatosi in Grecia per il suo lavoro di Ingegnere, dimentica a casa la valigetta con tutte le carte dei suoi progetti. Incarica così il figlio Giovanni di portargliela in Grecia e questi, sebbene a malincuore per dover affrontare un viaggio non previsto, si organizza per partire.

Tutta la famiglia è mobilitata: la madre in apprensione perché tutto si risolva, la sorella impegnata al computer per acquistare i biglietti, e Giovanni a prepararsi spiritualmente a qualcosa che deve eseguire suo malgrado.

Essendo necessario un compagno per avere uno sconto nel costo del viaggio, si rivolgono ad un cugino, Ernesto, che non vedono da anni. Questo ragazzo, che Giovanni ricorda dall’infanzia timido e impacciato, si rivelerà essere ben diverso da come il cugino si aspetta: la sua vita è fatta di scelte non scontate e, all’opposto di Giovanni che non desidera contaminarsi con la vita vera, Ernesto la ama in tutte le sue manifestazioni. Sarà un maestro per Giovanni, con una funzione quasi maieutica, e lo inviterà a riconsiderare tutte le sue ovvie certezze, fatte di pregiudizi e percorsi obbligati.

Nel corso del viaggio verso la Grecia, che sarà costellato di varie peripezie e contrattempi, vediamo Ernesto come l’uomo che riesce ad immettersi nella tragicità dell’esistenza vivendola però consapevolmente, in una dimensione interiore, mentre Giovanni è dentro schemi che lo proteggono forse, ma che lo limitano e che comunque non ha certamente scelto lui. Per cui Ernesto diviene nel viaggio una specie di Virgilio per il cugino, indicandogli la via per ridiscutere tutta la sua esistenza. Là dove per Giovanni c’è irritazione per un’esperienza che egli non aveva previsto, per Ernesto il viaggio verso la Grecia è una meravigliosa opportunità.

Le ore che trascorrono insieme sono impiegate a parlare e discutere, a filosofare quindi, e di volta in volta si uniscono loro anche altri personaggi che incontrano, compagni di viaggio con cui approfondiscono temi e discorsi che per Giovanni sono una porta socchiusa verso nuovi modi di pensare.

Per Ernesto il peggior nemico della libertà delle persone è il desiderio, che come dice il titolo è un re nella nostra vita, ci domina e condiziona in ogni campo, rendendoci sempre pronti a correre là dove esso chiama, come un possente tiranno che trasforma ogni aspetto della nostra esistenza in qualcosa da afferrare, rendendo così tutto materiale e facendoci divenire animali predatori verso il mondo. Questo desiderio tuttavia non è sogno, possibilità di ampliamento dell’essere, ma gabbia, cappio, limite, perché derivante da manipolazioni esterne e non da scelte consapevoli.

L’invito di Ernesto a Giovanni è di riemergere nella libertà, mai definita una volta per tutte ma sempre ridisegnata, faticosamente e volontariamente, in nuovi inizi sempre rinegoziati nella nostra interiorità, poiché, come dice Hannah Arendt, la libertà è un gesto augurale.

Apprendiamo, da inserti nel racconto circa la futura vita di Giovanni, che egli imparerà la lezione, e che quindi il viaggio compiuto dai due ragazzi è simbolo di un viaggio ben più profondo. L’epilogo fa ulteriormente riflettere, e tutto il racconto si può leggere quasi come un’”Operetta Morale”, o un “conte philosofique “ del Settecento, in cui idee e pensiero erano veicolati dalle opere letterarie: sarebbe necessario che si pubblicassero più libri di questo tipo, per i temi sviluppati che ci toccano da vicino, per noi che siamo in equilibrio precario tra un desiderio illimitato ed egoista e la necessità di trovare un limite, che la situazione storica stessa ci impone e verso il quale noi stessi aneliamo perché sentiamo che, paradossalmente, solo in quel limite ci potremo muovere più liberamente e ed essere più padroni di noi stessi, dato che il desiderio liberato da ogni morale è una prigione artificiale.

Non manca una vera e propria dichiarazione d’amore dell’autore alla sua città, Roma, con le sue contraddizioni e le sue offerte di piacevoli opportunità, oltre all’aria stessa che vi si respira, che è antichità classica e anche un po’ di cinica modernità mescolate per farne quello che è, una città irripetibile ed unica al mondo. Leggiamo quindi quest’opera di Campanella e anche noi, con lui, filosofiamo.

Mario Sammarone

 

Presentazione a L’Aquila di effe – Periodico di Altre Narratività

Carissimi,

oggi a L’Aquila alla libreria Polarville in via Castello 49, a partire dalle 19, si svolgerà la presentazione del secondo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, volume di narrativa emergente, ideato da Flaneri e edito dal marchio editoriale 42Linee. Parteciperanno all’incontro Dario De Cristoforo, direttore editoriale di Flanerì, e gli scrittori Mario Sammarone e Alessandro Chiappanuvoli, autori del racconto “Publio Licinio”, pubblicato in questo volume. Effe – Periodico di Altre Narratività nasce dall’esigenza di creare una zona franca per autori emergenti e giovani illustratori. Da qui l’idea di pubblicare un volume antologico in cui far convogliare tutte le facce della creatività.copertina effe

 

Emil Cioran e “L’agonia dell’occidente”

Per i tipi della casa editrice Bietti è recentemente uscito il libro di Emil Cioran, L’agonia dell’occidente – lettere a Wolfgang Kraus (1971-1990), un carteggio intercorso tra lo scrittore rumeno e il critico ed editore austriaco Wolfgang Kraus, con l’aggiunta, in appendice, di altre due lettere scritte dalla compagna di Cioran, Simone Boué, ed estratti del diario di Kraus che vertono sulla figura stessa di Cioran – la scoperta e la conseguente trascrizione di questo carteggio si deve a George Gutu, avvenuta in maniera casuale durante lavori di ricerca presso l’Archivio Letterario della Biblioteca Nazionale di Vienna.

Con questa pubblicazione, curata da Massimo Carloni che ne scrive una intensa e pregnante introduzione, veniamo a conoscere da vicino il pensiero dello scrittore rumeno, che ci viene reso nella sua piena umanità ed attività di intellettuale, grazie anche all’imponente apparato di note che sono un supporto ulteriore per accedere alla collocazione storico-biografica delle lettere stesse.

Cioran incontrò Kraus in occasione della traduzione tedesca del Mauvais démiurge per l’editrice Europa di Vienna, presso cui Kraus lavorava nel 1971 – ma probabilmente si erano già riconosciuti in precedenza. Si delineano subito le differenti personalità dei due intellettuali: Cioran con il suo pessimismo che lo fa volutamente restare ai margini del mondo culturale e per cui la produzione artistica si nutre necessariamente di una buona dose di ascetismo; Kraus, invece, che interpreta il suo ruolo di intellettuale come un’alacre attività di mediazione tra l’Est e Occidente, con un vero e proprio impegno emotivo, ed etico nel senso hegeliano del termine, che lo spinge ad invitare in Austria alcuni scrittori dei paesi del blocco sovietico; ma entrambi impegnati nel cantare l’Elegia del finis Austriae, nazione che per essi è archetipo della decadenza dell’Occidente.

L’Austria, che Cioran sente essere la sua vera patria, al punto di definirsi un tardo cittadino di Kakania, la terra immaginaria e pure reale creata da Musil, oppure sentendo su di sé le stigmate ideali di un soldato austroungarico, nato com’era ai confini orientali di quel grande Impero, prima che quelle terre diventassero dominio del caos balcanico. E tuttavia quell’anima orientale è rimasta, come una sorta di fatalismo, a comporre la complessa personalità di Cioran, quasi suo malgrado, insieme alla prediletta componente austro-germanica, e alla Francia terra d’adozione che gli dà ospitalità e lingua. Cioran rinuncia infatti all’idioma rumeno con un gesto di abiura che è un rifiuto totale della “rumenità” con il suo carico di maledizione individuale e nazionale, un auto-sradicamento consapevole portato alle estreme conseguenze.

La decadenza della potenza austroungarica è sentita visceralmente da Cioran come pericolo incombente sull’intera Europa, avendo aperto la via al pericolo della dittatura comunista che egli paventa possa dilagare in Occidente. Anche en France Cioran non si sente assolutamente a suo agio, essendo preponderante tra gli intellettuali il pensiero marxista, allora egemone con le grandi figure di Sartre, Althusser, Baudrillard, per lui incomprensibili con la loro adesione a una dittatura disumana. Ancora una volta, Cioran è sradicato, anche nel mondo della cultura. Per lui l’uomo occidentale è come Tantalo, il re mitico che sedeva al desco degli dei ma che non sapeva godere della propria ricchezza, colui che ha tutto ma che vuole votarsi a un inspiegabile pauperismo comunista: paradosso.

Nelle lettere a Kraus, Cioran rivela tutto il suo preoccupato stupore nel vedere la gioventù francese, non contenta della libertà di cui dispone, reclamarla a gran voce in cortei e proteste, per consegnarsi, eventualmente, attraverso una agognata rivoluzione, all’incubo della tirannide sovietica. La sua lontananza da quella ideologia lo porterà, pur frequentando lo stesso caffè di Sartre, Le Flor nel quartiere latino, ad ignorarlo per anni senza rivolgergli mai la parola.

Il sentirsi “straniero” di Cioran è in sintonia con l’amata figura di Sissi, l’imperatrice moglie di Francesco Giuseppe, angelo del disinganno, ombrosa al punto tale da rifuggire ogni contatto pubblico, vero atto di diserzione sociale che gliela rende sorella. Come Sissi si celava dietro le sue velette, Cioran vorrebbe una vita solitaria, più nascosta, non sottoposta alla schiavitù delle visite, degli incontri serali, delle conversazioni futili e sfinenti, degli spossanti e difficili rapporti con editori e traduttori.

E tuttavia, al di là di questa apparente misantropia, nelle epistole a Kraus emerge la figura di un uomo buono, educato, rispettoso, il quale suscita la perplessità del critico viennese che si chiede, nei suoi appunti di diario, come possa Cioran essere l’uomo civile e generoso che è, ed elaborare al contempo il suo pensiero così aridamente gnostico e ostile ad ogni manifestazione materica. Kraus azzarda delle ipotesi, quasi una diagnosi: perché il suo pessimismo? Da dove deriva? Una delusione? Un eccessivo idealismo tradito? Questione di salute? O l’insonnia forse, l’antica tiranna giovanile di Cioran, di cui soffriva già in Romania con la madre, atterrita dal malessere del figlio, che ordinava la celebrazione di messe – insonnia combattuta poi, una volta trasferitosi a Parigi, con la terapia della bicicletta e di passeggiate salutari nei giardini del Luxembourg. La mancanza di sonno, per Cioran, è assenza di rinascita mattutina, mancanza di risveglio, e non permette quel minimo di ottimismo e di progettualità connessi a un inizio.

Per Kraus, in Cioran c’è anche sofferenza, sebbene del tutto volontaria, dell’intrappolamento in una lingua straniera e così freddamente grammaticale come il francese: una specie di “camicia di forza” in cui il temperamento mistico di Cioran deve piegarsi. Ci sono poi il rifiuto della mondanità, del successo, poiché Cioran teme ogni superficialità che ne possa derivare. Gli sembrerebbe uno svilimento. Arriva perfino a rifiutare premi letterari corredati di denaro. Rifugge anche da un eccesso di scrittura, che ritiene inutile. Eppure, Cioran, pur sapendo dell’inconsistenza della vita, non ne rimane fulminato, procede.

Nel corso di queste lettere, scritte nell’arco di un ventennio, viene gettata luce sulla vita di questo scrittore, in una prosa sempre elegante e controllata, che ci informa dei suoi progetti, delle sue letture e anche del declinare della salute e della forza vitale con l’avvicinarsi della vecchiaia, stagione aborrita per la perdita di libertà che ne deriva. E poi sullo sfondo Parigi, fatale Parigi, oppressiva, tutta un chiacchiericcio, mentre Cioran anela a una patria fredda di clima e di rapporti umani.

