Felipe, il pastore di nuvole

Portare al pascolo le nuvole non era mai stato un lavoro da poco.
Non tutti possono diventare loro pastori, nè si può riconoscere lì per lì chi è adatto e chi no. Quelli con la testa per aria non è detto che siano i più dotati.
Le nuvole sono per natura riottose, e mutevoli per forma e movimento come il vento che le spinge, ma non sono cattive. Sono selvatiche e non è facile prenderle e condurle là dove si vuole, questo sì.
Il fatto è che bisogna svegliarsi al mattino presto per cercare di imbrigliarle quando sono ancora assonnate. Ma in alto il giorno arriva prima e così di solito sono già sveglie quando in basso si sta al buio con il cappio in mano in attesa di lanciarlo al momento giusto. Se si riesce a prenderne una al volo, va domata con ben dosata fermezza. Poi si devono usare le briglie. Ci vuole un pastore per ogni nuvola e nei giorni di vento forte vanno tenute anche in due o tre per non essere trascinati via non si sa dove, come appesi a palloncini.
Una volta accalappiate però seguono mansuete e si lasciano tirare docilmente verso la prateria. Lì pascolano indisturbate e basta farle andare con delicatezza da una parte all’altra.
Felipe era stato pastore di nuvole fin da bambino come il padre e il nonno.
Suo padre lo portava con sè insegnando l’arte del lavoro e i segreti delle nubi e lui gliene era grato.
Diceva ‘Padre, da dove vengono le nuvole?’
E lui ‘Da laggiù, dietro l’orizzonte’
Oppure ‘Dove vanno dopo?’
‘Cosa vuoi che importi di dopo?’ rispondeva l’altro.
O anche ‘A che servono?’
Il padre scrollava la testa ‘Bada, tira bene le briglie, sennò ti scappa via… e ricorda: l’importante è non farsi mai bagnare dal loro pianto’
‘Perchè?’
‘Perchè è così da sempre’
Stava zitto per un po’, ma non tanto.
‘E che si fa se piange?’
‘Devi lasciarla andare subito via, libera. Però è toccato a pochissimi di noi’.
‘Perchè piangono?’ insisteva il ragazzo. Ma il padre guardava lontano senza dire nulla.
Allora a volte proseguiva ‘E se voglio toccare il loro pianto che succede?’
‘Ma che ti frulla per la testa, quante cose vuoi sapere tu? Sei un pastore e si può fare solo così’
‘Davvero?’ diceva lui fissandolo negli occhi
‘Basta ora’ troncava il padre voltandogli le spalle.
Col tempo l’anziano chiamò a sè il figlio. ‘Questa è la cavezza che ho sempre avuto, Felipe; d’ora in avanti la userai tu per me’.
Poi, come era usanza tra le loro genti, si allontanò in solitudine.
Felipe prese cavezza e briglie e fece il suo dovere a lungo.
Un giorno era seduto su una pietra, con una mano teneva alla briglia una nuvola che pascolava in un angolo remoto di prateria e lui lì a godere il profumo dei fiori selvatici e a ripensare alla sua vita.
Dall’alto la nube vagava con lo sguardo intorno, sazia del mondo già visto, piena di ogni sensazione e senza idea di cosa farne.
Si era fatta domare da un pover’uomo sperso nella grande pianura, indossava pantaloni rattoppati e una giubba scolorita. Lo guardò a lungo, ma infine lo vide; era vestito di quiete, di ricordi e di innocenza tutto, e d’improvviso pianse.
Felipe restò sorpreso perchè non gli era mai capitato. Tenne fede all’insegnamento e subito la liberò, ma la nuvola restò a piangere lì accanto.
Si allontanò e lei lo seguì da presso. Si avvicinò di un passo e lo stesso fece quella dall’alto.
Guardò intorno, non c’era nessuno. Esitò un poco ma allungò una mano nel pianto; la retrasse in fretta per osservarla attentamente. ‘E’ soltanto bagnata’ disse tra sè e la mise di nuovo dentro; quindi infilò il braccio e alla fine entrò con tutto il corpo. Era felice di lasciarsi bagnare dalle lacrime di nuvola, sembravano d’argento.
Accadde allora che lei si abbassò da lui in un abbraccio di nebbia, poi si dissolse lasciandolo zuppo e stralunato; niente però sembrava cambiato.
Tornò come sempre nell’antica casa a riposare e come sempre stava solitario, abituato ai lunghi silenzi. Ma quella sera prese ad avere caldo e freddo insieme, dovette camminare su e giù più volte per le stanze senza motivo, non servì a niente bere una tazza di brodo tiepido e sentì infine un desiderio e la voglia mai provata di dire del suo lavoro, di sè e di altro ancora.
Così fu costretto ad andare in paese per incontrare qualcuno e iniziò a raccontare e raccontare e ogni giorno veniva spinto a farlo dal bisogno e dalla necessità e non guarì mai più.
Passarono molti anni, Felipe il vecchio accudì come prima le nubi; nessuna pianse per lui.
I paesani ormai lo conoscevano e spesso lo accoglievano con un cenno di saluto. Lo lasciavano fare, per tutti era una brava persona.
La sera sedeva all’osteria davanti a un buon bicchiere di vino e si metteva a raccontare storie di nuvole e pascoli, pastori e briglie, venti e lacrime e per questo molti lo chiamavano visionario; solo alcuni, poeta.

