La logica vi porterà da A e B, l’immaginazione vi poterà ovunque
Einstein
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La logica vi porterà da A e B, l’immaginazione vi poterà ovunque
Einstein
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“C’è sempre un grano di pazzia nell’amore, così come c’è sempre un grano di logica nella follia.”
Friedrich Nietzsche
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Oggi vi dedico quanto mi ha scritto Angelo Conforti. È un piccolo brano del testo di filosofia su cui sta lavorando: parla di Hegel e dell’Amore…
C’è un testo filosofico quasi dimenticato che parla dell’amore nel modo più bello, intenso e completo che si possa immaginare.
L’amore, che tanti poeti hanno cantato con parole meravigliose, è stato trattato anche da filosofi come Platone, Plotino, Marsilio Ficino e molti altri ancora. Ma c’è un filosofo, forse il più insospettabile di tutti, che ha dato dell’amore la più perfetta spiegazione in termini concettuali e, nello stesso tempo, poetici.
Si tratta nientemeno che del panlogista Hegel, il filosofo che tutto ha voluto spiegare con la logica e la razionalità, il filosofo dell’identificazione tra razionale e reale! Proprio Hegel, in uno dei suoi scritti giovanili, ha saputo cogliere ed esprimere la più profonda natura dell’amore.
Hegel sostiene infatti che nell’amore i due innamorati formano una completa unità, dando vita ad una nuova realtà che è la coppia, il noi. I due amanti vivono l’uno per l’altro nel modo più totale e il loro amore toglie ogni contrasto, ogni opposizione, ogni differenza fino a formare una sola “cosa”, una sola persona, una sola volontà. Con ciò i due che si amano non rinunciano alla propria individualità, anzi la potenziano e la superano. Chi ama dona tutto se stesso per ritrovare più pienamente realizzato il proprio vero sé.
L’amore non è desiderio, non è possesso, è annullamento di sé nell’altro; ma questo annullarsi è piena attuazione della propria identità che si riconosce pienamente nell’identità/differenza/complementarietà con l’altro.
L’amore “è un prendere e dare reciproco […] Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro: si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro; parimenti quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha anzi altrettanto accresciuto i suoi propri tesori. Giulietta dice nel Romeo e Giulietta: “Più ti do, tanto più io ho” […]. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni, si indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite. Quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabilità, ed è spuntato un germe dell’immortalità” (Hegel, Frammento sull’amore, in Scritti teologici giovanili, 1798).
Grazie alla sua concezione dialettica della realtà, Hegel ha saputo esprimere pienamente, nei modi più alti, questa apparente contraddizione tra il dare e l’arricchirsi, tra il perdersi e il ritrovarsi, tra il rinunciare a sé e l’attuare il proprio autentico sé, che solo l’esperienza del vero amore consente.
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L’arte della memoria è una delle tecniche psicologiche più significative di tutti i tempi. Abuserò della vostra pazienza e comincerò a trattarla in una serie di articoli. Prima nel suo aspetto di tecnica vera e propria e poi scenderò verso ambiti psichici profondi. Mi rifarò agli studi di Frances Yates, Thomas Moore e Marsilio Ficino.
Nel secolo XVI intervengono mutamenti radicali in una delle tecniche retoriche più esercitate, la cosiddetta “arte della memoria”.
Questa forma di apprendimento veniva definita “arte” per le sue implicite possibilità creative inerenti alle infinite potenzialità combinatorie. L’uomo contemporaneo è abituato a memorizzare dividendo per specie e generi, per analisi, per similitudini concettuali, grammaticali e sintattiche. E così avvezzo a operare con questo tipo di mezzo da non porre mai mente a come l’antichità abbia fatto uso di un altro tipo di memoria, diversa e apprendibile con estrema difficoltà: è appunto l’ars memoriae di cui si parlava. La mnemonica moderna discende da Pietro Ramo e si è affermata nel mondo occidentale solo a partire dal 1600; l’altra non è databile, essendo presente da sempre nel mondo antico, basandosi sulla convinzione della maggiore potenza della memoria visiva rispetto a quella concettuale.
