Porto XIII

Aurelio è l’erede al trono bretone e ha visto una terribile strage compiuta dai feroci Sassoni. Vuole allora erigere un monumento imperituro alle vittime. È il V secolo d.C. e, come al solito, chiede consiglio a Merlino.

«Come posso creare una sepoltura che sfidi i secoli e testimoni per sempre il sacrificio di questi disgraziati?» domanda al mago.

«Manda qualcuno a cercare il Balletto dei Giganti a Killaraus in Irlanda. Lì esistono pietre che potrebbero servire al tuo scopo,» risponde Merlino.

Centinaia di uomini partono per l’Irlanda, trovano il Balletto, ma non riescono a spostare di un solo centimetro le immani rocce che in cerchio delimitano la zona dei Giganti. Tornano da Aurelio che a sua volta chiede ancora aiuto al Gran Sapiente.

Merlino con un incantesimo fa volare le rocce dall’Irlanda fino alla grande piana di Stonehenge.

Questa storia è raccontata nel 1140 da Goffredo di Monmouth nella sua Storia dei re di Bretagna ed è il primo testo in cui si menziona l’anello di pietre che da allora ha appassionato studiosi di tutto il mondo e di tutti i secoli fino a noi.

Finché, nel 1965, Gerald S. Hawkins scopre, dopo interminabili studi combinatori e interdisciplinari, che l’anello di rocce megalitiche di Stonehenge è un immane calendario astronomico e astrologico.

Probabilmente serviva a scopi rituali, ma non è possibile stabilire di quali riti si tratti. Insomma, non si è poi fatta molta strada dal 1620, quando Inigo Jones, architetto della corte di re Giacomo I, annotava: «Si tratta di un tempio, ma i riti che vi si officiavano sono del tutto a noi nascosti».

«La sacralità cerimoniale del rito nasconde se stessa agli occhi dei profani e senza una chiave d’interpretazione non si penetra in essa.» Così scriveva Zum Thurm, alchimista, e le sue parole, com’è evidente nel caso di Stonehenge, sono sempre valide.

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Dove si assiste alla grande festa per la nomina di Enrico a principe di Galles…

È la sera del 4 giugno del 1610. Mezzo milione di persone sono raccolte festanti intorno al palazzo reale. Hanno il naso all’insù. Aspettano i fuochi di artificio. I migliori esperti del regno sono stati chiamati in gran segreto per preparare luminarie senza precedenti. Mai nella storia inglese una folla così imponente si è radunata per l’annuncio di uno sposalizio. E un vociare continuo, un rincorrersi di grida e di aspettative. L’attesa è quasi spasmodica. Le prime persone sono convenute nella piazza la sera del giorno prima. Ottimi affari hanno fatto i venditori di cibi, di dolciumi e gli spacciatori di pozioni di tutti i tipi. Penny e sterline rigonfiano in particolar modo le tasche dei mercanti di unguenti per la ricrescita dei capelli. Sono infatti cinque anni che le terre degli inglesi sono povere di ortaggi per i ripetuti rovesci atmosferici nel momento della raccolta della frutta. La pellagra divampa, come lo scorbuto, che causa una terribile irritazione del cuoio capelluto dovuta alla carenza vitaminica. Forse sarà anche per questo che il principe Enrico è tanto ammirato dalle donne: ha una chioma fluente che arricchisce il suo fascino.
Ma non è soltanto il sesso femminile ad ammirare il figlio di re Giacomo. Tutti lo ammirano. È forte, è deciso ed è soprattutto generoso. Dall’età di dodici anni si occupa dei problemi della sua gente e le sue passeggiate tra il popolo sono una vera e propria leggenda. Per questo ci sono cinquecentomila persone ad aspettare che sia proclamato principe del Galles. Non c’è un solo suddito inglese che non speri in lui. Tutti lo ritengono capace di rinverdire i fasti della grande Elisabetta I. Di più, potrà far prosperare tutto il paese e anche i popoli alleati. Sarà lo scudo contro la prepotenza degli Asburgo. Come un san Giorgio difenderà inoltre il suo paese dalla guerra di religione che sta diventando sempre più probabile, e questa è sicuramente la più vivida delle speranze che gonfia i cuori degli inglesi. Cuori che esultano non appena nel cielo avvampano le luminarie che assumono le sembianze proprio di un san Giorgio a cavallo. Il beato guerriero rimane nel cielo per attimi che sembrano interminabili, poi altri filamenti luminosi compongono la sagoma di un possente signore che ha delle stelle al posto delle mani, un philaster, un amante degli astri. Mentre i fuochi divampano in cielo una musica soave si diffonde, inducendo gli animi alla commozione. Quando la notte torna sovrana sulla piazza, un possente grido di giubilo irrompe per la città, sale per ogni dove, riempie ogni strada e palazzo, sfonda simbolicamente le porte della reggia e inonda le orecchie di Enrico spingendolo ad affacciarsi.
Non appena la folla lo vede ammutolisce per alcuni secondi, quindi ancora un potentissimo «hurrà!» che sembra provenire dai sentimenti profondi, dall’anima più che dalle bocche. Non basta. Si alza ancora un grido corale: «Lunga vita al principe di Galles!». Inneggiano a lui come se fosse già re. Non era mai accaduto prima e non si ripeterà nei secoli a venire. E la testimonianza visibile dell’immensa fiducia riposta in questo giovane che deve compiere il miracolo di allontanare la falce del conflitto di religione dall’Inghilterra e dall’Europa.