Riccardo Tomassini

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Il castello incantato

A Giovanna, che ha chiesto una fiaba da leggere ai bimbi della scuola materna, e a Valeria, che ne attende un’altra, mando in dono questa che viene tratta dal nostro primo libro “Le fiabe per affrontare i distacchi della vita” .(In questo testo le fiabe sono più semplici e adatte ai bambini più piccoli. Le fiabe degli altri due testi, “Le fiabe per sviluppare l’autostima” e “Le fiabe per vincere la paura”, sono adatte a quelli più grandi e agli adulti)

Il castello incantato

Nella grande città di Insettopoli vivevano felici alcuni miliardi di insetti di ogni tipo: mosche, zanzare, farfalle, ragni, libellule, falene, api, vespe, calabroni e così via.
Ognuno aveva il suo lavoro, la sua famiglia, i suoi svaghi, le sue abitudini.
A Insettopoli c’erano scuole, cinema, teatri, campi sportivi, supermercati, banche, tutto ciò che poteva essere utile alla comunità meno…. l’ospedale.
Che strano!
E quando gli insetti si ammalavano?
Andavano al castello incantato!
Infatti, su un colle dominante Insettopoli, sorgeva un grande castello un po’ tetro, un po’ buio visto dall’esterno, con le torri merlate sempre avvolte da un sottile strato di nebbia.
L’interno però, diviso dal resto della città da un ponte levatoio gettato sul fiume segoso, era splendente di luce, luminoso giorno e notte, ricco di stelle abbaglianti e di festoni colorati.
E chi abitava nel castello incantato?
Nessuno! Assolutamente nessuno!
O meglio il castello era pieno zeppo di buoni pensieri e di buone azioni!
E già, perché a Insettopoli ogni insetto malato, ferito o sofferente si recava al Castello Incantato, si fermava una mezz’oretta e ne usciva completamente guarito!
In cambio, però, doveva lasciare al castello almeno una buona azione o un buon pensiero.
Così una farfalla ferita, guarendo, lasciava il pensiero di andare a trovare la Ragnetta vecchietta, una mosca con l’influenza prometteva, guarendo, di andare da Vespessa depressa a portare un po’ di conforto, una libellula diabetica, guarendo, si impegnava a sfamare un moscerino magrolino, un calabrone iperteso, guarendo, affermava di aiutare nelle faccende di casa la povera Apina vedovino e le sue dieci figliole e così via.
Il Castello Incantato era così zeppo di bontà che bastava entrarvi per uscirvi guarito da ogni male, pervaso dalla luce benefica di cui era strapieno.
Tutti così si aiutavano a vicenda e gioivano dell’aiuto reciproco e dell’ottima salute di cui godevano grazie al Castello incantato, ma grazie soprattutto a loro stessi.
Un brutto giorno, però, il grande costruttore di ospedali, Topone Affarone, roso dalla rabbia perché a Insettopoli non aveva ancora costruito nulla e, quindi, lucrato nulla, decise di trasformare il suo rancore in fatti: business is business!
Che diamine! Era ora di costruire un ospedale anche a Insettopoli!
E così, con il potere e con il denaro, cominciò a inviare al Castello incantato il suo esercito di lumache e di serpentelli e ognuno di essi aveva il compito di lasciare un cattivo pensiero e una cattiva azione.
Odio, rancore, invidia, bramosia, intolleranza, ogni cattivo sentimento cominciarono via via, lentamente, ma inesorabilmente a riempire il Castello incantato, fino a saturarlo: i cattivi pensieri, pesanti, spinsero via via quelli buoni, leggeri più dell’aria, sempre più in alto, fino a cacciarli fuori dal Castello tutti quanti.
