Identità e possesso

Gli individui che fanno propria la modalità di vita dell’ avere, godono della sicurezza ma sono per forza di cose insicuri. Dipendono da ciò che hanno come denaro, aspetto fisico, potere, beni, in altre parole in qualcosa che è al di fuori di loro. Ma che ne è di loro se perdono ciò che hanno? Se quindi sono ciò che ho e ciò che ho è perduto, chi sono io?

Erich Fromm

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L’anima in viaggio con Tolkien, Collodi e Miyazaki

Dr. Massimo Lanzaro (Psichiatra, Psicoterapeuta)

Attraverso i secoli (con le successive rielaborazioni) le fiabe trasmettono significati nascosti e palesi, comunicandoli in modo tale da raggiungere la mente “ineducata” del bambino e quella “sofisticata” dell’adulto. In effetti vari autori, da Marie Louise Von Franz a Bruno Bettelheim, hanno mostrato come le fiabe popolari parlino il “linguaggio inconscio” di problem comuni a tutti gli uomini, con I conflitti, le crisi e le trasformazioni tipiche dello sviluppo dell’individuo e della collettività, al di là dell’intento narrativo contingente.Di solito le favole mostrano le tappe del processo di maturazione della personalità: I modelli di comportamento fondamentali della psyche e le situazioni tipiche della vita si presentano nelle fiabe “allo stato puro”, non contaminate dalla storia personale e dai contenuti dell’inconscio personale. In tal senso una fiaba è come un sogno, senza le varianti peculiari e le complicazioni che emergono dall’inconscio personale nell’attività onirica.Il fatto che tali narrazioni si tramandinocontribuisce a corroborare l’idea di una universalità di significato dei motivi archetipici. I vari personaggi infatti non devono essere intesi come ego, come persone, bensì simboli di strutture archetipiche (l’eroe che è in ognuno di noi, il vecchio saggio etc.): le fiabe non sono racconti delle esperienze personali, bensì prodotti delle comunità e della loro psiche collettiva e profonda.Le immagini di una fiaba, come quelle di un sogno, contengono spesso molti messaggi, che non si esauriscono in un’unica chiave di lettura e che a volte lo stesso autore potrebbe coscientemente aver ignorato. Jung affermava che studiare le fiabe è un buon modo per studiare l’anatomia comparata dell’inconscio collettivo, ovvero di quelli che si pensa siano gli strati più profondi e arcaici della psiche. In tal senso alcuni sostengono anche che il materiale delle fiabe sia compensatorio alle idee e ai valori del conscio collettivo nel momento storico in cui la fiaba è stata prodotta. Può pertanto offrire un nuovo punto di vista su problemi che magari la cultura dominante non sa come affrontare.C’è un filo rosso che lega II mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988) e Lacittà incantata (Sen To Chihiro No Kamikakushi, 2002), tanto che si potrebbe considerare i due film complementari. Ma ci sono elementi, “costanti naturali” che troviamo in narrazioni tanto datate (Pinocchio ad esempio) quanto recenti (Il Signore degli Anelli).Le storie si aprono infatti con un trasferimento (il tema del viaggio, della crescita, del percosrso verso l’individuazione). Tutte queste narrazioni sono la storia di un “viaggio” in senso letterale e metaforico.Nel Signore degli anelli la meta del viaggio è la distruzione dell’anello con le sue valenze simboliche. Ne II mio vicino Totoro, Mei e Sutsuki lasciano la città per la campagna. In La città incantata, assistiamo ad un analogo spostamento: dallo spazio urbano a quello rurale. Dal kosmos razionale della Cultura al kaos irrazionale della Natura. Le tangenze continuano: in entrambi i casi, il portale tra il mondo “reale” e quello “fantastico” è rappresentato da un tunnel. In entrambi i film, la dimensione soprannaturale è onirica (inconscia), quasi fosse frutto dell’immaginazione della piccola protagonista (Chihiro qui, che non a caso, si chiede più volte «Sto forsesognando?»). Totoro e La città incantata raccontano la medesima storia: in momenti di grande stress psicologico (la malattia della madre nel primo, la sparizione dei genitori nel secondo, due metafore del crescere), le piccole protagoniste se la cavano da sole, acquistando, nel contempo, una nuova capacità di guardare e comprendere il mondo. Il tema della percezione è centrale. Il doppio ruolo di bambina e donna, consente a Chihiro, Mei e Sutsuki di cogliere ciò che gli adulti – che hanno ormai smarrito la purezza e l’innocenza – non sono più in grado di vedere. La percezione infantile ha dunque un’efficacia epistemologica che trascende quella degli adulti. Il fantastico coesiste con la ratio, ma solo i più innocenti e vulnerabili, i “puer”, sono in grado di comprenderlo.Se II vicino Totoro era “Alice nel Paese delle Meraviglie,” allora La città incantata è «Alice attraverso lo specchio». Come nelle opere di Carroll, la piccola protagonista finisce catapultata in un mondo magico e assurdo, esilarante e terrificante, in cui il nonsenso e il grottesco rappresentano la normalità (di nuovo, verosimilmente l’inconscio). E come nell’opera di Carroll, anche qui il linguaggio gioca un ruolo fondamentale. La perdita del nome (identità), o meglio, la sua trasformazione in numero, conduce all’alienazione, in senso hegeliano e marxista assieme, ma è anche un punto di partenza.Marxista, perché Miyazaki da sempre usa il cartone animato per muovere una critica almodello capitalistico. In La città incantata, Yubaba dirige con il pugno di ferro una sorta di centro estetico per gli spiriti che popolano il mondo. L’arpia trasforma gli esseri umani in schiavi (Chihiro e Haku). In questa rilettura nipponica della dialettica servo-padrone. Come non ricordare invece Sauron e la sua volontà di sottomettere tutti i popoli liberi, e verosimilmente lo stesso intento polemico di Tolkien contro gli usi/abusi della società contemporanea.I dipendenti del centro termale idolatrano il Dio Ricchezza (l’oro prodotto dalle mani del fantasma “Senza Faccia”) sono destinati allo scacco. Allo stesso tempo, per Miyazaki, l’unico modo di uscire dall’impasse è lavorare. Come in Kiki servizio di consegne (Majo no Takkyubin, 1988), anche qui la giovane protagonista deve guadagnarsi il diritto a esistere. Kiki, la tredicenne apprendista fattucchiera, lavora come fattorina di una panetteria per pagarsi l’affitto. Chihiro, dopo aver perso genitori, nome e ogni ricchezza materiale, supera il momento di difficoltà diventando una “donna delle pulizie”. Ma chi la dura, la vince. Chihiro e Kiki conquistano l’emancipazione grazie al sudore della loro fronte. Il processo di palingenesi dell’eroe di Collodi e di quelli di Tolkien procede di pari passo. Chihiro esce profondamente trasformata dall’esperienza con Yubaba. Prima di entrare nel tunnel è una bambina. Dopo esserne uscita, è una donna. Pinocchio da burattino diventerà un uomo.Il bacio accennato, ma alla fine mancato, tra Chihiro e Haku rimanda ad un’etica/estetica asessuata. Come nel “Signore degli anelli” la storia d’amore tra Arven e Aragorn è almeno inizialmente confinata ai margini della storia.Ne La città incantata, la metamorfosi dei genitori, avidi e ingordi, costringe Chihiro a lavorare per sopravvivere. Le figure genitoriali introiettate saranno al termine del processo di maturazione riconosciute come “persone” e non più come elementi superegoici.La preoccupazione ambientalista, altra costante di Miyazaki, appare qui stemperata dall’esigenza poetica. Nei mondi animati dell’autore nipponico, la natura si manifesta come una forza autonoma e dichiaratamente non-umana, se non esplicitamente anti-umana. Come non ricordare a riguardo, in parallelo, la ribellione degli alberi ne “Le due torri?”.Il mondo contemporaneo o post- industriale rappresenta infatti anche per Tolkien la nemesi della Natura. E’ noto che, per Miyazaki, i processi di modernizzazione hanno portato alla progressiva distruzione dell’equilibrio primordiale e all’alienazione dell’uomo con l’ambiente naturale. In La città incantata, l’accusa di Miyazaki si incarna in Okutaresama, il “Mostro Puzzolente”, lo Spirito di un Fiume. La creatura, un ammasso di fango maleodorante, vomita i rifiuti che gli esseri umani gli hanno rovesciato dentro, dai frigoriferi alle biciclette. Oltre a inquinare, gli esseri umani “puzzano,”: al passaggio di Chihiro, gli spiriti si tappano letteralmente il naso. Una seconda figura interessante è quella di Koanashi, detto “Senza Volto,” un mostro incappucciato che ricorda il Macchia Nera disneyano6. Il demone, in origine buono e generoso, diventa vorace e mostruosamente avido nel momento in cui comincia a consumare in modo disordinato, bulimico, inghiottendo tutto ciò che gli capita a tiro. Produce una ricchezza effimera. L’oro diventa fango. Il messaggio è chiaro: la cupidigia, umana o soprannaturale, porta inevitabilmente al collasso del sistema. E l’oro di cui è forgiato l’Unico Anello di Tolkien non ha analogamente nulla di nobile: serve a soggiogare gli uomini..