Le sue innumerevoli letture, un “vizio” di cui non può fare a meno, lo portano a crearsi un suo personalepantheon di figure che gli sono più affini, come Erwin Chargaff, stimatissimo scienziato e pensatore, e poi Jünger per cui nutre un’ammirazione vitalistica e con il quale condivide un aristocratico pessimismo, e ancora Joseph de Maistre, pensatore della controrivoluzione, Rudolf Otto, Meister Eckhart – “il più sublime” –, madame du Deffand, la grande scrittrice di epistole che fece della conversazione un’opera d’arte, cosciente e lucida in maniera esasperata e quindi troppo civilizzata e così, per forza, fragile e declinante. E soprattutto, il maestro della coscienza, il suo maggiore conoscitore, Dostoevskij, che vide in essa una malattia per l’uomo.

Anche il nichilismo offende Cioran quando non è abbastanza puro, come nei russi che avevano una finalità storica ben precisa e quindi una meta – perfino nel buddismo Madhyamika c’è il fine ultimo della liberazione, cioè ancora una meta. Pieno di un vero furore gnostico, se fosse stato credente Cioran sarebbe stato un cataro, con il suo rifiuto di avere figli poiché pensa che la famiglia non meriti di perpetuarsi. La sola pace possibile la trova nei piccoli lavoretti di falegnameria, quando si reca in vacanza a Dieppe, manifestando quasi una propensione alla mistica zen, oppure rivelando un insospettabile slancio estetico quando invita uno scrittore amico ad adottare una certa frivolezza formale. Cioran, che affronta tutto con una scrupolosa serietà, pare incapace di prendere atto che l’uomo sia ciò che è; lo desidera quasi simile a un dio e gli si scaglia contro perché così non è. Cioran è un mistero.

In ogni caso, o attraverso le letture, o nella sua vita reale, vediamo come egli sia capace di avere un rapporto autentico solo con persone che hanno smesso di essere entusiaste. Preferisce quelle messe a nudo, non rivestite dalla protervia di un’illusione.

Sono questi scritti uno squarcio su una vita e su un periodo di storia estremamente puntuali, che si leggono con piacere, ma con alcune singolarità che, in quell’apparente scorrere fluido della scrittura, emergono folgoranti. Aforismi, che quel semplice racconto riscattano, nella freddezza marmorea della parola che cela un’apertura di verità possibili. Gemme che ci folgorano.

Ma alla fine, unica parola che Cioran dice che gli rimanga è Umsonst, invano, che, come un cartiglio in un’iscrizione araldica, egli potrebbe porre a suggello della propria vita: per questo feroce nichilista, la grazia di un significato non esiste.

Mario Sammarone (pubblicato su Nazione Indiana)

Libri consigliati: “I segreti di Pitagora”

i segreti di Pitagora

di Mario Sammarone

Presentazione del libro “Il mito della sociologia”

Carissimi,
vi segnalo la presentazione del libro “Il mito della sociologia – intervista a Franco Ferrarotti” (ed. Solfanelli) di Mario Sammarone che si svolgerà domani 23 ottobre presso la casa delle Letterature, ore 17:00, a Roma.
Vi parteciperanno  il prof. Franco Ferrarotti, Massimo Di Forti – giornalista de il Messaggero, il dott. Danilo Campanella, l’editore Marco Solfanelli e l’autore Mario Sammarone.
mito sociologia

Libro consigliato: “La bugia dell’alchimista”, il segreto della Porta Magica del Marchese Palombara

Naturalmente, un manoscritto.
Non si può fare a meno, leggendo La bugia dell’alchimista (La lepre edizioni, 2014), di riandare ad illustri precedenti, in primis, per citare i più famosi, I Promessi Sposi e Il Nome della Rosa. È la solita prassi: grazie ad un escamotage letterario ampiamente frequentato, ancora una volta un rinvenimento di antiche carte serve a creare storie, raccontate volgendosi a pari grado a fatti realmente accaduti e all’invenzione letteraria.
Nel caso di questo romanzo, viene fortunosamente rinvenuto un diario, scritto da una donna sconosciuta alla storia, tale Lisbetta Vincioli, nello stesso giorno della morte di Massimiliano Palombara, il 16 luglio 1685. Molto del conseguente intreccio è imperniato sulla puntigliosa caccia della protagonista Cristina alla ricerca dell’identità di Lisbetta.
Per gli amanti di vicende storiche, Massimiliano Palombara è stato un tipico uomo del Seicento, un nobile inquieto come il suo tempo, desideroso di mantenere la sua posizione ma soprattutto teso alla ricerca di quella sapienza occulta, ossessione di ogni uomo di cultura del tempo. Il Palombara ha pubblicato due opere, entrambi con lo stesso titolo, La Bugia, trattatelli di argomento alchemico.
E qui inizia il gioco di allusioni e depistaggi: di quale “bugia” si tratta? Di quella che si intende con una menzogna, oppure dell’oggetto che serve come porta candela, talvolta usato dagli alchimisti ed effettivamente raffigurato sulla copertina dell’opera di Palombara? Siamo nel dominio dell’Alchimia, dell’Opera al Nero, e quindi in un mondo di chiaroscuri dove nulla di ciò che sembra, o viene detto, è vero. Ma neppure falso.
La protagonista del romanzo, Cristina, è una studiosa di codici secenteschi. Un bel giorno trova nell’archivio di Palazzo Massimo, a Roma, il manoscritto firmato da Lisbetta Vincioli, a lei sconosciuta. Leggendo il diario e dipanando gli avvenimenti, avvenuti più di trecento anni prima, vive ella stessa una storia al presente, scoprendo analogie e specchiandosi nel passato.
Ma “cosa è specchio di cosa?” La risposta sarà data ancora dalla conoscenza alchemica: la corrispondenza di ogni componente dell’universo è la chiave dell’intreccio. L’affinità della luce e dell’ombra, dell’alto e del basso, come dice anche il Padre nostro: “Sicut in coelo et in terra”. Ma lo sforzo di Cristina di pervenire alla soluzione dell’enigma del manoscritto si rivelerà innanzitutto un lavoro su di sé.
A tutto questo Massimiliano Palombara ha dedicato la vita, trascorsa nello studio e nella dedizione all’Arte più oscura ma anche più luminosa. Egli era un uomo impegnato politicamente e anche militarmente, per realizzare i suoi sogni, nel crogiolo di un tempo in cui la durezza ha temprato il suo animo – tanto per rimanere nella terminologia alchemica.
Possedeva una villa all’Esquilino, dove fece costruire la cosiddetta Porta Magica – un monumento sito a Piazza Vittorio conosciuto da quasi tutti gli odierni romani –, essa stessa “una bugia” che porta la luce. Sembrano rimandi inspiegabili e senza connessione, ma il geroglifico della Porta Magica è il simbolo di una “bugia” che illumina l’accesso alla porta della conoscenza, per invitarci a portare i nostri passi su una via impervia che, sola, può darci la consapevolezza più alta.
L’archetipo della porta si trova in molte tradizioni ermetiche, basti pensare alle due porte delle anime di Porfirio e dei neoplatonici, che gli uomini oltrepassavano al termine della loro vita, per accedere purificati ai mondi superiori della luna e del sole.
Poi c’è il discorso del matrimonio interiore, ovvero della riunione dei due principi maschile e femminile, espresso a molti livelli del romanzo in maniera simbolica. “Le nozze chimiche” – nome di un manifesto rosacrociano scritto nel Seicento e trasmessosi nei secoli a venire – e la corrispondenza degli animi sono la quintessenza dell’Opera, che con fede e fiducia vuole creare un uomo migliore.
Lisbetta Vincioli è colei che sembra incarnare questo principio. Nel diario ritrovato da Cristina, è scritto che ella si recò dal Palombara come portatrice di una misteriosa custodia, contenente libri magici. Ma molto di più si rivelerà lei stessa compagna e dono per lui, legandosi al nobiluomo romano per il resto della sua vita e trovando così, insieme, il premio dell’opera.
Lisbetta però è anche Lesbio Lintuatici, un tecnico teatrale che ha operato nella compagnia dei Confidenti. Infatti, sotto queste mentite sembianze maschili, si è celata per vivere un’esistenza più libera e per poter accedere allo studio, opportunità precluse a una donna del Seicento. Lisbetta ha quindi riunito nella sua persona le opposizioni uomo-donna, realizzando l’androgino. Ennesimo rimando, ennesimo specchio, che tuttavia la protagonista Cristina decifrerà, scoprendo che ogni uomo deve essere materia, vaso e fuoco per raggiungere la meta vagheggiata.
È sufficiente questo intreccio? No di certo! Nella trama secentesca, contro-storia di quella che vive Cristina nel presente, si introduce un nuovo grande personaggio, la regina Cristina di Svezia, alter ego della protagonista anche nel nome. La regina di Svezia fu un’adepta delle arti occulte al pari di Caterina de’ Medici, regina di Francia, ma siamo nel Seicento, secolo della magia, secolo rosacroce.
La bugia dell’alchimista è scritto con notevoli conoscenze storiche e ricco di citazioni della tradizione alchemica, originalmente interpretati. Una curiosità del romanzo è che sia firmato in maniera spiazzante da Jason D’Argot, un personaggio che, come l’ebreo errante, rivive in tutte le epoche storiche, dal 440 d.C. quando nacque a Smirne fino ai nostri giorni, passando per Medioevo e Rinascimento, tra esperienze rosacruciane e massoniche ed attività letteraria e politica.
Ma il nome dell’autore non è scelto a caso, come nulla lo è in questo romanzo (e nelle arti occulte): Giasone è colui che conquista il vello d’oro, altro modo segreto di definire il premio alchemico, premio sicuramente ottenuto dal Palombara, come si vedrà nel sorprendente finale. Egli, come già D’Argot, può aggirarsi in carne e ossa tra noi dopo secoli di esistenza per indicarci la via che ha già trovato, vivendo così sotto i cieli di tutte le epoche.
Un libro molto interessante che, tuttavia, anche per i più scettici verso certi argomenti, si potrà leggere come appartenente alla migliore tradizione del romanzo storico, come ci spiega anche la curatrice Fiammetta Iovine in una delle presentazioni romane della Bugia. Un libro ben documentato e scritto con una lingua che si fa antica, quasi aulica, nella parte che racconta la storia di Lisbetta; ma sempre con uno stile introspettivo e coinvolgente che ci farà riflettere e che ci suggerirà, forse, cosa sia la vera trasformazione interiore: esercizio della coscienza e riflessione, pratica costante e viaggio periglioso, ma illuminante, dentro di noi.
Naturalmente, un manoscritto.

Mario Sammarone

Oltre il taylorismo: Adriano Olivetti e le nuove frontiere del lavoro

alle ore 17.30
presso la sede della Lega italiana per i diritti dell’uomo. piazza dell’Ara Coeli, 12, Roma
La vita, l’opera e il sogno di un grande imprenditore illuminato, un “personalista” che cinquant’anni fa ha mostrato una via di sviluppo che metteva al primo posto le persone.

Convegno organizzato dalla Lidu (Lega italiana per i diritti dell’uomo), dallPhilomates Association – Associazione Filomati e dall’Istituto Mounier.

Intervengono:
Franco Ferrarotti
Beniamino De’ Liguori – direttore editoriale ed. di Comunità e membro centro studi Fondazione Adriano Olivetti
Mario Sammarone – scrittore autore del saggio “Adriano Olivetti: l’Italia migliore” pubblicato su Antarés (ed. Bietti, Milano)
Francesco Ciocci – saggista e studioso di tematiche del lavoro.
Manlio Lo Presti – presidente banca Mps, Roma e saggista
Modera: Danilo Campanella – saggista e presidente Associazione Filomati – Philomates Association: www.philomates.org
Con il saluto del presidente della Lidu: Alfredo Arpaia

con interventi programmati di: Daniele Monteleone (domotico ed esperto IT)

ore 19:00 RINFRESCO PER GLI OSPITI

La Lucrezia di Dario Fo – Nel suo ultimo libro “La figlia del Papa” dedicato alla più famosa dei Borgia, nell’ambito della politica del ‘500 (così simile a quella di oggi)

Madame Bovary c’est moi! Questa famosa esclamazione di Gustave Flaubert, davanti al suo romanzo capolavoro, potrebbe valere per molte altre opere. Sicuramente vale per l’ultimo lavoro  di Dario Fo, La figlia del papa (Chiarelettere, 2014) in cui sembra ci sia una forte adesione tra l’autore e il suo personaggioPer l’ennesima volta, si ripercorre la vita di Lucrezia Borgia, tante volte raccontata in modi diversi, come dai romanzieri dell’Ottocento ad esempio, che disegnarono una figura quasi infernale, una manipolatrice di situazioni e di uomini, addirittura esperta di veleni che usava contro i nemici e chiunque ostacolasse i suoi piani, tesi al potere. Questo perché i romanzieri dell’Ottocento volevano screditare il papato, che a quel tempo reputavano corrotto.

