“Suffragette” di Sarah Gavron, un film che mostra gli albori della lotta per l’emancipazione femminile

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È un film che dovrebbero vedere tutte le donne. Quelle giovani per capire che le libertà e i diritti che hanno trovato alla loro nascita sono il frutto di dure battaglie, fatte da coloro le hanno precedute. Quelle più avanti con l’età per ricordare, nel caso l’avessero dimenticato, che le possibilità di cui godono oggi, non sono da considerare così scontate.

“Suffragette” diretto dalla regista britannica Sarah Gavron mira a questi obbiettivi, attraverso il racconto di una storia ispirata ad alcuni fatti realmente avvenuti in Inghilterra tra il 1912 e il 1918, ad opera di alcune donne che lottarono per ottenere il diritto ad andare a votare. Maud Watts (Carey Mulligan) è una giovane donna che lavora 13 ore al giorno in una lavanderia dall’età di otto anni.

È sposata con un suo collega, Sonny (Ben Whishaw), ed hanno un figlio, George, che lei vede molto poco a causa degli orari assurdi di lavoro. Il suo capo ha abusato sessualmente di lei e delle sue compagne anche appena adolescenti. Una vita d’inferno, molto comune a tante donne nel periodo della seconda rivoluzione industriale. Un giorno, mentre sta andando a consegnare un pacco nel centro di Londra per conto del padrone, viene coinvolta in un’azione violenta del movimento delle suffragette, consistente nel tirare sassi alle vetrine dei grandi magazzini. Un modo esasperato di farsi ascoltare, dopo non aver ottenuto nulla dopo anni di militanza pacifica. Tra di loro, Maud scorge la sua collega di lavanderia Violet (Anne-Marie Duff), che nota la sua presenza e, percependo un interesse verso la lotta da parte sua, la convince a diventare un’attivista del movimento.

Così, la ragazza si troverà a portare la sua testimonianza di donna lavoratrice addirittura in parlamento davanti al primo ministro dell’epoca, David Lloyd George (vero primo ministro britannico dal 1916 al 1922 nel film impersonato da Adrian Schiller), che all’inizio sembra conciliante, ma poi rifiuterà categoricamente di cedere il tanto agognato suffragio universale. Le donne continueranno la loro lotta, sollecitate e appoggiate da Edith (Helena Bonham Carter), una farmacista che con l’aiuto del marito (a quanto pare uno dei pochi uomini illuminati) gestisce la base segreta delle suffragette nel retrobottega del loro negozio. Seguendo le parole dell’attivista Emmeline Pankhurst (personaggio realmente vissuto, interpretato da Meryl Streep in una breve apparizione), operaie, borghesi, ragazze e madri di famiglia si troveranno a combattere per un unico ideale, pagando con il carcere, l’emarginazione sociale, con la perdita del lavoro, della famiglia e, qualche volta, anche con la vita.

Tutto questo toccherà a Maud e alle sue compagne, minacciate pure dalla polizia stessa attraverso l’ispettore Steed (Brendan Gleeson) che, durante gli interrogatori, le inviterà a non seguire i propri ideali per evitare guai. Alla fine però anche lui si convincerà delle ragioni che animano le donne a lottare per i propri diritti, pur non ammettendolo apertamente. In gran Bretagna, il suffragio universale venne concesso nel 1928, in Italia soltanto nel 1946, in Svizzera nel 1971, in Portogallo nel 1976, nel Liechtenstein nel 1984 e in Arabia Saudita soltanto nel 2015. C’è bisogno di film come “Suffragette” perché ancora oggi la strada da percorrere per la parità completa è ancora lunga e difficile. Le lotte del passato servono ad infondere coraggio per portare a termine quelle del presente. Per realizzarlo, la regista e la sceneggiatrice Abi Morgan (The Hour, The Iron Lady, Shame) si sono ispirate alle lettere, alle biografie e ai diari intimi scritti dalle donne in quegli anni.

La stessa Emmeline Pankhurst, fondatrice del “Women’s Social and Political Union” (WSPU), un movimento che aveva come slogan “azioni non parole”, è stata molto importante per la costruzione della storia e dei personaggi. L’altra donna veramente esistita e inserita nel film è Emily Davidson, morta nel 1913, facendosi investire dal cavallo di re Giorgio V durante una parata per attirare l’attenzione dei media.

Le immagini vere del suo funerale sono diventate la scena finale di “Suffragette”. Un sacrificio che allora risvegliò molte coscienze femminili. Ecco, il film, che non brilla per originalità, ma che non possiede neppure la rigidità delle pellicole in costume, ha il merito di renderci partecipi delle estreme situazioni quotidiane in cui vivevano le donne all’inizio del ‘900. Carey Mulligan, nella sua apparente fragilità, ci mostra una forza di carattere straordinaria che non la fa mai tornare sui suoi passi, neppure quando il figlio viene dato in adozione a causa delle sue attività e dei suoi arresti. “Mai arrendersi, mai smettere di lottare” incitava la Pankhurst a chi la seguiva. Parole ancora molto attuali purtroppo.

Clara Martinelli

Link: http://www.ilquorum.it/suffragette-di-sarah-gavron-un-film-che-mostra-gli-albori-della-lotta-per-lemancipazione-femminile/

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La Grande Madre — Giordano Bruno, il mago irascibile, il filosofo dell’immaginazione

Un post del 2009 
Un tornare indietro, nel progredire ancora….

«Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi»

Giordano Bruno (1548-1600)

Non sono stato io a incontrare Giordano Bruno, ma fu lui a venirmi incontro. È successo per caso, quando ero ancora un ragazzo. Mi chiesero: «Che filosofo preferisce?» e io per darmi un contegno e per non citare sempre gli stessi, i notissimi, feci il suo nome. Non avevo letto neppure un rigo e nel programma liceale ancora non l’avevamo toccato. Al buio.

Da allora mi è rimasto dentro. È impossibile toccarlo senza che lui ti avvolga, definitivamente. Un po’ come i miti secondo Hillman, «Non toccarli se non vuoi che ti ritocchino». Grande verità. Basta farne l’esperienza per comprendere come tutto questo sia reale. Lo dissi anche un giorno, credo fosse il 1991, a Michele Ciliberto, notissimo studioso bruniano e autore di un fondamentale testo sulla sua filosofia. Dunque ero con il professore per preparare un’arringa di difesa del filosofo e letterato nolano. Qualche giorno prima uno studioso inglese aveva accusato Bruno di essere stato una spia della regina Elisabetta. Allora la città di Nola organizzò un dibattito pubblico ma me e quel “pensatore” anglosassone. Ciliberto faceva parte della giuria. Ebbi la meglio sul povero pseudo storico: lo misi subito all’angolo in quanto tutte le sue prove consistevano in alcune lettere che Bruno avrebbe segretamente mandato a Elisabetta I relative a movimenti e trame dei cattolici. Ebbene, non aveva compiuto la perizia calligrafica. Le lettere insomma non erano neppure di Bruno. Una cantonata imbarazzante. La stampa diede qualche attimo di celebrità al “ricercatore”, ma credo che ormai nessuno si ricordi di lui. È la classica fine di chi cerca notorietà infangando il nome dei grandi. Tornando a Ciliberto, fu in quell’occasione che mi chiese, in una splendida mattinata di sole davanti a un ristorante sopra la città di Nola, come mai amassi tanto Bruno. Gli risposi che l’avevo toccato per caso e che non mi aveva più abbandonato. «È successo così anche a me» mi rispose.

Giordano Bruno è il più grande mago rinascimentale. Anche Giorgio Galli ha affermato che i filosofi ermetici del 1500 sono stati gli unici alleati del pensiero Femminile; Bruno quindi, a sua volta, sarebbe un sostenitore di questa cultura alternativa, che si esprime soprattutto mediante la magia.
Siamo di fronte a un pensiero vastissimo la cui somma importanza è però essenzialmente ascrivibile all’ambito ermetico-esoterico, come ha evidenziato, appunto, Frances Yates, mentre in Italia questa componente è stata quasi del tutto trascurata.
La vita di Giordano Bruno é essa stessa “esemplare” in relazione al nostro discorso. È un racconto vero che serve a portare alla luce lo scrigno occultato del Femminile arcano. Per questo è utile ripercorrerla. È un viaggio straordinario da compiere tutti insieme. Una profonda malinconia e una grande gioia di vivere. Giordano Bruno vive tra questi due opposti stati d’animo. Cerca continuamente il dialogo, ma trova solo i volti arcigni del bigottismo. Calvinisti, protestanti, riformati, anglicani e cattolici sono tutti della stessa pasta fondamentalista, alla fine del Cinquecento.
Il Rinascimento purtroppo appare lontano. Ha messo le gemme con Pico della Mirandola, con Marsilio Ficino e il grande Lorenzo. Poi è germogliato sotto la forte influenza del Simposio di Platone e del suo inno all’amore e alla vita. Ed è infine ripiegato, dopo un breve periodo di assestamento, grazie agli odi di religione. E il manto nero che ricopre la mente dei bigotti a intristire Bruno, lui che è un mago e tale ha voluto essere per tutta la vita. Con ciò che ne consegue. Quindi la chiesa l’ha aborrito in quanto eretico e una componente del pensiero marxista l”ha sottovalutato perché da sempre diffida di chiunque si occupi di filosofia ermetica e di occultismo, giudicate tendenze di destra. Personalmente mi rifiuto di avallare questa visione, che ha portato una certa sinistra a bandire personaggi come Giordano Bruno e scrittori come Tolkien.

Bruno comunque è un mago. È utile ripeterlo perché tutta la sua vita è immersa in un’aura di mistero e di fascino. E in buona parte deve essere ancora interpretata. I continui viaggi, le lezioni, i dialoghi con i grandi del tempo sono forse più significativi degli scritti, almeno di quelli in chiave “essoterica”. Cerchiamo perciò di andare al di là della coltre gettata dagli ignoranti – veri o finti – e vediamo nella tela di questo scampolo di Rinascimento la storia di un uomo vivo, allegro, coltissimo, amante del vino, dell’amicizia, della creatività e, come ovvio coronamento, di Eros, il padre di tutti gli dèi. Senza dimenticare che ci troviamo di fronte a una persona coraggiosa fino all’inverosimile e capace di ogni sacrificio pur di mantenersi coerente.

Nel 1572 Bruno ha ventiquattro anni ed è ordinato sacerdote. Proviene da una famiglia della piccola nobiltà di Nola. Sua madre, Fraulissa Fravolino, è dotata di un ingegno vispo, curioso e duttile. A quindici anni ha preso l’abito domenicano e a diciannove ha già iniziato a criticare la curia vaticana. Dal 1572 al 1575 Bruno, il cui nome di battesimo è Filippo mentre Giordano è quello assunto da frate, passa i migliori anni della sua burrascosa vita. Studia la teologia e l’arte della memoria, di cui, da sempre, i domenicani, quelli del suo ordine, sono i principali esperti in Europa. Si tratta di un’antichissima disciplina che aiuta ad associare immagini e concetti. Della sua efficacia testimoniano Pico della Mirandola e lo stesso Bruno che da questi studi ricava il massimo profitto. Sembra accertato che ricordasse tutto in modo indelebile. Gli bastava consultare un libro per non dimenticarlo mai più. Quindi la sua cultura, con gli anni, diventò sterminata. Pensate ai vantaggi, anche per una persona qualunque, di poter rammentare dalla A alla Z tutto quanto si è letto durante la vita.

La felicità di Bruno ha corso breve. Nel 1576 viene raggiunto dalla prima accusa di eresia. Non è una voce o un rimprovero, ma una vera ingiunzione. A quell’epoca significava subire un interrogatorio iniziale della durata di uno o due giorni e poi, in caso di resistenza alle accuse, essere trasportato nella sala delle “domande” dove giungeva un signore vestito di nero accompagnato da un aiutante. Contemporaneamente facevano il loro ingresso frusta, tenaglie opportunamente infuocate, cavadenti, magli e altri strumenti per spaccare le ossa.
Bruno conosce la “procedura” e fugge immediatamente.
Iniziano così i suoi pellegrinaggi.