Riscoprire il senso del luogo

di Luisa Bonesio
1. Luogo e comunità

Come ha notato Marcello Veneziani a proposito degli approcci geofilosofici al tema della territorialità, il bisogno, caratterizzante l’atteggiamento comunitario, di riconoscersi in archetipi, tradizioni, continuità che formino un orizzonte di senso è indisgiungibile dal senso o dal desiderio di appartenenza a un luogo, di radicamento in una terra elettiva, di ricerca di un orizzonte in cui appaesarsi. E’ l’affermazione del valore dei luoghi e della memoria di contro alla mondializzazione sradicante, cosmopolita, multirazziale che si esprime anche mediante il livellamento delle caratteristiche locali, l’uniformità indifferenziante in cui la Terra viene rifusa in unico, monotono e deculturante conio. Nelle sue efficaci dicotomie orientative, Veneziani sostiene che «comunità è un luogo, liberal è un tempo»: la comunità è il pensiero di un’origine e di una genealogia inscritte in luoghi precisi -la patria o la matria-, dai quali traggono linfa e significato («il confine non è il male ma ciò che garantisce in concreto la sfera del nostro essere e del nostro agire»1); il cosmopolitismo faustiano e diveniristico liberal è tutto proteso alla liberazione da ciò che ricollega a una terra e alla singolarità di un luogo in nome dell’universalismo da realizzare all’interno di una temporalità orientata verso il progresso.
Il che significa che alla sottolineatura della variabilità dei tempi e delle tradizioni, e dunque del relativismo storico dei valori, fa da pendant la complementare tendenza all’unificazione delle differenze, delle identità parziali e sparse nella rifusione cosmopolita e mondializzante; mentre la difesa delle differenze, delle identità e delle tradizioni che si incarnano in patrie territorialmente definite si accompagna per lo più a una valorizzazione della memoria, dell’eredità culturale, in un’idea di comunità allargata agli ascendenti e ai venturi, oltre che alla terra stessa.