Maria Bellonci, invece, con il suo Lucrezia Borgia del 1939 ha riabilitato in pieno questa figura, penetrando nella sua interiorita’ pur appoggiandosi fedelmente alla realta’ storica. Più recentemente, l’editoria commerciale, nonche’ la filmografia, hanno puntato di nuovo su aspetti  erotico-scandalistici con prodotti volti a solleticare il gusto del grande pubblico.Invece Dario Fo e’ sempre Dario Fo, e allora anche Lucrezia un po’ gli somiglia, anche perché la figura di Lucrezia che emerge in questo romanzo è del tutto utopistica, e dove c’e’ utopia c’e’ Dario Fo.Lucrezia si muove nel suo ambiente di luci ed ombre, ma rimane sempre nella sua luminosa alterità, ripudiando ciò che corrompe e contamina l’essere umano, la brama del potere. Lei stessa è una pedina usata dal padre, il papa Alessandro VI, e dal fratello Cesare, il famoso duca Valentino, manipolata per accrescere o conservare la posizione dei due e saziare la loro sete di potere.Eppure Lucrezia riesce a maturare un’aura di saggezza che le permette di allontanarsi, distaccarsi da tutto cio’ che le accade, condannando perfino le sopraffazioni e le violenze per restare nella sua mandorla di innocenza, con una presa di coscienza degna di eroine ben più moderne.Nel corso degli avvenimenti, la figlia del papa sviluppa un pensiero quasi utopistico, spera in una società piu’ giusta, perché il suo animo è stanco di agguati, delitti, tradimenti e vorrebbe pace e giustizia intorno a sé; tutto ciò è affine al pensiero politico e umano di Dario Fo.

 Certamente, questa è una ricostruzione che l’autore ha fatto del personaggio, seguendo un percorso  e portandolo avanti coerentemente, ma per fare questo ha dovuto minimizzare certi fatti o enfatizzarne altri. Quello che emerge è comunque una condanna di quei tempi (e per riflesso di questi) in cui ogni inganno, meschinità o corruzione vale solo se tira l’acqua al proprio mulino.Probabilmente Lucrezia Borgia non è stasta come la descrive Fo, né poteva esserlo del resto, ma ha combattuto con le armi che aveva una donna di quell’epoca: la duttilità per adattarsi alle situazioni, la dolcezza e l’obbedienza per favorirsi le simpatie degli uomini, ma anche una grande intelligenza che ogni storico le riconosce.Le parti migliori del romanzo di Fo sono quelle in cui l’autore, da meraviglioso affabulatore qual è, apre spiragli di comicità per lanciare qualche sberleffo ai potenti del tempo, identici a quelli di oggi, come nell’episodio in cui il papa Alessandro intende cambiare radicalmente il Vaticano, la Curia e tutto il sistema di potere di Roma; ma l’intento si sbriciola ben presto in un niente di fatto per lo spavento che il pontefice prova riflettendo sulle conseguenze che potrebbe provocare.E allora, sembra dirci Dario Fo, nel Cinquecento come oggi, cambia tutto (o si finge di cambiare tutto) ma rimane sempre tutto uguale. Tanto gli uomini, come dice Machiavelli in una sua frase riportata ad inizio libro, sono sempre pronti a farsi infinocchiare dal nuovo venuto che promette miracoli.

Mario Sammarone

L’individualismo debole che svuota le persone

La sterminata opera di Franco Ferrarotti offre all’analisi sociale molteplici spunti di riflessione. La condizione umana è dominata oggi da un egocentrismo e un individualismo solipsista mai emersi prima, un individualismo però debole in cui la persona si svuota della sua dimensione più umana, quella dei sentimenti, dell’esperienza e dell’incontro con l’altro.

Nel nostro tempo questo svuotamento è prodotto dall’eccesso di informazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno, che produce un chiasso interiore privando la persona della sua sfera creativa, della capacità di progettare e in particolare dell’immaginazione. E così, le vecchie categorie di passato, presente e avvenire sono completamente saltate in nome di una eternizzazione insignificante dell’immediato.

A questo proposito Ferrarotti vede due logiche contrapposte nel nostro tempo e che si affrontano, forse anche inconsapevolmente, nello stesso individuo – a dire la verità, una di esse ha preso già il sopravvento. La prima è la logica della lettura, “una parola dopo l’altra, una riga dopo l’altra”, che induce al ragionamento e alla meditazione riflessiva; presume uno sforzo mentale e avviene nel momento in cui ci si raccoglie in se stessi, per citare sant’Agostino, in quella cittadella interiore che non dovremmo permettere mai a nessuno di espugnare, nemmeno in mezzo al chiasso della vita moderna.

La logica della lettura è una logica difficile perché disinteressata, contemplativa, inutile. E invece “la cultura occidentale ha bisogno di uno scopo, di un profitto, di una giustificazione. È utilitaria fin nel midollo”. Non può aspettare, vuole tutto e subito. Soprattutto i giovani le sono diventati estranei, pochi di loro conservano ancora un libro sul comodino – leggere costa fatica – e così si affidano, o meglio, si consegnano a internet e alla comunicazione di massa “elettronicamente assistita”.

“Non si scrive” afferma Franco Ferrarotti nel suo ultimo libro, La parola e l’immagine (ed. Solfanelli, 2014), “si assembla. Non si compone. Si clicca”. Oggi la gente sarebbe munita di una “quantità di aggeggi elettronici che informano e comunicano tutto a tutto in tempo reale, e su tutto il pianeta, senza però che abbiano più niente di importante da dire”. Sembra una nuova formulazione del motto cartesiano: io comunico, dunque sono. Io chatto, dunque esisto. Se non sono connesso, non sono nessuno.

È il trionfo dell’audiovisivo, la logica che ha conquistato il predominio del nostro tempo. Si tratta di una logica rapida, che colpisce con l’immagine e certamente più facile della lettura perché viene offerta all’individuo che non deve sforzarsi di comprenderla; ma siccome l’immagine è preconfezionata, si tratta di “un’offerta avvelenata, danaica”, perché priva l’uomo della capacità di costruire la sua immagine, svuotandolo della capacità artistica e dunque creativa – poiesis, dal greco, vuol dire creazione.

Questa privazione della capacità immaginativa ha portato Ferrarotti a teorizzare un vero e proprio cambiamento antropologico nella società attuale: dall’homo sapiens socratico staremmo passando all’homo sentiens e all’homo televisivus, “una sorta di sedentario nomade” che può fare il giro del mondo cambiando canale e sintonizzandosi sui network dei paesi esteri, senza abbandonare mai la poltrona di casa. È il delirio del solipsismo, che porta a una realtà dove non conta più il vissuto, ma tutto si vive nella falsa speranza indotta dai mezzi di comunicazione.

Anche David Riesman, negli anni 50’, aveva teorizzato l’uomo etero-diretto, una sorta di manichino manovrato, stimolato e orientato dall’esterno. Il sociologo americano osservava l’emergere di un nuovo tipo di individuo che rinuncia a ragionare secondo le categorie logiche tradizionali e che vive nell’immediatezza dell’informazione offerta.

L’homo sentiens di Ferrarotti è invece ancora più pericoloso, perché è colui che ha perduto la capacità di concentrarsi, di fissare l’attenzione sulle cose. Il suo interesse si modifica nella stessa maniera in cui cambia canale. Non legge, o legge poco, perché “seguire dei segni neri pagina per pagina lo fa sentire in prigione e gli sembra scandaloso”. Ma il deficit più alto di questo nuovo tipo umano, alla ribalta nella società della tecnica, è l’indebolimento della memoria.

Cos’è un uomo senza memoria? La fiducia di avere tutta la conoscenza dentro dei giganteschi server, su queste enciclopedie elettroniche via web, è solo un’illusione. La cultura si costruisce giorno per giorno, con volontà e fatica, non si richiama da uno schermo con un click del mouse. Arriverà il giorno in cui saremo così assuefatti a cercare le notizie sulla rete che la nostra memoria sarà talmente indebolita, e forse dimenticheremo che internet e le enciclopedie elettroniche esistono, e quindi, ahimè, tutta la conoscenza.

La tanto bistrattata memoria era tuttavia per gli antichi la facoltà che più avvicinava gli uomini al dio. Secondo l’orfismo, l’antica religione greca misterica, l’uomo viveva nell’oblio di sé, ma poteva recuperare la sua antica natura ricordando ciò che era al principio di tutte le ere; la più stretta alleata in questo viaggio verso il ritorno, verso il superamento delle illusioni molteplici, era Mnemosyne appunto, la memoria.

Tornando al presente, oggi ci troviamo di fronte al tramonto della lettura. Se inchiostro e calamaio appartengono a un’era passata e riportano in mente certe atmosfere di film come Barry Lindon, anche il tempo delle “moderne” penne a sfera si sta compiendo, con la tecnologia touch screen ormai capillarmente diffusa. La vecchia penna degli scrittori è diventata un mezzo anacronistico, quasi una stranezza per chi è assuefatto ai moderni dispositivi elettronici.

Un tempo esistevano gli icònoclasti, che ripudiavano ogni forma di rappresentazione visiva, oggi invece siamo giunti alla società degli “iconoduli”, gli schiavi dell’immagine che hanno dimenticato il vero potere della parola: il suo significato. Nella società veloce, il pensiero involontario viene completamente bandito, estromesso dalla casa dell’uomo. Già Hedegger teorizzava, oltre mezzo secolo fa, il trionfo del pensiero calcolante, il pensiero che tutto misura e assimila alle logiche dell’utile, a dispetto del più contemplativo pensiero meditante.

La società iper-tecnologica è diventata dunque una società in cui la parola tace e l’immagine vince. Il nostro è il mondo delle tonnellate di foto sparse nei server elettronici o postate su face book, delle miriadi di figure che ci passano davanti in tv e nei cartelloni pubblicitari sparsi per le città; è la società delle figure spente, opache, al più visivamente policrome, che appaiono davanti ai nostri occhi e un attimo dopo scompaiono, lasciandosi dietro il nulla da cui sono state e-vocate.

Mario Sammarone (tratto da Prospettive)

Listener

La Mitologia Indù e il suo Messaggio

Le edizioni Mediterranee ripropongono un’opera di Jean Herbert (1896-1980) studioso che, a partire dagli anni trenta del secolo scorso, si è interessato e ha divulgato in Occidente lo studio del Buddhismo e delle religioni orientali. In Occidente, da Schopenauer in poi, si è conosciuto anche troppo questo fenomeno di interesse di massa per queste religioni, spesso banalizzandole, come ad esempio nel messaggio del tantra vedantico; leggere un libro di questo genere, che possiamo quasi definire classico, è come attingere ad una fonte di seria e sicura preparazione culturale.

Già il titolo, La Mitologia Indù e il suo Messaggio (pag. 131, euro 12.50), ci indica l’approccio dell’autore: descrivere e prospettarci i complessi miti dell’India, dis-velando e dipanando il messaggio che recano. Il volume raccoglie una serie di conferenze tenute da Herbert a Ginevra nel 1949, pubblicato per la prima volta nel ‘53. L’intenzione è indicare, dietro la grande messe di erudizione raccolta da grandi studiosi di Orientalismo, tra cui sir James Woodroffe, la via dell’Induismo, inteso non come evasione, fuga dal qui e ora, ma come metodo per accostarsi e risolvere i problemi fondamentali delle nostre vite.

La vita moderna dell’era della tecnica ci dà insoddisfazione e delusione per ciò che possediamo, da qui il bisogno di una ricerca di qualcosa che ignoriamo ma che desideriamo, lo spasimo a dissetarci alla sorgente stessa della spiritualità. Inizialmente, l’Induismo viene studiato più come una pratica speculativo-filosofica, non come una vera e propria mistica, al tempo quasi un tabù per noi occidentali presi dallo storicismo e dall’idealismo post-hegeliano. Certo, possiamo negare la mistica, ma i mistici esistono, tanto più che in India non c’è alcuna opposizione tra religione-mistica e scienza-filosofia; ogni aspetto di esse è ugualmente rigoroso nella sua applicazione, quanto la scienza ingegneristica o medica. In India la mitologia è viva, ed offre elementi di realtà pratica oltre che strettamente religioso-spirituale.