È solo, è giovane, ha indosso soltanto il saio che deve necessariamente abbandonare. E ormai spretato, condizione assai pericolosa perché chiunque può denunciarlo per ricevere una congrua ricompensa.
La sua prima tappa è Roma, dove una diceria lo vuole partecipe dell’assassinio di un prete. Un perfetto esempio di falso perpetuato nel tempo. Nessuno sa chi fosse quel prete, di cui non è stato tramandato il nome in alcun atto o documento. Non sono noti neppure la data dell’omicidio e il luogo dove sarebbe avvenuto. Non si conoscono nomi di testimoni, di accusatori e neanche dei giudici. Ciò nonostante su molti libri si continua a leggere di questa ignominia. Una vera diceria da untore sopravvissuta nei secoli.
Comunque sia, a maggior ragione, Bruno deve proseguire nella sua fuga. Ecco Genova, Nola, Savona, Torino, Ginevra, Parigi, Londra, Württemberg. Poi ancora Praga, Helmstad, Francoforte e infine Venezia, nel 1590.
Sono quattordici anni di peregrinazioni incessanti. Sempre povero e solo. Sempre spretato ed eretico, sempre studioso e insegnante di filosofia nelle università delle città dove si sofferma, che poi sono le migliori del mondo. Sempre accolto a corte. A Parigi, a Londra, a Praga.
Un sapiente itinerante che cerca ospitalità e rifugio. Scrive, pubblica finché l’Inquisizione lo ghermisce a Venezia per il tradimento dell’infido Mocenigo.
Questo è, in sintesi, tutto ciò che si sa di lui.
Eppure, qualcosa sfugge.

Rivediamo un momento questa cronaca “ufficiale” della sua vita. Bruno, dunque, è un perseguitato, eretico e squattrinato, che vaga per l’Europa. Fin qui nulla di strano, ce ne sono stati tanti altri e molti ancora ne verranno dopo di lui. Ma appunto costoro “vagano”, non hanno un itinerario né una meta. Cercano asilo e quando lo trovano non guardano tanto per il sottile. Trangugiano angherie in cambio di un tetto e di una mensa. Ben contenti di non essere riconosciuti – sono eretici, non dimentichiamolo – e del tutto lieti di non finire in una segreta o in mano al torturatore. Bruno invece ovunque vada viene accolto con tutti gli onori e gli si affidano le cattedre più prestigiose. A uno spretato si assegnano quindi le materie di maggior prestigio culturale e politico.
E un assurdo che contravviene a qualsiasi logica.
Non solo, a Parigi e a Londra frequenta assiduamente la ristrettissima cerchia dei reali.
Bruno riesce sempre, ovunque si trovi, a pubblicare le sue opere di filosofia e di magia. E questo, nonostante che la filosofia ermetica sia perseguitata da tutte le religioni e confessioni.
Dovremmo forse iniziare a chiederci da chi sia continuamente “accolto”.
Nel 1576, all’inizio delle peregrinazioni, è un perfetto sconosciuto. Perché dunque le autorità dei vari paesi, in cui si sofferma, avrebbero dovuto dargli incarichi importantissimi?
È evidente che si muove come su un circuito preordinato. Si reca dove sa di poter andare. Il mago, definiamolo così perché è l’unico modo davvero corretto per identificarlo, percorre rotte sicure. Deve esistere una confraternita, un gruppo, un’associazione, chiamiamola come vogliamo, che gli tesse una tela su cui possa muoversi senza timori. Che riconosce in lui il rappresentante di un sapere alternativo e giusto, gli apre perciò tutte le porte.
La coerenza del nolano, la forza con cui afferma le proprie idee, che poi sono quelle magico-ermetiche, unitamente a un’assoluta incapacità di ipocrisia, gli rendono ostili i bigotti e le autorità religiose. Ma questo avviene “dopo” l’accoglienza.
È un’ipotesi che potrebbe costringerci a rivedere tutta la storia culturale di questo periodo. Dobbiamo necessariamente ipotizzare che sia esistita una segreta associazione di menti aperte e antifondamentaliste, che gli consentiva i movimenti e che lo proteggeva in ogni situazione.
Prima abbiamo detto che Bruno, al momento della sua fuga iniziale, non era un personaggio noto, almeno non a tutti. Ma sicuramente doveva essere conosciuto ai membri di questo “gruppo” di cui finora la storia ufficiale non si è mai occupata. Perché costoro sapessero chi era, Giordano Bruno doveva essere in contatto con loro da molto tempo prima dei cosiddetti “vagabondaggi”. Era stato affiliato dalle persone che professavano la luce del bene e della conoscenza?
È certo che dovunque Bruno giunga lascia come un “segno”. Tanto è vero che in ogni città da lui toccata sorgono congreghe che possiamo paragonare a logge massoniche. Forse quella misteriosa associazione confidava nelle sue capacità di entusiasmare gli animi e organizzare la gente intorno a sé. Qualcosa di simile è accaduto, molto tempo dopo, anche a Casanova, e a Cagliostro.
Comunque i suoi spostamenti e l’ospitalità “innaturale” che riceve richiamano alla memoria i nove Cavalieri Templari e la quanto meno generosa accoglienza riservata loro da re Baldovino di Gerusalemme.
Dobbiamo ipotizzare, finalmente, l’esistenza di una sorta di cerchia di eletti da sempre “nascosta”, che tenta di scongiurare le persecuzioni dei fanatici religiosi, che propugna la libertà di espressione e di ricerca? Forse un gruppo, che oggi definiremmo “di scienziati”, all’esplorazione di campi del sapere a quell’epoca vietati e del tutto ignoti alle masse. Una congrega “coperta”, perché in quei secoli di oltranzismo non è davvero possibile dichiarare simili intenti alla luce del sole.
Affronta inoltre campi che le moltitudini devono ignorare, e questo è forse il più fitto di tutti i misteri. Perché al sapere-potere non possono accedere quelle persone che non si sono purificata l’anima, per usare un’immagine del Dolce stilnovo.
È una questione fondamentale, uno dei massimi arcani della nostra storia. Per questo è utile continuare il racconto di Giordano Bruno e cercare di vederne la “trama”.

Il lavoro femminile


(Gustave Courbet, Le vagliatrici di grano, 1853)

Hospes comesque

Inviato da Valeria D. A.:

Il punto di vista del Femminile:

Hospes comesque

Corpo, facchino dell’anima, in cui sperare forse
sarebbe vano, amato corpo, più che non amarti;
cuore in un vivente ciborio trasmutato;
bocca senza fine tesa alle più nuove esche.

Mari dove si può vogare, sorgenti dove si può bere;
frumento e vino misti al banchetto rituale;
alibi del sonno, dolce cavità nera;
inseparabile terra offerta a tutti i nostri passi.

Aria che mi colmi di spazio e di equilibrio;
brividi lungo i nervi; spasmi di fibra in fibra;
occhi sull’immenso vuoto per poco tempo aperti.

Corpo, vecchio mio compagno, noi moriremo insieme.
Come non amarti, forma a cui io somiglio,
se è nelle tue braccia che stringo l’universo?

Marguerite Yourcenar

Sul Femminile

Il Femminile però non appartiene solo alle donne, ma attraversa tutti. È l’accettazione del diverso, dello straniero, dell’umile, dell’abbandonato, del malato, del reprobo. È la capacità immaginativa, del lasciarsi andare, dell’accogliere e del perdere la posizione acquisita per lanciarsi in altro, del tuffarsi in un diverso mondo e modo di vivere. È anche l’intrigante, il bugiardo, lo svenevole e il malinconico che ci portiamo dentro. Tutte qualità che appartengono a quella parte essenziale del nostro inconscio che Jung ha definito Anima.

Gabriele La Porta

Sul potere delle donne

Il potere dell’uomo si è logorato non tanto per i processi dell’emancipazione femminile, ma soprattutto per il progressivo svuotamento del mito della potenza maschile. Inoltre, nel nostro mondo occidentale la società e le famiglie iperprotettive hanno decisamente favorito una dolce castrazione del maschio tradizionale, il quale felicemente delega alla donna responsabilità e ruoli da lui un tempo detenuti. La donna moderna, d’altra parte, è stata forse anche felice di impossessarsi di tale potere, ma spesso accade che un successo, se reiterato, si ritorce contro lo stesso vincitore. La trappola relazionale è ancora rappresentata dal fatto che dapprima la donna è gratificata da questa accentuata responsabilità decisionale, per poi nel tempo trovarsi a esserne profondamente disillusa e in difficoltà. 

Giorgio Nardone

Dioniso, Dio delle donne

Dioniso è essenzialmente un Dio delle donne. Sebbene sia una figura maschile e fallica, non c’è misogenia nella struttura di coscienza che egli rappresenta, giacché essa non è divisa dalla sua femminilità.

James Hillman

Georges Rouault – Stella mattutina, 1895

E’ la perfetta simbolizzazione dell’Alba psichica. La Stella mattutina è rappresentata sotto forma femminile. L’anima si risveglia dal torpore di un oblio assoluto. La non-volontà di vivere arretra quel tanto da consentire, al mattino della trasformazione,  di identificarsi e di mettersi al servizio della sofferenza della persona, oramai decisa ad intraprendere il sentiero della mutazione

Gustave Moreau, Edipo e la Sfinge, 1864

Questa immagine rappresenta il momento della “battaglia” con l’Ombra personale.

Lo sguardo di Edipo fisso sulla Sfinge rappresenta il tentativo disperato dell’Io cosciente di osservare i contenuti incomprensibili dell’inconscio, simbolizzati dalla Sfinge. Il mito racconta della vittoria di Edipo che, proprio in seguito a questo successo, finirà per accoppiarsi inconsapevolmente con la madre e, quindi, procurerà a se stesso un destino di disperazione che culminerà nell’autoaccecamento. A dimostrazione del fatto che l’Io non potrà mai, da solo, vincere sull’Ombra, a meno che non venga a patti e tenga conto della sua forza immane. La Sfinge qui ha tutte le caratteristiche del femminile-lunare che solo in apparenza può essere sottomessa dal maschile. L’Ombra non va messa in vincoli e negata, bensì osservata in tutta la sua potenza ed una volta presa la consapevolezza di tale energia psichica, bisogna tentare di stabilire un contatto. Questa “impresa” è “fare anima”, nel senso in cui lo intendono James Hillman, Luigi Zoja, Francesco Donfrancesco e Carla Stroppa, ovvero la “coltivazione” di quel territorio intermedio tra conscio e inconscio.

La decadenza del corpo

Map pina…

Simone De Beaviour fa un interessante spiegazione in uno dei capitoli del suo “second sex” , su Schopenhauer e Hegel , sulla decadenza del corpo, penso che Venere sia in un certo qualmodo, la “carne” e Eros il figlio di Afrodite/Venere, sia la concezione “fallica” dell’amore, come conquista e non come destino , della “carne” appunto.Forse?

–capitolo Dreams, Fears, Idols :
“L’uomo [maschio] aspira a fare dello Spirito il trionfatore sulla Vita, l’azione sulla passività; la sua coscienza tiene la natura a distanza, la sua volontà le dà forma, ma nel suo organo sessuale lui trova sè stesso assediato ancora dalla vita, dalla natura e dalla passività”
[continua Beauvoir] ]”Gli organi sessuali scrive Schopenhauer sono le vere sedi della volontà, di cui il polo opposto è il cervello [la mente] .quello che lui chiama “Volontà” è l’attaccamento alla vita , che è sofferenza e morte, mentre “il cervello” è attaccamento al pensiero , che è distaccato dalla vita nell’immaginarla. Vergogna sessuale, secondo lui, [Schop.] è la nostra vergogna che proviamo di fronte alla stupida infatuazione con la carnalità.

Anche se prendiamo [con le molle] data il pessimismo delle sue teorie, egli è nel giusto notando questi opposti : sesso contro mente, l’espressioni della dualità dell’uomo .