E’ ovvio che così, quando un insetto malato si recava al Castello incantato per guarire e per lasciare un’impronta di bontà, si sentiva soffocare dal peso dei cattivi pensieri che lo schiacciavano al pavimento, lo stordivano e lo lasciavano più malato di prima.
Ben presto la voce si sparse; il Castello era divenuto un luogo malefico dal quale trapelavano i peggiori sentimenti: gli Insetti presero a guardarsi in cagnesco, a odiarsi, a invidiarsi l’un l’altro, a rinchiudersi in sé e nelle proprie case.
Se prima si poteva lasciare incustodito ogni bene senza timore, si poteva sempre contare sull’aiuto di qualcuno alla bisogna, ora furti e insetticidi non si contavano più: ci si rubavano i beni, il lavoro, i piccoli dovevano andare a scuola scortati dalla polizia che prima aveva il compito solo di disciplinare il traffico perché tutti facevano passare prima l’altro.
Insomma, una vera tragedia!
Insettopoli somigliava sempre più a una metropoli umana! Davvero invivibile.
In questa situazione, il Sindaco chiamò subito Topone Affarone affinché costruisse
a tempo di record dieci moderni ospedali dotati di tutte le attrezzature.
Che diamine odio e rancore! Il castello Incantato non solo non guariva più, ma addirittura fomentava odio e rancore!
E poi tutte quelle risse, quelle rapine!
Sì, gli ospedali erano proprio necessari. Topone Affarone, gongolante per aver raggiunto il suo scopo, si mise all’opera e a costi da vero strozzino costruì ben presto degli ospedali.
In questa triste situazione Insettopoli tirava avanti tra un ricovero di un rapinato e quello di una scippata, più naturalmente quelli di tutti i malati che prima al Castello Incantato guarivano nella bontà.
Ma i fratelli Formichini, Ino e Ina, non potevano più vedere la loro città preda dell’odio.
La tristezza e il dolore di Ino e Ina si mutarono ben presto in rabbia e la rabbia in azione: essi avevano saputo tutto da un vecchio lumacone ubriaco che avevano raccolto, ferito e sofferente, al bordo di una strada dopo essere stato rapinato.
Il lumacone era uno di quelli che erano stati pagati da Topone Affarone per portare l’odio al Castello, ma ora era pentito tanto da raccontare la storia a Ino e Ina.
I due piccoli eroi, allora, raccolsero, con l’aiuto di tutte le formiche non ancora contaminate da gelosia e invidia, migliaia e migliaia di palloncini colorati, con pazienza certosina li gonfiarono e li portarono al Castello Incantato e con ardore e coraggio, eludendo la vigilanza delle guardie di Topone Affarone, li fecero esplodere tutti assieme in un sol colpo.
Il boato si sentì in tutta Insettopoli: ovviamente tutti corsero nelle strade temendo il peggio, ma agli occhi esterrefatti di tutti gli Insetti uno spettacolo stupefacente si presentò: i cattivi pensieri, i malevoli sentimenti buttati all’aria dallo scoppio dei palloncini rovinavano per terra da tutte le pareti del castello e si infrangevano spezzandosi, mentre tutti i buoni pensieri e i dolci sentimenti riprendevano dal cielo il loro posto tra le pareti del Castello Incantato che, via via, riprendeva a splendere di luce propria.
Come per incanto, al grido di gioia di Ino e Ina, tutti gli insetti corsero al Castello
Incantato e si riempirono di nuovo di amore e di bontà.
Topone Affarone fu scacciato e diffidato e i dieci ospedali divennero altrettante scuole per i giovani.
Inutile aggiungere che Ino e Ina furono portati in trionfo e festeggiati come eroi: ancora adesso che sono molto vecchi raccontano ai nipoti della faccia di Topone Affarone quando sentì lo scoppio dei palloncini!