Questa schematizzazione, al di fuori di ogni etichettatura politica del problema, può servire a mostrare le coordinate all’interno delle quali ripensare la questione dei paesaggi: non come qualcosa che compete esclusivamente alle istituzioni preposte alla loro tutela, o come un oggetto abbastanza astratto di cui si occupano l’estetica o la geografia, e neppure come la posta in gioco delle battaglie ecologiste. Il “paesaggio” non è un optional estetico o buono per lo sfruttamento turistico, ed eventualmente un vincolo e un ostacolo alla libertà di speculare e distruggere. Ciò che chiamiamo “paesaggio” sono i luoghi nei quali abitiamo, viviamo e dove, prima di noi altri hanno vissuto e, si spera anche dopo, altri potranno vivere e abitare. La parola “paesaggio”, tuttavia, ha il pregio di attirare l’attenzione sulle qualità formali, estetiche e simboliche di un luogo: non semplice estensione geometrica priva di connotazioni, e dunque atta a essere manipolata impunemente, bensì spazio sempre già segnato, non solo semplicemente trasformato dall’intervento umano, ma costruito consapevolmente nelle sue forme così da presentarsi con una propria specifica e singolare fisionomia: è da quella fisionomia, dalla configurazione che lo distingue da altri e lo caratterizza, che possiamo riconoscere, distinguendolo, un luogo da un altro.
Alla fisionomia di un luogo o di una regione concorrono dunque le segnature del passato, dal modo di differenziare i territori dell’abitazione e della coltivazione da quelli selvatici e boschivi, ai tipi di colture agricole, ai tracciati stradali, alle modalità del costruire, fino a ciò che chiamiamo “monumenti” e alle tracce architettoniche e topografiche più antiche. E’ un palinsesto complesso e sensibile di azioni, memorie, identità: si tratta di una sorta di diagramma del senso che una comunità o una cultura ha riconosciuto al proprio abitare, tramandandolo nella configurazione visibile del proprio paesaggio, rendendo visibile ai posteri l’amore e l’identificazione con la propria terra attraverso la cura rivolta ad essa lungo i secoli. E’ quanto ci permette di “sentirci a casa”, di riconoscerci nell’appartenenza a un ben preciso orizzonte, che non è mai soltanto il risarcimento estetizzante e momentaneo di una fruizione turistica, ma, appunto, il sentirsi parte di quella cultura e di quelle tradizioni che hanno informato di sé i luoghi, ricevendone in cambio possibilità e ricchezza simbolica.

Queste considerazioni dovrebbero consentire di comprendere come nella configurazione paesaggistica di una regione sia depositato quel patrimonio d’identità, cultura e memoria che solo rende possibile il senso di appartenenza e la progettualità situata di una comunità: conservare i tratti identificanti dei propri territori non vuol dire, dunque, in primo luogo attardarsi in un fastidioso compito di tutela del vecchio, impigliarsi nei vincoli e nelle limitazioni necessarie a qualsiasi intervento che non sia nichilistica distruzione; significa invece operare affinché possa continuare una cultura, una forma di identità nelle sue interne differenziazioni e articolazioni, accanto ad altre forme e manifestazioni di identità culturale, territoriale e ambientale.

2. Regione, locale

Ma come è possibile, oggi, nell’epoca della mondializzazione, pensare di preservare dall’ondata omologante la singolarità paesaggistica e identitaria dei luoghi? Infatti la globalizzazione, che batte innanzitutto le strade dell’economia e della tecnica, ha ripercussioni evidenti anche a livello di organizzazione spaziale. La tendenza a rendere somiglianti tutti i luoghi del mondo, a dispetto delle loro diversità culturali e geografiche, è resa pressoché irresistibile dalla potenza livellante della tecnica: là dove essa arriva, tutte le forme dell’esistente subiscono una rifusione all’interno del suo linguaggio in-differente, il pluriverso e la differenziazione si trovano ad essere più o meno rapidamente sostituiti dall’uni-formità, che spiana il terreno a quell’altra potenza di deculturazione che è l’economia di profitto. In nome delle presunte necessità della competizione economica, non solo i popoli extraeuropei sono stati deculturati e sradicati, ma anche il patrimonio culturale europeo e la ricchezza delle sue interne articolazioni hanno subìto un attacco devastante, dopo la riconfigurazione spaziale, spesso non rispettosa delle reali articolazioni identitarie e delle affinità culturali, operata dalla definizione territoriale degli stati nazionali.
Inoltre, oggi la virtualizzazione della realtà tende a dissolvere definitivamente le tradizionali coordinate e il nostro stesso modo di fare esperienza dello spazio. D’altra parte tutto ciò non è che l’inevitabile conclusione dello sforzo tecnologico del secolo che si è ingegnato a fare dei luoghi una tabula rasa, utilizzando i territori come spazi amorfi nei quali dispiegare liberamente le strategie di pianificazione e di massimizzazione economica: in effetti gli strumenti a disposizione della tecnica sono così potenti da poter riconfigurare secondo piani interamente artificiali l’assetto dei luoghi, rendendoli funzionali alla logica dell’economico, che necessariamente deve astrarre dalla concreta particolarità delle situazioni: dunque la modernità tecnoeconomica si è ingegnata a distruggere le particolarità morfologiche e culturali, e già da molti anni la progettazione del territorio avviene prescindendo dalle specificità effettive, spezzando la continuità di senso che individua un luogo lungo lo correre del tempo e disarticolando il tessuto complesso della sedimentazione territoriale che ne costituisce l’identità fisiognomica. Così quella che oggi si dà a vedere è un’immagine dei luoghi senza profondità né sostanzialità storica; nella migliore delle ipotesi un mero scenario, una rappresentazione estetica o una semplice segnaletica di valori storici, tradizionali e culturali per una rapida fruizione turistica (Augé).