Come soggetto , egli possiede il mondo e rimanendone al di fuori del suo posseduto mondo, egli si rende padrone di esso; se si vedesse (esso stesso) come carne, come sesso, non è più una coscienza indipendente, chiara e un essere libero : egli è coinvolto con il mondo, egli è un oggetto limitato e deperibile. E senza dubbio l’atto generativo passa al di là delle frontiere del corpo; ma allo stesso tempo le stabilisce. Il pene , padre di generazioni, corrisponde all’utero materno; crescendo da un germe che cresce nel corpo di una donna , l’uomo stesso è un portatore di germi, e attraverso la semina che dà la vita alla sua stessa vita rinuncia.
“La nascita di bambini” dice Hegel è la morte dei genitori” L’eiaculazione è la promessa di morte , è un asserzione di specie contro l’ individuale; l’esistenza dell’organo sessuale e la sua attività negano la orgogliosa individualità del soggetto.E’ questa contestazione della vita contro lo spirito [pensiero] che rende [quest’] organo scandaloso.—

Di seguito Simone De Beavoir descrive come l’uomo nel suo affezionarsi ad una sola donna e rendendola quindi “il suo” ideale di femminilità tocca il “Magico” da cui le tradizionali accuse alla donna di essere un’incantatrice e tutta una serie di miti su di essa, di tutte le fattucchiere streghe,Circi di tutti i tempi il cui potere –come quello di Venere aggiungo io– è quello di per forza per essere messo in una categoria tranquillizzante per il maschio patriarcale di essere “a parte” fuori dalla società, Società, proprietà, piegamento di tutti alla volontà devono vincere sopra la oggettività passità naturale decadimento del femminile”.A meno che la fattucchiera di turno non faccia bere al malcapitato maschio una bevanda che faccia dimenticare all’uomo dei suoi doveri.Così l’uomo soltanto potrebbe giustificare la sua non capacità di potere sul suo corpo.

–Forse è per questo che Eros ha soppiantato Afrodite?perchè è un dio maschio che decide, che ha una volontà, un dio conscio di sè, non una dea naturale in tutti i quadri raffigurata come facente parte della natura.

spero sia interessante, l’ho tradotto quindi se su internet c’era già il testo in italiano beh’ …ho perso tempo..!.[tra parentesi quadre ciò che non c’è nel testo] …enjoy!

Femminile

Perché la magia è femminile, splendidamente femminile. Occorre intendersi su questo elemento: femminile. …non si tratta di una qualità esclusivamente delle donne, ma di una facoltà dello spirito. È la tolleranza, è la capacità di abbandono e di tenerezza, è la curiosità verso il nuovo, è l’accettazione del diverso, del debole, dello straniero. È l’energia che guida il mondo. È il sentimento dolce e rutilante, forte e languido, erotico e avvampante che sussurra alle creature il mistero della vita. È la Luna, è Artemide, è Persefone, è Iside, è Ishtar, è la madre che osserva, riflette, ama e non giudica. È la nostra capacità di intendere e di comprendere, priva di pregiudizi e di rancori. È l’energia raggiante che si dispiega benevola sulle creature. È la possibilità di un mondo privo di lotte e odi. È la pace della mente e del corpo. È la follia, la conoscenza. È contemporaneamente luce e buio, notte e giorno. È la possibilità del mutamento e della trasformazione. È insomma la parte migliore di noi, che la storia della violenza patriarcale ha soffocato per privilegiare il sangue e la lotta all’estasi dell’intuizione radiosa.

“Povertà e miseria”

Cari amici, Nicola ci ha mandato una splendida riflessione:

Caro Gabriele,
ieri leggendo Dostoevskij ho trovato questo importante passaggio:

“Egregio signore, povertà non è un vizio, questo è vero.
Ma la miseria, egregio signore, la miseria è un vizio. Nella povertà si può conservare ancora la nobiltà dei propri sentimenti innati, nella miseria no, mai e nessuno. (…) perchè nella miseria io sono il primo a umiliare me stesso.”

Ecco. Io sono per la povertà. La povertà è riscoprire il piacere di danzare al suono di una radiolina, sull’erba fresca di un prato, invece di accalcarsi per entrare in una discoteca e fare a botte per gli sguardi indiscreti rivolti ad una ragazza.
La povertà è dividere insieme alla creatura amata una pizza in due, con una felicità nel cuore che nessuno può rivelare.
La povertà è l’essenza stessa della Natura, che ama nascondere la propria ricchezza dietro questo velo così candindo e semplice.

I tuoi racconti d’infanzia rivelano quanto tu conosca questa condizione. Condizione che ti ha permesso di conoscere la magia naturalis e l’essenza del Femminile..

Ma la miseria… è il non aver più fiducia nella provvidenza perchè qualcosa o qualcuno ha diviso l’uomo dalla Natura.
E allora un povero, senza la Natura, diventa un miserabile. Un poeta senza il suo territorio poetico non è più un folle perchè diventa pazzo.
Ed è proprio questo che vogliono fare di noi i detentori del potere. Impedire all’uomo di avere un lavoro è togliergli ogni dignità e lasciarlo difatti impazzire. In queste città che sono diventata gabbie di spersonificazione.
E dove c’è miseria non può che esserci che violenza e sopraffazione.

Avere scarsa stima di sé, spesso rivela personalità umili e gentili, ma (adesso immagino Giorgio Colli) cosa diverrebbe un Giorgio Colli privato della sua unica possibilità di comunicare agli altri la personale visione del mondo?

Mi alleo al canto dei disoccupati, alle richieste silenziose dei vecchi e dei pensionati costretti a parlare con i piccioni e alle tante persone che non smettono di cercare nella folla, sguardi complici e curiosi.

Non so perché custodisca ancora l’idea malsana di dover rispondere a tutto questo mantenendo in me il sentimento della compassione e della bontà.

“La mia è una donna favolosa”

Oggi invece il post lo regala Valeria. Attenti. Leggete bene.

Quest’uomo invece dice:

“La mia è una donna favolosa” – ( Salvatore Toma – da “Canzoniere della morte”, Einaudi, Torino, 1999)

Vorrei ficcarmi le dita / allo stomaco /
spaccarmi le costole / spezzarle con grandissimo dolore / aprirle
so che non verrebbero fuori / visceri fegato cuore
verrebbero fuori / neve alberi fuoco
vento pioggia / perchè io sono fatto così
vegetale e libero.
Io non sono cervello / ossessioni inibizioni
società paure
Io sono vita / vita libera
libertà foreste / gioia di esistere.

La mia / è una donna favolosa.
In nessuna parte / del mondo avrei potuto
trovare un simile mostro / di pazienza e di amore.
La mia / è una donna favolosa.
Pur di non perderla / rinuncerei ai miei versi.

Lo sbagliato sono io / non c’è che dire
non occorre perciò illudersi / tacitarsi con metodi
d’appendice usuali / il caso le fantasie le occasioni…
o ridursi a un sono fatto così / ma è successo
che un angelo sbandato / e io non so farlo felice.

E’ disperata / per questo mio modo
naturale / (ma sarà poi vero?)
di vivere la vita / (ma sarà poi vera?)
mi tenta l’idea / di spingere il tormento
di sfiorare la pazzia / gonfiando l’assurdo /
a dismisura.
E’ una gara irresistibile / e tremenda
dove il perdente / è evidente.

Ricordo la sua dolcezza / i primi tempi
faceva vergognare il paradiso /
le sue dita sul mio corpo / erano lentissimi ragni
non c’era parte che lei / non avesse esplorato
baciato / stretto a sé.
Darei tutto / perchè oggi si ripetesse
quel tessersi dolcissimo / di carezze di sguardi
di tremiti / oggi ridotti a un tollerarsi /
con violenza con rabbia con ingiurie.

Che cosa si può fare / per tornare indietro?
ringiovanire dimenticare / invecchiare illusi alla rovescia / riproporsi…
Non che io voglia ringiovanire / per rivedermi di nuovo ragazzo / magro e forte
Vorrei ringiovanire / per quelle mani / per quel suo frusciare in un corpo / come un rinascere.
Aveva gli occhi / marrò dolcissimi stremati
una volta lucenti come acqua / io avevo altri amori.

Facciamo ancora l’amore / una cosa ormai meccanica / dopo ci si lava (per la verità si lava lei)
ma i baci / i baci sono rabidi / serrati come un morso.
Un tempo erano piume / sofferti come vento estivo.
Eppure qualcosa / ci deve essere / che si può fare
qualcosa di mai tentato.
Si ritrovano civiltà perdute / statue sui fondali / brocche monili / come posso ritrovare / il mio passato se non è sottoterra / e non è sepolto in mare?
Il guaio è che è dentro di me / dove non mi posso tuffare.
E’ il passato / non è la morte / che mi fa paura
è il passato / che è più funebre e più funesto
del buio in una bara / è il passato che mi dilania
questo essere stati senza possibilità di ripetersi / di dirle una parola…

(Non finisce quì ma a questo punto, ogni volta che rileggo la lirica, mi domando cosa dice l’angelo per far tacere il vecchio burbero e sedicente esistenzialista. Forse gli da un bacio sulla fronte e gli sussurra in un orecchio: – Vado a prenderti la pastiglia. Calmati, sono quì! –
Cosa aspetta a volare via?… Non ho risposte! Sta lì perchè tanto ormai è tardi e avrà tempo per volare? L’ho sempre visto lì, quell’angelo, ad aspettare che il suo uomo trovi una risposta alle sue domande. Paziente, incurante del tempo che è passato e che è rimasto. Senza tempo! Proprio bello e umano l’angelo che traspare tra le righe!)

Inno a Iside

Carissimi amici, l’articolo di oggi è un magnifico ed illuminante “Inno a Iside”, sec. III o IV (?), ritrovato a Nag Hammadi:

Perché io sono la prima e l’ultima,
Io sono la venerata e la disprezzata,
Io sono la prostituta e la santa,
Io sono la sposa e la vergine,
Io sono la mamma e la figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono la sterile, eppure sono numerosi i miei figli.
Io sono la donna sposata e la nubile,
Io sono colei che dà la luce e colei che non ha mai procreato,
Io sono la consolazione dei dolori del parto.
Io sono la sposa e lo sposo,
E fu il mio uomo che mi creò.
Io sono la madre di mio padre,
Io sono la sorella di mio marito,
Ed egli è il mio figliolo respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono la scandalosa e la magnifica.

Attendo con ansia le vostre riflessioni e le vostre emozioni… A presto!

Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte IV

I due amanti sono trovati addormentati di notte da Artù, che mette tra loro la sua spada. Da quel momento l’arma si chiamerà Excalibur, ovvero «mezzo per raggiungere il divino». Lancillotto e Ginevra sono dunque aiutati da Artù per giungere, nella loro fusione di maschile e femminile, alla dimensione eterna. E poiché la spada rappresenta l’anima, ecco che il re dona loro l’anima per arrivare a Dio.

Questo è il vero significato dell’episodio, il mistero celato dietro un’apparente storia di tradimento.

Lasciati i due amanti, il re torna a Camelot, ma poiché non può vivere senza l’amico e senza Ginevra, cade gravemente ammalato. Solo il Santo Graal, la coppa da cui sgorga una bevanda magica che dona «ogni sapienza», potrà salvarlo. I Cavalieri della Tavola Rotonda partono quindi alla ricerca.

Approfittando dello stato di confusione di Artù, la sua sorellastra Morgana, la strega, assume le sembianze di Ginevra e riesce a fare l’amore con il re, il quale nel delirio è convinto di abbracciare la moglie perduta.

Morgana concepisce da lui un figlio, Mordred, erede del regno. Ormai Artù sembra avere i giorni contati. Infatti i cavalieri non riescono a trovare il Graal e, nella ricerca, cadono tutti vittime di orchi, streghe, negromanti.

Solo un cavaliere puro e padrone di sé, capace di guidare i suoi istinti, può reperire il sacro vaso contenente la bevanda miracolosa. Perfino Parsifal, «è colui che ha mondato il cuore», è caduto vittima degli intrighi di Morgana e Mordred, il figlio dell’incesto. I due l’hanno catturato e appeso a un albero, con la testa in giù.

Ma in questa posizione Parsifal comprende il segreto per raggiungere il Graal.

Qui è nascosto un altro insegnamento velato: il guerriero giunge all’intuizione dal momento in cui «è appeso», quando ha assunto la posizione dell’omonima carta dei Tarocchi. La saggezza arriva capovolgendo i termini del ragionare ordinario, modificando completamente la cultura, la mo­rale, i luoghi comuni.

Parsifal riesce a slegarsi dall’albero, si getta in un torrente, raggiunge un castello sotto le acque, apre le porte con la chiave nascosta «nel suo cuore» e prende il Graal. Immediatamente corre a Camelot e arriva giusto in tempo: Artù sta per morire. Ma appena beve un solo goccio della preziosa bevanda, il re «conosce il bene, il male e tutto come è sempre stato» e guarisce.