Lo scudiero del re

Siamo tornati!! Bella questa puntata!

E a proposito di Farfalla-Anima ecco
“Lo scudiero del re”
fiaba tratta da “Le fiabe per vincere la paura”…

Lo scudiero del re

La fedeltà è senza dubbio una virtù.
E Crimildo, scudiero prediletto del gran re Asdrubale, era la fedeltà fatta persona.
Era come se Crimildo non avesse una propria volontà, come se non fosse un essere pensante: no, lui agiva per volontà del re, del suo re per il quale, avesse avuto dieci vite, tutte e dieci avrebbe volentieri donato.
Tra l’altro, il fatto che Crimildo fosse lo scudiero preferito del re suonava strano a tutta la corte.
Gli scudieri erano tutti alti, forti, prestanti, aitanti, dei veri guerrieri impavidi e sfrontati, rodomonti e spaccamontagne, assetati di sangue da bere al cospetto del re.
Ma Crimildo lo beveva ai piedi del re.
Crimildo era curvo, il naso aquilino che tentava un improbabile parallelismo con le spalle, decisamente brutto, il viso butterato e il ventre prominente, le storte gambe perennemente protese a evitare che le ginocchia si scontrassero, il fisico strambo al quale nessuno avrebbe attribuito la forza di sostenere l’armatura.
Eppure era il preferito, assolutamente il prediletto.
Crimildo era scaltro. Lui coglieva i sentori del volere del re ancor prima che questi esprimesse l’imperio: uno sguardo all’imponente figura di Asdrubale, il suo re, e la battaglia prendeva una china anziché un’altra, una ritirata strategica simulava un attacco, un’ambascia criptata recapitava un fondamentale volere, un desiderio terreno era subito esaudito.
Crimildo aveva una dote speciale: sapeva”essere” il re, gioiva nel vederlo gioire, smaniava nel vederlo smaniare, pensava per lui e con lui, ne captava il benché minimo mutamento d’umore, distillava la sua volontà in gocce di azione.
Ma la corte non comprendeva sino in fondo questa totale aderenza, non capiva perché il re preferisse i servigi accorti e un po’ sotterranei di Crimildo alla brutale concretezza degli altri scudieri.
E così Crimildo era solo, evitato da dame e cavalieri, con l’unico piacere di servire il suo re e da questi essere amato.
Asdrubale era un re sanguinario e belligerante, amante dei piaceri terreni e bramoso di potere, sprezzante e temerario tanto in battaglia quanto nella vita di corte.
E il fido Crimildo sempre al suo fianco. Non era una guardia del corpo.
Crimildo non ne aveva né la prestanza né la baldanza.
E poi Asdrubale non ne aveva bisogno: era forte e risoluto, impavido e vittorioso, oltre che sempre circondato dalla guardia dei suoi pretoriani, un corpo scelto di trenta guerrieri votati alla morte che non avrebbero mai permesso a un nemico neppure di avvicinarsi al re.
No, Crimildo era molto di più di una guardia del corpo.
Era l’interprete autentico dell’anima del re, ammesso che ne avesse una, era l’unico a vederlo piangere nelle notti insonni, quando gli auspici non erano forieri di buoni pronostici, era l’unico che ne conosceva le profonde debolezze, le insane paure che, a volte, lo attanagliavano alla gola come una barbara morsa da lasciarlo senza fiato e madido di sudore.
Ed erano paure profonde, remote, spirituali si potrebbe dire.
Asdrubale non aveva infatti paura di niente e di nessuno: con un pugno poteva atterrare un bufalo, con un urlo poteva atterrire una fiera.
