Lo scudiero del re

Siamo tornati!! Bella questa puntata!

E a proposito di Farfalla-Anima ecco
“Lo scudiero del re”
fiaba tratta da “Le fiabe per vincere la paura”…

Lo scudiero del re

La fedeltà è senza dubbio una virtù.
E Crimildo, scudiero prediletto del gran re Asdrubale, era la fedeltà fatta persona.
Era come se Crimildo non avesse una propria volontà, come se non fosse un essere pensante: no, lui agiva per volontà del re, del suo re per il quale, avesse avuto dieci vite, tutte e dieci avrebbe volentieri donato.
Tra l’altro, il fatto che Crimildo fosse lo scudiero preferito del re suonava strano a tutta la corte.
Gli scudieri erano tutti alti, forti, prestanti, aitanti, dei veri guerrieri impavidi e sfrontati, rodomonti e spaccamontagne, assetati di sangue da bere al cospetto del re.
Ma Crimildo lo beveva ai piedi del re.
Crimildo era curvo, il naso aquilino che tentava un improbabile parallelismo con le spalle, decisamente brutto, il viso butterato e il ventre prominente, le storte gambe perennemente protese a evitare che le ginocchia si scontrassero, il fisico strambo al quale nessuno avrebbe attribuito la forza di sostenere l’armatura.
Eppure era il preferito, assolutamente il prediletto.
Crimildo era scaltro. Lui coglieva i sentori del volere del re ancor prima che questi esprimesse l’imperio: uno sguardo all’imponente figura di Asdrubale, il suo re, e la battaglia prendeva una china anziché un’altra, una ritirata strategica simulava un attacco, un’ambascia criptata recapitava un fondamentale volere, un desiderio terreno era subito esaudito.
Crimildo aveva una dote speciale: sapeva”essere” il re, gioiva nel vederlo gioire, smaniava nel vederlo smaniare, pensava per lui e con lui, ne captava il benché minimo mutamento d’umore, distillava la sua volontà in gocce di azione.
Ma la corte non comprendeva sino in fondo questa totale aderenza, non capiva perché il re preferisse i servigi accorti e un po’ sotterranei di Crimildo alla brutale concretezza degli altri scudieri.
E così Crimildo era solo, evitato da dame e cavalieri, con l’unico piacere di servire il suo re e da questi essere amato.
Asdrubale era un re sanguinario e belligerante, amante dei piaceri terreni e bramoso di potere, sprezzante e temerario tanto in battaglia quanto nella vita di corte.
E il fido Crimildo sempre al suo fianco. Non era una guardia del corpo.
Crimildo non ne aveva né la prestanza né la baldanza.
E poi Asdrubale non ne aveva bisogno: era forte e risoluto, impavido e vittorioso, oltre che sempre circondato dalla guardia dei suoi pretoriani, un corpo scelto di trenta guerrieri votati alla morte che non avrebbero mai permesso a un nemico neppure di avvicinarsi al re.
No, Crimildo era molto di più di una guardia del corpo.
Era l’interprete autentico dell’anima del re, ammesso che ne avesse una, era l’unico a vederlo piangere nelle notti insonni, quando gli auspici non erano forieri di buoni pronostici, era l’unico che ne conosceva le profonde debolezze, le insane paure che, a volte, lo attanagliavano alla gola come una barbara morsa da lasciarlo senza fiato e madido di sudore.
Ed erano paure profonde, remote, spirituali si potrebbe dire.
Asdrubale non aveva infatti paura di niente e di nessuno: con un pugno poteva atterrare un bufalo, con un urlo poteva atterrire una fiera.
No, lui aveva paura di dover, un giorno, scontare le proprie immani nefandezze, paura che ogni rivolo di sangue versato ritornasse a lui annegandolo in un rosso mare di velluto, paura che l’inflessibilità atroce riservata ai nemici fosse a lui servita un giorno sopra un piatto di ossa e in un calice a teschio.
Ed ecco Crimildo a consolarlo: “Maestà, ciò che lei infligge ai nemici è la giusta punizione, le sue leggi sono le leggi della forza e quindi nessuno può opporvisi”.
E così via, in un costante rafforzamento della volontà reale.
A Crimildo inoltre venivano affidati dal re i compiti più difficili.