Finalmente il signore della Britannia può marciare contro i Sassoni, guidati da Morgana e Mordred. In una battaglia epica Artù li sconfigge. Mordred è il ricettacolo di ogni male: lussuria, invidia, odio, arroganza, ira bestiale si annidano dentro di lui.

Il re sguaina Excalibur e si avventa contro Mordred, che a sua volta ha sfoderato Rubilacxe, la sua lama.

I due si colpiscono contemporaneamente e si uccidono in un abbraccio selvaggio, affondando fino all’elsa le rispettive armi l’uno nel corpo dell’altro. A terra, le loro teste si appoggiano l’una accanto all’altra.

In realtà, osservando i significati della storia al di sopra del senso letterale, Artù e Mordred sono complementari: tutta bontà l’uno e tutta malvagità l’altro, tant’è vero che persino la spada Rubilacxe è il nome di Excalibur rovesciato. Insomma, Mordred è Artù allo specchio. Per questo «devono» fondersi: non esiste vera saggezza se la parte spirituale dell’uomo non si armonizza con quella brutale e selvaggia.

Questa simbologia è davvero rivoluzionaria: anche il peccato, vedi Lancillotto e Ginevra, anche Mordred con le sue mostruosità, sono utili al mantenimento dell’armonia primitiva, quella racchiusa nei disegni arcani.

Nella filosofia ermetica non è possibile perciò dare un significato univoco a un personaggio, a un simbolo o a un avvenimento. Tutto rientra in un disegno complessivo. Occorre rifarsi a sensi più alti, a conoscenze più vaste, circolari, complete. Uomini, leggende, gesta, spade, santi, simboli rientrano tutti in questo immane mosaico della Conoscenza Femminile nascosta.

Appunto un’altra storia, parallela a quella ufficiale dei libri di testo. Occhi nuovi per vedere le cose vecchie e anche queste diventano improvvisamente nuove.

Ricordate? È stata questa una delle esortazioni con cui è iniziato il viaggio. Ora però occorre fare un altro sforzo sulla rotta del «disvelamento» e capire uno del momenti fondamentali della scienza di cui abbiamo parlato sovente, di quella magia di cui in fondo nessuno parla volentieri, a meno che non si tratti di un iniziato. Una scienza spesso travisata nelle sue valenze originarie.

Per entrare nel suo cuore, è necessario comprendere la ritualità dei gesti, dei movimenti, dei canti, delle formule. Bisogna insomma procedere sulla rotta che conduce al rito.

In effetti, tutta la magia comporta una ritualità. Ecco allora delle storie che servono come mezzo esplicativo. Sono esempi, racconti emblematici necessari per quella via di scioglimento delle tenebre che ha ricoperto l’altra storia della civiltà, quella segreta, quella dell’antica sapienza del Femminile.

La Grande Madre — Dove una fanciulla arriva determinata nella città di Chinon…

Giovanna d’Arco e la torre della “sapienza” dei Templari.

Che cosa non sembra splendido a diciassette anni? La città di Chinon, a sudest di Tours, in Francia, è bella in sé, con il suo borgo bianco e i tetti che cangiano in oro sotto il sole. Il castello domina l’abitato con le sue tre torri capaci di resistere a qualsiasi attacco. La più alta misura venticinque metri e guarda imponente per oltre quindici chilometri tutta la contrada. La sommità è larga più della base a testimoniare che quello è un luogo adatto al re. La cima sembra infatti una corona gigantesca che si erge sulle case degli uomini a simbolo del potere.

Una ragazza guarda rapita, non ha mai visto nulla di così eccitante. Trattiene il respiro e quindi si lancia al galoppo. Almeno per quanto è nelle possibilità del suo ronzino. Però a lei sembra un destriero alato, un ippogrifo adatto a mitici cavalieri, a Lancillotto e – perché no? – ad Artù in persona.

Le sembra di volare fino alle porte della città, dove due guardie le sbarrano il passo senza neppure proferire parola. Nessuno che venga dalle campagne può entrare. C’è la guerra con gli inglesi e inoltre numerose bande di tagliagole scorrazzano per la campagna seminando il terrore. Il paese vicino è stato messo a ferro e fuoco nel mese di febbraio e gli abitanti sono stari tutti seviziati, torturati e fatti a pezzi. Si dice che gli assassini siano riusciti a entrare grazie a una ragazza che si era infiltrata nel paese. Di notte sembra che sia riuscita ad aprire le porte per far entrare i suoi compari. Poi la strage.

Ecco perché gli armigeri sono vigili. Con lo sguardo severo chiedono all’esile contadina dove sia diretta. Non è neppure giorno di mercato e quindi non ha nessun motivo per giungere a Chinon.

«Vorrei essere portata…» mormora l’adolescente, ma non fa neppure in tempo a finire la frase che viene interrotta bruscamente da un cavaliere che intanto è sopraggiunto dalla sua stessa strada. È armato in modo pesante e accanto a lui sono due scudieri e un sergente. Non portano insegne nobiliari. Quindi sono isolati, sono delle spade in vendita. Di questi tempi per gente come loro non e difficile trovare lavoro. Basta offrire “il giusto” che sguainano l’arma, non importa contro chi, l’essenziale è avere la borsa e la pancia piene.

«Fatti da parte contadina!» urla l’uomo d’arme, inveendo con turpiloqui e bestemmie contro la ragazza. Quindi sbotta in una risata colossale, in coro con i suoi tre compari e le guardie di sentinella al portale. Sghignazzano e guardano quella ragazzetta vestita di stracci, con una ghirlanda di fiordalisi intorno alla testa. Si aspettano che fugga via in lacrime. Per la verità nella testa del sergente sta anche balenando la gustosa idea di prenderla, riversarla sulla sella e usarla per un paio di notti, quando, ormai stanco di bevute, avrà voglia di violentare qualcuno.

E infatti la ragazza si fa subito sentire. Ma il suo non è né un pianto, né una supplica. È un comando tagliente, proferito con voce limpida e implacabile. «In nome di nostro Signore, perché bestemmi? Tu che sei tanto vicino alla morte?» Lo stupore che si stampa sul viso del guerriero è immenso. La guarda attonito. Si volta e scorge che anche gli altri la guardano allibiti. C’è un minuto di silenzio, poi risuona una risata fragorosa, immane, cavernosa, sguaiata. È il blasfemo che sta prorompendo in sghignazzi senza freno. Ride come mai nella sua vita. Una donna ha osato rispondergli e l’ha persino redarguito. Non sa che cosa l’aspetta.

Immerso in quei pensieri non si accorge però che il suo cavallo sta indietreggiando proprio verso il piccolo fiume che costeggia l’abitato e che serve ad alimentare le risorse idriche del castello. Non fa caso quindi alla paura del suo destriero, infastidito forse da quel selvaggio scoppio di ilarità del suo padrone, di cui teme da tempo frusta e staffile. No, non si accorge di nulla quel cavaliere, che perciò non riesce a muovere un dito, quando il suo quadrupede precipita lungo le ripide sponde. Fa in tempo soltanto a pensare “strega maledetta!” allorché le acque si chiudono in un baleno su di lui, appesantito com’è dall’armatura. A morire con l’acqua nei polmoni ci metterà invece qualche orrido minuto. Ma nessuno da sopra ha fatto in tempo a intervenire. Uomo e quadrupede sono spariti in un soffio, come risucchiati da una forza sotto le acque.

Sergente, scudieri e vigilanti pensano tutti la stessa cosa: «È stato preso dalla mano del demonio». Quindi con molta cautela sbirciano la ragazza che li fissa, uno dopo l’altro, con occhi fiammeggianti. È rimasta immobile e non mostra alcuna curiosità per il destino del soldato. Non sarebbe stato necessario, comunque. Infatti un gorgo si delinea nel fiume e la corrente erutta l’uomo e il suo cavallo, cadaveri. Il cavaliere è agganciato dai servitori che lo trascinano a riva. Gli tolgono l’elmo spinti da un’irragionevole speranza. Ma subito si ritraggono inorriditi. Sono bastati pochi minuti e alcuni pesci, solo Dio sa come, si sono infilati tra le grate del cimiero e hanno fatto scempio del volto. È lo stesso sentimento che provano tutti gli altri armati mentre osservano la ragazza immobile che, riprendendo il discorso interrotto dieci minuti prima dal sopraggiungere dei mercenari, dice: «Vorrei essere portata al cospetto del Delfino, da Carlo. Vengo da Domremy e sono diretta, se nostro Signore Gesù Cristo lo vorrà, a Orléans».

Inizia così, il 9 marzo del 1429, la storia di Giovanna. Ragazza di diciassette anni che si reca in abiti da contadina alla dimora del Delfino di Francia, legittimo erede al trono, che non può divenire re perché suo padre Carlo VI è pazzo e lui non può succedergli per l’avversione di nemici implacabili che gli negano un diritto legittimo.

Gli inglesi e i borgognoni sono infatti alleati contro la corona francese e dominano di fatto quasi tutto il Paese. Nessuno può aiutare il giovane Carlo, il Delfino, che con il tempo si è lasciato andare a lascivie e dissolutezze. Ben aiutato in questa strada in discesa dalla madre Isabella di Baviera, la cui condotta è così scandalosa che i suoi contemporanei, quando devono insultare una ragazza dai facili costumi le dicono “sei proprio un’Isabella!”. In simile compagnia di prostitute e sicofanti, il Delfino trascorre i giorni sciupando giovinezza e salute. Per metterlo sul trono occorre soltanto un miracolo. Forse sarà stata una segreta preveggenza, forse una voce interiore, forse curiosità o presentimento. Chissà. Certo è che Carlo accetta di parlare con la giovane. Ma non basta. Dopo pochi giorni le affida quel che rimane dell’esercito francese per consentirle di andare a riconquistare Orléans presidiata da fortissimi contingenti inglesi.

Lei andrà, vincerà e metterà Carlo sul trono.

Tutte le storiografie ufficiali raccontano questa storia. Chiara e nitida.

Eppure a ben guardarla, o meglio, a osservarla tra le pieghe, tra un filo e l’altro del tessuto, si scoprono colori e ricami impensabili.

È la trama simbolica del mistero.

Primo interrogativo. Come è possibile che una piccola contadina diciassettenne riesca a parlare a un re? Il problema, oltre che di accesso alla persona, è anche di linguaggio. Infatti nelle campagne di Francia si parla un idioma completamente diverso da quello di corte. Una sorta di slang pressoché incomprensibile per la nobiltà.

Se Giovanna riesce a farsi capire, vuol dire che qualcuno le ha insegnato come esprimersi e cosa dire. Ma chi?

Domremy, il paese da dove lei proviene, nella prima metà del quattrocento è poco più di un ammasso di casupole. Il contado vive dovunque un’esistenza precaria e qui, se possibile, ancor peggio. Perché c’è una guerra secolare e nei campi sono passate orde di sbandati e di eserciti regolari, che di regolare hanno solo la continuità della propensione al saccheggio. In questo quadro risulta francamente impossibile credere che un mezzadro abbia trovato i denari per istruire la figlia. Poi non è neppure questione di soldi ma di tempo. Le ore della giornata sono poche per chi deve badare a tutto, dalle bestie all’orto. Per una donna le afflizioni si raddoppiano. E allora? La ragazza non ha avuto né ricchezze, né tempo per imparare come sostenere un dialogo con il legittimo erede alla corona.

Ma non è che l’inizio delle incongruità. Ecco subito un secondo interrogativo. Che cosa dire, sul piano della pura logica, di un’adolescente messa a capo di un esercito? Già oggi sarebbe un evento straordinario, cinque secoli fa era addirittura inimmaginabile. Anche perché gli armati erano sempre e comunque comandati da nobili. Matilde di Canossa aveva già diretto le sue truppe, ma era l’erede legittima delle sue terre ed era ben più avanti con gli anni. Tutta la vicenda è illogica, a meno che non venga interpretata con un’altra forma di razionalità per scoprire elementi nascosti nella vicenda e il disegno simbolico che ne traspare.

Per cominciare a svelare la filigrana occorre mettere ordine nelle date.

