Un cuore in inverno

Una pellicola che racconta “perfettamente” la rinuncia ai propri sentimenti

Se nel racconto esiste la perfezione, l’armonica proporzione delle sue componenti, questo è un film perfetto.

Claude Sautet vinse con “Un cuore in inverno” il Leone d’argento al Festival di Venezia 1992. Ispirato alla novella “La principessina Mary” (in Un eroe del nostro tempo, 1840) di Michail J. Lermontov questo è un film delicato ed elegante, una riflessione sull’amore, o meglio un apologo sul suo mistero, i cui raffinati dialoghi sono una sorgente di frasi da incorniciare.

(da qui possibili spoilers)

Il tema del film sembra facilmente identificabile. Stéphane (Daniel Auteuil), un liutaio, non è (apparentemente) in grado di vivere ed esprimere i suoi sentimenti ed emozioni. Eppure tutto sembra, nel suo comportamento precedente, alludere ad una sua attrazione profonda per Camille (Emmanuelle Béart: divina). Quando la donna suonava sembrava che gli occhi di Stéphane vibrassero della stessa armonia che proveniva dal suono della musicista. Sembrava che solo il legame tra lei e l’amico Maxime potesse essere l’ostacolo ad un incontro ormai annunciato con Stéphane. Contro ogni logica (apparentemente) l’uomo rimane imperturbabile, non solo di fronte alla passione amorosa, ma anche alla violenza.

Qualcuno ha scritto che Stéphane è simbolo chiaro di un’organizzazione di personalità che isola o al limite elimina gli affetti perché teme il possibile dolore ad essi associato.

In psicoterapia è un tema che ricorre frequentemente e che non sorprende né come fenomeno né come dinamica profonda: molte persone possono sviluppare una capacità razionale e operativa dotata di grande pregio e pur tuttavia essere molto spaventati quando si sviluppa una qualsiasi relazione emotiva profonda nel rapporto personale; gli affetti vengono allora isolati e rinchiusi in un mondo pressoché impenetrabile, così che una persona può vivere senza però vivere veramente la propria vita con la densità dei propri affetti.

A proposito di Stéphane il regista sembra tuttavia dare una traccia di dubbio, così psicoanaliticamente significativa, da far sorgere l’interrogativo se tale traccia sia stata fornita intenzionalmente, o sia stata indicata inconsciamente, senza avvertirne del tutto l’importanza.

Mi riferisco ad una sequenza narrativa: quando Stéphane rifiuta sorprendentemente l’amore di Camille, la scena termina e cambia. Ci si ritrova con Stéphane che si dirige verso la casa del maestro e della donna che lo accudisce. Qui assiste non visto ad una scena altamente sgradevole. La donna cerca di convincere il vecchio ad accettare le cure per i suoi malanni, ma egli, come un bambino ossessionato dalle cure materne, la scaccia in maniera offensiva (anche lei risulta alquanto soffocante). Stéphane assiste alla scena come un bambino che guarda dal buco della serratura ciò che avviene nella stanza dei genitori. Ed è una scena dove il “padre” lotta per non essere infantilizzato da una “madre” che lo tratta come un bambino. Se poniamo questa scena come lo sfondo della problematica che Stéphane vive nel rapporto con le donne, possiamo trarre qualche lume significativo (semplificando: “se il maestro è finito così, quale destino diverso potrà avere il suo modesto seppur zelante allievo?”). L’immagine della scena primaria, che vive nell’inconscio individuale, quando assume aspetti così profondamente spiacevoli, può causare l’evitamento delle possibilità di sviluppo affettivo nel rapporto con l’altro sesso, quando tale rapporto è troppo associato ad essa, dicono gli autori di orientamento psicodinamico. Camille si propone a Stéphane come un farmaco curativo dei suoi affetti bloccati, lo vuol curare col suo amore, ma egli teme di ridursi come un bambino castrato dalle cure materne. Forse.