Se la battaglia o la guerra stavano volgendo a sfavore, ecco Crimildo, novello Odisseo, incaricato di volgere a favore con l’astuzia e con l’intelligenza ciò che la forza non riusciva; se un altro re non voleva giungere a patti alle condizioni di Asdrubale, ecco che Crimildo interveniva: o con il sequestro di un figlio o con il ricatto o con l’assassinio a tradimento.
Una volta Crimildo fu inviato ad assassinare il potente re Volpedo, nemico di Asdrubale, insieme a tutta la sua famiglia.
Crimildo si finse uno storpio guaritore, inventore di magici intrugli fornitori della vita eterna, che mescolò al cibo della regale famiglia la quale morì avvelenata tra atroci tormenti.
Quella volta fu la prima volta che la vide.
Una nera, grande farfalla, adagiata sulla parete della sala da pranzo di Volpedo, un’inquietante messaggera inviata ad assistere al misfatto e a registrarne gli esiti nefasti.
E da quel giorno sempre la vide.
A ogni azione nefanda, ad ogni assassinio, ad ogni levantino ricatto, ad ogni tortura e supplizio, ad ogni deprecabile azione.
La nera farfalla era sempre presente: a Crimildo ora sembrava l’immagine stessa della morte, ora un vessillo divino, ora l’anima degli uccisi, ora un incaricato divino che riportava il cumulo de peccati che lui avrebbe dovuto scontare. Inflessibile come Asdrubale, il suo re, ma molto, molto più tremendo perché lo avrebbe condannato per l’eternità.
Un giorno, la fiera città di Sandronia, rivale di Asdrubale per i commerci di vino e di olio, venne attaccata da questi deciso ad avere il monopolio dei guadagni.
Asdrubale era convinto di piegare la città in breve tempo: le sue truppe erano cariche e assetate di sangue e di bottino, gli auspici erano stati favorevoli, Sandronia era ricca, ma poco abituata a combattere.
Ma nonostante il ferro e il fuoco, gli assalti continui, gli arieti e le catapulte, Sandronia resisteva.
I suoi abitanti, protesi al bene comune, davano volentieri la vita per la salvezza della città e l’olio non mancava da rovesciare bollente sui soldati di Asdrubale che morivano come cavallette.
L’assedio fu intensificato, si protraeva, ma Sandronia resisteva.
Ci voleva Crimildo.
Egli si travestì da vecchia levatrice e si presentò alle porte della città come un dono di pace di un Asdrubale ormai rassegnato.
Che potevano temere gli abitanti di Sandronia da una vecchia levatrice? Nulla, anzi ce n’era bisogno, molte erano morte nell’assedio e la città aveva bisogno di giovani.
Ma la vecchia levatrice di notte ritornò a essere lo scudiero del re che aprì le porte ai soldati e diede inizio alla strage uccidendo per primi proprio i neonati.
E mentre ne squartava uno, ecco posarsi sulla sua spalla la nera farfalla, in un fremito, in un tremore delicato e inquietante che tolse a Crimildo le forze.
Da un po’ di tempo la nera farfalla lo visitava anche in sogno; solo che in sogno essa parlava.
Crimildo si rivolgeva spesso a lei per cercare di capire chi essa fosse, che cosa volesse, che cosa rappresentasse, che cosa portasse in messaggio, ma la farfalla, invariabilmente, con una voce di fanciulla, rispondeva:”Io sono, tu sei”.
Sempre e comunque, a qualsiasi domanda Crimildo ponesse, la risposta era la stessa:”Io sono, tu sei”.
E così, dopo quelle notti, dopo quei sogni, Crimildo si svegliava sconvolto incredulo e dubbioso, con il terrore di vedere apparire davvero la nera farfalla alla prossima nefandezza.
E questa appariva, sempre, nel momento del maggiore inganno, della più tremenda crudeltà, silenziosa e inerte, ma terrificante nel suo insoluto significato.
Un giorno Crimildo doveva compiere l’ennesima scelleratezza.
Il re Asdrubale si era invaghito di una giovane fanciulla, Pulcra, figlia di un povero fabbro e di una lavandaia.
Crimildo aveva capito da tempo la passione e le intenzioni del re: non era certo la prima volta che il re gli faceva rapire una fanciulla che, dopo essere stata ridotta in schiavitù, veniva personalmente sgozzata dal re non appena gli veniva a noia.