Il 9 marzo Giovanna si reca davanti al suo re, dopo aver assistito alla morte del mercenario blasfemo. Il problema è appunto di ordine temporale. Lei è già stata a Chinon, ma il giorno prima, esattamente l’8 marzo. È stata rinchiusa come una povera pazza nella torre più alta del castello. È stato Angelo Quattrocchi, autore di un fortunato libro sulle città misteriose in Europa, a ipotizzare per primo lo sfalsamento delle date. Il problema non è secondario, sebbene possa sembrare ininfluente che Giovanna sia stata a Chinon l’8 o il 9 marzo. E invece cambia tutto. Perché la ragazza riesce a farsi capire soltanto “dopo” essere stata rinchiusa nella fortezza. Passa presumibilmente la notte al buio e al chiuso, quindi viene cacciata. Subito dopo si ripresenta e, l’abbiamo visto nel precedente racconto volutamente romanzato, non è più la piccola invasata di appena poche ore prima. È determinata e ha il potere di preveggenza e di discernimento. Tanto è vero che quando è portata davanti alla corte si rivolge direttamente a Carlo, che si era travestito come un nobile qualsiasi e aveva fatto mettere un altro cavaliere al suo posto vestito con tutte le insegne reali. Eppure Giovanna non esita un solo istante e si mette direttamente di fronte al Delfino. Poi inizia a parlare nel silenzio generale e chiede un’armata da mettere al suo comando. E qui le fonti concordano tutte: nessuno ride. Incredibile! È come se ai nostri tempi una bambinetta davanti al Congresso chiedesse di essere messa a capo dell’esercito statunitense. Ammettiamo pure che riuscisse a formulare la richiesta, vi immaginate gli sberleffi? E invece a Chinon la corte, composta di nobili rotti a tutto, rimane muta. Non è poi così astruso supporre che da quella donna emanasse un fascino assoluto. Eppure fino a un giorno prima era una contadina qualsiasi che viveva serena nei campi. È evidente che le è accaduto qualcosa di incomprensibile alla mente razionale. La risposta più immediata è: un miracolo. Ma questa parola vuol dire, tra l’altro, “degno di essere mostrato”. Ma qui invece tutto è celato e nascosto ermeticamente.

Vediamo di porre ordine. Fino a ventiquattr’ore prima Giovanna è una ragazza comune, altrimenti gli storiografi avrebbero parlato di eventi eccezionali già in periodi antecedenti a Chinon. E da “normale” si reca alla città del re. Parla una lingua “popolare” e quando chiede di vedere l’erede al trono viene rinchiusa nella torre, come capitava a tutti i “folli” dell’epoca. Non tanto per vessarli, quanto per renderli un poco mansueti. Poche ore ed ecco che parla addirittura l’idioma dei monarchi, riconosce Carlo in mezzo a mille e diventa capo dell’esercito.

Cosa è accaduto tra il prima, Giovanna contadina, e il dopo, Giovanna sapiente? In mezzo c’è soltanto una cosa, grande e grossa come una casa, anzi più di una casa.

È la torre.

All’interno di questa costruzione deve essersi verificato un evento eccezionale. Una trasformazione da un modo di essere a un altro modo di essere. Una morte simbolica per una rinascita altrettanto simbolica. Una sorta di rituale presente in ogni forma di religione misterica, la morte a se stessi e la rinascita a un altro sé. Morte e resurrezione.

Ma torniamo alla torre di venticinque metri. Chiunque si rechi a visitarla, e io ci sono stato su consiglio dello stesso Quattrocchi che ho già citato, può vedere la cella dove è stata rinchiusa Giovanna. Il punto è esattamente questo. Nello stesso ambiente, nel 1308, sono stati rinchiusi alcuni Cavalieri Templari accusati di stregoneria e di magia. Sulle pareti sono incise cifre graffite di senso oscuro e forse il nome del loro maestro, De Molay. Qui la giovane ha subìto la metamorfosi. Come e perché non è dato sapere. Ma certo la contadina si trasmuta nella donna “di sapere”.

Dopo quella notte ottiene tutto e mantiene tutto quello che promette, o meglio, che “vede”. Con truppe esigue prende Orléans e vince gli inglesi, poi rimette il legittimo pretendente sul trono e fa della Francia una nazione libera. Un tradimento mefistofelico la fa cadere in mano dei borgognoni che poi la “vendono” agli inglesi che la mandano al rogo. Come “strega”. La stessa accusa che portò i Templari a essere arsi vivi.

La stoffa sul telaio lascia intravedere il suo ricamo. La torre ha custodito i segni dei Cavalieri Templari, la torre ha donato la sapienza a una contadina. La torre ha agito forse come forno alchemico, come momento di trasmutazione, di ri-creazione.

Ecco il simbolo che si cercava, il forno magico.

Forse tutta la vicenda vuole condurre al riconoscimento di questa valenza ermetica. Ma rimane ancora qualcosa da dire.

Quando Giovanna va diritta davanti al re, un cavaliere si stacca dagli altri cortigiani e si mette al suo fianco. Da quel momento starà sempre con lei, fino alla sua cattura. Poi si ritirerà nelle sue proprietà dove sarà prelevato nove anni dopo dalle guardie del clero. Sarà arso vivo, anche lui con la medesima accusa dei Templari e di Giovanna: stregoneria. Quel cavaliere era Gilles de Rais, letterato e artista, meglio conosciuto come Gilles il mago.

Ecco un altro disegno che è apparso sulla tela: un mago che si mette al servizio di una donna. Che le riconosce autorità e potere. Quindi era un mago che si sottometteva al Femminile. È un altro elemento di questo disegno che sembra una normale vicenda miracolistica e che invece possiede molti caratteri ermetici che gradatamente sono emersi allo sguardo sottile. E non è ancora tutto.

Lo storico anglosassone Geoffrey de Monmouth afferma che il mago Merlino un giorno profetizzò: «Una stupenda pulzella verrà da Nemus Cenetum per salvare le nazioni». Ebbene, sapete come si chiamava il bosco che circondava Domremy, il paese di Giovanna? Nemus Cenetum.

Il telaio ha rivelato un’altra trama, oltre quella manifesta.

Mi sono soltanto permesso di evidenziarla, e così farò anche in seguito.

 

 

Bibliografia consigliata

 

Su Giovanna d’Arco e il rapporto con la cosiddetta torre dei Templari vedi Elizabeth Pepper  John Wilcock, Terre e città di magia in Europa, Vallardi, 1991.

La Grande Madre — Dove si ipotizza che Giordano Bruno avesse il compito di fermare le guerre di religione per suggerimento di un misterioso gruppo di “illuminati”, che forse sono “neo gnostici”

«Insegnami, mio Dio e mio re
a scorgerti in tutte le cose;
e qualsiasi azione io compia
lo faccia per te.
Un uomo che guarda un vetro
può fissarvi sopra il suo sguardo
o, se vuole, può guardarvi attraverso
e scorgere allora il cielo.»

GEORGE HERBERT, riportato da FRANCES A. YATES, L’Illuminismo dei Rosacroce

 

 

Immaginiamoci una festa che non ha precedenti nella storia, con un’atmosfera da mille e una notte trasportata a Parigi.

Ci sono proprio tutti. Protestanti, ugonotti, cattolici e riformati di ogni tipo. Nobili di tutte le casate, da quelle terriere a quelle legate al commercio e ai traffici valutari. Militari di carriera provenienti da piccoli castelli di provincia e guerrieri avvezzi ai tornei. Letterati delle università di Parigi, Londra, Ginevra e Bologna. Messi del duca di Borgogna, della regina di Inghilterra e perfino del re di Spagna. Inoltre duecentomila persone si sono radunate intorno a casa Valois. È l’antico piacere dei poveri di veder godere i ricchi. Tripudiano osservando sfilare le carrozze e lanciano lunghe acclamazioni alle dame regalmente vestite, di cui avvertono il profumo degli abiti e della biancheria. Aspetteranno fino a tarda notte, quando dovrebbe giungere il loro momento. Infatti al termine del sontuoso banchetto, i servi porteranno loro gli avanzi. Sono in verità resti di cibo per modo di dire, perché gli invitati spilluzzicano e, anche calcolando la “cresta” dei maggiordomi, rimarrà pur sempre un ben di Dio, o meglio, di re. Un anno prima, in un’occasione meno importante di questa, è stato gettato dai balconi dei Navarra un bue intero seguito da cento cinghiali. Non erano stati neppure sfiorati dal coltello e quella cornucopia sarà forse superata da quella che si annuncia stanotte. Purtroppo, rimarranno delusi. E al momento sarebbero addirittura esterrefatti se potessero vedere quanto sta accadendo dentro il palazzo. Né carni, né pesci, né verdure, né pane. Solo note musicali.

Oltre mille musici sono nascosti ovunque, tra gli alberi dei giardini, dietro gli arazzi, tra i mobili e le colonne. Sono disposti sapientemente nei punti-chiave di risonanza degli archi e delle volte per centuplicare gli effetti delle armonie. In altrettante corrispondenze architettoniche si trovano attori pronti a declamare all’unisono dei versi.

È una notte dedicata esclusivamente alla poesia e alla musica. Una cosa mai successa prima a Parigi e men che meno alla corte del re.
Nessuno sa che cosa aspettarsi. Tranne ovviamente Enrico di Navarra, signore di Francia, e un italiano che insegna nella capitale francese filosofia e arte della memoria.
È un incantatore, dalla cultura smisurata, dall’intuizione fulminante e dallo sguardo magnetico. È entrato nelle grazie del re e del Delfino in modo tanto repentino quanto misterioso.
Questo italiano piccolo di statura e dai modi imperiosi osservava la fila degli invitati che sembra non esaurirsi mai.
A mezzanotte in punto il palazzo è pieno come un uovo. Lo straniero fa allora un cenno con il capo a Enrico di Navarra che a sua volta china leggermente il capo.
È il segnale.
Da ogni angolo dei numerosi ambienti fluiscono come per incanto note melodiose. Una cascata di armonie che si fonde mirabilmente con le voci di alcuni uomini che recitano versi con dolcezza inaudita. È un fiume di soavità che riempie uomini e cose. Quindi migliaia di fiori si staccano dai soffitti e scendono come una pioggia gentile. Profumi e suoni vincono lo stupore e penetrano anche nei cuori più riottosi. Sembra proprio un incanto.
L’italiano sorride. Sa perfettamente che questa armonia è soltanto fittizia. Ma gli rimane la soddisfazione di essere riuscito per una sola sera a far convivere in pace bigotti e fanatici di ogni specie.
È compiaciuto anche Enrico, padrone della Francia, ma succube delle rivalità religiose. Si rallegrano con lui anche tutte quelle persone – un’esigua minoranza – che vedono il pericolo che incombe sull’Europa. Temono spaventose guerre religiose che potrebbero spazzare via interi popoli. Potrebbe essere un’ecatombe senza precedenti. Gli oltranzisti delle varie religioni stanno radicalizzando le proprie posizioni e interi paesi rischiano di essere coinvolti in un conflitto immane.

Unico baluardo contro la catastrofe sono i pochi spiriti illuminati quali Enrico di Navarra, Elisabetta d’Inghilterra, alcuni filosofi e scienziati. Poi ci sono gli studiosi di ermetismo nascosti in giro per il mondo, attentissimi a non farsi riconoscere per paura delle persecuzioni. Hanno scelto una strada terribile, quella di ricercare l’armonia tra gli uomini gonfi d’odio. Non hanno interessi personali da difendere in questa battaglia impari. Anzi. Hanno tutto da perdere. Ma sembrano spinti da un’energia potente, quella della tolleranza, dell’accettazione del diverso, della ricerca dell’armonia interiore. Insomma, sono mossi dalla vampa del Femminile. Di tanto in tanto, tra le genti si trovano di questi “sapienti”.
In loro spira la forza della civiltà, che li spinge sopra ogni cosa a compiere il bene.
Con essi è il trionfo del sentimento e non del sentimentalismo, della fantasia e non della fantasticheria, della giustizia e non dell’egualitarismo ipocrita.
La storia non ha tramandato con precisione i nomi loro e delle associazioni di cui, di volta in volta, di anno in anno, di secolo in secolo, facevano parte. Si suppone che in Inghilterra fossero gli adepti della “Famiglia d’amore” e dei “Fedeli d’amore” in Francia e in Italia. Conosciamo i loro ideali. Possono essere accostati a quelli degli gnostici seppure con una più forte connotazione magica, alchemica ed ermetica. Credo siano all’opera ancora oggi: sono gli studiosi più illustri e capaci di chiarezza, facilmente riconoscibili in tutto il mondo come seguaci di questa linea di bene. Anche in Italia. E credo che bastino il loro comportamento e i loro scritti per identificarli e per suscitare la nostra gratitudine.