No, lui aveva paura di dover, un giorno, scontare le proprie immani nefandezze, paura che ogni rivolo di sangue versato ritornasse a lui annegandolo in un rosso mare di velluto, paura che l’inflessibilità atroce riservata ai nemici fosse a lui servita un giorno sopra un piatto di ossa e in un calice a teschio.
Ed ecco Crimildo a consolarlo: “Maestà, ciò che lei infligge ai nemici è la giusta punizione, le sue leggi sono le leggi della forza e quindi nessuno può opporvisi”.
E così via, in un costante rafforzamento della volontà reale.
A Crimildo inoltre venivano affidati dal re i compiti più difficili.
Se la battaglia o la guerra stavano volgendo a sfavore, ecco Crimildo, novello Odisseo, incaricato di volgere a favore con l’astuzia e con l’intelligenza ciò che la forza non riusciva; se un altro re non voleva giungere a patti alle condizioni di Asdrubale, ecco che Crimildo interveniva: o con il sequestro di un figlio o con il ricatto o con l’assassinio a tradimento.
Una volta Crimildo fu inviato ad assassinare il potente re Volpedo, nemico di Asdrubale, insieme a tutta la sua famiglia.
Crimildo si finse uno storpio guaritore, inventore di magici intrugli fornitori della vita eterna, che mescolò al cibo della regale famiglia la quale morì avvelenata tra atroci tormenti.
Quella volta fu la prima volta che la vide.
Una nera, grande farfalla, adagiata sulla parete della sala da pranzo di Volpedo, un’inquietante messaggera inviata ad assistere al misfatto e a registrarne gli esiti nefasti.
E da quel giorno sempre la vide.
A ogni azione nefanda, ad ogni assassinio, ad ogni levantino ricatto, ad ogni tortura e supplizio, ad ogni deprecabile azione.
La nera farfalla era sempre presente: a Crimildo ora sembrava l’immagine stessa della morte, ora un vessillo divino, ora l’anima degli uccisi, ora un incaricato divino che riportava il cumulo de peccati che lui avrebbe dovuto scontare. Inflessibile come Asdrubale, il suo re, ma molto, molto più tremendo perché lo avrebbe condannato per l’eternità.
Un giorno, la fiera città di Sandronia, rivale di Asdrubale per i commerci di vino e di olio, venne attaccata da questi deciso ad avere il monopolio dei guadagni.
Asdrubale era convinto di piegare la città in breve tempo: le sue truppe erano cariche e assetate di sangue e di bottino, gli auspici erano stati favorevoli, Sandronia era ricca, ma poco abituata a combattere.
Ma nonostante il ferro e il fuoco, gli assalti continui, gli arieti e le catapulte, Sandronia resisteva.
I suoi abitanti, protesi al bene comune, davano volentieri la vita per la salvezza della città e l’olio non mancava da rovesciare bollente sui soldati di Asdrubale che morivano come cavallette.
L’assedio fu intensificato, si protraeva, ma Sandronia resisteva.
Ci voleva Crimildo.
Egli si travestì da vecchia levatrice e si presentò alle porte della città come un dono di pace di un Asdrubale ormai rassegnato.
Che potevano temere gli abitanti di Sandronia da una vecchia levatrice? Nulla, anzi ce n’era bisogno, molte erano morte nell’assedio e la città aveva bisogno di giovani.
Ma la vecchia levatrice di notte ritornò a essere lo scudiero del re che aprì le porte ai soldati e diede inizio alla strage uccidendo per primi proprio i neonati.
E mentre ne squartava uno, ecco posarsi sulla sua spalla la nera farfalla, in un fremito, in un tremore delicato e inquietante che tolse a Crimildo le forze.
Da un po’ di tempo la nera farfalla lo visitava anche in sogno; solo che in sogno essa parlava.
Crimildo si rivolgeva spesso a lei per cercare di capire chi essa fosse, che cosa volesse, che cosa rappresentasse, che cosa portasse in messaggio, ma la farfalla, invariabilmente, con una voce di fanciulla, rispondeva:”Io sono, tu sei”.
