“Se c’è venerazione, anche il dente d’un cane emette luce”

Un mercante va in India e la madre gli chiede di portarle una qualche reliquia. Se ne dimentica. Al viaggio successivo se ne dimentica di nuovo. La terza volta, quando sta per rientrare a casa senza la reliquia cui la madre tiene tanto, toglie un dente da un cane al bordo della strada e glielo porta dicendo che apparteneva a un grande santo. La madre, felicissima, venera quel dente; altre donne vengono a pregarci dinanzi e alla fine tutti vedono  dei raggi luminosi sprigionarsi da quella “reliquia”. Da qui il detto tibetano: “Se c’è venerazione, anche il dente d’un cane  emette luce”.

Tiziano Terzani da “Un indovino mi disse”

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«Che cos’hai da darmi?»

Cari viaggiatori, oggi vi propongo un componimento di Rabindranath Tagore, tratto da una della sue più famose opere, Gitanjali (“offerta di canti”). Composta originariamente in lingua bengali,  questa raccolta di poesie e canzoni fu tradotta in inglese dallo stesso Tagore, e pubblicata nel 1912 con l’introduzione dell’immenso, e da me amatissimo, poeta irlandese William Butler Yeats. Proprio questo piccolo capolavoro valse all’autore il premio Nobel nel 1913.

Ci sposteremo, con queste parole, in un’India intrisa della Sophia più luminescente… facciamole risuonare nelle pareti del nostro cuore:

Ero andato ad elemosinare
di porta in porta
sulla strada del villaggio
quando il tuo carro dorato
apparve in lontananza
come un magnifico sogno
e mi chiesi chi fosse
quel re di tutti re!

La mia speranza si esaltò
ed ebbi la sensazione
che i miei giorni sventurati
fossero giunti alla fine.
Rimasi in attesa
di un’elemosina non richiesta
e di una ricchezza sparsa qua e là
nella polvere.

Il carro si fermò dove stavo io.
Mi desti un’occhiata
e scendesti con un sorriso.
Sentivo che finalmente
Era arrivata la fortuna della mia vita.

Poi all’improvviso
mi tendesti la mano destra
con queste parole:
«Che cos’hai da darmi?»

Ah, che gesto regale
tendere la mano a un mendicante
per mendicare!
Ero confuso, indeciso
poi lentamente tolsi dalla bisaccia
un piccolissimo chicco di grano
e te lo porsi.

Ma quale fu la mia sorpresa
quando, alla fine della giornata,
vuotai per terra il sacco
e nel povero mucchio delle mie cose
trovai un piccolissimo chicco d’oro.

Piansi amaramente
pentendomi
per non aver avuto il coraggio
di darti tutto.

R. Tagore, “Gitanjali“, 50, Acquerelli, GIUNTI Demetra, 2006, pag. 67-68

Sopra: una libreria a Calcutta, città natale di Tagore (foto di Carl Parkes)

Porto III

Kalinga è una città bellissima. Da questa città prende il nome un’intera regione. I campi danno due raccolti all’anno e la selvaggina è così abbondante che gli uomini si stancano di andare a caccia per l’irrisoria facilità di conquistare le prede. La temperatura è costantemente mite e le acque dei numerosi fiumi sono potabili e ricche di sali minerali terapeutici. Su questo paradiso si affacciano le centomila «spade affilate» dell’imperatore Asoka, nipote di Candragupta, detto l’unificatore dell’alta India. È l’anno 273 a.C. e una tempesta di ferro e fuoco sta per abbattersi su quella terra compresa tra l’attuale Calcutta e Madras.

Asoka è giovane, capace, intelligente, colto, ambizioso. II nonno è stato un grande e lui non vuole essergli da meno. Per questo ha portato gli arcieri mongoli, la cavalleria degli altipiani delle nevi, gli elefanti corazzati, le fanterie ricoperte di metallo e cuoio, gli astati dagli elmi e pettorali inscalfibili, i frombolieri infallibili e le macchine da guerra che non lasciano scampo. La regione, l’unica a essere libera dal suo potere, sarà ridotta in schiavitù. Ha osato non pagare i tributi e adesso sarà sottomessa. Non dovrebbe essere una campagna lunga, perché gli abitanti sono pacifici e da tempo non sono abituati alle guerre.

Così il segnale è dato e l’invasione comincia.

Come le truppe iniziano a marciare sulla terra sacra di Kalinga, innumerevoli persone escono dai boschi, si lanciano dagli alberi, si ergono dai covoni. Sono armati di roncole e bastoni, non hanno scudi e archi. Privi di lance ed elmi, sono praticamente disarmati. Ma vogliono difendere la propria terra.

Asoka si stupisce e in un lampo comprende che quella gente si farà massacrare, ma non cederà di un palmo. Il suo esercito ne farà scempio. Vorrebbe tornare sulle proprie decisioni, ma l’orgoglio gli ottenebra la vista. Lo scontro è inevitabile. Durerà un mese intero.

Ogni zolla di terra è ricoperta da un cadavere, ogni fiume è rosso di sangue. Asoka ha vinto ma tutti gli abitanti di Kalinga sono morti. Un milione di persone sono state stroncate dai conquistatori. L’imperatore adesso comanda su un regno di morti. Per questo piange amaramente sulla torre più alta della città.

Ha capito il suo errore e promette agli dei e a se stesso che non permetterà mai più una guerra simile. Decide di convocare a sé i massimi saggi di tutto il mondo e di chiedere consiglio su come bandire lo strazio degli eccidi; manda per ogni dove i suoi messi, accompagnati da letterati, filosofi e poeti. Cercheranno i custodi del sapere, dovunque essi siano. Dopo nove anni la missione è compiuta.

Nove sapienti sono di fronte all’imperatore. Sanno di tutto su tutto. Desiderano la pace per le genti e si adoperano affinché, nel rispetto della libertà e dell’autodeterminazione, non accadano mai eventi che possano portare l’umanità alla distruzione. Insieme giurano. La promessa è per tutti i tempi a venire. Ma l’accordo è segreto e segrete saranno le loro azioni. Nessuno mai dovrà sapere da dove arrivano gli «aiuti» che misteriosamente condurranno l’umanità a soffrire di meno o addirittura ad abolire la piaga della guerra.

Questa è la leggenda dei Nove Ignoti. Secondo la tradizione operano tuttora. Alla morte di uno di loro, si cerca il saggio che abbia la massima conoscenza in quel campo. Non deve essere soltanto un esperto, deve dimostrare di avere a cuore le sorti dell’umanità e di conoscere il bene. Un sapiente privo di egoismi. Queste le qualità per diventare uno dei Nove. Questa società di illuminati ha perpetrato se stessa come un organismo che riesce a ricreare ex novo la sua parte malata, diventando praticamente immortale. Il mito vuole che per ventitré secoli il gruppo vegli su di noi. Senza chiedere nulla; senza pretendere nulla, senza riconoscimenti e plausi. In silenzio e soprattutto in segreto.