Tornando alla festa, l’italiano che si rallegra sinceramente dell’armonia momentanea è ovviamente Giordano Bruno, il nostro missionario della magia intesa come recupero della tolleranza perduta tra le religioni, tra uomo e natura, tra testi sacri e necessità di ricerca.

L’anno della festa è il 1581 e la città, come si è visto, è Parigi.
L’occasione del matrimonio del duca di Joyeuse è stata una delle poche opportunità che il filosofo italiano ha avuto per riunire i nobili di varie tendenze religiose. È riuscito a far udire loro versi pieni di riferimenti simbolici e musiche “tranquillizzanti”.
Oggi può sembrare davvero patetica la speranza di Bruno ed Enrico di mitigare gli odi con simili mezzi “aerei”. Ma non è così.
Intanto quei simboli vocali e musicali sono antichissimi. Provengono da tradizioni remote e servono da sempre a un unico scopo: permettere all’intelligenza delle persone di aprirsi allo spirito di pace e di conciliazione. Inoltre tutto questo corrisponde a una precisa ritualità misteriosofica. Basta riflettere un attimo sui tempi contemporanei per cogliere molte analogie con quel 1581.
L’inquinamento delle menti, l’egoismo del mercato, i fondamentalismi politici e religiosi, l’esclusione proterva dei più da un minimo di benessere e da un tenore di vita degno di un essere umano: queste tendenze sono caratteristiche sia di quella fine del Cinquecento come di questi nostri anni. In più noi abbiamo la devastazione della natura e degli antichi saperi, l’annullamento della donna in chiave anoressica e la conseguente derisione del Femminile. È vero che di tanto in tanto sembrano annunciarsi nuovi fermenti, ma occorre rimanere vigili affinché il maschilismo patriarcale non assuma sembianze proteiformi e assimili e deturpi commercialmente movimenti e pensieri neonati. La giustizia sociale sarà uno dei terreni di lotta in cui ci misureremo tutti. Il Femminile non esclude nessuno e soccorre ogni figlio, sia povero, sia debole, sia infelice.
No, certamente l’aria che spira per noi non è migliore di quella del 1581.
Comprendere il tentativo di persone come Bruno può essere straordinariamente utile. Né lui, né altri spiriti “gentili” sono riusciti e forse riusciranno mai a fermare il “temno”, come dicono in Boemia, l’onda dell’oscurità, ma comprendere le loro ragioni potrà contribuire a creare una luminosa corrente contraria che contrasti i futuri “cieli di morte”, per adoperare una delle parole di Alce Nero.
Alla fine del Cinquecento non si poté arrestare la tenebra e arrivò la spaventosa guerra dei trent’anni, che fu peggio di un conflitto nucleare. In Europa la popolazione si ridusse a un terzo. Alla fine dell’immane conflitto, i superstiti erano poco più di venti milioni. Un dato sconvolgente.
Questa è la segreta storia dell’Europa, negli anni compresi tra il 1580 e il 1620: un manipolo di donne e uomini, con lo spirito rivolto alla pace, fecero di tutto per arrestare le stragi che si annunciavano. Fu la sfida della cultura dell’accettazione e del rispetto delle diversità contro i fanatismi acritici che finirono per trionfare nella morte.
Ma torniamo ancora una volta a Bruno. Può trattenersi a Parigi soltanto due anni. Quindi lo ritroviamo a Londra con il consueto rituale di eccezionali accoglienze. Parallelamente però ci sono le ostilità dichiarate degli oltranzisti religiosi e dei “pedanti cercopitechi”, per usare una sua espressione. Costoro lo perseguiteranno fino alla morte.
A Londra il nolano diventa amico di Philip Sidney, il favorito della regina. È un nobile colto e disponibile, probabilmente membro dell’ordine “della Giarrettiera”, un’altra congregazione votata alla diffusione dei princìpi della filosofia ermetica. A un primo sguardo può sembrare uno dei tanti gruppi nobiliari con un rigido codice cavalleresco, mentre in realtà al suo interno si studiano e si diffondono idee che sono proprie della magia rinascimentale. Ricordiamole ancora una volta: libertà di culto religioso, libera circolazione delle idee, divinizzazione della natura, massimo rispetto per il corpo umano, possibilità di ricerca in ogni campo del sapere. Accanto a tali princìpi “essoterici”, ovvero manifesti, c’è la componente “esoterica”, quella segreta, ermeticamente “chiusa”. Qui occorre dire con chiarezza che la magia rinascimentale, fiancheggiatrice della cultura parallela del Femminile, credeva in una segretissima ritualità millenaria in grado di trasformare l’officiante in un essere di superiore intelligenza. Qualità che doveva essere messa sempre al servizio degli altri e mai per il proprio tornaconto. Sono princìpi dell’ermetismo di tutti i tempi. Ecco perché questa disciplina tutela la propria ritualità con alcuni “segreti” a cui si può accedere soltanto dopo aver praticato “un lavacro di se stessi”. Insomma nessuno avrà mai la chiave dei “misteri” se non percorrendo un lungo e difficile cammino per cancellare il proprio egoismo. Gli arcani, i segreti, si tutelano da soli, un cuore impuro non arriverà mai a dire, simbolicamente, “apriti sesamo”.

Il maestro di saggezza, anche volendo, non potrà mai trasmettere la propria conoscenza all’allievo impuro, semplicemente perché questi comunque non la capirebbe e non potrebbe “sfruttarla” a proprio vantaggio. Tutto quello che può fare il sapiente è lasciare qualche segno sulla tela, qualche spunto e suggerimento. Frasi, parole, disegni e musiche sono gli elementi che per analogia possono consentire l’accesso alla comprensione del grande mistero dell’uno e dell’armonia. E anche quando un maestro lascia “verità nascoste in evidenza”, per parafrasare Zolla, queste risulteranno incomprensibili alle persone “di tenebra”. Occorre sempre tenere bene a mente che la magia e la ritualità connessa sono comunque discipline pratiche, il cui terreno di applicazione è il “sé interiore”.
Bruno scrive numerose opere a Londra. Lascia dei “segni”.
Compone tutti i dialoghi italiani e stabilisce continui, utili contatti per far germogliare il seme della tolleranza.
È molto probabile, come abbiamo già visto, che abbia incontrato Shakespeare. E sono ormai in molti a credere che il mutamento dei contenuti delle opere del drammaturgo, a partire dal 1583, sia dovuto proprio ai contatti con il filosofo.
L’italiano è in continuo rapporto con il cenacolo culturale vicino alla regina Elisabetta e a Sidney. Bruno imprime in questo mondo il suo estremismo magico. Londra diventa la capitale più aperta d’Europa, la città dove convergono gli intellettuali più illuminati.
Siamo ormai al 1585 e Bruno non può prevedere cosa accadrà nel 1618, inizio della guerra trentennale, ma teme il peggio. Agisce e scrive di continuo e riprende i viaggi lasciando la sicura Inghilterra, da dove nessuno l’ha cacciato. È una specie di apostolo, deve far germogliare i buoni fiori dell’ermetismo magico. A Londra ha fatto un ottimo lavoro. I suoi libri circolano dappertutto. Grazie alla sua opera, Federico V, di cui abbiamo già parlato, potrà trasformare per sette anni il Palatinato nel regno della ricerca e della tolleranza.
Il filosofo ritorna per breve tempo a Parigi, poi giunse a Praga e qui gli arriva l’invito del Mocenigo. Cade nella trappola e si reca a Venezia. Sarà consegnato all’Inquisizione.
In molti hanno descritto il processo e gli atti, almeno quelli conosciuti, ed è inutile soffermarcisi. Per noi è importante che Bruno non abbia ceduto. Non rinnegherà mai le proprie idee. Eppure è sempre stato cosciente delle conseguenze di quell’ostinazione e sa che l’aspetta il rogo. Ma evidentemente ha voluto fare della sua vita un esempio.

E quel rogo del 17 febbraio arde ancora in molte coscienze.

La Grande Madre — Dove si racconta di alcuni incontri con Elémire Zolla e con Giorgio Colli e dove tornano i “segni”

«Chiunque berrà a questa coppa sarà immediatamente assalito dal desiderio di Afrodite dalla splendida ghirlanda.»

O. MURRAY, La Grecia delle origini.

 

Sono sempre stato un lettore di Zolla e per anni ho sperato di conoscerlo. L’occasione si presentò nel 1977. In quegli anni ero responsabile delle trasmissioni radiofoniche del DSE diretto da Luciano Rispoli con la collaborazione di Enrico Gabutti, incarico che, grazie alla loro fiducia, potevo svolgere in massima autonomia. Con me lavorava Laura Fortini che, con una semplice telefonata, mi mise in contatto con il filosofo. In un minuto presi accordi per una serie di conversazioni radiofoniche sull’alchimia.
Zolla, la cui fama era già riconosciuta nel mondo, accettò senza remore di legare il suo nome a una serie di trasmissioni dirette da un giovane programmista quale ero io all’epoca. Devo dire con obiettività che questa è una caratteristica dei grandi pensatori. Non credono mai che qualcosa possa sminuirli. Si preoccupano soltanto di aver modo di esprimere compiutamente il proprio pensiero.
Mentre, settimana dopo settimana, realizzavamo il programma in diretta telefonica, decisi di andare a trovarlo. Detto, fatto.
Mi recai quindi nella sua abitazione di allora, sull’Aventino a Roma. Stava al piano terra di un albergo. Desidero raccontare di questo incontro con una persona eccezionale, in ogni senso, soltanto un piccolo episodio. Apparentemente piccolo.
Le stanze che occupava pullulavano di gatti. A un certo punto non si trovava più una chiave. Allora, mentre i felini vagavano dappertutto, tra i libri, sul tavolo, sul letto, sulle mensole, sulle sedie e tra le nostre gambe, disse con la massima naturalezza a una micetta: «Mi aiuti a trovarla?». Pochi secondi dopo la creaturina cominciò a giocherellare con un foglio sul tavolo di lavoro del professore. E lui, subito: «Oh, grazie. Alzò la carte e sotto c’era la chiave.
Semplicissimo.
Non era l’animale ad aver “trovato” l’oggetto. Era stato Zolla a leggere il “segno” della zampetta giocosa.
Non desidero aggiungere altro: i suoi libri parlano di questo uomo di conoscenza. Basta leggerli. Magari anche “attraverso”, e tutta la simbologia sul telaio del Femminile l’ho tratta da lui e va letta come una citazione, un omaggio alla sua sapienza.