Sempre e comunque, a qualsiasi domanda Crimildo ponesse, la risposta era la stessa:”Io sono, tu sei”.
E così, dopo quelle notti, dopo quei sogni, Crimildo si svegliava sconvolto incredulo e dubbioso, con il terrore di vedere apparire davvero la nera farfalla alla prossima nefandezza.
E questa appariva, sempre, nel momento del maggiore inganno, della più tremenda crudeltà, silenziosa e inerte, ma terrificante nel suo insoluto significato.
Un giorno Crimildo doveva compiere l’ennesima scelleratezza.
Il re Asdrubale si era invaghito di una giovane fanciulla, Pulcra, figlia di un povero fabbro e di una lavandaia.
Crimildo aveva capito da tempo la passione e le intenzioni del re: non era certo la prima volta che il re gli faceva rapire una fanciulla che, dopo essere stata ridotta in schiavitù, veniva personalmente sgozzata dal re non appena gli veniva a noia.
Ma adesso era diverso, Crimildo sentiva un brivido nella schiena, una strana paura, un’inquietudine come quando si scorge all’orizzonte una tromba d’aria che si sta avvicinando e che sappiamo ci coglierà nel vortice del suo turbinare.
Così Crimildo tergiversava, adduceva motivi strategici e politici impellenti per rimandare il rapimento.
Ma la pazienza del re era terminata, la brama verso Pulcra non lo faceva dormire.
Crimildo doveva adempiere all’ordine, doveva rapire Pulcra.
Arrivato alla povera casa della fanciulla con un drappello di soldati, legati e imbavagliati i genitori, la prima cosa che fece Crimildo fu di esplorare pareti e suppellettili alla ricerca della farfalla nera.
Ma non la vide. “Che strano”, pensò Crimildo.
L’assenza della farfalla lo inquietava più della sua presenza.
Ma doveva agire, portare a compimento la volontà del suo re.
Si accingeva a compiere il misfatto, legando la fanciulla e strappandola alla sua casa, quando questa parlò.
“Crimildo, fido scudiero del re, basta con i misfatti, i delitti, le scelleratezze; sei ancora in tempo a cambiare la tua vita e a salvare la tua anima, lasciami libera di volare!”
E tra il terrore e la meraviglia di Crimildo, la splendida fanciulla si trasformò in una nera farfalla che si librò in volo sopra di lui.
Crimildo temette di svenire, barcollò, sudava freddo. Ma comprese.
Il re lo avrebbe giustiziato di sicuro, ma almeno avrebbe avuto la vita eterna.
Un rinnovato Crimildo si presentò quel giorno al cospetto del re.
“Maestà”, disse lo scudiero, “non posso più compiere misfatti, giustiziatemi per avervi disobbedito e deluso, ma io d’ora in poi non compirò più azioni malvage!”
Un rinnovato re rispose a Crimildo:”Mio fido scudiero, anch’io mi vergogno profondamente delle nefandezze compiute; ho appena abdicato la corona in favore di mio fratello Pierotto, io mi ritirerò in convento per dedicarmi ai lebbrosi; ogni mia malefatta dovrà essere coperta da almeno dieci buone azioni. Ho deciso anche di donare ogni mio avere ai poveri e ai bisognosi e, d’ora in poi, andrò scalzo e vestito di un saio. Se tu vorrai, mio caro Crimildo, d’ora in poi non sarai più mio scudiero, bensì mio fratello!”
Un enorme gioia, la vera gioia, pervase Crimildo.
Accettò di buon grado e da quel giorno Fra Asdrubale e Fra Crimildo vissero in santità, morendo di lebbra contratta dai molti che avevano aiutato.
E mentre stavano per morire, una farfalla nera si posò dolcemente sul volto dell’uno e dell’altro.