Come si è detto è il giugno del 1610, e due anni e quattro mesi dopo le attese di un intero popolo si rafforzano maggiormente quando sbarca a Grevesend Federico V, elettore del Palatinato. Alto, con lo sguardo penetrante, è gentile e affabile con gli umili. Sembra nei modi il sosia di Enrico. Ed è il promesso sposo di Elisabetta.
Un’unione benedetta da tutte le menti aperte del regno inglese e da quelle corti europee che desiderano fermare i conflitti di religione. E come se non bastasse, Federico ed Elisabetta si sono amati al primo sguardo. Eros, il padre di tutti gli dèi, ha colpito a fondo. L’uno sembra il completamento dell’altra. Si compenetrano e si comprendono perfettamente. Inoltre Enrico va d’accordo sul piano politico, ideale e filosofico con il futuro cognato. Hanno letto gli stessi libri, hanno le stesse speranze e nutrono una passione viscerale per l’occultismo, per la cabala e per le scienze esoteriche, come ha dimostrato sempre la Yates nel suo Cabala e occultismo nell’età elisabettiana.
È tutto così perfetto da sembrare una favola. Una situazione da arcadia tra fratello, sorella e innamorato. Non si tratta affatto di un vagheggiamento poetico, ma di una concreta combinazione che avviene nella libera Inghilterra, dove per una volta i sogni sembrano avverarsi.
Per trenta giorni si fanno i preparativi delle nozze. Dovrà essere una festa senza eguali. E proprio durante i preparativi i due promessi assistono ad alcune rappresentazioni teatrali. Sono stati Enrico, Federico ed Elisabetta à volere che fossero messe in scena due opere di un commediografo molto amato da Elisabetta I, ma adesso caduto in disgrazia sono il regno di Giacomo. Si tratta di William Shakespeare.
Le due opere sono Il racconto d’inverno e La tempesta.