La mitologia induista costituisce da millenni la base morale e spirituale di una vasta moltitudine di uomini, che attinge da essa in maniera sempre uguale, esulando da ogni considerazione di tipo evoluzionistico che studiosi occidentali potrebbero avanzare. Perché evoluzione, così come noi la intendiamo, non c’è, né si può cercare nel significato autentico dei Veda, in cui si disvela un altro tipo di evoluzione, del tempo ciclico, l’avvicendarsi delle età con le varie fasi del mondo (Yuga), che si ripetono eternamente.

Herbert prende, ad esempio, il mito solare di Sharanyu, la sposa del sole, e ce lo narra nelle sue molteplici declinazioni, con aggiunte e variazioni che offrono un quadro poetico della realtà cosmica. Il Sole, inteso come illuminazione divina del mondo e dell’anima umana, sposa Sharanyu, personificazione della creazione e della manifestazione delle forme, ma essa, incapace di sopportare l’eccessivo ardore dell’astro diurno, si fa sostituire da Chhaya, l’ombra, anche se alla fine si riunisce al suo sposo che ha accettato di attenuare il suo fulgore. Questo mito, come altri, ha un valore educativo e di esempio quanto possono averlo le storie di Plutarco o Porfirio, e non è detto che non abbiano alcun valore di storicità.

Ognuno deve cercare per sé, trovare il suo Dio. Gli dei vedantici sono manifestazioni definite dell’Indefinibile: da Brahman (l’assoluto), attraverso la creazione, discende il mondo e il mito di Sharanyu lo descrive, allo stesso modo di altri racconti.

Un mito affascinante è quello che narra come il mondo sia poggiato su quattro elefanti che simboleggiano la forza fisica apparente, a loro volta poggianti su quattro tartarughe, la forza fisica segreta, simboleggiata dal fatto che si ritirano nel loro guscio; ancora più nel profondo, le tartarughe poggiano su Brahman, l’Ineffabile.

Quanto si può meditare su questo mito, e quanto ci spiega, ben più di ogni teoria cosmologica, in quanto parla alla nostra intuizione. Ci dice come si è passati dall’Indifferenziato alle molteplici forme del mondo, in un movimento che va dall’indeterminato ad una crescente formalizzazione. Ogni mito poi, come petali di un fiore di loto, si aggiunge ad altri, in modo da comporre, pur nella loro apparente contradditorietà, una spiegazione complementare della creazione. Quale teoria del Big Bang o simile ci può dare conto del mistero dell’origine, quanto e più di questi meravigliosi miti?

Il movimento incessante del rapporto tra gli elementi della Trimurti, cioè le tre divinità inscindibili tra loro, ci riporta, oltre alla Trinità cattolica, al pensiero filosofico della dialettica hegeliana, con tesi-antitesi-sintesi. In effetti si può dire che il pensiero sia stato già tutto pensato nell’Induismo. Anche le recenti scoperte fisiche, con la intima identità tra materia ed energia, descritta nella teoria relativistica, sono nient’altro che la scoperta di ciò che già era noto alla speculazione indiana, millenni fa, con mondo-uomini-dei senza personalità distinte, in quel gioco delle forme che è proprio della religione induista.

Per un occidentale, con una mente formata dal pensiero razionale di stampo cartesiano, è estremamente difficile penetrare nella natura delle divinità Indù. C’è un’identità profonda tra esse, come se ognuna fosse una manifestazione dello stesso principio, con un nome diverso; ma il devoto non cerca spiegazioni, è solo consapevole che sia così, che ciascun dio è sempre il Dio unico Ishwara, ma che per necessità di culto, e di pratica religiosa, deve ricorrere alle diverse caratterizzazioni, necessarie per ciascun frangente. È come se la divinità fosse inattingibile nella sua totalità, e l’uomo le si possa accostare solo a piccoli sorsi, per non inebriarsi troppo di una relazione così impari.

Dove si situa l’uomo tra tutti questi dei? È anch’egli partecipe alla divinità, poiché non c’è gerarchia, anche se il vero sapiente non anela ad essere Indra, il dio mitico solare. Non ci sono classificazioni, ossessione dell’occidente. La creazione è ancora in atto, con l’uomo che collabora con il Creatore per realizzarla: prima è apparso il piano materiale, in cui si è poi inserita la vita; poi dalla vita si è manifestato il mentale; infine è preconizzato l’avvento di un ultimo piano, il sovra-mentale. Per noi uomini del XXI sec., non si può fare a meno di volgere il pensiero alla Rete, che oggi tutti ci avvolge.

In effetti, dal 1953, anno di pubblicazione di questa opera, ne è passata di acqua sotto i ponti. La nostra attuale società di consumo è ben più adatta alla spiritualità orientale di quanto lo fosse la società più antica degli anni di Herbert, quasi per una legge di contrappasso. Merito dello studioso è comunque di essere stato un pioniere, ed un maestro, in questo campo. L’insegnamento è sottile: tutto, dei, uomini e mondi sono incessantemente in movimento, impegnati nell’eterna danza di Lila, in qualcosa che per la mentalità occidentale, immersa nel suo schema descrittivo, classificatorio e razionalistico, è inconcepibile. Ma la crisi dell’occidente è così avanzata che, se appunto non uscirà da questo schema, rischierà di essere travolto. E l’Oriente è lì, con il suo messaggio, che ci offre delle opportunità; sta a noi cambiare la nostra visione del mondo per accoglierle e, forse, salvarci.

Mario Sammarone

James Hillman – Il cammino del “fare anima” e dell’ecologia profonda

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È convenzione accettata che alcuni argomenti siano tabù nelle conversazioni tra persone civili: sesso, soldi e morte sono temi da non menzionare se si vuole mantenere una certa eleganza. Attualmente il gossip intrusivo e l’involgarimento dei rapporti umani hanno sdoganato i primi due; per il terzo rimane un’ostica avversione che sconfina con la scaramanzia superstiziosa.

Nel libro di Selene Calloni Williams, James Hillman. Il cammino del “fare anima” e dell’ecologia profonda (ed. Mediterranee, 2013), l’autrice ribalta totalmente l’approccio verso il grande tema vita-morte. Il metodo auspicato è quello elaborato dal grande psicologo americano James Hillman, cioè quello del “fare anima”. Con questo si intende un’analisi continua, quasi a cielo aperto, mentre si esperisce il mondo: tutto “fa anima”, cioè senso, consapevolezza, pienezza, vigore, verità.

Il metodo della Calloni Williams è un misto tra terapia analitica e metodo sciamanico; e proprio di sciamanesimo birmanico ed asiatico in generale l’autrice è una studiosa da più di trent’anni. “Fare anima” è terapeutico, ma non come la terapia ufficiale che parte dall’Io e che tutto riporta all’Io, il grande realista, ma al contrario è riportare la realtà, tutta la realtà, allo stato di pura immagine, di apparizione animica tolta dal tempo e liberata dal gioco del contingente. E nemmeno “fare anima” vuol dire religione, poiché la divinità non ci trascende, non ci sovrasta, né è separata da noi, segno questo del più duro materialismo perché distacca gli uomini da ogni trascendenza, relegandoli nel mero meccanismo materico. “Fare anima” è ricordarsi della morte, la grande nemica di chi guarda solo alla superficie delle cose, è stare a contatto con il Tutto o, per dirla con Shri Bagwan Rajnesh, arrendersi al Tutto.

“Fare anima” è adatto per chiunque, al di là di ogni differenza culturale o di classe, per chi è integrato in questa società e anche per gli outsiders, che coltivano la propria interiorità liberi da ogni vincolo o istituzione sociale. “Fare anima” è arte, poesia, creazione – poiesis in greco vuol dire creare – e ci fa sentire l’anima del mondo in armonia con la nostra.

Una grande sciagura dei nostri tempi è la rimozione di Ade: secondo il potente libro di Hillman, Il sogno e il mondo infero, da cui la Calloni Williams attinge per portarne avanti le tesi, Ade ha perso il posto che gli spetta, così che la morte non ha più presenza nel mondo, esiliata dal dominio della tecnica e scacciata per fare posto al nuovo ritmo produzione-consumo, che non guarda agli scarti, alla sofferenza, alla morte che si lascia dietro, nella violenza dello sperpero come Bataille ci insegna.

Eros e Thanatos sono fratelli, lo abbiamo dimenticato, anche quando rileggiamo Leopardi nei suoi lucidi versi. Come nel simbolo yin e yiang c’è la compenetrazione degli opposti, che non sono separati da una linea retta, ma che invadono il territorio dell’altro, così è per la vita e la morte, intrecciate in ogni interstizio – del resto da ogni cosa nasce il suo contrario, dalla vita nasce la morte e dalla morte nasce la vita, si legge nel Fedone platonico. Perciò, in questa rilettura di Hillman, bisogna ricelebrare il rito, rito che abbiamo rifiutato agli dei che si presentano a noi sotto forma di malattia, disagio, sofferenza. La coscienza deve abbandonare le presunte e rassicuranti certezze dell’oggettività e sprofondare fino agli Inferi per riafferrare la propria anima.

Selene Calloni Williams scrive il suo libro in forma di lettera ad un’ipotetica ragazza del futuro, chiamata Eva come la donna edenica. Dopo le sue passeggiate nel parco di Edimburgo, appunta le sue riflessioni e le indirizza a colei che sarà una sua discendente. Essendoci un’osmosi trans generazionale tra le anime, le due donne riescono a comunicare tra loro: il lascito di Selene ad Eva nel futuro è importante, con consigli e spunti che valgono in ogni epoca. Ecco quindi l’invito a coltivare la memoria degli avi, ascoltare il proprio daimon, il genius dei latini o l’angelo custode dei cristiani. Per farlo però è indispensabile essere liberi, ovvero deprogrammarsi da ogni falso impegno e ruolo preso nella vita reale, da un Io prevaricante che vuole solo dominare la vita e la natura.

Dobbiamo invece essere attenti, fermi, modellati anche dai sogni degli altri e perfino da quegli degli avi, da cui l’importanza del loro culto, anche perché secondo Plotino noi riusciamo a scegliere i nostri genitori e la scena della nostra esistenza. Dobbiamo sviluppare la vista notturna che sa illuminare le tenebre e ci dà la consapevolezza del nostro corpo, saper usare la misteriosa coppia di occhi che possediamo rivolta dentro di noi, per accedere ai sogni e a quell’”interno paese straniero” di Jung, fino a riuscire a decifrare il memento mori iscritto nelle nostre ossa.

Dimenticare i sogni è un escamotage della nostra anima per evitare che l’Io si appropri di essi, usandoli ai propri fini utilitaristici, è una protezione della nostra profonda essenza, però noi dobbiamo cercare ugualmente di comprenderli, sempre alla luce del “fare anima”, ricordandoci di essere noi stessi immagini e non storie, padroni dell’eternità e non prigionieri del tempo. L’immaginale, figura chiave della psicologia hillmaniana si ricollega agli insegnamenti sciamanici, al fine di cambiare la natura del nostro Io per rendere esso stesso immaginale.

I miti ci mostrano la via: Persefone è il bisogno dell’anima di abitare il mondo sotterraneo per un periodo di tempo. Come nel mito di Demetra e Demofonte, dobbiamo cospargerci di ambrosia per sviluppare un Io immaginale che possa comprendere la morte. Imparare a morire è lo scopo della nostra vita, come del resto anche lo stoicismo predicava con Seneca. Dobbiamo saper apprezzare tutto ciò che è difficile, aspro, ostile, poiché non solo è metafora di morte e rinascita, ma ci conduce alla nostra vera essenza. Questi sono i lasciti che l’autrice dona alla”ragazza del futuro”, invitandola a non sperare e a non temere nulla.

Nella seconda parte del libro la Calloni, trasformandosi in una “ cantastorie” , come nella tradizione dei canti e dei racconti al femminile, ci narra alcune leggende, e da ognuna trae ulteriori insegnamenti sulla forza dell’amore, della morte in vita e della grandezza dell’anima che, sola in mezzo a sofferenze e  distruzioni della vita reale, è immortale poiché vive in un tempo circolare di morte-rinascita che non ha mai fine.