Occorre essere consapevoli di quali sono i prezzi da pagare in termini di identità qualora si assuma a dogma assoluto l’imperativo economico. Il presupposto dell’ideologia economicistica dello sviluppo è la libertà dai vincoli, compresi quelli rappresentati dalle specificità locali e dalle tradizioni culturali: la modernizzazione è stata appunto la violenza sradicante e livellante esercitata sull’intero pianeta in nome di un dogma economico che si è potuta realizzare con l’efficacia trasformatrice della tecnica. E’ sempre ancora questa la giustificazione accampata per le innumerevoli distruzioni perpetrate in suo nome, comprese quelle rivolte al “territorio”, concepito, in coerenza con i presupposti dell’ideologia economicistica, come qualcosa di indifferentemente appropriabile e manomettibile, o quelle rivolte contro il patrimonio culturale in nome della presunta inarrestabilità delle logiche economiche e degli imperativi della modernizzazione. Il “paesaggio” finisce allora per diventare quel fastidioso inciampo che, da parte loro, i responsabili della sua tutela (quando ci sono) spesso concepiscono nei termini di una museificazione dell’esistente o di un ripristino filologico e simulacrale di qualcosa che non esiste più, all’interno di una dinamica in cui le immagini finiscono per sostituirsi sempre di più al reale, virtualizzando e desostanzializzando il mondo: «Ora, i paesaggi contemporanei si organizzano secondo la modalità dell’immagine e del messaggio, sono univoci. Gli elementi che li costituiscono, non essendo ancorati nello spessore concreto del sito non si combinano più nello spazio ma si oppongono ai vuoti nel tumulto della loro dissonanza»2.

Ma il prendere atto di questo scenario non deve essere un alibi per liquidare quel che rimane dell’identità dei luoghi, della loro specifica e preziosa differenzialità paesaggistica e dunque culturale e identitaria. Occorre invece rovesciare l’ottica corrente: anziché partire dalla presunta immodificabilità delle tendenze all’omologazione anche sul piano della gestione degli spazi dell’economia globale, di fronte alla quali non ci sarebbe salvezza, assumere la specificità locale come quell’insieme di simbolicità, territorialità, qualità estetiche e comunitarie che dettano i modi, la misura e i tempi della dimensione economica, in continuità con i tratti identificanti della memoria territoriale, con la singolare fisionomia simbolica del paesaggio culturale che vi si esprime. In altri termini, il perseguimento dell’«equilibrio territoriale nei suoi caratteri tipici»3 non può voler dire arrestarsi all’esistente, con la conservazione museale delle testimonianze di un passato così rapidamente travolto e poi fatto oggetto di un’impossibile riappropriazione nostalgica. Se l’architettura e l’urbanistica sono pensiero e realizzazione di forme spaziali, tra i loro compiti dovrebbe esservi anche quello di ripensare con maggior rigore e profondità la propria opera in relazione al paesaggio: volumetrie, forme, immagini, posizionamenti, arredi “urbani”, sistemazione del territorio, tracciati e aspetti della viabilità, assetto complessivo che si traduce in logica di equilibrio complessivo e in immagine estetica.

Non si tratta affatto di quella che sarcasticamente Alain Roger4 ha chiamato la “verdolatria”, un ecologismo che riesce a pensare solo le ragioni di una presunta naturalità ma che fatica a comprendere la natura profondamente “culturale” del paesaggio, l’intreccio pressoché indissolubile di “ambiente” e “uomo” che si esprime nella forma e nelle possibilità del “territorio”. Se «il Territorio dice la complessità dei modi in cui è stato compreso, praticato e vissuto da ogni collettività l’incontro con la terra e l’ordinamento territoriale, ed è un incontro molteplice che ha dato luogo a più logiche che possono anche coesistere e sovrapporsi in uno stesso spazio»5, non vuol dire che tutto possa coesistere, pena la compromissione, talora irreversibile, dell’identità culturale e simbolica dei luoghi e delle comunità che li abitano.

Al pensiero della gestione territoriale, in termini politici, amministrativi, progettuali, quel che è mancato finora è stata una rappresentazione delle differenze, delle sedimentazioni storiche e temporali, degli aspetti qualitativi, e anche di quei “colori” e di quelle “figure” che compongono, con il loro gioco di differenze, la realtà dell’insieme dei luoghi. E’ la nostra rappresentazione che deve cambiare, imparando a cogliere le differenze e le singolarità, le infinite sfumature della realtà, tutte indispensabili a comporre il volto della terra: differenze non rinserrate in sé, ma esposte, de-finite ognuna da ogni altra. L’identità si dà solo con l’alterità che traccia il mio limite, consentendomi di assurgere a figura, a forma riconoscibile, a profilo singolare e inconfondibile che deriva da una separazione e da uno stacco contrastivo da ciò che circonda. Dunque, il limite o il confine «de-finisce non come perimetro entro il quale si possa cumulare e capitalizzare il proprio; esso non chiude più di quanto non apra, è esposizione ad un’alterità che contribuisce a segnarne il tracciato»6. Nell’omologazione mondialista, invece, sono abrase le figure, e le forme vengono ridotte all’indifferenziato e all’intercambiabile, lo spazio concreto è ridotto alla sua astrazione manipolabile, in un linguaggio dell’uniformità che riflette la povertà significante di uno spazio concepito come dimensione della circolazione di persone e merci o della comunicazione di informazioni e tecnologie. Ma i luoghi perdono di sostanzialità e di identità quando sono assoggettati all’unica logica della comunicazione, sia essa quella del traffico, o quella della circolazione dei messaggi: nei due ideologemi complementari del nostro tempo, la velocità e la comunicazione -in cui propriamente non si comunica che la vuotezza di un’autoreferenzialità, la virtualità o l’ideologia del flusso comunicativo- il mondo, nei suoi possibili significati intrinseci, è soppresso nella ridda di simulacralità e di elementare in cui sempre più potentemente la tecnica moderna, con la sua logica dissolvente, lo sprofonda.