Fermiamoci: è ora di leggere “attraverso” gli avvenimenti.
Iniziamo dalle due composizioni shakespeariane. Insieme con Cimbelino sono le opere a carattere magico del drammaturgo. Queste in particolare sono state create per riproporre incessantemente il tema della morte e della resurrezione. Ovvero morte a sé per tornare a sé. Una parte di noi stessi deve morire per far resuscitare una componente obliata, ma importante, che deve appunto risorgere, rinascere. È il rituale simbolico, sopravvissuto nei secoli, di Iside e Osiride. E Iside è la divinità femminile per eccellenza. Dunque i principi assistono a due commedie “magiche”, fortemente influenzate dal pensiero del maggior mago rinascimentale, Giordano Bruno. Con loro sono presenti tutti gli esponenti del cenacolo ermerico-magico di Elisabetta I e anche Francesco Bacone, il fondatore del metodo scientifico moderno.
Attenzione, i personaggi ci sono tutti. E c’è un filo unico a legare sottilmente la trama occulta: il teatro.
A uno sguardo attento lo troviamo ovunque.
Dunque i tre principi vanno a teatro e a teatro si rappresentano due commedie magiche. Tra gli altri è presente Francesco Bacone. Filosofo importantissimo.
Infatti in una sua opera, Nova Atlantis, veste i sapienti-filosofi con abiti bianchi e con un turbante bianco sormontato da un rubino. Si direbbero abiti di scena. Ma il movimento rosacrociano, che si farà riconoscere pochissimi anni dopo, afferma che gli adepti di questo gruppo devono vestire con abiti bianchi e portare un turbante sormontato da un rubino. Esattamente come i sapienti di Bacone. Questi dice che i sapienti sono in realtà i Rosacroce, basta saperli vedere. E qui è il difficile, perché i Rosacroce sono definiti e si autodefiniscono invisibili. Non scopribili appunto per nessuno tranne per chi riesce a individuarli attraverso le segrete trame, o meglio le “oscure trame” per parafrasare il titolo di un libro di Pietro Cimatti che tante cose, a questo riguardo, aveva ben individuato. Noi stiamo facendo questo, li stiamo “individuando”. Perché tutta questa vicenda verte su di un asse trasversale: il movimento dei Rosacroce e il particolare linguaggio della Yates vuole, a mio modesto giudizio, mettere sulle tracce di questo movimento.

Ritorniamo a Bacone che fa vestire i suoi sapienti come attori di teatro.
I Rosacroce, nei loro manifesti la Fama e la Confessio dicono a loro volta di vestirsi come i sapienti di Bacone, ovvero come attori di teatro.
Tutti i grandi misteri e relativi riti prevedono che l’iniziato diventi un attore, interpreti il dio che è in lui, sia questi Dioniso, il dio delle donne, o Iside stessa.
L’officiante della magia è da sempre un sacro attore.
Il teatro, in senso sacrale, unisce i maghi rinascimentali: Giordano Bruno, con la regina Elisabetta, con Federico V, con la sua promessa sposa Elisabetta, con Shakespeare, con Francesco Bacone e quindi finalmente con i Rosacroce.
È importante questo passaggio: Bacone filosofo stimatissimo e fondatore della Accademia reale delle scienze, quando descrive i sapienti abbigliati come i Rosacroce, compie un’operazione rischiosa. La magia è sempre al bando in Europa. Quindi per esporsi deve innanzitutto credere fermamente in quello che fa, come in una missione, e deve avere inoltre un motivo più che valido. Adesso ci è utilissimo leggere quello che oggi afferma Elémire Zolla a proposito dell’ornamento, ovvero degli abiti: «L’ornamento era nella concezione arcaica non un’aggiunta frivola, ma un intervento magico… L’ornato investe di certi poteri chi lo indossa…». L’abito in questione, che dà poteri magici, è comune sia ai sapienti descritti da Bacone sia ai Rosacroce. Citare a questo punto gli uni vuol dire anche “evocare” gli altri. Sapienti=Rosacroce. Perciò la sapienza è dei Rosacroce. Ma Bacone è anche amico intimo di Shakespeare e si dice che abbia persino aiutato il drammaturgo nella scrittura o sia stato un suo ispiratore. Altri affermano persino che siano la stessa persona, cosa a cui non credo minimamente, ma di sicuro sono affini e amici “fraterni”. Quindi c’è un legame, traslato, anche tra i Rosacroce e Shakespeare. Il nesso è appunto Bacone che, per chiamare in causa in modo così esplicito il movimento, doveva aver ricevuto l’incarico di farlo o, più probabile, doveva aver concordato la strategia generale di propaganda della loro fede, a cui evidentemente aderiva nel profondo del proprio Io. In ogni caso Bacone è il legame tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce, gli “invisibili”.
Costoro invece, in base a quanto abbiamo trovato, diventano adesso visibili ai nostri occhi, sia mediante il filosofo e sia grazie alla stessa Yates. Abbiamo infatti capito che erano tutti coinvolti. Da Federico V a Elisabetta I a Elisabetta figlia di Giacomo a Enrico il principe sfortunato, vedremo tra poco il perché di questa sfortuna. Ma in particolar modo sono legati con i Rosacroce, che vestono come i sapienti e i sapienti vestono come loro, e che si definiscono anche “attori”, come quelli appunto che rappresentano La tempesta e Il racconto d’inverno. Ma quelli lo fanno “per mestiere”. Attenzione, è questo il punto. I filosofi-saggi di Bacone vestono “per mestiere” come i Rosacroce. E questi sempre “per mestiere” si dichiarano invisibili, ovvero assumono mille abiti e mille maschere per rendersi irriconoscibili nella vita civile. E chi veste mille abiti? Sempre gli attori che assumono appunto, per mestiere, mille facce. Come i Rosacroce. E come l’uroburo, il serpente che si morde la coda. C’è un aggancio preciso tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce. E questo che la Yates voleva dire tra le righe, tra i fili del suo discorso: fili=tela=telaio=cerimonia magica.
Tutti i protagonisti di questa immensa “scena” seicentesca praticano e diffondono la magia. E la Yates con le sue parole-angeli, invia a sua volta un messaggio a carattere magico.
La storia continua anche oggi. Anche oggi ci sono le trame magiche, le trame invisibili. Che invece adesso abbiamo per un momento reso manifeste sulla grande tela che dal Rinascimento, passando avanti e indietro attraverso i secoli, è giunta fino a noi.