Ma adesso era diverso, Crimildo sentiva un brivido nella schiena, una strana paura, un’inquietudine come quando si scorge all’orizzonte una tromba d’aria che si sta avvicinando e che sappiamo ci coglierà nel vortice del suo turbinare.
Così Crimildo tergiversava, adduceva motivi strategici e politici impellenti per rimandare il rapimento.
Ma la pazienza del re era terminata, la brama verso Pulcra non lo faceva dormire.
Crimildo doveva adempiere all’ordine, doveva rapire Pulcra.
Arrivato alla povera casa della fanciulla con un drappello di soldati, legati e imbavagliati i genitori, la prima cosa che fece Crimildo fu di esplorare pareti e suppellettili alla ricerca della farfalla nera.
Ma non la vide. “Che strano”, pensò Crimildo.
L’assenza della farfalla lo inquietava più della sua presenza.
Ma doveva agire, portare a compimento la volontà del suo re.
Si accingeva a compiere il misfatto, legando la fanciulla e strappandola alla sua casa, quando questa parlò.
“Crimildo, fido scudiero del re, basta con i misfatti, i delitti, le scelleratezze; sei ancora in tempo a cambiare la tua vita e a salvare la tua anima, lasciami libera di volare!”
E tra il terrore e la meraviglia di Crimildo, la splendida fanciulla si trasformò in una nera farfalla che si librò in volo sopra di lui.
Crimildo temette di svenire, barcollò, sudava freddo. Ma comprese.
Il re lo avrebbe giustiziato di sicuro, ma almeno avrebbe avuto la vita eterna.
Un rinnovato Crimildo si presentò quel giorno al cospetto del re.
“Maestà”, disse lo scudiero, “non posso più compiere misfatti, giustiziatemi per avervi disobbedito e deluso, ma io d’ora in poi non compirò più azioni malvage!”
Un rinnovato re rispose a Crimildo:”Mio fido scudiero, anch’io mi vergogno profondamente delle nefandezze compiute; ho appena abdicato la corona in favore di mio fratello Pierotto, io mi ritirerò in convento per dedicarmi ai lebbrosi; ogni mia malefatta dovrà essere coperta da almeno dieci buone azioni. Ho deciso anche di donare ogni mio avere ai poveri e ai bisognosi e, d’ora in poi, andrò scalzo e vestito di un saio. Se tu vorrai, mio caro Crimildo, d’ora in poi non sarai più mio scudiero, bensì mio fratello!”
Un enorme gioia, la vera gioia, pervase Crimildo.
Accettò di buon grado e da quel giorno Fra Asdrubale e Fra Crimildo vissero in santità, morendo di lebbra contratta dai molti che avevano aiutato.
E mentre stavano per morire, una farfalla nera si posò dolcemente sul volto dell’uno e dell’altro.

La ghianda racchiude ogni cosa…

La ghianda racchiude ogni cosa…

Una fiaba in dono (tratta da “Le fiabe per sviluppare l’autostima” di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra edito da Franco Angeli)

L’asino
Il mondo degli animali, si sa, con le sue multiformi e variegate moltitudini di creature, ha sempre ispirato il mondo degli umani i quali hanno attribuito, un po’ a torto un po’ a ragione le loro idiosincrasie, le loro caratteristiche più evidenti, le loro più marcate attitudini, il loro mondo onusto di significati e di significanti ai poveri animali per i quali l’unico significato della loro vita è sempre stato quello di condurre una vita più lunga possibile, in ragione delle infinite insidie, seguendo il corso naturale degli eventi preordinate per loro dall’Armonia dell’Artefice divino.
E così un individuo truffaldino ecco che diviene “furbo come una volpe”, una persona viscida e levantina è associata a un serpente, un uomo robusto è “forte come un toro”, un altro un po’ incosciente è “coraggioso come un leone”, una donna un po’ leggera è ” proprio una gattina”, una altra un po’ ingenua è “un’oca”, un bambino agile e veloce sembra proprio una gazzella, mentre un altro che a scuola fa fatica è “sicuramente un asino”.
L’antica scuola, poi, ha sempre applicato le orecchie d’asino a quei bambini che o perché un po’ tontolini, o perché il dialetto in casa loro era l’unica merce di scambio, non riuscivano a soddisfare il maestro che chiedeva di ripetere a memoria tutta, ma proprio tutta, “La cavallina storna”…che portava colui che non ritorna, così come non è mai ritornata l’autostima del povero malcapitato bambino additato a scuola per anni come l’asino.