In realtà la freddezza affettiva non riguarda (solo?) Stéphane, ma anche (e forse maggiormente) gli altri personaggi significativi: Maxime (patinato e immerso nel suo business), Régine l’agente assistente di Camille (fredda e cinica per lo più), e paradossalmente anche Camille stessa. Di chi è innamorata? Del suo violino e della musica senz’altro. Il violino può anche non funzionare secondo i suoi desideri. Ma allora lo ripara e lo riprende. Quando invece Stéphane tenta una riparazione (“mi sono accorto di aver dentro di me qualcosa di distruttivo”) la sua risposta è: “ormai mi sono svuotata”.  Si accende di passione, ma non tollera che la risposta dell’altro richieda tempi diversi da quelli che da lei sono stati previsti e decisi. Colpisce come in tutto il film manchino spazi per la crescita e l’elaborazione degli affetti che appaiono e scompaiono in modo rapido senza che le voci interiori si esprimano e diano un senso ai comportamenti dei diversi personaggi, ma così viene magistralmente lasciato allo spettatore il compito di intuirli e pensarli in maniera più umana e significativa.

Da questo punto di vista Stéphane appare dal mio punto di vista umanamente più convincente, perché al termine di un tormento interiore così dignitoso da non essere mai rivelato, dopo mesi di sofferenza e introspezione, riconosce la radice della sua difficoltà quando afferma che c’è qualcosa di distruttivo in lui, nel suo modo di rapportarsi alla donna: distrugge per non sentirsi distruttivo e per non dover fare i conti con i molteplici volti dell’attrazione amorosa. Ed è anche l’unico che ha il coraggio di fare quello che il suo maestro voleva: aprire la finestra della sua stanza verso la libertà, il silenzio e la luce.

Massimo Lanzaro

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Media e politica: riflessioni preliminari su paradossi e contraddizioni

Viviamo in uno stato di cose imbevuto di indecidibilità, stallo e interminabili oscillazioni che finiscono per bloccare la possibilità di direzionarsi e comprendere

Il doppio legame (in originale: double bind) è un concetto psicologico elaborato dall’antropologo e pensatore G. Bateson e utilizzato in seguito da altri membri della cosiddetta Scuola sistemico-relazionale di Palo Alto. L’ingiunzione: “sii spontaneo” è il prototipo del messaggio paradossale. Chiunque riceva questa ingiunzione si trova in una situazione insostenibile, perché per accondiscendervi dovrebbe essere spontaneo entro uno schema di condiscendenza e non di spontaneità, spiegò Watzlawick.

Gli elementi essenziali di un doppio legame sono:

a) una forte relazione complementare (autorità-subordinato);
b) un’ingiunzione che deve essere disubbidita per essere ubbidita;
c) l’impossibilità di uscire dal sistema di relazione, cioè di metacomunicare sulla comunicazione, perché sarebbe un atto grave di insubordinazione.

Bateson ipotizzò come possibile causa della schizofrenia  (teoria che ha subito diverse critiche in verità) l’esposizione cronica a situazioni di doppio legame in ambito familiare.

Il termine schizofrenia, detto per inciso, fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1908 e deriva dal greco σχίζω (schizo, diviso) e φρεν (phren, cervello), ‘mente divisa’.

Consideriamo ora un ulteriore esempio di relazione paradossale, innescata, ad esempio, dall’ingiunzione : “Non essere così ubbidiente!”.

Ancora il destinatario è preso in un doppio vincolo, poiché la frase dev’essere disobbedita per essere obbedita e viceversa; non si può reagire ad essa in modo adeguato.

Ho introdotto i concetti di paradosso e doppio legame per metterli in relazione a comunicazioni più o meno normative e messaggi che ci arrivano ogni giorno da situazioni socio-politiche italiane. Siamo infatti pronti ad aprire un quotidiano recente e leggere, a mò di esempio:

– Le colonnine arancioni finiscono fuorilegge, sono efficaci per scoraggiare chi corre in macchina, ma non sono omologate. Vengono adottate sempre di più dalle polizie municipali, ma per il Codice della Strada non esistono.
– Caos (appunto) Stamina: il Tar boccia la bocciatura.
– Sembra che abbiamo un Parlamento incostituzionale.

In un conflitto la scelta è una soluzione, ma l’ingiunzione paradossale fa fallire qualsiasi scelta o presa di posizione (perché devo accettare le leggi di un parlamento incostituzionale? e se qualcuno boccia una bocciatura cosa ne desumo?).

Qualcuno ha detto che la attuale classe di giornalisti è nettamente figlia della classe politica. Entrambe sembrano contribuire, per restare in tema di paradossi, al cortocircuito.

Se sorvolassimo sul fatto che da un po’ di tempo a questa parte, come dice qualcuno, in Italia “la parola di un fuorilegge è legge”, che destra e sinistra governano assieme, o sul dato di fatto che il precariato è la norma tragica di “una repubblica fondata sul lavoro”, continuare il discorso dei paradossi sarebbe un mero divertissement.