La storia ci dice che Enrico, il principe del Galles, si ammala di un morbo misterioso e che muore di febbri, da cui la frase della Yates che ci ha consentito di far luce su tutto il disegno “ornato” (a proposito vedi l’articolo La Grande Madre – Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce). Sempre la storia testimonia che Federico V e Elisabetta si sposano ugualmente e si stabiliscono nel Palatinato dove per sette anni concretizzano il regno del Femminile in terra. E sempre la storia ufficiale ci dice che al loro seguito ci sono stampatori che anche prima di lavorare con loro avevano già pubblicato opere di carattere magico, come quelle di Giordano Bruno, e che intensificano nel Palatinato questa loro attività, finalmente allo scoperto. Non a caso si pubblicano anche Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, ovvero le nozze dei Rosacroce. Ancora quei fili misteriosi che potremmo continuare a riannodare all’infinito e come faremo in seguito. Ma ora è importante sottolineare una cosa. A quel tempo dunque c’erano degli editori che pubblicavano, più o meno segretamente (invisibilmente?) testi magici. E cosa accade ai giorni nostri? Non è importante rispondere subito, domandiamoci invece perché Elémire Zolla si dichiari neognostico. E perché intellettuali e case editrici che ancora oggi si occupano di divulgare opere “magiche” incorrano tanto spesso in ostracismo diffuso proprio come capitava allora, fatta eccezione per il regno settennale di Federico ed Elisabetta.
Niente di nuovo sotto il sole, direbbe Giordano Bruno.
Iside continua imperterrita il suo cammino verso il trionfo del Femminile.

La Grande Madre — Dove si parla di Heidelberg, nel Palatinato, e dove si racconta della storia d’amore di Elisabetta e Federico V, della morte di un principe, di un regno simile al paradiso e della crudeltà dei fanatici religiosi.