In conclusione di libro è riportato un discorso inedito di Hillman tenuto in occasione di una conferenza, dove auspica, lui uomo letteralmente senza terra perché nato in una città che sorge sull’oceano, la trasformazione della terra in psiche poiché ritiene, polemizzando contro Cartesio, che essa non sia materia inanimata, e perciò non sfruttabile. Per questo il pensiero di Hillman è ecologico ed estetico, e da qui deriva il nostro dovere di riprenderci cura della terra come della nostra anima. E forse è proprio questo ciò di cui abbiamo bisogno in questo nostro tragico presente. 

Mario Sammarone

 

 

“I diamanti di Kesserling”

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Quando si parla di Storia, si può argomentare, teorizzare, fantasticare, persino romanzare, aggiungere fatti immaginari a un substrato di fatti oggettivi. Si può anche, però, fare la Storia Immaginaria, valutando come sarebbero andate le cose se fossero cambiati alcuni presupposti: si tratta della cosiddetta Ucronia, la Storia Virtuale, non un tabù o una semplice esercitazione del pensiero, ma una vera e propria disciplina, che talvolta diviene strumento per capire ed interpretare il nostro presente. Il bel libro di Enzo Natta, “I diamanti di Kesserling” (ed. Tabula Fati, 2013) parte da questo spunto per costruire una storia su un pezzo di Storia: siamo in Liguria, terra dello scrittore, e precisamente nel Ponente, tra il mare della costa dei fiori e la catena montuosa delle Alpi Marittime. L’antefatto è un episodio del 1944, in piena Resistenza, quando si cercò di corrompere il feldmaresciallo Kesserling per la resa dei tedeschi in Italia. La contropartita, un immenso tesoro di diamanti portato dagli inglesi, e poi sparito, ad opera di un partigiano, Nemo; questi porta il tesoro con se per avvantaggiare la sua parte politica (Trotzkisca), ma viene intercettato ed ucciso, non prima però di avere trasmesso ad un sacerdote, come il messaggio lasciato nella bottiglia, l’informazione del nascondiglio dei diamanti. Passa il tempo e a distanza di sessanta anni, una miriade di personaggi loschi è alla ricerca del tesoro di Kesserling. Protagonisti sono due liguri autentici, il commissario Roberto Pollini e il cronista Giovanni Rosaspina, che entrano in gioco dopo la morte sospetta di un vecchio partigiano, a cui faranno seguito altri omicidi. Coinvolti saranno ogni sorta di avventurieri, dai piduisti ai mafiosi, dai servizi segreti al Mossad, ognuno viole raggiungere il tesoro dei diamanti per accaparrarselo, ma falliscono uno alla volta. Ciò che affascina del romanzo sono gli intrecci non solo del presente raccontato, ma anche del presente con il passato, e del passato con il passato. Artifizio della Ucronia. Il presente, il passato, quello che si svolse o che avrebbe potuto svolgersi; e così la Storia può prendere in qualsiasi momento vie innumerevoli, per farci rendere conto che quella effettivamente accaduta forse non è stata la migliore possibile, che il risultato non è stato nessun Sole dell’Avvenire – se ha prodotto, cronaca di tutti i giorni, una situazione così destabilizzata e corrotta. I due protagonisti, Roberto e Giovanni, sono troppo liguri, e quindi troppo disincantati e anche un po’ “chesternoniani”, per attardarsi su speculazioni sul bene e sul male. Portano avanti le indagini sempre un po’ sottotono,  con mille colpi di scena, con mafiosi ridicoli che sembrano abbellirsi e darsi un tono per sembrare più raffinati, senza riuscirci, e figuri senza scrupoli, cinici e avidi. Sullo sfondo la Liguria, dove “i suoi abitanti tra gli ulivi” stanno davvero come in una cattedrale, e i cimiteri “aperti ai venti e all’onde” compaiono come teatro di ricerca dei diamanti, poiché si suppone di trovarli in una ignota e non ben localizzata tomba di Nemo. Le citazioni di film sono numerose e corrono parallele alla storia, dandole un’impronta “cinematografica” – si vede  la grande conoscenza di cinema da parte dell’autore. Encomiabile è la difesa del fumo contro il “pensiero unico” del proibizionismo, condotta dal protagonista Giovanni e probabilmente propria anche dell’autore. Un libro insomma che si legge d’ un fiato, con mille spunti di riflessione portati avanti da una scrittura semplice e briosa. Con un finale a sorpresa che prelude però a nuove prossime imprese. Noi le aspettiamo.

Mario Sammarone

“I diamanti di Kesserling”, un romanzo di Enzo Natta (ed. Tabula Fati)

La vita di Lutetia

La vita di Lutetia

 di Mario Sammarone

Lucio Quinto Giuliano incarnava l’esempio di uomo dotato di quelle virtù così decantate dai filosofi. Nominato senatore di Roma da Alessandro Severo, ricoprì in seguito per dieci anni la carica di proconsole della Gallia Lugdunense. Terminato il suo compito, si ritirò dalla vita pubblica e trascorse l’autunno della sua esistenza nella confortevole villa di famiglia, nella città di Lutetia. In molti rimpiansero la perdita del suo governo: egli infatti non solo venne ammirato per l’eccellente carriera che aveva ricoperto nello stato Romano, ma fu visto come un governante saggio e un modello di virtù perduta. Lucio Giuliano svolse le sue funzioni di governatore della provincia in maniera integerrima, al punto che fu uno dei pochi magistrati che arrivato in quella posizione con un patrimonio di oltre quaranta milioni, ne uscì con meno di trenta.
Durante il suo proconsolato fu onesto e generoso verso i suoi concittadini, impegnandosi per migliorarne le condizioni di vita e per mettere a loro disposizione opere pubbliche degne. Non di rado attinse alle sue personali risorse, per lo meno quando le procedure imperiali, presidiate da sonnacchiosi e ignavi funzionari, rischiavano di bloccare uno dei suoi progetti. Ciò gli valse la riconoscenza e la gratitudine degli abitanti della provincia e molti cittadini pensarono allora che il grande Adriano fosse tornato dagli Inferi per donare alle Gallie un proconsole interessato più al benessere della gente che al rinfoltimento del peculio e della sua schiera di schiavi. Allo stesso modo la maniera di amministrare la cosa pubblica regalò all’anziano senatore una dubbia reputazione presso parecchi suoi colleghi, uomini eminenti della città di Roma – la sua città, la sua corrotta città, come confidava ai più intimi. L’opinione di costoro era che Lucio Giuliano fosse persona troppo responsabile verso i provinciali, troppo buona e accondiscendente per tacere delle critiche più colorite che circolavano tra i membri della Curia a quel tempo. Ma al vecchio senatore ciò non importava: egli vedeva nel suo proconsolato una missione, l’occasione tanto cercata per mettere in pratica i precetti dei filosofi che lo avevano affascinato nel corso della sua vita. Quando terminò il mandato, e con esso le preoccupazioni e gli affanni del governo, Lucio Giuliano si ritagliò una gradevole e più serena esistenza allietata dall’amicizia dei notabili locali e del consiglio di un paio di filosofi stoici, in disarmo come l’antica scuola di cui facevano parte. Nei giorni sereni ma non privi di malinconia della propria vecchiaia, il quesito che si imponeva all’attenzione del senatore e di quelli che lo circondavano era: ”Il saggio non deve avvicinarsi alla politica, a meno che forze oscure non lo stanino dalla sua vita ritirata”, oppure, al contrario:”Il saggio ha il dovere di fare politica, a meno che ciò che ha intorno non sia così marcio e meschino da riportarlo alla sua solitudine, beata e priva di preoccupazioni”. Questo dibattito, vetusto e superato come coloro che vi si intrattenevano, animava quelle fredde ma intense giornate del nord: sembrava che tutta l’esistenza degli uomini potesse essere raccolta da questi due schemi. E quanti pomeriggi perduti in congetture, ipotesi, nella non perduta voglia di un vecchio di rassegnarsi all’inesorabile declino di un mondo.