Orbene, consapevoli di quanto le vessazioni umane sul mondo animale siano foriere di vessazioni anche sugli stessi umani, dobbiamo sapere che nel piccolo paese contadino di Terrabruciata la vita scorreva tra fatiche negli aridi campi che, avaramente, elargivano i loro frutti e fatiche casalinghe per tutte le incombenze che le folte nidiate di bambini imponevano, prima di divenire esse stesse, le nidiate, parte attiva in quelle fatiche che l’antica vita contadina portava con sé.
La vita e la morte, a Terrabruciata, avevano lo stesso significato : ineluttabile era la morte, ma ineluttabile era anche la vita, con i suoi carichi, le sue piccole e povere gioie, le sue semplici evidenze, le sue proverbiali angosce per un futuro senza speranza di cambiamento dalle miserrime incombenze, ove il freddo dell’inverno patito nei geloni delle dita e il caldo dell’estate subito nei campi riarsi scandivano con semplicità una vita pervasa da una grande religiosità che, tramite la fede, rendeva accettabile, semplicemente e amorevolmente, il decorso della storia individuale e collettiva.
A Terrabruciata le due grandi istituzioni che portavano speranza e alleviavano i pesi quotidiani erano la Chiesa e la Scuola, unici segni di un’organizzazione sociale che cercava di fornire strumenti diversi dal primitivo possesso dei fondamentali della vita.
E per la Scuola e la Chiesa, a Terrabruciata, vi erano grande deferenza e grande riverenza, un’accettazione incondizionata di ogni verbo rivelato dall’una o dall’altra, una genuflessione e uno “scappellamento” che non distinguevano abnegazione da protervia, così come non discernevano tra zelo e malvagità.
Nella Scuola di Terrabruciata insegnava da anni l’anziana maestra Conlabarba che in una cosiddetta “pluriclasse”, accorpava quaranta bambini di tutte le età, dai piccolini di sei anni appena sbocciati dalla porta della stalla ove dormivano al calduccio fino ai ripetenti di quattordici anni che duramente lavoravano nei campi il mattino sino alle otto, quando la campanella della scuola li richiamava ai loro altri doveri.
Conlabarba non era di Terrabruciata : lei arrivava tutte le mattine alle otto con la corriera dalla città e, appena scendeva dal predellino del mezzo, le sue mani subito scrollavano dalla giacca di tweed o dal cappotto grigio pesante l’aria fetida di pollame che stagnava, a suo dire, nella corriera, unico mezzo per i villici per andare in città dal medico, a pagare le tasse, a commerciare i loro semplici averi.
E poi, dopo questo rito inusuale, la liturgia di Conlabarba la faceva dirigersi impettita verso la scuola con il mento all’insù, gli ispidi capelli raccolti a crocchia che si elettrizzavano di recondite ire e i tacchi squadrati delle squadrate scarpe che squadristicamente risuonavano sul selciato come richiamo imperativo per i suoi alunni.
Tra essi ve n’era uno Armando, Armandino per tutti perché era gracile e malaticcio, etereo e femmineo, vulnerabile e assente, indifeso come uno scricciolo, tenero come un passerotto, sensibile come una procellaria, buono come un agnellino, orfano di padre come un vitellino.
Però Conlabarba non lo riteneva, non lo chiamava né scricciolo, né passerotto, né procellaria, né agnellino,né vitellino, ma molto , molto più prosaicamente asino.
Durante l’appello di ogni giorno, Armandino era chiamato asino già dall’inizio e la A di Armando era divenuta la a di asino.
La mamma di Armandino era una povera vedova da libro Cuore, che viveva di stenti, tisica e malferma, incapace di staccarsi dalla bottiglia che subito comprava non appena qualcuno le dava qualche quattrino.
Armandino accudiva come poteva la mamma, faceva qualche servizietto nelle case dei generosi, ma poveri contadini che gli fornivano di che mangiare per lui e per la madre, togliendo dal poco che avevano un pochino per lui.
I suoi logori vestitini erano gli stessi estate e inverno : per questo motivo Conlabarba, non appena lui le si avvicinava timidamente, ogni volta si turava il naso con le dita e, con voce nasale, imperativamente lo scacciava, stigmatizzandolo invariabilmente con l’epiteto di asino.