Se dunque si assume che ogni paesaggio possa essere definito una località7 culturale, la manomissione della sua identità formale e simbolica avrà come conseguenza non solo uno stravolgimento dei valori estetici, memoriali e naturalistici, ma costituirà anche una lesione del sistema di identificazione culturale, in quanto attribuzione e sottolineatura di significati simbolici tramite i quali è possibile riconoscere la coappartenenza tra una determinata forma di cultura e l’insieme geografico-ambientale in cui ha impresso il proprio stile: quello che Spengler chiamava “il paesaggio materno” di una cultura. Se ogni cultura, nascendo in un “paesaggio” e in una lingua, dunque in un universo simbolico, contrassegna in modo specifico e singolare le forme del proprio luogo naturale, così che è possibile parlare di uno “stile” del paesaggio, è evidente che l’alterazione del rapporto di equilibrio con l’ambiente o un intervento dissonante con la fisionomia del luogo (ciò che registriamo come “degrado” o “aggressione” dei valori paesaggistici), lungi dal potersi confinare nel campo marginale dell’estetica, concerne le stesse condizioni dell’identità culturale (dell’insieme e dei singoli8).

Non basta constatare che la caoticità e il disordine crescente dei luoghi producono un disorientamento percettivo, un disagio complessivo che si traduce in comportamenti patologici e devianti; occorre riconoscere che «mentre la scomparsa di un riferimento nella mappa mentale provoca disorientamento topografico (dove sono?) la sua alterazione nell’ordine formale determina una crisi di identità (chi sono?)»9. In altri termini, la possibilità stessa di sentirsi appartenenti a una civitas, a una comunità, risiede in un orizzonte riconoscibile nel quale essere in sintonia con gli ascendenti e i venturi: «in questa rassicurazione di appartenere al continuum di un ordine inestinguibile con la nostra morte individuale consiste il senso del nostro appartenere alla civitas»10. E’ questo il motivo per cui la configurazione paesaggistica di un singolo luogo o di una regione può venir modificata soltanto mantenendola coerente con l’immagine che da sempre se ne ha, con quella forma che, pur prodotta da soggetti diversi lungo il corso del tempo, perennemente incompleta, «è perfettamente e unitariamente riconoscibile e costante nel tempo»11. Non va dimenticato che la parola “cultura” ha un etimo rivelatore, il latino colere, che mostra come il senso dell’abitare sia indisgiungibile dal coltivare, l’aver cura, il venerare e l’abbellire, analogamente a quanto accade con il termine tedesco Bauen, che indica nel suo spettro semantico la profonda solidarietà del custodire e coltivare il campo, dell’erigere edifici, dell’aver cura, e dunque, in ultima istanza, dell’essere. Abitare un luogo vuol dire dunque prendersene cura attraverso i modi del costruire, del coltivare, del perpetuare i tratti identificanti del suo darsi, e anche onorare il suo carattere sacro, il suo genius loci, il che significa riconoscere che in ogni luogo c’è altro oltre all’uomo, e di più rispetto alle dimensioni visibili, la cui presenza e persistenza richiede rispetto e responsabilità.

Se ogni comunità o cultura deve poter mantenere le sue caratteristiche attraverso un senso di appartenenza ai luoghi, vorrà dire che occorrerà contemplare altri valori e altri criteri oltre a quello economico, che, se assunto nella sua assolutezza, agisce come elementarizzazione e imbarbarimento delle forme di vita, producendo innumerevoli scompensi, disagi e anche diseconomie. Da questo punto di vista il propugnare l’esclusivo valore dell’economia è il più sicuro mezzo per liquidare quello che resta delle identità regionali o locali, o per continuare a sottomettere territori dotati di storia, cultura e logiche proprie, ad altri diversi: penso, in particolare, alla soggezione delle regioni alpine al sistema economico padano, che ha privato la montagna della propria identità e della propria ricchezza tradizionale12, accentuandone la dipendenza dal mondo della pianura, piegandola all’utilizzazione da parte dell’area padana, dotata di simboli, storia, stili ed anche economia profondamente differenti. In realtà la regione alpina è un caso esemplare di area omogenea, culturalmente e paesaggisticamente, dotata di una ricca identità, orientata, più che alla pianura, in senso transfrontaliero da interne affinità che la rendono una regione composta da territori e logiche affini, ma differenziali e di principio inassimilabili alle logiche territoriali delle pianure metropolitane alle quali il disegno astratto dei confini nazionali degli stati moderni l’ha subordinata.

Occorre dunque riconoscere che identità e affinità culturali configurano le regioni e i territori secondo realtà indipendenti dalla cartografia ufficiale degli stati, come è il caso della Regio Insubrica o dell’Euregio Tirolo, con la necessità di realizzare la propria fisionomia -anche economica- in modo autonomo, appropriato, locale. Bisogna naturalmente essere consapevoli che, al contrario di quanto afferma l’ideologia della mondializzazione, «il locale è una chance, la tradizione è un orizzonte, l’identità è una conquista. Il locale è una chance, un’occasione, un’opportunità; non il simbolo di una resistenza alla modernizzazione, ma la forma normale, e quindi ogni volta moderna, di stabilire in un luogo il senso della vita collettiva, lo sfruttamento giudizioso di una dotazione di risorse e di possibilità, il modo d’uso di una specifica forma del territorio. Locale è quindi una progettualità situata»13. Del pari l’identità che vi si riconnette non è qualcosa di monolitico, perennemente uguale a se stesso, pateticamente museale, bensì un processo di identificazione che avviene anche nel confronto con altre identità culturali, preservando e affermando le rispettive specificità.
L’identità dunque, più che un’immobilità e un possesso automatico, è un ritornare presso di sé, ossia un costante e necessario ricollegarsi al proprio orizzonte culturale, ogni volta interpretandolo e rendendolo così sempre vivo e attivo, forza di trasformazione, ma anche di continuità senza la quale ogni identità sarebbe impossibile; dunque anche compito, elaborazione, cura di una dimensione senza la quale tutto non sarebbe che la barbarie regressiva e dissolvente della deculturazione, dello sradicamento, della perdita di orientamento e orizzonte.