I possedimenti e le ricchezze ereditate dagli antenati consentivano al vecchio Lucio un’esistenza agiata, sebbene le sue abitudini spartane non gli facessero consumare neanche un decimo della rendita. La terra, gli affitti degli appartamenti che possedeva in Italia e in Gallia, i canoni dei mezzadri, assegnati a prezzi contenuti per quel tempo, gli rendevano circa due o tre milioni l’anno, a seconda dell’andamento del raccolto dell’avena o dell’uva. Possedeva inoltre quasi trecento schiavi solo in Gallia, quasi altrettanti curavano i suoi possedimenti in Campania e nel resto di Italia. La rendita veniva comunque dissipata. Flavio Quinto Giuliano, nipote di Lucio Giuliano, era un giovane brillante, ben noto in tutta Lutetia per il suo stile di vita appariscente e sopra le righe, per il gusto fine nel vestire e per l’estrema facilità con cui conquistava le donne.  Suo padre, Rudiano Giuliano, era stato un alto ufficiale delle legioni in Mesia e aveva portato molto onore alla famiglia, ma era rimasto ucciso durante un’operazione militare quando Flavio aveva dodici anni. Così il nonno, Lucio Giuliano, si prese cura di lui e della sua educazione allevandolo con tutti i privilegi della posizione e come l’erede di una famiglia patrizia. Flavio rimase plasmato da quella formazione aristocratica e frequentò i migliori maestri che a quel tempo vivevano in Gallia. Lucio Giuliano fece venire appositamente per lui recettori anche da Roma e dall’Asia Minore, nonché dalla Grecia – e proprio a quella terra, alla terra di Apollo, andavano gli interessi maggiori del giovane. Fin da piccolo, infatti, Flavio fu attratto dalla lettura dei classici e di quegli scritti che quattro secoli prima aveva diffuso a Roma Scipione Emiliano sollevando il biasimo dei conservatori. La Cosmogonia di Esiodo e le tragedie ateniesi erano la matrice di cui si nutriva il suo spirito, le poesie di Saffo e di Anacreonte erano il linguaggio della sua anima, la fiera e più austera erudizione di Teognide il modello di vita, senza dimenticare i più recenti autori alessandrini come Posidonio e Plutarco. Ad ogni modo, da vero nobile Romano, Flavio non trascurava di dissipare tempo, gioventù e le fortune di suo nonno in tutto ciò che poteva procurargli divertimento: corse di bighe e cavalli, in cui eccelleva al punto di essere conosciuto in tutta la provincia; convegni amorosi con donne lascive e attraenti, lasciate con troppa imprudenza sole dai propri mariti; cene e feste con compagni sprofondati più di lui nell’ozio e che spesso approfittavano della liberalità e dei larghi fondi della sua borsa. A quanta gente Flavio dava aiuto e amicizia, e in quanti usavano il suo nome illustre per godere del massimo credito presso il mondo e ottenere i fini che si erano proposti. Però a Flavio ciò non importava, lui che se ne andava per le vie di Lutetia fiero di sé, o per meglio dire, fiero di essere il nipote di Lucio Giuliano. Sopra uno dei suoi cavalli o appiedato, solitario o in compagnia degli amici, i raggi mandati da Apollo risplendevano ogni volta sulla sua chioma dorata, che unita al fisico asciutto e ad un portamento elegante, rendevano questo personaggio come la replica di un eroe uscito dalle saghe di Omero. Il senatore Lucio Giuliano vide passare il nipote attraverso le diverse stagioni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima gioventù. Provava grande affetto per lui, forse per il fatto che gli ricordava molto se stesso quando era giovane, o forse perché era il lascito più importante che gli era rimasto di suo figlio, Rudiano, o forse ancora perché sarebbe stato l’eredità più importante che lui avrebbe lasciato al mondo. “Mio nipote è avventato e non ha nessun senso della misura” soleva ripetere a Cleone, un liberto molto affezionato. Ma ogni volta aggiungeva:”Però è un gran bravo ragazzo. Vedo in lui tutte le virtù della nostra famiglia”. E così il tempo passava in questa specie di idillio nella villa di Lutetia, interrotto però dal giungere di notizie più cupe dal resto dell’Impero. Erano anni quelli, infatti, di crescente agitazione politica e tensione economica. Mai come allora sembrava che il potere di Roma fosse in pericolo: le ripetute invasioni barbariche lungo le frontiere occidentali, la rapida svalutazione della moneta e il degrado della disciplina delle legioni, unite all’instabilità politica – dovuta alle continue assunzioni di personaggi volgari al rango di Augusto – erano fonte di preoccupazione per ogni buon cittadino. Una sera di mezza estate, mentre tutto ciò andava accadendo, Lucio Giuliano offrì una cena per il ventiduesimo compleanno del nipote. Per festeggiare fu invitata mezza città. Al culmine della sera, davanti agli ospiti raccolti, l’anziano senatore brindò alla fortuna del nipote, poi i due Giuliani si abbracciarono ed il vecchio Lucio sussurrò queste parole dal suono profetico:”È giunto il tempo del tuo destino, Flavio”. Ma il giovane patrizio non ebbe il tempo di rispondere perché i suoi amici lo trascinarono via. A notte inoltrata però, quando gli ospiti abbandonarono la villa, Flavio rimase ad allungarsi sopra il lettino sul terrazzo di fuori, come era solito fare la sera d’estate. Indugiava con lo sguardo rivolto alle stelle, a quella volta che anima sogni e pensieri di gloria, mentre la sua mente tornava all’enigmatica frase del nonno. D’improvviso un’ombra si fece vicina. Illuminato dalla fioca luce, Flavio vide apparire Lucio Giuliano. “Nonno!” esclamò. Il cicalio dei grilli risuonava intorno alla casa e giungeva fino alle prime fronde del bosco, oltre cui non penetrava. Il vecchio Lucio si reggeva sopra il suo bastone di frassino e attese qualche istante prima di parlare:“Flavio, hai compiuto ventidue anni oggi. Di certo non sei ancora un uomo, o per lo meno io non sono ancora pronto per vederti tale, ma sei maturo abbastanza per prendere in mano le redini della tua vita”. ”Intendi dire la mia partenza per Roma?” rispose Flavio. Lucio emise un sorriso pregno di bonomia:”In verità pensavo di lasciarti rimanere qui a Lutetia ancora per un po’. Sei ancora troppo giovane per lasciare le tue abitudini, i tuoi amici e pure le tue amanti…” Flavio sorrise divertito, stava ad ascoltare. Non diceva però che nell’eventualità di lasciare la Gallia, l’evento più tragico sarebbe stato quello di abbandonare proprio lui, suo nonno.
Il senatore riprese più grave: “Oscuri presagi mi hanno fatto cambiare idea, caro nipote”. “È perché l’Impero sta morendo?” rispose Flavio con un sussurro. “Per Giove, ragazzo, tu sei un Giuliano! E perciò un Romano prima di tutto! Il tuo posto non è a marcire qui come un vecchio dimenticato, ma è nella città dei tuoi antenati. Io sono fuori dal gioco della vita ormai, che ho vissuto abbastanza, ma tu devi costruire il tuo futuro. È il nome che porti ad imporlo! Andrai a Roma e troverai là il tuo destino”. “Sai bene che ho sempre desiderato andare a Roma, nonno. Ma non voglio lasciarti”. “Non è possibile fare altrimenti, hai ventidue anni e non puoi gettare la tua giovinezza quaggiù. Devi andare nel centro, a Roma, e non c’è tempo da perdere. La situazione politica è grave, la Gallia è sull’orlo della scissione, le vie con l’Italia presto verranno interrotte”. Poi, quasi parlando tra sé e sé, aggiunse:”Un oscuro disegno sta per mettersi all’opera”. Flavio non capì il senso di quelle parole. Continuava a scrutare gli astri sulla volta in silenzio. Infine disse:“Sai, nonno, sapevo che sarebbe giunto il momento di partire…” Lucio Giuliano fece una smorfia:”Hai avuto di nuovo uno dei tuoi sogni, non è vero?” ”Si, ho avuto dei sogni negli ultimi tempi” rispose. Poi abbassò il capo e domandò:”Ma perché un dio malvagio si diverte con me?” Lucio Giuliano disse paziente:”Vedi, Flavio, gli dei riservano agli uomini un destino imperscrutabile. A noi non rimane che sopportare la loro volontà. Eppure non credo che nessun dio malvagio si diverta con te”. Mentre un ricordo affiorava la testa di Flavio pulsò di dolore. Lucio Giuliano si accorse del turbamento del nipote e aggiunse:”So bene quanto sia stato doloroso per te quell’evento… ma non devi temere il potere che ti è stato donato. Devi ringraziare Apollo piuttosto. Vuoi dirmi cosa hai sognato stavolta”. Flavio parve meditare attentamente sulle parole:“È un sogno ricorrente, un sogno che mi tormenta. Mi trovo a navigare in un mare piatto e caldo sopra una zattera. Vapori si alzano dalle acque e si allungano fino all’orizzonte, incollandosi sulla mia pelle e facendola trasudare di una sostanza grigiastra. Poi arriva una nave nera; arriva sempre. La nave tenta di abbordarmi, e quando l’ansia diventa insopportabile ecco che i remi si alzano. Il mio sguardo li segue fino al sole, ma allora la luce di Apollo mi acceca e io mi risveglio”. “Che strano sogno” si fece pensieroso Lucio Giuliano. “Quale sarà il suo significato?” domandò Flavio. L’anziano senatore si riscosse e sorrise:”Tieni sgombra la mente, caro nipote, e rimani nella luce del dio. Solo allora il destino si svelerà davanti ai tuoi occhi”. Flavio annuì silenzioso. Poi i due volsero gli occhi in alto verso le antiche costellazioni, verso i cieli del sud.