La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore

Buongiorno! Noi siamo convinti che le fiabe debbano avere un lieto fine e ciò per consentire di far affiorare la luce della speranza attraverso le immagini che nascono dall’ascolto di una fiaba. Le nostre prime fiabe sono nate per il desiderio di offrire a coloro che soffrono, e a chi sta vicino ad essi, uno spazio vitale per ritrovare energia. E così, dopo aver scritto “Bambini in pigiama”, ed.scientifiche Magi, testo soprattutto teorico, ho sentito l’esigenza di creare uno strumento operativo, un libro più vivo tramite l’immediatezza delle fiabe. Oggi il mondo vive nella condanna dicotomica tra razionalità e irrazionalità : dobbiamo cercare di aiutare a creare un ponte tra questi due estremi, al fine di recuperare, attraverso le immagini e l’immaginazione, la creatività necessaria per una vita più sana e gioiosa. Come dice il nostro Carl Gustav Jung “La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi”
Elvezia


Le Fiabe per… Affrontare i Distacchi della Vita

Un aiuto per grandi e piccini

Numerosi sono i distacchi che si devono affrontare nelle diverse fasi della vita.
C’è il bambino che non vuole partire per la settimana di campeggio estivo, quello che viene preso da crisi di pianto ogni volta che il papà deve allontanarsi per lavoro, o, ancora, quello che deve andare in ospedale…

Ma il problema del distacco è un problema che anche i grandi sentono e a volte non riescono ad affrontare.
Fermiamoci, allora, e leggiamo una fiaba…

L’utilizzo della fiaba favorisce lo sviluppo psico-affettivo ed aiuta ad elaborare le sofferenze psichiche che oggi sono forse più laceranti, o semplicemente più visibili, di un tempo.
I piccoli e i grandi lettori, sia quelli più “fragili” che quelli già “forti”, potranno identificarsi nei vari personaggi e, ritrovando le parti nascoste di sé, potranno recuperare l’energia necessaria a proseguire il cammino.

Ogni fiaba si presenta con una veste di facile accessibilità e di immediatezza emotiva per ogni lettore, specialista o no, ed è anticipata e seguita da un’analisi dettagliata che porta la fiaba stessa ad essere utile nella vita di ciascuno, diventando uno strumento di riflessione e di riconoscimento “nella storia” della propria storia, che non è altro che parte della storia dell’umanità.

Per grandi e piccini, per genitori e insegnanti, per psicologi ed educatori, per ogni persona che crede nell’importanza della comunicazione emotiva, prima ancora che in quella cognitiva e razionale: solo attraverso il cuore si può raggiungere la mente.

Il testo è corredato da illustrazioni della pittrice Lia Foggetti e da un’appendice relativa al burn-out di chi “si prende cura”.

Giovanni Gocci, “Incontro con la fiaba”

Copertina GocciCon questo particolare e significativo testo, il Professor Giovanni Gocci, Psicoterapeuta, Psicologo analitico, Direttore della Scuola di Psicoterapia psicosintetica ed Ipnosi Ericksoniana “H. Bernheim” di San Martino Buon Albergo (Verona), saggista e poeta, trova nella fiaba uno strumento capace di aiutare l’uomo contemporaneo, intriso di materialismo, scientismo, ipertrofia della razionalità, a riappropriarsi della dimensione interiore.
Il volume è un’originale raccolta di fiabe che, invece di essere tratte dal serbatoio della tradizione popolare, sono state immaginate, scritte e drammatizzate direttamente da persone durante le terapie di gruppo; la vera protagonista è, così, quella che Gocci definisce “la fiaba personale”. Raccontandosi e raccontando la fiaba personale si riattiva la capacità creativa dell’inconscio, permettendo l’affioramento di quelle immagini archetipiche, prima oscurate dalla razionalità e dal nostro Ego imperante, che consentono la comprensione della Psiche.
Come infatti sostiene l’autore: «Nella fiaba, come nel sogno, l’anima testimonia se stessa e gli archetipi si rivelano nella loro naturale combinazione, sotto la forma di Re, Regina, Vecchio, Saggio, Strega, Animale etc…». Per Gocci la fiaba “cura”, è uno strumento terapeutico in quanto permette di far ri-emergere le immagini dell’anima perduta. In questo senso, ogni fiaba testimonia una tappa di quello che Jung ha definito processo di individuazione: attraverso i racconti che curano ci si immerge in se stessi, si tende al Sé, alla totalità psichica. Si cura l’anima ed anche il mondo da essa abitato.