Ma, appunto, se l’identità è innanzitutto locale, è il riconoscimento indispensabile di una “prima radice”, quel bisogno di orizzonte che altrimenti rischia di manifestarsi regressivamente, con violenza ancor più dissolvente, o come chiusura campanilistica e rétro, occorre comprendere che «ogni società locale organizza in modo unico e peculiare il suo territorio, ne rende riconoscibili le specificità in termini di relazioni di potere, appartenenze ‘primarie’, limiti e confini, uso delle risorse naturali, culture»14. Per questo, leggere fisiognomicamente il paesaggio è compiere un viaggio simultaneo nelle varie forme di azione e di significazione della cultura, in ambito naturale, storico e simbolico. Come una sorta di sismogramma molto sensibile, i luoghi registrano, spesso indelebilmente, l’ampiezza e la profondità dell’intervento umano. Essi sono “porosi” alla stratificazione di tracce, di segni, di sovvertimenti, di ripristini e di distruzioni, umani e naturali: non sono mai quei territori spogli di connotazioni che s’immagina una “pianificazione” meramente ingegneristica, sprovvista di altri criteri oltre a quello della fattibilità tecnica.
Il concetto di appropriatezza, appunto, «indica il rifiuto dell’univocità delle soluzioni tecnologiche, e quindi la tendenza a una piena e corretta valorizzazioni delle risorse locali»15, oltre che all’individuazione delle modalità locali di innovazione16. In altri termini, il paesaggio o la specificità regionale, come del resto è accaduto in passato, può trovare forme dell’economia appropriate localmente, senza essere appiattito, smembrato o devastato all’interno di logiche universalistiche e indifferenzianti: come è stato detto, «lo sviluppo locale si deve configurare come sviluppo del locale, nell’ipotesi che una situazione di ‘localismo eterodiretto’ sia una contraddizione in termini: la crescita di sistemi locali funzionale a logiche globali non si può definire sviluppo locale»17.
3. Il compito dell’identità

Concepito all’interno di questo orizzonte di pensiero, il “paesaggio” finisce di essere quell’impossibile oggetto vagheggiato dai nostalgici o osteggiato dagli innovatori. Anche la sua indubbia, ed essenziale, dimensione estetica non è più semplicemente il diletto che ne trae lo sguardo più o meno competente dell’osservatore esterno o la soddisfazione in varia misura predatoria del turismo; ritorna a essere la qualità intrinseca in cui si esprime l’alleanza con i caratteri naturali, ma anche intrinsecamente simbolici, del luogo, la sapienza dell’interazione con l’esistente: dunque l’assenza o la presenza di qualità estetica di un territorio manifesta in realtà il tipo di cultura, i suoi orientamenti, la sua vitalità e può costituire perfino un indice prognostico della sua capacità di perdurare. Si tratta evidentemente di un carattere non assimilabile a quella superficiale e falsa patina di estetizzazione perseguita dalla società contemporanea, come cosmetizzazione o fissazione museale di oasi protette o privilegiate in un panorama generalmente degradato e dissolto nella logica dello sfruttamento tecnoeconomico. In altri termini non basta qualche bella realizzazione isolata, e nemmeno è sufficiente la pur importante cura dell’abitare privato, se poi tutto attorno il cosiddetto territorio è abbandonato a se stesso o sottoposto a logiche d’uso che non può sopportare. Solo comunità realmente responsabili possono contrastare la tendenza all’anonima informità che avanza sotto le specie di una ragione economica, in realtà cieca, e della devastazione complessiva dell’ambiente naturale e storico.

Per questi motivi il tema dell’identità culturale, che si esprime attraverso la configurazione paesaggistica, richiede un pensiero del governo del territorio più avvertito di quelli normalmente messi in atto tramite una mera pianificazione economico-ingegneristica, perché entrano in gioco, e non marginalmente, aspetti non quantificabili, né monetizzabili, né calcolabili, quali le dimensioni simboliche, religiose, storiche, memoriali che identificano un luogo inteso come soggetto vivente, «dotato di identità e complessità di relazioni fra ambiente fisico, antropico e costruito»18. E’ anche per questi motivi che è inaccettabile una pianificazione proveniente dall’esterno, da un organo centrale, metropolitano o nazionale: il locale non è un che di periferico che dovrebbe venir “pianificato” dal potere centrale, con stili d’intervento comunque poco calibrati rispetto alle peculiarità territoriali; è innanzitutto una dimensione di forte simbolicità (in cui si sostanzia il senso di riconoscimento e di appartenenza) non inscrivibile, pena il suo annullamento, in codici generalistici. E’ necessario, invece, che la valorizzazione della singolarità dei luoghi accada innanzitutto con una riappropriazione simbolica, ecologica e anche produttiva da parte delle comunità, che ne potenzi le qualità intrinseche e le risorse interne anziché mortificarle o dissiparle in ossequio a modelli esterni e omologanti: è la logica pluriversa che afferma molti stili e diverse misure, ciascuna appropriata singolarmente, della realizzazione economica rispetto alla centralità e agli spazi che devono essere riconosciuti all’abitare.

Occorre ricentrare sul locale il pensiero che si traduce in progettazione territoriale: tenendo fermo che «il locale non è il periferico, ma allude alla dissoluzione della categoria stessa di perifericità», in una situazione in cui l’idea di nazione viene dissolta sia dalla globalizzazione dell’economia e dalla transnazionalizzazione dei flussi comunicativi, sia dall’emergenza ambientale, che da quel significativo ritorno di un gioco d’identità regionale plurale, dell’affermazione di orizzonti locali, che ridisegna la cartografia europea, arricchendola di figure e colori, secondo quella che è stata definita la logica del singolare-plurale, un logos del molteplice. Si riconfigura quindi anche la relazione centro-periferia, metropoli-provincia, in una nuova teoria e in pratiche diverse del locale, dal momento che «la perifericità del globale si ritrova nella dimensione territoriale: se il centro attorno al quale ruota l’esistenza di un soggetto locale è il suo stesso territorio, poiché proprio lì sono dislocati gli elementi di ricchezza riconosciuti tali da quel soggetto, le dimensioni spaziali del globale […] non possono che stare all’esterno, o ai margini, o nella periferia, delle geografie reali di esistenza dei sistemi locali»19.