Ma nella realtà quello che leggiamo e che ci viene detto riflette uno stato di cose sempre più imbevuto di indecidibilità, stallo e interminabili oscillazioni che finiscono per bloccare la possibilità di direzionarsi e comprendere. E ciò che emerge dai media forse è l’epifenomeno rivelatore di una patologia politica, sociale e antropologica di fondo. Nessuno è più libero di non essere parte di questo sistema invischiato dell’estrema fittizia libertà.

Nelle contraddizioni autoperpetuantesi la scelta non è possibile e molti giovani sono costretti ad emigrare. Leggere questo fenomeno in base alla teoria delle comunicazioni paradossali secondo cui può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello (fuggire, appunto) è quantomeno suggestivo. Mi fa pensare (un po’ pessimisticamente) alla nostra nazione come una enorme famiglia patogena.

Cui prodest? Non so se questa domanda è lecita. Non sono un esperto di dietrologia e non so in fondo neppure se queste riflessioni siano troppo frammentarie (di certo sono eterogenee ed un po’ ipersemplificate). Però ho sempre amato la teoria della pragmatica della comunicazione. E so che in una famiglia  sarei molto perplesso se un genitore comprasse due cappotti, uno verde e uno rosso, e poi si lamentasse che se indosso quello rosso è perché non mi piace quello verde che mi ha regalato. E viceversa.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/aspetti-paradossali-della-comunicazione-e-altre-assurdita/

L’importanza di (imparare a) non avere successo

http://www.ilquorum.it/limportanza-di-imparare-non-avere-successo/

L’importanza di (imparare a) non avere successo

Blue Jasmine, di Woody Allen, con Blanchett antieroina tragica

Il film racconta la storia della moglie mondana di un ricco uomo d’affari che dopo la separazione si ritrova senza soldi e senza casa. Partita da origini di certo non facoltose, per anni Jasmine pensa di aver conquistato quello che meritava: un marito (Alec Baldwin) – conosciuto sulle note di Blue Moon – che la riempie di frasi cortesi e costosi regali, villa a New York, cocktail in piscina, Martini da sorseggiare in giardino tra ameni e ricchi consimili.

Due precisazioni per cominciare.

Prima: quella che parte con l’aria di essere un’altra incantevole commedia confuta l’assioma di George Steiner secondo cui non ci sono oggi molte possibilità per la tragedia come forma d’arte, a meno di cercare il tragico in qualcosa di estraneo all’arte stessa (l’uomo d’oggi è infatti, secondo Steiner, saturato da catastrofi e da atrocità di fronte alle quali reagisce spesso con indifferenza).

Seconda: il personaggio di Jasmine sarebbe rimasto anonimo e appunto, “indifferente” senza l’interpretazione di Cate Blanchett (alcuni dicono “da Oscar”, personalmente non so: forse nella versione originale).

Questa pellicola diventa la feroce puntuale descrizione di un disagio personale che è però tremendamente attuale e che Allen mette a nudo e descrive con impietosa maestria. Alla radice della inquietudine, labilità affettiva e depressione disforica di Jasmine sembra infatti esserci l’”ansia da status” che minaccia tutti gli individui delle società a capitalismo avanzato. Quelle, per dirla con Alain De Botton, formatesi dopo la rivoluzione industriale e perfezionatesi in Europa e negli Stati Uniti nel Novecento. Uno stato di malessere profondo cui non giovano l’effetto dei cocktail di psicofarmaci e l’uso di superalcolici, che provoca profonde sofferenze e terribile fragilità.

Jasmine vola a San Francisco, dove vive la sorella, Ginger,  cassiera in un supermercato che ha per compagno un uomo rozzo e ignorante che “vive una vita felice e ancora ha l’energia per sognarne una ancora più felice”. Mentre Jasmine bussa alla sua porta quando ormai ha perso tutto eppure ancora è incapace di accettare fino alle estreme conseguenze la sua nuova condizione e la sconfitta. Arriva allo scacco matto di fronte alla contrapposizione senza via di uscita fra rassegnazione e successo, in una dimensione in cui l’accettazione è impossibile.