Heidelberg dovrebbe essere una città all’interno di un micro stato, il Palatinato.
Dico dovrebbe, perché si tratta di un sogno. Costruita con mattoni, che messi insieme hanno creato un castello, un palazzo da principe delle fate, strade come nei racconti delle nonne, piazze pensate e costruite da architetti che avevano a cuore le sorti e la felicità degli uomini. Poi ci sono i giardini incantati e le fontane che neanche a immaginarle potrebbero essere più belle. Praticamente un falso. Invece è tutto vero. E incredibile, ma è così.
Infatti chi va a Heidelberg non riesce più a staccarsi e il pensiero corre di continuo a quelle strade, piazze, chiese, giardini, a quel castello. Come esseri animati continuano ad affacciarsi alla memoria, per ricordare che se forse il paradiso non esiste, un piccolo
eden in terra sì. E c’è dell’altro: vi ricordate di Biancaneve e i sette nani di Walt Disney? Quelle casette così struggenti e impalpabili? O del cottage nel bosco, tutto delizie e fiori, in cui Paperino o Topolino si rifugiano di tanto in tanto? O delle abitazioni di alcuni personaggi di Cenerentola? Ebbene, secondo l’architetto Scatena i disegnatori della Disney si sono ispirati all’architettura altoatesina. In realtà la matrice è Heidelberg. Questo luogo, sopravvissuto alla morte degli incanti, perpetua il filo impalpabile e struggente di una dimensione onirica, eppure presente, che non si riesce a identificare. Una ragnatela di rugiada emotiva che invischia e lega inesorabilmente. Persino Goethe, che di viaggi se ne intendeva, non riuscì più a staccarsi da questo paese e fu “obbligato” a tornarvi periodicamente. Oggi è tutto rimasto come quattro secoli fa, fatta eccezione per l’indipendenza politica, perché questo microregno, chiamiamolo così, fu sottomesso nel 1620 e da allora ha perso la libertà e non è contato più nulla come stato autonomo. Smarrita potenza economica, ha conservato la dimensione del mito. E non soltanto per motivi architettonico-urbanistici.
Il fatto è che a Heidelberg si è verificata una serie di eventi straordinari. Qui è nata una storia d’amore che ha varcato la memoria dei secoli e simultaneamente è stata possibile la realizzazione di uno stato dove tutte le razze, religioni, ideologie politiche poterono convivere serenamente. In questo clima propizio di assoluta pace sociale sono fioriti studi umanistici e scientifici all’insegna non della concorrenza, ma della collaborazione attiva. Incredibile, ma vero. E come fu possibile? Per capirlo occorre addentrarci in una vicenda di passioni e di politica, di incantesimi e di intrighi, di mistero e di magia. È una di quelle storie che mi sono permesso di indicare come “esemplari”. Sono accadute davvero, ma è importante rivederle “in controluce”, come il tessuto intrecciato dalle donne di cui parlo spesso, che serve a far vedere la storia da un’altra angolazione. Quella del Femminile, appunto.
Credo che in questa sede sia opportuno semplificarla al massimo, per non far girare la testa al lettore.
Andiamo dunque alla vicenda e ai suoi protagonisti.
Nei primi anni del 1600 il re Giacomo di Inghilterra, nipote della grande Elisabetta, ha due figli, Enrico ed Elisabetta la giovane. Sono entrambi intelligenti, colti, curiosi e dotati di quella “brillantanza” di cui ho avuto modo di parlare. Tutto questo probabilmente è patrimonio genetico ereditato dalla loro grande zia. Come lei si interessano di esoterismo e di magia e come lei sono circondati da poeti, filosofi e letterati che conoscono tali discipline. Non a caso hanno contatti con Shakespeare, che da quando ha conosciuto Giordano Bruno, il mago, è diventato un altro uomo e ha votato se stesso alla divulgazione del sapere ermetico.
Ma di Shakespeare avremo modo di parlare in seguito. Insomma i due sono personaggi straordinari e tutte le forze europee contrarie agli odi di religione vedono in Enrico non solo il futuro re di Inghilterra, ma anche l’uomo che potrà evitare un gigantesco conflitto tra i paesi cattolici e quelli protestanti.