Questo significa anche una radicale messa in discussione dei principi di organizzazione funzionalistica del territorio, la cui idea di zonizzazione non ha fatto che generare nonluoghi e atopie, scardinando l’ordine profondo dello spazio geografico e culturale. Occorre invece puntare alla realizzazione o al mantenimento di «luoghi singolari, abitabili, simbolicamente appropriabili, trasmissibili, sani, la cui organizzazione e coerenza spaziale percepibile su scale diverse sono il risultato di una logica simbolica e funzionale»20, con l’adozione di un paradigma “territorialista”21. Questo non può avvenire che sul terreno elettivo di spazi regionali omogenei geograficamente e culturalmente, dunque secondo un disegno territoriale basato non su astratte ripartizioni politiche o amministrative, bensì su reali affinità di carattere culturale, bioregionale, storico, linguistico.

E’ un disegno che non può trincerarsi in un’idea di chiusura intollerante, né di patetismi folcloristici e nostalgici, ma deve pensarsi nella riarticolazione territoriale e culturale, liberandosi necessariamente dalla obsoleta mappatura dei confini nazionali per essere in grado di conseguire gli obiettivi di valorizzazione e salvaguardia aperta delle differenze in un’epoca di mondializzazione: «l’appropriazione simbolica del paesaggio è una delle condizioni per la fondazione di un soggetto comunitario locale, ossia di una coscienza sociale di appartenenza a uno stesso luogo, a una stessa natura»22. Una vita comunitaria connessa ai luoghi è ciò che si cerca di costruire (o di mantenere), in un’identità leggibile nei paesaggi vissuti, e dunque inevitabilmente sempre anche trasformati, a partire dall’eredità ricevuta dal passato, sullo sfondo di una trama di società e culture che entrano in rapporto attraverso il riconoscimento delle reciproche differenze, dunque secondo un modello federalista che si costituisca in paradigma necessario di fronte all’obsolescenza delle forme tradizionali di organizzazione centralista e dell’idea di nazione come contenitore unificante e semplificante delle potenzialità di un fecondo pluriverso.

Luisa Bonesio

Insegna Estetica nell’Università di Pavia. Studiosa di estetica del paesaggio e di geofilosofia, si sta dedicando da alcuni anni all’elaborazione di un pensiero delle differenze territoriali. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La terra invisibile (Marcos y Marcos 1993); Geofilosofia del paesaggio, Mimesis 1997 e 20012(V. recensione); Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani (con Caterina Resta, Mimesis 2000). Ha curato e postfato l’edizione italiana dei volumi di J.-L. Nancy Un pensiero finito, Marcos y Marcos 1992 e Luoghi divini e Il calcolo del poeta (Il Poligrafo 1999); di L. Klages, L’uomo e la terra (Mimesis 1999), di W. F. Otto, Lo spirito europeo e la saggezza dell’Oriente (SEB 1997); di L. Klages, L’uomo e la Terra, Mimesis 1998; di AA.VV., L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, Mimesis 1999 e i volumi, di cui è anche coautrice, Geofilosofia (Lyasis 1996); Appartenenza e località: l’uomo e il territorio (SEB 1996); Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione (Arianna 2000) e Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo(Herrenhaus 2001).
Ha pubblicato inoltre parti del volume inedito di scrittura Montsalvat in “Gli immediati dintorni”, “Frontiera”, “Bloc notes”, “Letteratura Tradizione”, “Hesperos” e nelle pagine culturali de “La Provincia di Sondrio”.
Ha curato la realizzazione del sito web http://www.geofilosofia.it/
Per ulteriori informazioni vedere la pagina dettagliata.
Note

1- M. Veneziani, Comunitari o liberal. La prossima alternativa?, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 11.

2- M. Courajoud, Le paysage, c’est l’endroit où le ciel et la terre se touchent, in A. Roger (a cura di), La théorie du paysage en France (1974-1994), Champ Vallon, Seyssel 1995, pp. 150-151.

3- M. Mini, Il territorio e la sua conoscenza. Problemi e metodi, “L’ingegnere”, 6, 1979, p. 270, cui si rimanda per la definizione degli elementi che devono entrare in una corretta e completa analisi del territorio in vista della pianificazione.

4- A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997.

5- E. Fiorani, La crisi della territorialità e dell’appartenenza, in L. Bonesio (a cura di), Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione, Arianna, Bologna 2000.

6- C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, Angeli, Milano 1996, p. 101.

7- Per il concetto di “luogo”, M. Heidegger, “Costruire, abitare, pensare”, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.

8- In questa ottica andrebbero indagate, più di quanto sia stato fatto finora, le sindromi depressive e suicidarie che si manifestano con particolare incidenza nelle vallate di montagna, e proprio in quelle che “godono” di un maggiore “sviluppo” economico (e che quindi sono quelle più esposte alla lacerazione del tessuto tradizionale dell’identità), come per esempio il Trentino-Alto Adige e la Valtellina. Il che mostra anche la fragile illusorietà dell’idea che la possibilità di svincolarsi dall’appartenenza territoriale, grazie, per esempio, alla telematica e allo sviluppo della comunicazione, costituisca comunque una forma di emancipazione e un’inevitabile meta del “progresso”. In realtà, la questione non può essere risolta né con un impossibile ritorno a condizioni di vita ormai cancellate, né con una cieca identificazione con le ragioni del “nuovo”. Proprio gli sviluppi della telematica potrebbero forse coniugarsi con una nuova valorizzazione dell’appartenenza, e dunque della differenza.

9- M. Romano, L’estetica della città europea, Einaudi, Torino 1993, p. 137.

10- Ibidem.