Seguendo il percorso tracciato dall’autore, che ha inoltre corredato il testo di schede per l’uso didattico e di un ricco materiale di approfondimento, si impara a interloquire con gli inferiores, i daimones, con la componente umbratile e quella numinosa.
«Raccontarsi la fiaba è fare attività educativa ed i suoi assiomi e risultati hanno importanza proprio per la guarigione dei mali della nostra epoca: si ridà dignità all’anima, si fa catarsi, si incontrano le parti oscure di noi, si costruisce il progetto futuro, si racconta la propria storia infinita.»

Giovanni Gocci, Incontro con la fiaba. Gli insegnamenti dei racconti che curano, Edizioni del Poggio, 2007.

 

Dello stesso autore: Comunicazione e cambiamento

Porto XVII

Esistono tre stanze «segrete» nel cinquecentesco palazzo dei Corgna a Castiglione del Lago, sul Trasimeno. Sembra che a ispirarne gli affreschi sia stata la bizzarra personalità di Cesare Caporali, membro dell’Accademia degli Insensati di Perugia con il nome di Stemperato.

Caporali, ricordato da Miguel de Cervantes nel poema Viaje del Parnaso pubblicato nel 1614, aveva servito il cardinale Giulio Acquaviva a Roma. Nello stesso periodo e nelle medesime stanze lavorava il genio del Don Quijote che, a sua volta, aveva combattuto al fianco di Ascanio Corgna nella battaglia di Lepanto, nel 1571.

Questo collegamento fra spiriti eccentrici spiegherebbe le singolari stanze «segrete» di Castiglione, abitate da uno straordinario susseguirsi di rebus iconografici.

Vi è rappresentato un Mundus inversus che accosta mito, fiaba, storia e metafore nella raffigurazione di tre temi principali: gli «incauti trasgressori», i «grandi puniti» e il «mondo alla rovescia» nella prima sala nella quale si fronteggiano Tizio, Prometeo, Ganimede, Narciso e Callisto; le Muse nella seconda stanza e le Metamorfosi nella terza.

Adibite probabilmente a salotto letterario tra i più esclusivi, le sale costituivano forse una sorta di rifugio dell’anima, quello che oggi diremmo un luogo di decompressione dalle nevrosi.

E all’anima esse restituivano giustizia e serenità rappresentando un mondo nel quale i topi seviziano i gatti e altre vittime del mondo animate trionfano contro i loro abituali carnefici.

Gli elementi di questo universo irriverente concorrono a testimoniare l’intima intesa tra pittore, poeta e committente e a esaltare il mito di Apollo nei suoi molti travestimenti: Apollo Targello, o il calore che matura i frutti, Apollo Sminteo, o il distruttore dei topi, Apollo Parnopio, o il mangiatore di cavallette, Apollo-tartaruga, o serpente che seduce la ninfa Driope.

Ma altre chiavi soccorrono il visitatore della prima stanza, la più inquietante: la parete della fatica in cui Tizio si contrappone a Prometeo (al centro della parete dirimpettaia), e la vanità di Narciso che controbilancia l’affanno di Ganimede, secondo le leggi intime di un seducente quadrilatero. Sulla volta splende la celeste violazione di Callisto, immortalato nella Costellazione dell’Orsa, detta dai romani septem triones, cioè «sette buoi».