 

In quello stesso anno ho incontrato un altro filosofo, Giorgio Colli, e anche con lui ho realizzato una serie di conversazioni radiofoniche sul tema della sapienza greca. Per Colli doveva essere collocata non da Socrate in poi, come comunemente veniva fatto, ma da Socrate andando indietro nel tempo. Insomma, la sapienza era di quelli che non scrivevano o quasi. Per comprendere il suo pensiero basta leggere La nascita della filosofia e anche La sapienza greca.
Ho cominciato ad ammirarlo leggendo il primo dei suoi testi che ho appena citato. L’avevo con me mentre mi trovavo a Visso, un paese del centro Italia coperto dalla neve. Ero lì per una breve vacanza a casa di un giovane valentissimo, Roberto Nardi. Dopo averne divorato le pagine, come preso da un impulso irresistibile, ero uscito fuori nella neve. Avevo vagato per ore nella campagna a ripensare a quanto avevo appena letto. Mi sentivo a casa. Il Dioniso dio dell’estasi, descritto da Colli, mi aveva fatto toccare un mondo che sentivo mio e che non ero riuscito fino ad allora a identificare pienamente. Erano ormai quasi dieci anni che frequentavo intellettualmente la magia e l’ermetismo, ma mi mancava l’aggancio con la profondità dei misteri eleusini, con quella abissalità del Dioniso del cuore che Colli mi aveva restituito in assoluta pienezza.
Ero tornato a casa bagnato fino al midollo ma con una certezza. Dovevo conoscere quell’autore. Anche in questo caso fu facilissimo. Una semplice telefonata. Fu ancora la brava Fortini a farmi da tramite.
Il filosofo abitava sulle colline sopra Firenze, in una casa rinascimentale dove il genio di quest’uomo, mi piace pensarlo, trovava l’ambiente ideale per i suoi studi. Anche per Colli non credo sia giusto dare definizioni, è uno di quegli intelletti universali che si comprendono soltanto leggendo e rileggendo le loro opere. Basti dire che di fatto ha rivoluzionato il nostro modo di concepire la filosofia greca. Inoltre ha consentito il riaprirsi della conoscenza nei confronti di Nietzsche, curando con Mazzino Montinari l’edizione organica della sua opera in anni in cui una certa pruriginosità ne vietava addirittura la pubblicazione nel nostro paese.
Quando me lo trovai davanti provai una profonda felicità. Avrei voluto sommergerlo di complimenti, ma invece non dissi nulla. Parlammo esclusivamente dei contenuti della trasmissione radiofonica che avremmo registrato, in varie fasi, nella sua abitazione. In uno di questi appuntamenti mi scrisse una dedica su uno dei suoi volumi, il primo dedicato a La sapienza greca. “All’alunno dei misteri”, queste le sue parole per me. È una delle cose che ho più care.
Purtroppo Colli morì poco tempo dopo e non poté concludere il suo lavoro dedicato alla sapienza greca, il terzo volume infatti è stato curato da uno dei figli. Anche il ciclo delle conversazioni per la radio rimase a metà, ma ebbe comunque un grande successo di pubblico.
La notizia della sua morte me la diede un mio studente, Paolo Fiocca, a sua volta morto prematuramente. Provai un dolore acutissimo. E ancora adesso sento il vuoto che ha lasciato. Magari non avrei avuto altre opportunità di frequentarlo, ma mi sarebbe stato sufficiente il suo lavoro. Una perdita davvero enorme per la cultura italiana.
Ebbi occasione, in compenso, di frequentare per un periodo di tempo suo figlio Marco, che un giorno, in treno, mi confidò una cosa bellissima. Gli avevo chiesto se il padre gli mancasse. Non mi sentii indelicato nel chiedergli una cosa simile, perché la sua assenza pesava anche sulla mia vita e in nome dell’affetto mi sentivo autorizzato a porgli quella domanda. Mi rispose che «Essergli stato vicino era come aver avuto modo di frequentare Spinoza», un altro grande filosofo che sostiene che tutto quello che conduce all’uno è bene e quello che allontana dall’uno è “non bene”. Poi mi raccontò un episodio della sua vita di ragazzo, con il padre.
Giorgio Colli usava fare apparecchiare la tavola, oltre che per sé e per i suoi familiari, anche per Platone e Aristotele.
Ecco, credo che questo sia il miglior aneddoto per ricordare questo studioso. Il mondo greco era presente in lui senza separazioni temporali.
C’è di più. In questo che sembra un piccolo vezzo, si vede tutto un universo, dove passato e presente coesistono e dove le intelligenze legate ad altri tempi interagiscono con il tessuto vivente in una armoniosa unitarietà.
Se Colli in qualche modo “viveva” con Platone e Aristotele, devo dire che io, nel mio piccolo, non ho mai smesso di vivere con lui, tanto è presente in me il suo ricordo.
Se le idee di Platone sono reali, come credo, spero un tempo di potermi riavvicinare, con umiltà, alla sua e a quella di persone come lui.
Amo pensare che non si tratti soltanto di una speranza.

La Grande Madre — Dove si va in Puglia, a Patù, dove si parla dei “segni” e dell’importanza di osservarli…

La Puglia ha un fascino “obliquo”, come l’Apollo illustrato da Giorgio Colli ne La nascita della filosofia. Per Colli il dio è il signore della razionalità, che però coltiva al suo interno insospettabili ambiti di violenza e di irrazionalità legati alla sfera della conoscenza. Così, questa regione piena di sole sembra tutta manifesta e logica. Invece nutre segmenti sotterranei impensabili, da cui la dimensione magica irrompe improvvisa, scardinando le coordinate dell’ovvio. Basti pensare a Castel del Monte di Federico II. Una costruzione che non serve alla guerra, alla caccia e di fatto neppure per essere abitata. Hanno scritto innumerevoli libri su questo castello, ma a mio parere, l’unico ad averne capito il senso è stato Antonio Thiery in una pubblicazione universitaria scarsamente divulgata. Questo edificio ottagonale sarebbe un simbolo del celebre “inganno” ermetico della “quadratura del cerchio” , ovvero un’idea impossibile a realizzarsi e pure a concepirsi. Invece Thiery, partendo dall’ottagono e dilatandolo all’infinito, un ottagono dentro un altro ottagono, e così via, fa coincidere in una proiezione illimitata proprio il quadrato, di cui l’ottagono è una espressione, con il cerchio.

Ma non c’è soltanto Castel del Monte; che dire infatti di Monte Sant’Angelo, dove è apparso l’arcangelo Michele che scaccia i demoni maligni? Basti riflettere che per salire su questo monte i crociati deviavano di centinaia di chilometri dai propri itinerari. Ma non voglio dilungarmi troppo, voglio soltanto aggiungere che il primo racconto gotico di tutti i tempi è Il castello di Otranto, ambientato appunto da Walpole nel Salento.
Nulla avviene “per caso”: dobbiamo abbandonare questa logica riduzionista per cui nell’universo e in noi, ovvero nel microcosmo, non possono che accadere eventi casuali. Tutto è uno e quindi tutto è necessariamente collegato. Purtroppo abbiamo perso la facoltà, tipica del Femminile, di collegare gli eventi tra di loro e di decifrare i “segni” che la tela della nostra vita ci pone davanti. Occorre riappropriarsi del potere di leggere attraverso i fatti e quindi di cogliere i fili dell’imperscrutabile tessuto che compone l’esistenza nel suo apparente “farsi”. Aguzzare i sensi e guardare i particolari apparentemente insignificanti è una delle tecniche di Don Juan, lo sciamano guida di Carlos Castaneda; questo scrittore inizia il suo personale percorso di conoscenza proprio imparando a osservare “i filamenti” di collegamento.

Non ero mai stato in Puglia per “vederla” davvero fino al 1984, quando vi feci un lungo viaggio partendo da Bari, passando dal Gargano, da Monte Sant’Angelo, da Castel del Monte, fino al Salento, dove mi è accaduto l’episodio che desidero raccontarvi. Fa parte di quei segmenti della mia vita che hanno a che vedere con la brillantanza. Per carità, nulla di eccezionale, ma egualmente significativo per iniziare a sviluppare quella particolare strategia dell’attenzione indispensabile a chi desideri realizzare in sé un sentiero che conduca all’ermetismo pratico.
Ero con due amici dei tempi del liceo, Pino e Giovanna Marango. Lei è una sensitiva inespressa che non ha mai sfruttato le proprie potenzialità. Semplicemente non vi ha dedicato sufficiente attenzione, come purtroppo capita a moltissime donne che non sanno di essere le eredi di una cultura “altra”, quella che un tempo, secondo alcuni, dominava il mondo, e che tanto ha spaventato e spaventa gli uomini da quando hanno preso il potere nella notte dei tempi. Avremo modo di parlarne ancora in seguito; la lotta è aperta e dichiarata da sempre. La violenza del patriarcato, delle sue istituzioni, delle sue religioni ha distrutto la cultura del matriarcato, delle sciamane e dei suoi maghi-guerrieri, ma la notte stellata ha protetto i ricordi e nei labirinti, nelle selve, nei boschi, nelle valli rigurgitanti alberi, fiumi, e ctonie atmosfere ha continuato a propagarsi l’estasi del Femminile con la sua immaginazione rutilante. Basta andare con i sensi aperti in una qualsiasi foresta all’alba o al tramonto per avvertire la presenza del mondo “diverso”. Non è tempo però di nostalgie: si annuncia il nuovo-antico mondo. La brutalità del patriarcato si sta rivolgendo contro se stessa e la legge dell’esclusione e dell’eliminazione del più debole ha messo in moto l’infinita spirale dell’annientamento progressivo. Si dilanieranno a vicenda. Bisogna soltanto stare attenti al mutamento proteiforme che il patriarcato può mettere in atto.

Giovanna è dunque una delle tante donne che hanno realizzato un centesimo della brillantanza che si annida nel loro cuore. Ma di tanto in tanto ecco che traspare il senso riposto. Come accadde a Patù, nell’entroterra tra Otranto e Gallipoli. Eravamo andati a cena da Mamma Rosa, uno di quei posti dove la tradizione della terra si riversa immacolata sulla tavola per restituire sapori persi con l’industrializzazione. Sarà forse anche per questo che si aprì l’ingresso dell’oscura dimensione. A Patù si trovano vestigia considerate preistoriche. Basse costruzioni che affondano nei millenni. Dopo cena le visitammo facendoci luce soltanto con fiammiferi. Cominciai qui ad avvertirmi diverso. È raro che percepisca i mutamenti che avvengono nei sotterranei del mio essere; lì mi capitò. Un senso indecifrabile che mi permette di cogliere i “segni”. Dopo il giro negli edifici protosacrali uscimmo nella notte. Davanti a essi notammo un edificio di cui non ci eravamo accorti prima. La notte senza luna ricopriva tutto con il suo manto. Era una chiesa sconsacrata. Entrai con Giovanna; Pino decise di rimanere all’esterno.
Aprimmo a fatica il pesante battente. Ci aspettava la pece dell’oscurità totale. Il tempo di abituare gli occhi e in alto, davanti a noi, brillava di nero il rosone del tempio. Nel senso che sembrava ancora più scuro del resto. Un buio assoluto che risaltava rispetto al resto. Tenebre che si evidenziano rispetto ad altre meno intense. Qui ci fu il battito d’ali. Qualcosa volteggiava intorno a noi e non si trattava di pipistrelli, di cui tra l’altro non ho paura. Come tutti quelli che sono vissuti in campagna so riconoscerne il fruscio. Quelli erano invece piccoli volatili. Decisi di accendere un fiammifero e in quel preciso istante lo vedemmo. Un uomo gigantesco con una lunga barba si affacciava bonario da una parete. Un disegno che si ergeva su un muro al nostro fianco. E la mia fiamma corrispondeva esattamente al centro di una lampada che lui protendeva davanti a sé, proprio all’altezza delle nostre teste. La mia fiamma sembrava collocarsi proprio nel cuore del suo lume. Presi la mano di Giovanna e, mentre il fiammifero si spegneva, pronunciai parole gentili.
«Siamo venuti in pace con l’anima aperta» dissi a voce alta. Come l’eco della mia voce si spense, ci fu la risposta. Uno schiocco potente proveniente da “dentro” le mura e le assi. Un rumore viscerale del luogo che si propagò potente in un riverbero sotterraneo fino ad aprire le gallerie celate del nostro petto. Sentimmo entrambi la continuità tra i nostri corpi e ciò che ci circondava.
Per pochi secondi i fremiti d’ali vibrarono armoniosamente nel nostro tempio interiore mettendolo in contatto con l’insieme esterno. Quanto tempo durò la “comunicazione”? Il necessario per farci sentire quel senso di comunione. Lo schianto interno alle cose aveva aperto il varco. Un solo istante, ma fu sufficiente. Credo che esista davvero il passaggio comunicante con la natura nella sua totalità. C’è la via di accesso, ma non sappiamo più aprire soavemente il cancello d’ingresso al giardino incantato dell’unità. Purtroppo dobbiamo aspettare circostanze eccezionali. Ecco ciò che abbiamo perso. Il contatto con le stelle e quel cielo che si riverbera identico nella nostra psiche.

Un tempo le donne e gli uomini vivevano in un’armonia interattiva? Chi può dirlo? Forse la magia non è altro che il tentativo di riaprire i circuiti di comunicazione? Forse la Melancholia di Dürer è l’impossibilità di rientrare nell’hortus conclusus della totalità? Forse l’architettura dei giardini rinascimentali, come quello voluto da Federico V nel Palatinato, non è altro che l’imitazione dell’immenso bosco cosmico? Non c’è risposta se non quella che ciascuno può dare nel sé interno.
Con Giovanna non abbiamo mai parlato di quello che ci accadde “dentro”. Non era necessario. Questa è la prima volta che ne parlo. E sarà anche l’ultima.