Il pensiero va alle riflessioni di Schopenhauer, agli esempi di romanzieri (Jane Austen) che smascherano i meccanismi dello snobismo e della esclusione sociale, così come si potrebbe passare agli artisti d’avanguardia, da Baudelaire a Bukowski, che si collocarono fuori dalla guerra per il successo a ogni costo.

“Loooser” contiene l’estrema accezione negativa che gli americani danno a questo termine e che in italiano si tradurrebbe più come “sfigato” che come “perdente”, epiteto chiave (a mio modesto avviso) che la  Jasmine dell’ora attuale proietta continuamente sugli altri.

C’è una grossa differenza tra uno sfortunato (“unfortunate”, non baciato dalla fortuna, termine ormai in disuso nella cultura anglosassone) e un perdente (“looser”). E questo forse mostra 400 anni di evoluzione nella società e la nostra idea di chi sia responsabile per le nostre vite. A chi sarebbe venuto in mente, del resto, di dare dello “sfigato” o del “perdente” ad Amleto?

Massimo Lanzaro

 

Violenza sulle donne e uomini cattivi

Ricordi e riflessioni ispirati da una pellicola di Chabrol del lontano 1993

Lo spunto per questo scritto, viene dalla recentissima giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nel mondo c’è una vera e propria “epidemia”: una donna su tre ha subito, a livello mondiale, abusi almeno una volta nella vita (dati OMS) e il 30 per cento di questi atti viene inflitto da un partner intimo. Anche in Italia, dove i casi sono aumentati da 84 nel 2005 a 124 nel 2012. E nel primo semestre del 2013 i casi di violenza sono stati 65. Molte di queste vittime riportano lesioni gravissime, qualcuna viene uccisa, le altre subiscono violenze di tipo persecutorio da cui escono segnate nel corpo e nell’animo.

In genere le cronache e le convinzioni popolari tendono ad applicare agli omicidi di donne lo schema del delitto passionale, commesso magari durante un “raptus” (termine ormai non più accettato dalla comunità scientifica) o sotto la spinta di una “temporanea follia” (definizione altrettanto molto discutibile). Questo modo di ragionare perpetua di solito due gravi malintesi: che siano delitti normalmente inevitabili, in quanto difficili da prevedere, oppure che si tratti di tragedie familiari e perciò appartenenti alla sfera privata, slegati da ogni contesto sociale più ampio e non privo di responsabilità.

Il fenomeno non ha né tempo né confini e non risparmia nessuna nazione, sia essa industrializzata o in via di sviluppo, in pratica una fragilità del sistema che si nutre di valori condivisi. Non conosce nemmeno differenze socio-culturali, perché vittime e aggressori appartengono a tutte le classi sociali e perché, al di là di quello che ci viene mostrato dai media, i rischi maggiori vengono da familiari, mariti, fidanzati o padri che siano, seguiti da amici, vicini di casa e colleghi di lavoro.

Ma cosa c’è dunque dietro gli uomini “cattivi”? Non credo di essere nel contesto appropriato per dare una risposta esaustiva o sistematica, c’è una vastissima letteratura in merito, e questa è una rubrica dove si parla di cinema. Tuttavia oggi rispolvero un film che parla proprio di violenza sulle donne: “L’inferno”, diretto da Claude Chabrol, che mi sento sinceramente di suggerire (a chi non lo abbia visto). Perché? Forse perché prova a descrivere una delle possibili risposte alla domanda precedente, ovvero: in alcuni casi, dietro (e dentro) gli uomini “cattivi” c’è una sindrome psichiatrica che si manifesta in modo subdolo e che può avere conseguenze anche terribili.

La narrazione descrive il percorso di un giovane uomo, Paul, proprietario di un albergo in riva ad un lago sui Pirenei, acquistato a costo di grossi sacrifici economici. Raggiunto lo scopo della sua vita, Paul si mette alla ricerca di una donna e conquista la “bella del paese”: l’esuberante e procace Nelly, che ben presto lo rende padre di un bel bambino.

L’albergo è accogliente e ben frequentato e costringe Paul a sottoporsi ad un lavoro di gestione continuo e stressante, a cui si aggiungono le frequenti bevute in compagnia degli ospiti, che lo rendono nervoso e insonne, tanto che si ritrova costretto a far (ab)uso di ipnoinducenti. Nelly, sua moglie, cerca di rendersi utile, aiutandolo nel lavoro e intrattenendo affabilmente gli ospiti. Ma tutto ciò non è visto di buon occhio dal marito. La donna cerca più volte di sdrammatizzare la situazione, ride della gelosia del marito, crede si tratti di un eccesso di amore, pensa si tratti di normalità. Purtroppo si intuisce che date le circostanze e gli sviluppi quella forse non era “la cosa giusta da fare”.