Peccato che Giacomo, il loro padre, sia poco più di un inetto e di un vigliacco. Irresoluto e timido nei confronti delle arroganti potenze cattoliche, si illude di poter rimanere neutrale in caso di conflitto globale dovuto ai fondamentalisti delle varie confessioni. Sia come sia, questo re, in tanta inettitudine riesce a prendere una decisione saggia. Una, ma buona. Dare in moglie sua figlia a Federico V del Palatinato. Un altro giovane colto e decisamente portato agli stessi interessi esoterici della promessa sposa. Inoltre Federico simpatizza subito con il futuro cognato, Enrico. L’amore-amicizia tra questi tre giovani è salutato da tutto il mondo tollerante come una benedizione del Signore. Loro sì che saranno in grado di fermare l’orrore della guerra. Sono forti, decisi, coraggiosi, illuminati, perché non sperare nel futuro? In un domani dove il mondo sia più tollerante?
Nel 1613 Federico giunge a Londra, le nozze sono imminenti nel tripudio generale. Un entusiasmo assoluto, senza precedenti. Ma Satana, il “senza madre”, ovvero l’escluso dal Femminile, ci mette la sua mano malata. Enrico, la speranza degli uomini ragionevoli, si ammala di una febbre comune e non viene curaro a dovere. Decede in poche ore.
Terribile. Il sogno europeo di pace e liberalità frantumato da un banale raffreddore. Ma c’è chi non si arrende agli eventi. Federico ed Elisabetta, assecondando l’ultimo desiderio di Enrico in fin di vita, si sposano ugualmente nella data stabilita. Poi partono per il Palatinato. È il 1613 e fino al 1620 assistiamo a Heidelberg al miracolo del regno del paradiso in terra. Qui accade quello che tutte le anime dolci hanno desiderato da sempre. Libertà di culto, di fede, di ricerca, di studi. A quell’epoca era un vero miracolo. In più era stata attuata una provvidenziale pace tra le classi e una assoluta integrazione razziale.
Insomma, la mitica età dell’oro rediviva.
Poi accade l’imprevisto. Muore Rodolfo re di Boemia, che già aveva compiuto una notevole apertura in direzione della tolleranza religiosa, e i suoi cittadini eleggono come erede proprio Federico V, già noto per la sua liberalità. Lui commette l’errore di accettare. È uno sbaglio, perché la liberalità in un paese piccolo come il Palatinato poteva essere tollerata dai fanatici religiosi, ma non nella Boemia, importante crocevia commerciale. Quelle idee di giustizia vera e applicata potrebbero diventare contagiose e nelle menti offuscate dalla devastazione fondamentalista non è neppure concepibile.
I cattolici con potenti eserciti muovono guerra contro la Boemia e il Palatinato. E il codardo Giacomo di Inghilterra non interviene a favore della figlia Elisabetta. Ah, se fosse staro vivo Enrico! Forse è destino dei sogni quello di sgretolarsi nelle tenebre. Le forze oscure dell’odio prendono fatalmente il sopravvento. Nella battaglia della Montagna Bianca Elisabetta e Federico vengono sconfitti. Da quel momento la Boemia e tutti i paesi limitrofi perdono la libertà per sempre. È il 1620 e coloro che non erano corsi in aiuto ai due sposi saranno travolti da una guerra immane. Forse la più catastrofica mai avvenuta in Europa. Gli storici la identificano come “guerra dei trent’anni”, perché durò tre lunghi decenni contraddistinti da stragi, saccheggi, pestilenze, roghi, torture, stupri e battaglie spietate che ridussero la popolazione europea di due terzi. Un’ecatombe che non è possibile paragonare nemmeno a quella della Seconda guerra mondiale. Un girone infernale in cui precipitarono tutti gli abitanti d’Europa, e ovviamente tutto questo fu giustificato in nome di Dio.
Comunque questa è la storia ufficiale. Adesso invece è importante leggerla attraverso il tessuto, tra i ricami invisibili della stoffa, per scoprire la trama del Femminile.
Iniziamo ritornando a Heidelberg.
Ci andai nel 1977, dopo aver letto L’Illuminismo dei Rosacroce di Frances Yates, da cui ho tratto le notizie su Federico ed Elisabetta che prima ho riassunto. Mi recai lì per realizzare un servizio speciale per il DSE della RAI. Feci la proposta televisiva per poter approfondire de visu quanto avevo letto e poi perché sentivo in qualche modo di “doverci” andare.
Brillantanza? Brillantanza.