11- Ivi, p. 138.

12- Per un’analisi di questi aspetti, cfr. E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano 1979 (“Il paesaggio alpino: l’irrisione e l’integrazione”): «La crisi degli ultimi decenni del mondo alpino deriva proprio da questo, da questa emarginazione che cerca di superarsi, di elidersi. E’ stata infatti una crisi di totale sottomissione al mondo esterno, crisi di sfiducia verso i valori che sostenevano i vecchi modi di produzione, demoliti, umiliati da quelli più facili […] Ed è vero, ad esempio, che là dove questi modelli -i modelli italiani- sono stati meno recepiti, come nel mondo altoatesino, una vera e propria crisi non vi è stata» (pp. 214 e 215).

13- G. Paba, Ipotesi di un’urbanistica ben temperata, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio dell’abitare. Lo sviluppo come alternativa strategica, Angeli, Milano 1998, p. 423.

14- M. Giusti, Locale, territorio, comunità, sviluppo. Appunti per un glossario, in A. Magnaghi, op. cit., p. 152.

15- Ivi, p. 163.

16- «Lo sviluppo locale […] non può prescindere dal controllo locale dell’innovazione: intanto per i già considerati motivi -politici- di autocontrollo delle variabili del luogo; ma poi anche perché lo sviluppo dell’innovazione nel luogo stesso della sua successiva applicazione ai processi produttivi concreti […] determina presumibilmente un contributo alla preselezione nei confronti delle variabili non appropriate (in considerazione della conoscenza puntuale e continuamente verificata della situazione -fisica, sociale, economica…- del luogo» (Ivi, p. 164).

17- Ivi, p. 161.

18- A. Magnaghi, Per una nuova carta urbanistica, in A. Magnaghi, op. cit., p. 33.

19- Ivi, p. 142.

20- P. Donadieu, Pour une conservation inventive des paysages, in A. Berque (a cura di), Cinq propositions pour une théorie du paysage, Champ Vallon, Seyssel 1994, p. 76.

21- Il che comporta una valorizzazione di »percorsi reticolari e diffusi di reidentificazione del territorio sommerso dalle funzioni della crescita che qualificano i comportamenti di quote crescenti di abitanti su temi ambientali urbani e territoriali» (A. Magnaghi, Per una nuova carta urbanistica, in A. Magnaghi, op. cit., p. 39).

22- Ibidem.

L’artigiano

“L’artigiano quando fabbrica oggetti identici fra loro, deve tuttavia cogliere questa identità con una certa differenza di pensiero e può perciò produrre qualcosa di nuovo in quanto trasporta nell’identico qualcosa di diverso”.

Plotino

La sofferenza

La sofferenza – per quanto strano ti possa suonare – è il mezzo tramite cui esistiamo, in quanto è l’unico che ci rende consapevoli di esistere; e il ricordo della sofferenza nel passato ci è necessario come garanzia, come prova, che la nostra identità continua.

Oscar Wilde

Sui miti

Una lettura attenta dei miti può dare alcune risposte alle domande sull’identità e sulle ragioni della miseria psichica di molti esseri umani.  I racconti mitici non sono semplicemente dei romanzi d’avventura che narrano di un conflitto di interessi tra fazioni aspiranti a qualsivoglia forma di potere, né tantomeno racconti divertenti dove la magia e il meraviglioso si mescolano all’invenzione. Certo, anche nel mito non mancano maledizioni e metamorfosi che si susseguono fino al raggiungimento di situazioni critiche, le quali si risolvono in favore di questo o di quello, contribuendo così alla creazione di un’atmosfera incantata. Tuttavia questa dimensione fantasmagorica sollecita una modalità di pensiero in cui i sogni, gli incubi, i fantasmi che animano la nostra coscienza e il nostro inconscio, si sovrappongono.

Henry Thomas

Confini indistinti

L’incertezza dei confini comporta, per la conoscenza psicologica, che non può
diventare una scienza autonoma, con una definita identità, senza che l’anima
sia ridotta in uno stato di costrizione, di esilio, per la perdita della sua
complessità – “i confini dell’anima vai e non li trovi, diceva Eraclito, anche
a percorrere ogni sua via; così profonde essa ha le sue radici”.

Francesco Donfrancesco

 

Crisi di identità

Abbiamo tutti crisi di identità, perché un’identità singola è un’illusione della mente monoteistica che, ad ogni costo,  vorrebbe sconfiggere Dioniso; abbiamo tutti una coscienza dispersa in tutte le parti del nostro corpo, uteri vagabondi; siamo tutti isterici. L’autenticità è nell’illusione, nel recintarla, nell’osservare in trasparenza dal suo interno mentre la recintiamo, come un attore che vede attraverso la sua maschera e solo in questo modo può vedere.

James Hillman

“Cuccioli impauriti”

Tesoretti, ecco Matteo ed una sua riflessione molto gentile ed intensa. Leggete anche la mia risposta.

Siamo cuccioli inpauriti che hanno smarrito la loro identità e indossiamo maschere, vestiti chiusi da bottoni per cercare sicurezze e in base al vestito che indossiamo il cucciolo che è in noi si apppropria di un’identità che è data dal vestito, ma noi rimaniamo sempre cuccioli impauriti.
Probabilmente noi indossiamo tante maschere perchè ogni maschera è frammento di noi, una parte di noi e nel momento in cui c’è “fissità” in una maschera ne diventiamo prigionieri e anche se a volte sembra piacerci sempre di una catena anche se dorata stiamo parlando.
Quindi che dobbiamo fare? forse dobbiamo accettare le nostre maschere/vestiti e amarle, unendole tra di loro con una lunga cucitura unica che ci faccia amare quello che siamo e ci permetta, quindi, di amare un poco anche gli altri.
Con affetto
Matteo

Caro Matteo, noi siamo non soltanto cuccioli impauriti, ma anche smarriti. Non è la stessa cosa.