In psichiatria, il disturbo delirante è una forma di delirio cronico basato su un sistema di credenze illusorie che il paziente prende per vere e che ne alterano la percezione della realtà. Queste credenze sono in genere di tipo verosimile, come la convinzione di essere traditi dal proprio partner. Escludendo l’incapacità di valutare oggettivamente il sistema di credenze illusorie che danno origine al delirio, il paziente mantiene le proprie facoltà razionali e in genere le sue capacità di relazione sociale non sono inizialmente compromesse. Alcune forme di disturbo delirante venivano  tradizionalmente indicate come casi di paranoia, termine che oggi è in disuso nella comunità scientifica internazionale.

Come nel film la nascita del disturbo può non avere sintomi rilevanti dal punto di vista delle capacità dell’individuo di vivere una vita sociale relativamente normale, ma la sua degenerazione può insidiosamente modificare questa situazione. Inciso: purtroppo, senza alcun intervento adeguato, senza una identificazione precoce da parte di un professionista a volte questi uomini possono isolarsi progressivamente, diventare violenti e “cattivi”.

Tornando al film: lontano dal lirismo di un Bergman o dalle nevrosi intellettuali di un Allen, Chabrol segue la storia con l’occhio di uno scienziato, attenendosi al fatto reale e al dato psicologico. Ed è forse il motivo per cui a mio avviso è un autentico capolavoro.

Tratto da Il Quorum
http://www.ilquorum.it/violenza-sulle-donne-e-uomini-cattivi/

Massimo Lanzaro

Prisoners – Siamo tutti intrappolati?

 

E’ il nuovo film di Denis Villeneuve, regista canadese dello straordinario Incendies (La donna che canta, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2011), che stavolta ha girato in inglese quello che sembra un thriller di rapimenti, con due attori del calibro di Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal. Un cenno alla trama senza spoilers: in una (fin troppo) tranquilla cittadina dello stato della Pennsylvania, il giorno del ringraziamento viene turbato dalla inspiegabile scomparsa di due bambine, Anna Dover e Joy Birch, di sei e sette anni. I genitori, fra di loro amici, reagiscono nei modi più disparati (e disperati) mentreil detective Loki (Gyllenhaal, la sua interpretazione forse è una spanna su tutti) avvia le sue indagini fra intoppi burocratici e depistaggi.
Ma il vero discorso dove il film ci porta è sembrato a molti diverso (appunto dicevo: sembra un thriller). In realtà tutti i personaggi di Prisoners sono, appunto, prigionieri di qualcuno o qualcosa, o incarcerati dalla paura (rimossa), dalla rabbia (repressa), dal passato (non elaborato), da istanze di natura più o meno religiosa che finiscono inevitabilmente per seguire sinistri itinerari mistico-deliranti.
La eccellente caratterizzazione dei protagonisti, trincerati dietro armi, rifugi sotterranei e vecchi cancelli arruginiti, ciascuno con la sua personale idea di giusto e sbagliato, vendetta e giustizia, ma ciascuno a modo suo in un profondo stato di smarrimento e solitudine, forse incarna la parabola di una nazione.
Scrive Paola Casella su Mymovies.it:
“La riflessione più ampia riguarda gli Stati Uniti, raccontati come un paese che ha perso la fede e la capacità di proteggere i propri “figli”, pronto a ricorrere, e a giustificare metodi disumani che classificano il nemico come una non-persona, privandolo della sua essenziale umanità. Un luogo in cui la paranoia ha sostituito il buon senso e il caos domina sull’ordine, al di là delle apparenze e delle false sicurezze dell’American way of life”.
Chiaramente, mi sento di sottoscrivere e farne fonte di ulteriore riflessione, principalmente sulla natura delle  convinzioni di chi (nazione o religione o individuo) si sente nel giusto tanto da percepire quasi il dovere di imporlo agli altri.
Forse non c’entra, ma uscendo dalla sala mi è venuto anche in mente, così, che in parlamento di recente si è votato per la soppressione immediata della missione militare in Afghanistan, che all’Italia e’ costata 5 miliardi di euro.

Massimo Lanzaro

Da Il Quorum
http://www.ilquorum.it/prisoners/