Lo studente che si dedicava all’apprendimento di quest’ultima doveva cominciare a imprimersi nella mente immagini familiari (per esempio la sua stanza da letto) per passare a quelle di luoghi meno noti, all’esterno, come piazze oppure facciate di cattedrali (spesso costruite per servire da immagini memorizzabili, come sostiene la Yates in L’arte della memoria, ai capitoli X-VI-X). Una volta fatta propria questa facoltà, lo studente immaginava scene non reali, ma di invenzione, purché ricche di particolari facilmente imprimibili. A ogni immagine registrata veniva poi accostato il concetto (oppure la parola) da ricordare. In questo modo, allorché si doveva rammentare un discorso oppure un tema o altro ancora, si tornava con la mente alla figura memorizzata e ricollegandosi visivamente ai suoi particolari, si ricordavano quei concetti che si erano accostati ai dettagli della figura. È evidente che la maggiore quantità di figure rendeva più dilatabile la possibilità mnemonica del rètore. Lullo, Scaligero, Della Porta e soprattutto Bruno avevano creato infinite possibilità combinatorie di immagini, rendendo parimenti vasta la potenzialità concettuale.
Il De umbris idearun e il Cantus circaeus sono le opere mnemoniche bruniane che più delle altre attestano questa infinita possibilità di combinazioni fra le immagini. «L’ars memoriae non si pone più come una semplice forma retorica, né l’ars combinatoria come una tecnica logica… Appaiono strettamente collegate ai temi di una metafisica esemplaristica e neoplatonica, ai motivi della cabala e della tradizione ermetica, agli ideali della magia e dell’astrologia… Inserite nel discorso, pieno di toni iniziatici di una magia rinnovata, queste tecniche cambiavano in realtà funzione e significato, perdevano contatto con il terreno delle scienze mondane, della dialettica, della retorica, della medicina: apparivano miracolosi strumenti cui era opportuno affidarsi per il raggiungimento del sapere totale o della pansofia (Paolo Rossi, Le origini della Pansofia e il Lullismo del secolo XVII, Università degli studi di Milano, pag. 199; Paolo Rossi, Clavis universalis, arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Ricciardi, 1960, pag. 81 e segg.).» Come si evince dalle parole di Paolo Rossi, la mnemotecnica rinascimentale si poneva quale strumento non più di dilatazione mentale, bensì di ricreazione del mondo, quale mezzo affiancatore della magia o addirittura a essa assimilabile.
La differenza con il “cristianesimo” di un Ficino oppure di un Pico della Mirandola è sostanziale (nell’introduzione al Cantus circaeus – Atanòr, pagg. 10-25 – del Bruno si è esaminato questo “cristianesimo” sostanziale di Ficino e Pico). Ancora Rossi è esemplificativo: «Il caso di Bruno è, da questo punto di vista, esemplare: mentre si configurava come un rifiuto della logica tradizionale e sostituiva le immagini ai termini, la topica all’analitica, l’arte bruniana finiva per muoversi su un terreno ben diverso da quello delle immagini dialettiche, rifiutava ogni identificazione con una tecnica linguistica o retorica, si poneva come lo strumento capace di consentire prodigiose avventure e costruzioni totali. Connettendosi agli ideali e alle aspirazioni della magia, l’ars inveniendi e l’ars memorativa apparivano le vie da seguire per penetrare i segreti della natura e decifrare la scrittura dell’universo» (Paolo Rossi, op. cit., pag. 200). Emerge l’opinione del Lullo, del Della Porta, del Camillo e soprattutto del Bruno di considerare l’arte della memoria come applicazione dell’arte magica (Wolfang Hildebrand nella sua Magia naturalis presenta l’ars memorativa come l’applicazione dell’arte magica a una specifica forma dell’operare umano. È rammentato da P. Rossi, op. cit., pag. 200). La via bruniana è perciò la magia priva dell’attribuzione limitativa del «naturalis».
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