E così, tutti, a poco a poco, chiamarono sempre Armandino “asino” : dapprima gli sciocchi compagni di scuola, poi i ragazzi più grandi e infine gli adulti.
Sembrava quasi che il bambino, se chiamato per nome, fosse avulso e in un altro mondo, mentre se chiamato “asino” scattasse come un soldatino di stagno sull’attenti e pronto a essere vilipeso.
Conlabarba la liturgia la rispettava ogni giorno proprio tutta : l’appello con “asino”, l’interrogazione con “asino”, prima e dopo la richiesta di alimentare la stufa al1’ “asino”, il trasporto dei pesanti libri richiesto all’ “asino”, la pulizia dell’aula con scopa, paletta, secchiello e acqua gelata da effettuarsi da parte dell’ “asino”.
Alla fine persino sua madre lo chiamava asino, non appena Armandino “la faceva morire di crepacuore”, come affermava lei, magari perché i contadini in cambio dei suoi piccoli servigi gli davano tre uova anziché l’ambita bottiglia di vino.
Ormai Armandino aveva addosso l’appellativo di Asino e come tale veniva trattato : l’asino è un animale da soma e lui veniva caricato all’inverosimile, l’asino lo si bastona e lui riceveva ogni giorno la sua consueta e costante razione di legnate, l’asino mangia poco e lui quasi non mangiava, l’asino è offeso e vilipeso e lui era lo zimbello di tutti, l’asino è ritenuto ignorante e lui era ritenuto l’asino per antonomasia.
Tra le botte, la malnutrizione, la depressione, la gracilità, l’asino Armandino era destinato a una breve vita : e lui, la sera, sul pagliericcio dentro la stalla, prima di abbandonarsi esausto al sonno, pensava sempre di raggiungere il suo papà, anzi lo sperava, lo voleva, lo chiedeva a Gesù Bambino.
E poi, nel sogno, si vedeva per mano al papà, in una radiosa giornata di sole, mentre andavano a pescare o mentre il papà gli raccontava, la sera, una storia accarezzandogli le guance.
E una notte, in sogno, il suo papà gli disse : “ non ti tormentare Armandino se tutti ti chiamano asino”. “L’asino è l’animale più nobile, forte e buono, sempre pronto ad aiutare gli altri con il suo lavoro, talmente nobile con la sua umiltà che , insieme al bue, Gesù ha voluto accanto a sé nel Presepe!”. “Tu, Armando, sei nobile come l’asino, la nobiltà è nel tuo animo, e come l’asino sarai presto chiamato a grandi compiti, come l’asino riscaldò Gesù Bambino, anche tu sarai chiamato a riscaldare”.
Armando si svegliò di colpo, con una strana sensazione di leggerezza e di incredulità. Il suo adorato papà gli aveva rischiarato la mente ed il cuore : l’asino non era il più infimo e reietto tra gli animali, ma quello che con il suo fiato aveva riscaldato Gesù Bambino e lui Armando, chiamato l’asino, non era l’ultimo dei bambini, il più stupido e da massacrare come lo riteneva Conlabarba, ma era destinato ad un grande compito futuro.
Ma, passato il primo momento di euforia, Armandino si disse che era stato solo un sogno, anche se molto bello, ma solo un sogno.
Però il suo papà non aveva mai tradito la sua fiducia, non gli aveva mai raccontato una bugia! Ma no, non voleva, non poteva credere che lui, l’ultimo di Terrabruciata, l’ultimo degli ultimi, l’asino, potesse vedere la sua vita cambiata ed essere addirittura chiamato a un grande compito.
Ma era stato bello lo stesso, se non altro ora la parola “asino” gli risuonava meno sgradita, meno annichilente.
E arrivò lo zio d’America : Giuseppone, fratello del papà di Armandino, era emigrato in America per sfuggire alla terribile miseria di Terrabruciata e là, in quel Paese lontano, aveva accumulato una vera fortuna.
Lo zio prese Armandino con sé in città, lo curò, lo nutrì, lo fece studiare: Armandino divenne un brillante ingegnere e, come gli aveva detto il papà, che non gli mentiva mai, inventò l’incubatrice, quella macchina che riscalda i bambini usciti troppo presto dal calduccio del ventre materno.
Così, come l’asino riscaldò Gesù Bambino, Armandino riscaldò tutti i bambini del mondo, con quel calore che solo la nobile umiltà riesce a fornire a chi ne ha bisogno.