“L’uomo con il vestito violetto” di Mario Sammarone

Il giorno del mio funerale mi vestirono di viola. Mi sentii ridicolo! Non che pensassi che davanti al padreterno ci si dovesse presentare tutti eleganti, in gessato grigio o in tweed marrone, come se il paradiso o l’inferno fossero una banca a cui chiedere un mutuo, ma credevo che la morte avesse una sua serietà. Occorreva essere sobri, ed io, più che un fantasma novizio, sembravo un personaggio uscito dal “Piacere” di D’Annunzio.
Che ironia, per tutta la vita avevo sempre amato il viola e per il mio funerale mia moglie mi infiocchettò con un vestito di velluto color mammola e una camicia lilla un poco più chiara. La gente non ci fece nemmeno caso, forse per le eccentricità a cui li avevo abituati in vita, o per quelle nuvole che, sospinte da un vento pesante dell’Africa, si allungavano verso il rosso sanguigno della sera. Il cielo sembrava la tavolozza di un pittore ispirato, un guazzabuglio di colori, l’opera alchemica di divinità fanciullesche che se la ridevano per la mia dipartita. Un morto vestito di viola non stonava con quell’atmosfera bislacca!Adesso, quando me ne vado in giro sopra le città nelle giornate d’inverno, agli ubriaconi sembra di intravedere tra la caligine dei palazzi un riflesso cangiante violetto. Naturalmente nessuno dà loro retta, così posso svolazzare tranquillo insieme a tutte le legioni di cherubini, serafini, eroi ed entità varie che riempiono le regioni più in ombra dell’esistenza. Poi c’è il discorso dei sensitivi, ma si sa, a quelli la gente da ancora meno retta che agli ubriaconi. Aggiungo, giustamente! Anch’io, da vivo, non detti mai retta a uno di loro.
Eppure, dall’alba del genere umano, noi fantasmi popolammo la terra numerosi come granelli di polvere e fummo presenti nelle storie tramandate da ogni generazione. Riempimmo le opere degli uomini ispirati e di quasi tutti gli artisti, specie dei poeti e dei pittori, che talvolta esagerarono come Hyeronimus Bosch che disegnava abomini dovunque. Nessuno dotato di comune buon senso però volle credere in noi; i bambini lo fanno, perché riescono a percepirci e hanno paura; ma la paura è un sentimento umano, troppo umano come disse un filosofo, e a noi fantasmi non importa un fico secco di mettere i bastoni tra le ruote a degli indolenti mortali. In tutta la mia vita di spirito, non ho mai tirato i capelli a nessuno, né terrorizzato nonnette novantenni prima che andassero a dormire.
Che io sappia, nessuno dei miei colleghi fantasmi lo fece – non posso garantire per i demoni, lo so, ma solo il padreterno sa cosa ci sia nella zucca di quegli invasati schizoidi.
La sola passione che resta a noi fantasmi è l’ambizione. Tutti noi aspiriamo a salire nella gerarchia demonica e aneliamo al ritorno verso l’Uno da cui siamo stati creati. Siamo creature di ombra, eppure amiamo la luce, terribilmente.
A testimoniare ciò racconterò la storia della signora Dùrer e di quello che accadde nel sotterraneo del suo palazzo.
La signora Dùrer era la discendente di Dùrer, il pittore fiammingo, o almeno così sosteneva. Dùrer era fissato con l’ermetismo e passò la vita a studiarci, noi fantasmi e le forze oscure; disegnò un quadro in cui imprigionò certi spiriti e per tutto il Cinquecento, dopo la sua morte, le gerarchie sottoposero i fantasmi novizi alla prova di ritrovare gli spettri del quadro. Chi ci sarebbe riuscito, sarebbe stato promosso a entità superiore, una di quelle descritte nei libri di Giamblico, ad angelo o arcangelo insomma. In circostanze misteriose il quadro sparì – si disse che intervenne addirittura la Chiesa – e la questione fu dimenticata.A me questa storia fu raccontata dallo spirito di uno sciamano yakuzo. Al principio non volli prestarvi orecchio, anche perché la maggior parte dei critici d’arte dubitò sempre che quel quadro esistesse. Ma poi mi ricordai della signora Dùrer e di ciò che mi aveva detto una volta, quando la conobbi, in vita, in occasione di una delle mie conferenze sulla malinconia. Mi venne il dubbio.
Era possibile ottenere ciò che miriadi di fantasmi prima di me non erano riusciti a raggiungere?“Amico!” mi distolse lo spirito dello sciamano yakuzo, guardando le mie vesti di velluto. “Chi ti ha conciato così? I principi mongoli che vanno per steppe a caccia di renne non sono altrettanto bizzarri!”Sorrisi, ma non replicai. Se non trovavo il modo di togliermi quei vestiti di dosso, avrei fatto ridere tutte le schiere dell’altro mondo fino al giudizio universale.
Oltre ad essere eccezionalmente ricca, la signora Dùrer viveva nella mia città e possedeva uno scantinato pieno di meraviglie della più straordinaria natura. Per farla breve, aveva una delle collezioni d’arte private più importanti d’Europa. Tuttavia si lamentava come il suo scantinato fosse invaso da legioni di spiriti.“È una maledizione!” mi disse. “Tra tutti quei quadri, che iddio solo conosce e che mio padre, buon anima, portò con sé dalle sue avventure coi preti, si aggirano dei fantasmi grossi e panciuti, che se la ridono alle mie spalle. Lo sa lei da quanto tempo non scendo più nello scantinato?”“Cosa dice signora Dùrer?” le risposi. “La sua collezione farebbe invidia a un museo!”
Di certo faceva invidia a me.“Quando guardo certe opere mi sento agghiacciare. Sa, quelle sul pianeta Saturno e su quegli uomini pieni di bile nera… quelle scene abiette, quelle facce scavate. Non riesco ancora a capire cosa ci trovi lei in quelle figure di morte”.Secondo la tradizione, Saturno – il settimo dei pianeti osservati dagli antichi – era quello che governava gli uomini di intelletto. Negli scritti di eminenti studiosi, come Marsilio Ficino o Cornelio Agrippa, si teorizzava che avesse una duplice natura: oscura e distruttiva da una parte, purificante e luminosa dall’altra.
“Io credo che sia la sua vendetta!” disse infine la signora.“La vendetta di chi?” domandai.“Di Dùrer, naturalmente!
Del pittore. Credo che non gli faccia piacere sapere che possiedo metà delle sue opere e che vado in giro per la città facendomi bella con la storia della discendenza. Dovrei far vedere quei quadri da un prete altro che critici d’arte…”Come tutti, sorridevo di fronte a quelle affermazioni, ma adesso che so cosa si aggira nell’ombra, aggiungo: “Ahimè, povera signora Dùrer! Lei non sa di quale sostanza sia pervasa la notte; non ancora…!
”Ad ogni modo si rafforzò in me l’idea che fosse possibile ritrovare i fantasmi del quadro, anche perché non solo ero un fantasma unico nella storia, un fantasma vestito di viola, ma nessuno spirito prima di me aveva scritto libri sui pittori fiamminghi. E così decisi di avventurarmi tra le collezioni della signora. Mi introdussi nel suo palazzo, svolazzando cautamente. Non volevo allarmare nessuno: ci mancava solo lo scongiuro di qualche maggiordomo superstizioso e mi sarei ritrovato a timbrare per giorni le deliberazioni della commissione demonica.
Lo scantinato era esattamente come lo ricordavo: Rembrandt, Manet, Raffaello al loro posto, a cui si erano aggiunti nuovi quadri di artisti nord-americani. Come sempre le matrone di Cranach mi accendevano di languida voluttà e i trittici di Bosch turbavano la mia immaginazione, con le loro schiere di personaggi sadici da incubo. Ma a me interessava Dùrer: il padre della signora aveva reperito mezza dozzina dei suoi quadri in giro per l’Europa, ritenendo che le opere dovessero tornare in famiglia. Era stato il padre a mettere in giro la storia della discendenza – francamente, non ho mai capito se fosse stata vera o una frottola. Non lo capisco nemmeno adesso, con i miei sensi di spirito. Mi avvicinai all’angolo più a nord del sotterraneo. Ammirai una lunga serie di opere che avevano come soggetto uomini caduti sotto l’influenza di Saturno. Saturno era il pianeta più lontano dal fulgore solare e perciò il più freddo, così non mi sorpresi dall’osservare le figure dal carattere greve, invernale dipinte sui quadri: volti emaciati e appesantiti dallo sforzo intellettuale, uomini svigoriti dall’accidia, vecchi lussuriosi avvinghiati a giovanette avvenenti.
In alcune opere, si trovavano squadre, compassi e martelli, strumenti dell’antica arte muratoria presieduta dal pianeta Saturno.Una tela catturò la mia attenzione: non l’avevo mai vista prima e non ero certo se si trattasse di un Dùrer o di un’opera di un suo discepolo. Sotto la luce asfittica di un astro al tramonto, una schiera di disperati arrancava lungo una valle brulla, cercando di raggiungere un fiume attorniato da certe piante esotiche. L’uomo che guidava gli altri era nudo e calvo. Un corvo infieriva su di lui.Anche se era solo un dipinto, provai pena per quell’uomo. Inoltre aveva tre fori sul cranio, come dei colpi di pistola, i quali – rammentai – rappresentavano un’ulteriore afflizione saturnina.
Avrei voluto ridare un po’ di pace a quella figura triste, così sfiorai i fori per cancellarli, quando due altri corvi uscirono da essi muovendosi dentro il quadro. Il loro gracchiare mi fece agghiacciare, ancor più di quanto non fosse già gelido il mio corpo di spirito. Non potevo crederci: i corvi avevano il loro nido dentro i fori dipinti!Un attimo dopo capii che gli schiamazzi erano moti di scherno. Ed erano rivolti verso di me. “Ah! Ah! Ah!” starnazzarono. “Il fantasma viola! Il fantasma viola!” La loro ilarità invase tutto il sotterraneo e per un attimo temetti che la signora Dùrer scendesse allarmata con l’intera servitù al seguito. I miei sensi di spirito mi avvertirono che i corvi erano fantasmi come me ridotti in quella forma per via di un incantesimo.L’uomo nudo sul dipinto si mosse e disse tossicchiando: “Acqua… vi prego!” “Fa’ silenzio, tu!” gracchiarono i corvi, beccandogli il collo. L’uomo piegò il viso per il dolore e non osò più fiatare.Esclamai deciso: “Finitela di tormentare quel poveretto! Non vedete come è ridotto?” Detti una manata a un corvo, che volò via sull’altra parte del quadro, ma un altro mi graffiò e io mi ritrassi.“Il fantasma viola! Il fantasma viola!” sghignazzavano ancora. Guardai con odio quelle bestiacce e feci di nuovo per colpire, quando una luce abbagliante invase la stanza. I corvi smisero di ridere. L’uomo del dipinto rialzò lo sguardo, come gli altri che lo seguivano sulla tela. Sentii che una forza gioviale stava ridando vigore a quelle figure sfinite. Anche le mie membra di spirito si riscaldarono e per un attimo ebbi timore di evaporare.Un essere di luce apparve davanti ai miei occhi. Era un arcangelo. Il viso dolce era quello di un ragazzo, gli occhi di fulmine quelli di un essere che aveva attraversato quasi tutte le ere del mondo.
Egli disse rivolto a me: “Nessuno era mai riuscito a ritrovare i fantasmi del quadro. Hai appena varcato la soglia di questo mondo, caro signor P., e già hai il diritto di esprimere un desiderio. La commissione demonica darà il suo assenso a qualunque tua richiesta”. L’arcangelo era stato richiamato dall’angelo custode della signora Dùrer, che scosso dal bisticcio tra me e i fantasmi del quadro, aveva richiamato un angelo che svolazzava sopra il palazzo; questi, a sua volta, aveva fatto rapporto a un suo superiore. Insomma, per farla breve, la voce arrivò fino agli arcangeli che capirono cosa stesse accadendo e mandarono il più giovane di essi giù per conoscermi.I corvi, intimoriti dal bagliore dell’arcangelo, si rintanarono lemme lemme nelle loro tane, cioè nei fori sul cranio del poveretto. Io invece iniziai a immaginare a quale desiderio avrei potuto esprimere: sarei potuto diventare un angelo, o un arcangelo perfino; lasciai che la vanagloria corresse dentro di me, ma subito dopo riflettei che un angelo non sarebbe mai andato in giro con degli abiti stravaganti come i miei. Gli angeli, anime piè dai biondi, folti capelli, vestivano con tuniche bianche e immacolate. “Voglio un abito nuovo!” esclamai deciso.L’arcangelo si mostrò sorpreso.“Un bel vestito grigio, o nero, o bianco se possibile! Uno insomma che sia adatto alla mia condizione di spirito”. “Una richiesta insolita per un fantasma” rispose l’arcangelo, investendomi con il suo sguardo di fulmine. “Ma difficile da ottenere! Non si può cambiare il vestito con cui ci si è presentati nell’aldilà! L’unico modo per farlo sarebbe quello di incarnarsi in un nuovo corpo”. Che bella prospettiva, pensai, affrontare una nuova vita solo perché il giorno del mio funerale mia moglie mi aveva giocato quell’ultimo tiro: vestirmi come un damerino stile belle époque o fin-de-siecle per farmi cadere nel ridicolo. Chissà come se la stava ridendo, anzi, come se la stava spassando, adesso, dopo avermi sotterrato!
Mentre il brontolio dei miei pensieri continuava, sentii l’uomo sul dipinto mormorare qualcosa: mi supplicava di aiutarlo, anche se era incapace di parlare ad alta voce perché intimorito dall’arcangelo.Allora un’idea mi illuminò: “Userò il potere del quadro!” “Cosa vuoi dire?” domandò l’arcangelo. Aveva a che fare con un fantasma singolare.
“Il quadro è incantato. Sfrutterò il suo potere per ottenere un abito nuovo” risposi. “Darò il mio vestito all’uomo sul dipinto: egli è nudo e ha bisogno di un abito!”“…”“Gli darò il mio vestito violetto!” ripetei.“Ma allora rimarrai tu senza abito!?” fece l’Arcangelo. “No. Se mi innalzassi ad angelo, non potresti lasciarmi nudo! Un bel vestito bianco sarebbe d’obbligo! I corvi si incarneranno al mio posto e guadagneranno un altro abito per me. A loro il fardello di affrontare una nuova vita. Hanno straziato così tanto quel poveretto che se lo meritano!”L’arcangelo rimase un attimo incerto, ma capii che in fondo era compiaciuto dall’idea. Per un attimo guardò in alto, verso il soffitto, mi sembrò sorridesse.
“E sia!” disse infine. Con uno schiocco delle dita, le mie vesti violette furono tramutate con delle altre bianche e magnifiche, simili alle sue. L’arcangelo si toccò la spada che aveva alla cinta e sparì.Che strana sorte la mia, diventare un angelo per cambiare vestito! Evidentemente non solo gli uomini, ma anche gli spiriti farebbero qualsiasi cosa pur di apparire con l’abito giusto. In quanto ai corvi, venni a sapere che uno di loro si incarnò in un bel giovane che si sposò con mia moglie in una vita successiva. L’uomo dipinto, invece, fu abbigliato con le mie vesti viola che gli donarono molto, anzi, lo resero magnifico (per sua fortuna non era un fantasma!), ed in qualche modo lui e la sua schiera riuscirono a raggiungere il fiume sul dipinto.Da allora tutti celebrarono la bellezza di quel quadro e dell’uomo vestito di viola che aveva raggiunto la sua meta.

Watt 3.14 a L’Aquila e un racconto di Mario Sammarone

Carissimi, vi ho già parlato del Magazine Watt 3,14 ma, in occasione della presentazione di oggi a L’Aquila, torno a riproporvela con entusiasmo.

(Per chi volesse parteciparvi, l’appuntamento è oggi pomeriggio alle ore 19,30, presso lo stand della Libreria Polarville in Piaza S.Basilio a L’Aquila, all’interno della Festa Democratica “L’Aquila Bene Comune”)

Watt 3,14 è  una rivista letteraria sui generis, costruita e concepita come un prodotto editoriale di estrema qualità tanto nella fattura quanto nei contenuti ed è indirizzata a un pubblico di palati raffinati.
Ha una impaginazione impeccabile e un formato di pregio che la rendono assolutamente godibile.
All’interno vi troverete tredici racconti ispirati al tema dell’antica Grecia.

Oggi vi proporrò un estratto tratto da uno dei racconti che ho preferito.
E’ “Purificazione” di Mario Sammarone.

Come per il numero 0 e 0,5, anche il terzo volume racchiude racconti ispirati da illustrazioni, e illustrazioni ispirati da racconti. I curatori hanno chiesto a 13 illustratori e scrittori nostrani di mettere su carta immagini e storie legate ai miti greci. Infatti la fanzine è targata 3,14 (non semplicemente 3) perché simboleggia il PI greco (Π) e richiama l’immaginario della Grecia antica. 

Watt 3,14 è una produzione di Ifix e Oblique studio

Mario Sammarone

Purificazione

Una volta un saggio disse che ai mortali non conviene investigare la natura divina, pena essere divorati da una belva crudele – come Prometeo, ladro di fuoco, sul crinale di un monte – oppure fare la fine del povero Marsia, scuoiato vivo da Apollo: meglio andare a battone, giù, nelle taverne del porto, fare a gara con i dissoluti a chi si è montato più donne. Tracannare, abbuffarsi, dissipare energie a forza di adulazioni o procacciarsi inviti ai banchetti è ciò che rende felice la vita a un uomo. Stronzate!, dico.
Certo, mi si potrà obiettare che sono di parte e che avendo vissuto con quelli con cui ho vissuto – e ringrazio sempre Zeus per questo! – non potrei affermare altrimenti. In parte è vero: ancora oggi, in Sicilia, i pochi che pronunciano il nome della scuola di cui feci parte lo fanno con timore superstizioso; i più umili, addirittura, si segnano il viso e gli infermi si rianimano come in presenza di un potere divino; non c’è sacerdote di divinità o contrada o popolo che non mi accolga alla sua tavola come il più importante degli ospiti. Lo so, è a lui che devo tanto onore.
Eppure il mio maestro disprezzava coloro che non sapevano vedere le luci oltre le ombre, è stato lui a donarmi questa seconda vista, è stato lui a insegnarmi ad amare il grande disegno. Ricordo ancora le parole che mi disse quando mi portò all’interno del vulcano – sì, avete capito bene, dentro il vulcano, perché Pitagora mi ha portato nel cuore dell’Etna. Questo mi disse: «Guarda, Empedocle, laggiù!» indicando il bacino di lava fumante che ribolliva cinquanta piedi più in basso.
Percorrevamo, io e lui soli, un sentiero nella roccia battuto, forse, in un’altra èra dai Titani. Dalle fauci del vulcano scendevamo per un tragitto tortuoso fino al bacino di lava, mentre attorno a noi era un mulinare di lapilli così grossi che temevo di divampare con loro!
«Perché siamo venuti qui?» domandai. Mi riparavo la testa con il cappuccio.
Pitagora non rispose; ignorava sempre le mie domande. Per fortuna che ero il suo allievo migliore! La sera prima aveva detto che saremmo saliti sull’Etna perché aveva cose importanti da mostrarmi. Io credevo volesse iniziarmi a uno di quei segreti che aveva portato con sé dall’Oriente e perciò non feci storie, anche se un po’ avevo paura. Aveva detto: «Nel cuore dell’Etna intuirai il segreto di vita».
Onestamente, io pensai che il mio maestro fosse un po’ tocco e che dentro l’Etna avremmo trovato solo l’anticamera di Minosse, altro che segreti di vita! E poi nessuno sapeva che saremmo andati laggiù, perciò, in caso di pericolo, che possibilità avremmo avuto di salvarci? Naturalmente non azzardai obiezioni.
Quando la via si allargò un poco sbucammo in una specie di androne; il caldo s’era fatto opprimente.
Il mio maestro prese a dire: «Si dice che le anime dei più grandi, trapassando, si innalzarono fino a costellare il cielo con il loro bagliore. E così le stelle sono impregnate del potere divino che riscalda l’universo e agiscono come fari spirituali per cui gli uomini, creature a metà tra la luce e le tenebre, possono accedere ai mondi più alti». Il suo tono ispirato mi faceva capire che dovevo prestare bene orecchio – a Pitagora, naturalmente, i lapilli neppure lo sfioravano! «Il potere degli astri, come quello della luna e del sole, si raccoglie per simpatia nel fuoco nel cui nucleo vi è pura energia. Allo stesso modo nella terra si raccoglie ciò che si rivolta alla luce e che non si assoggetta alla volontà degli dèi. Potenti spiriti infernali albergano questi mondi ctoni della materia e più di ogni cosa essi sono avidi di anime. La maggior parte degli uomini ignora questa verità e non sa come difendersi dal male; e perciò noi, posti dalla provvidenza alla guida del gregge, abbiamo la necessità di proteggere e la volontà per farcela!»
Non riuscivo proprio a capire: se il mio maestro desiderava rivelarmi quelle cose, che bisogno c’era di portarmi in quel luogo infernale? Pitagora sembrò intuire il mio disagio e sorrise. Non mi rimase che seguirlo.
Mi trovai davanti lo spettacolo più incredibile a cui avessi mai assistito. Si trattava di un grande salone di pietra, umido, riparato dal fuoco, pieno di stalattiti, che accoglieva al suo interno una costruzione imponente: un tempio a pianta circolare di colore cinereo, sorretto da colonne di marmo pentelico, in tutto simile ai sacrari più famosi di Grecia. All’interno si scorgeva una statua di donna – a prima vista mi parve Proserpina. La statua era cinta, a mo’ di collana, da ossi intrecciati ed era attorniata minute sculture di cani.
Recavo con me sempre un pendaglio d’argento consacrato alla dea – in passato, prima di conoscere Pitagora, mi ero fidato di gente malvagia: gli adepti della madre nera, in Italia come in Grecia, non si facevano scrupolo nel compiere i più atroci abomini pur di ottenere potere. Ebbene, non sapevo perché, ma a ogni passo verso la statua sentivo questo medaglione farsi pesante e il cuore bruciare. Capii allora che la statua era una raffigurazione della dea e rabbrividii. Il luogo era impregnato di un potere malvagio.
Pitagora confermò i miei sospetti: «Questo tempio esiste da molto prima che Apollo conquistasse il tripode delfico. Qui le energie del cielo e della terra si intrecciano, qui i figli della dea adorarono la loro malvagia regina».
Non mi capacitavo quale potenza avesse foggiato quel luogo, tanto meno di come il mio maestro, greco di nascita, potesse esserne a conoscenza. Pitagora si sfilò dal collo un medaglione brillante in tutto simile al mio eccetto per il fatto che era d’oro. «Questo talismano,» disse «creato con il metallo del cielo, purificherà questo luogo infernale e non permetterà alle potenze maligne di penetrare nel mondo». «Dunque siamo venuti qui per un rito.»
«Molto di più!» Sotto lo sguardo della statua, Pitagora si accostò a un altare e vi sparse un po’ di incenso, incassò il medaglione in un’ansa e recitò il peana. Un fumo spettrale si propagò nella stanza e in breve le fiamme guizzarono fino al soffitto. Io guardavo il mio maestro e sentivo come se tra lui e la statua ci fosse una segreta prova di forza. Intanto il fumo mi avvolgeva. Fu allora che sentii un dolore alla testa che mi fece piegare.
Una voce si fece largo dentro di me: «Tornerai!» disse. «Verrai a salvarmi, è il tuo destino!»
Una mano ferma si posò sulla mia spalla. Era Pitagora che mi fissava con sguardo di pietra. Aveva in mano una cetra e disse: «Non temere, Empedocle, nella luce c’è un potere che non può assoggettarsi alle tenebre!»
Il fumo si diradò per incanto, la voce svanì e anche il tempo sembrò arrestarsi. Pitagora tornò all’altare, disse qualcos’altro, poi lasciò la cetra e il medaglione sopra il piano di marmo. Non potevo credere a ciò che avevo visto e sentito. La dea mi aveva parlato. Pitagora sapeva che ero turbato, ma non fece commenti. Una volta fuori, riprendemmo i cavalli e ci gettammo al galoppo, destinazione Scilla e Cariddi, da lì avremmo raggiunto il continente. A questo punto è necessario che spenda alcune parole su di me, affinché chi è estraneo a questa vicenda possa capire. Credo di essermi dilungato troppo – la logorrea è sempre stato il mio vizio più odioso –, perciò procediamo con calma e andiamo a riavvolgere questa matassa prima che vengano le Moire e recidano il filo. Il mio nome è Empedocle e vengo da Agrigento. Per stile e per coraggio ero noto in tutta la città al punto che, se pronunciavate il mio nome, potevate star certi che mezza Sicilia sarebbe stata percorsa da un brivido, come se un dio fosse stato evocato. La mia fama, tuttavia, era dovuta perlopiù a fattori di cui oggi non vado più fiero. Da giovane ero vanesio, esageravo in ogni cosa e non iniziavo nulla che non lasciassi a metà; mi cimentavo in tutte le arti e gli svaghi leciti per un uomo, ma non appena mi stancavo passavo ad altro. Nemmeno le donne riuscivano a legarmi per più di una luna. Finché un bel giorno non arrivò questo Pitagora: veniva da Samo e voleva fondare una scuola. Lo accompagnava una fama di divinità, ma al principio pensai che si trattasse del solito cialtrone, come gli adoratori della dea da cui mi ero scostato. Eppure la gente non faceva che parlare dei suoi prodigi: dicevano che una sua parola riusciva a mutare il corso dei pensieri di un uomo, dicevano che parlava con gli animali, che in sua presenza i pesci rimanevano vivi fuori dall’acqua. Lo so, l’opinione del volgo non è mai da tenere in considerazione, tuttavia a me bastò per accendere in me la curiosità. Mi recai a Crotone; la scuola si trovava nei pressi del bosco. Mi fu sufficiente sentire la sua voce, rassicurante come quella di un padre e netta come quella di un principe conquistatore. Volle sapere tutto di me: chi erano stati i miei maestri, chi erano i miei antenati e i miei amici, come trascorrevo le giornate e perfino l’ora in cui andavo a dormire. L’unica cosa che omisi fu il mio rapporto con gli adoratori della dea, giacché Pitagora serviva il sole aureo di Apollo e non poteva che biasimare gente come quella, votata alla turpitudine più completa.
In breve tempo, grazie a Pitagora, imparai a fare silenzio dentro di me, a non parlare nel buio e a mangiare secondo necessità, senza eccessi; conobbi gli intimi rapporti di armonia che sussistono tra le creature del cosmo, e imparai che l’anima è come un’arpa. Tornati a Crotone, io e Pitagora ci separammo – lui sarebbe partito l’indomani per Taranto –, così decisi di andare giù al porto, dove viveva una persona che volevo incontrare. Non passò molto, però, che lungo la via fui riconosciuto. Tre vecchi amici. «Empedocle!» disse uno. «È da tanto che non ti si vede! Non passi più nemmeno a teatro! Il tuo Pitagora ti ha proibito anche di fare l’amore?!» e sghignazzarono, idioti. «Ho avuto da fare» risposi. «Non dirci che vai ancora dietro a quel filosofo da strapazzo?» Credevano avessi abbracciato la causa per noia o per far parlare di me – come d’altra parte era avvenuto all’inizio –, ma si meravigliarono quando iniziai a non farmi vedere più in giro: non capivano che il proposito di ottenere la vita eterna era più allettante di sbronzarsi giù al porto. Capii io, invece, che non sarebbe stato facile scrollarmi di dosso quei due, così cercai di cambiare discorso: domandai se avessero notizie delle guerre di Dionisio, il tiranno di Sibari, un tipo piuttosto irrequieto. Ma a gente come quella non importava un fico secco di politica.
Un terzo, tuttavia – Giasone – era stato durante la mia infanzia il compagno con cui più avevo condiviso i miei sogni: era intraprendente, di mente sveglia e io lo stimavo ancora, benché disprezzasse la causa pitagorica.
«Fate silenzio, voialtri!» esclamò. «Non vedete che colui che abbiamo di fronte non è più la persona di un tempo?» «È da tanto che non ci si vede, Giasone» risposi cordiale. «Credevo fossi andato in Egitto.».
«Sono tornato di recente» riprese, e mi parlò un po’ dei suoi affari. Poi parve rammentare una cosa: «A proposito, Empedocle, ora che ti vedo… c’è un tizio che va chiedendo di te nelle taverne. Dice di essere tuo amico, ma è un tipo losco con una cicatrice sul viso. Non mi piace per niente». Rimasi sorpreso perché non conoscevo nessuno conciato in quel modo. Ringraziai comunque Giasone, che si allontanò insieme agli altri e io rimasi solo.
La stanchezza del viaggio mi piombò addosso. Tra la calca, un forte dolore mi percosse la testa e sentii il medaglione della dea farsi pesante, come accadde nel vulcano.
Raggiunsi il porto. Al di là dei caseggiati anneriti dall’umidità, fui accolto da un forte odore di piscio a cui gli abitanti del luogo erano assuefatti. Ormeggiate al largo si intravedevano una trentina di navi. Mi avvicinai a un tozzo palazzo di pietra e bussai.
Nella penombra del soggiorno, mi accolse una magnifica fanciulla vestita solo di una mantella di seta. Senza parlare, mi accompagnò nella sua camera da letto dove si spogliò e si offrì. «Erofile…»
La feci giacere sopra i cuscini e la presi con vigore. Più tardi, quando Eros si era calmato ed eravamo ancora abbracciati, lei mi rivolse una strana domanda: «Ti fidi del tuo Pitagora, Empedocle?».
«Perché me lo chiedi?» le domandai.
La fanciulla si sedette sul letto accavallando le gambe, la pelle vellutata e bianchissima riaccendeva il mio desiderio. Sorrise: «Se Pitagora sapesse che sei qui con me… la scorsa settimana ha fatto punire tre allievi solo perché avevano mangiato carne di maiale».
«Da quando sei diventata compassionevole, Erofile?»
«Pitagora è un uomo saggio, ma la dea non lo ama; ama te! Potresti prenderne il posto!».
Mi scurii in viso: «Sarebbe un abominio! Non ancora ho imparato a disprezzare la carne, figurarsi prendere il posto di un uomo che gli dèi ammirano come pari». Erofile mi sfiorò il pendaglio che avevo sul petto: «I tuoi dèi, Empedocle, non la dea. E poi tu sai qual è il tuo destino…». Abbassai lo sguardo e mi ricordai delle parole che avevo sentito all’interno del vulcano e risposi: «Pitagora insegna la via di luce. Io ho imparato a fuggire quella di tenebre!». «Non dire sciocchezze, un uomo non può vivere solo a metà! Senza la dea non c’è ispirazione, né canti, né poesia. È grazie a lei che riceviamo il nutrimento della terra. Non puoi rinnegare la parte sinistra della tua anima, Empedocle!» La guardai torvo: che ironia, la mia unica amante era una seguace della dea. Evidentemente non riuscivo a scrollarmi ancora di dosso il passato. «La dea è morte!» sentenziai. «Non dimenticare che è lei che presiede il culto dei morti; è la padrona dei sortilegi e degli spiriti infernali, porta solo rovina.»
«Ma senza morte non c’è rinascita» ribatté lei. (continua)

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