Dove si assiste alla grande festa per la nomina di Enrico a principe di Galles…

È la sera del 4 giugno del 1610. Mezzo milione di persone sono raccolte festanti intorno al palazzo reale. Hanno il naso all’insù. Aspettano i fuochi di artificio. I migliori esperti del regno sono stati chiamati in gran segreto per preparare luminarie senza precedenti. Mai nella storia inglese una folla così imponente si è radunata per l’annuncio di uno sposalizio. E un vociare continuo, un rincorrersi di grida e di aspettative. L’attesa è quasi spasmodica. Le prime persone sono convenute nella piazza la sera del giorno prima. Ottimi affari hanno fatto i venditori di cibi, di dolciumi e gli spacciatori di pozioni di tutti i tipi. Penny e sterline rigonfiano in particolar modo le tasche dei mercanti di unguenti per la ricrescita dei capelli. Sono infatti cinque anni che le terre degli inglesi sono povere di ortaggi per i ripetuti rovesci atmosferici nel momento della raccolta della frutta. La pellagra divampa, come lo scorbuto, che causa una terribile irritazione del cuoio capelluto dovuta alla carenza vitaminica. Forse sarà anche per questo che il principe Enrico è tanto ammirato dalle donne: ha una chioma fluente che arricchisce il suo fascino.
Ma non è soltanto il sesso femminile ad ammirare il figlio di re Giacomo. Tutti lo ammirano. È forte, è deciso ed è soprattutto generoso. Dall’età di dodici anni si occupa dei problemi della sua gente e le sue passeggiate tra il popolo sono una vera e propria leggenda. Per questo ci sono cinquecentomila persone ad aspettare che sia proclamato principe del Galles. Non c’è un solo suddito inglese che non speri in lui. Tutti lo ritengono capace di rinverdire i fasti della grande Elisabetta I. Di più, potrà far prosperare tutto il paese e anche i popoli alleati. Sarà lo scudo contro la prepotenza degli Asburgo. Come un san Giorgio difenderà inoltre il suo paese dalla guerra di religione che sta diventando sempre più probabile, e questa è sicuramente la più vivida delle speranze che gonfia i cuori degli inglesi. Cuori che esultano non appena nel cielo avvampano le luminarie che assumono le sembianze proprio di un san Giorgio a cavallo. Il beato guerriero rimane nel cielo per attimi che sembrano interminabili, poi altri filamenti luminosi compongono la sagoma di un possente signore che ha delle stelle al posto delle mani, un philaster, un amante degli astri. Mentre i fuochi divampano in cielo una musica soave si diffonde, inducendo gli animi alla commozione. Quando la notte torna sovrana sulla piazza, un possente grido di giubilo irrompe per la città, sale per ogni dove, riempie ogni strada e palazzo, sfonda simbolicamente le porte della reggia e inonda le orecchie di Enrico spingendolo ad affacciarsi.
Non appena la folla lo vede ammutolisce per alcuni secondi, quindi ancora un potentissimo «hurrà!» che sembra provenire dai sentimenti profondi, dall’anima più che dalle bocche. Non basta. Si alza ancora un grido corale: «Lunga vita al principe di Galles!». Inneggiano a lui come se fosse già re. Non era mai accaduto prima e non si ripeterà nei secoli a venire. E la testimonianza visibile dell’immensa fiducia riposta in questo giovane che deve compiere il miracolo di allontanare la falce del conflitto di religione dall’Inghilterra e dall’Europa.

Come si è detto è il giugno del 1610, e due anni e quattro mesi dopo le attese di un intero popolo si rafforzano maggiormente quando sbarca a Grevesend Federico V, elettore del Palatinato. Alto, con lo sguardo penetrante, è gentile e affabile con gli umili. Sembra nei modi il sosia di Enrico. Ed è il promesso sposo di Elisabetta.
Un’unione benedetta da tutte le menti aperte del regno inglese e da quelle corti europee che desiderano fermare i conflitti di religione. E come se non bastasse, Federico ed Elisabetta si sono amati al primo sguardo. Eros, il padre di tutti gli dèi, ha colpito a fondo. L’uno sembra il completamento dell’altra. Si compenetrano e si comprendono perfettamente. Inoltre Enrico va d’accordo sul piano politico, ideale e filosofico con il futuro cognato. Hanno letto gli stessi libri, hanno le stesse speranze e nutrono una passione viscerale per l’occultismo, per la cabala e per le scienze esoteriche, come ha dimostrato sempre la Yates nel suo Cabala e occultismo nell’età elisabettiana.
È tutto così perfetto da sembrare una favola. Una situazione da arcadia tra fratello, sorella e innamorato. Non si tratta affatto di un vagheggiamento poetico, ma di una concreta combinazione che avviene nella libera Inghilterra, dove per una volta i sogni sembrano avverarsi.
Per trenta giorni si fanno i preparativi delle nozze. Dovrà essere una festa senza eguali. E proprio durante i preparativi i due promessi assistono ad alcune rappresentazioni teatrali. Sono stati Enrico, Federico ed Elisabetta à volere che fossero messe in scena due opere di un commediografo molto amato da Elisabetta I, ma adesso caduto in disgrazia sono il regno di Giacomo. Si tratta di William Shakespeare.
Le due opere sono Il racconto d’inverno e La tempesta.

Fermiamoci: è ora di leggere “attraverso” gli avvenimenti.
Iniziamo dalle due composizioni shakespeariane. Insieme con Cimbelino sono le opere a carattere magico del drammaturgo. Queste in particolare sono state create per riproporre incessantemente il tema della morte e della resurrezione. Ovvero morte a sé per tornare a sé. Una parte di noi stessi deve morire per far resuscitare una componente obliata, ma importante, che deve appunto risorgere, rinascere. È il rituale simbolico, sopravvissuto nei secoli, di Iside e Osiride. E Iside è la divinità femminile per eccellenza. Dunque i principi assistono a due commedie “magiche”, fortemente influenzate dal pensiero del maggior mago rinascimentale, Giordano Bruno. Con loro sono presenti tutti gli esponenti del cenacolo ermerico-magico di Elisabetta I e anche Francesco Bacone, il fondatore del metodo scientifico moderno.
Attenzione, i personaggi ci sono tutti. E c’è un filo unico a legare sottilmente la trama occulta: il teatro.
A uno sguardo attento lo troviamo ovunque.
Dunque i tre principi vanno a teatro e a teatro si rappresentano due commedie magiche. Tra gli altri è presente Francesco Bacone. Filosofo importantissimo.
Infatti in una sua opera, Nova Atlantis, veste i sapienti-filosofi con abiti bianchi e con un turbante bianco sormontato da un rubino. Si direbbero abiti di scena. Ma il movimento rosacrociano, che si farà riconoscere pochissimi anni dopo, afferma che gli adepti di questo gruppo devono vestire con abiti bianchi e portare un turbante sormontato da un rubino. Esattamente come i sapienti di Bacone. Questi dice che i sapienti sono in realtà i Rosacroce, basta saperli vedere. E qui è il difficile, perché i Rosacroce sono definiti e si autodefiniscono invisibili. Non scopribili appunto per nessuno tranne per chi riesce a individuarli attraverso le segrete trame, o meglio le “oscure trame” per parafrasare il titolo di un libro di Pietro Cimatti che tante cose, a questo riguardo, aveva ben individuato. Noi stiamo facendo questo, li stiamo “individuando”. Perché tutta questa vicenda verte su di un asse trasversale: il movimento dei Rosacroce e il particolare linguaggio della Yates vuole, a mio modesto giudizio, mettere sulle tracce di questo movimento.

Ritorniamo a Bacone che fa vestire i suoi sapienti come attori di teatro.
I Rosacroce, nei loro manifesti la Fama e la Confessio dicono a loro volta di vestirsi come i sapienti di Bacone, ovvero come attori di teatro.
Tutti i grandi misteri e relativi riti prevedono che l’iniziato diventi un attore, interpreti il dio che è in lui, sia questi Dioniso, il dio delle donne, o Iside stessa.
L’officiante della magia è da sempre un sacro attore.
Il teatro, in senso sacrale, unisce i maghi rinascimentali: Giordano Bruno, con la regina Elisabetta, con Federico V, con la sua promessa sposa Elisabetta, con Shakespeare, con Francesco Bacone e quindi finalmente con i Rosacroce.
È importante questo passaggio: Bacone filosofo stimatissimo e fondatore della Accademia reale delle scienze, quando descrive i sapienti abbigliati come i Rosacroce, compie un’operazione rischiosa. La magia è sempre al bando in Europa. Quindi per esporsi deve innanzitutto credere fermamente in quello che fa, come in una missione, e deve avere inoltre un motivo più che valido. Adesso ci è utilissimo leggere quello che oggi afferma Elémire Zolla a proposito dell’ornamento, ovvero degli abiti: «L’ornamento era nella concezione arcaica non un’aggiunta frivola, ma un intervento magico… L’ornato investe di certi poteri chi lo indossa…». L’abito in questione, che dà poteri magici, è comune sia ai sapienti descritti da Bacone sia ai Rosacroce. Citare a questo punto gli uni vuol dire anche “evocare” gli altri. Sapienti=Rosacroce. Perciò la sapienza è dei Rosacroce. Ma Bacone è anche amico intimo di Shakespeare e si dice che abbia persino aiutato il drammaturgo nella scrittura o sia stato un suo ispiratore. Altri affermano persino che siano la stessa persona, cosa a cui non credo minimamente, ma di sicuro sono affini e amici “fraterni”. Quindi c’è un legame, traslato, anche tra i Rosacroce e Shakespeare. Il nesso è appunto Bacone che, per chiamare in causa in modo così esplicito il movimento, doveva aver ricevuto l’incarico di farlo o, più probabile, doveva aver concordato la strategia generale di propaganda della loro fede, a cui evidentemente aderiva nel profondo del proprio Io. In ogni caso Bacone è il legame tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce, gli “invisibili”.
Costoro invece, in base a quanto abbiamo trovato, diventano adesso visibili ai nostri occhi, sia mediante il filosofo e sia grazie alla stessa Yates. Abbiamo infatti capito che erano tutti coinvolti. Da Federico V a Elisabetta I a Elisabetta figlia di Giacomo a Enrico il principe sfortunato, vedremo tra poco il perché di questa sfortuna. Ma in particolar modo sono legati con i Rosacroce, che vestono come i sapienti e i sapienti vestono come loro, e che si definiscono anche “attori”, come quelli appunto che rappresentano La tempesta e Il racconto d’inverno. Ma quelli lo fanno “per mestiere”. Attenzione, è questo il punto. I filosofi-saggi di Bacone vestono “per mestiere” come i Rosacroce. E questi sempre “per mestiere” si dichiarano invisibili, ovvero assumono mille abiti e mille maschere per rendersi irriconoscibili nella vita civile. E chi veste mille abiti? Sempre gli attori che assumono appunto, per mestiere, mille facce. Come i Rosacroce. E come l’uroburo, il serpente che si morde la coda. C’è un aggancio preciso tra la compagnia teatrale di Shakespeare e i Rosacroce. E questo che la Yates voleva dire tra le righe, tra i fili del suo discorso: fili=tela=telaio=cerimonia magica.
Tutti i protagonisti di questa immensa “scena” seicentesca praticano e diffondono la magia. E la Yates con le sue parole-angeli, invia a sua volta un messaggio a carattere magico.
La storia continua anche oggi. Anche oggi ci sono le trame magiche, le trame invisibili. Che invece adesso abbiamo per un momento reso manifeste sulla grande tela che dal Rinascimento, passando avanti e indietro attraverso i secoli, è giunta fino a noi.

La storia ci dice che Enrico, il principe del Galles, si ammala di un morbo misterioso e che muore di febbri, da cui la frase della Yates che ci ha consentito di far luce su tutto il disegno “ornato” (a proposito vedi l’articolo La Grande Madre – Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce). Sempre la storia testimonia che Federico V e Elisabetta si sposano ugualmente e si stabiliscono nel Palatinato dove per sette anni concretizzano il regno del Femminile in terra. E sempre la storia ufficiale ci dice che al loro seguito ci sono stampatori che anche prima di lavorare con loro avevano già pubblicato opere di carattere magico, come quelle di Giordano Bruno, e che intensificano nel Palatinato questa loro attività, finalmente allo scoperto. Non a caso si pubblicano anche Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, ovvero le nozze dei Rosacroce. Ancora quei fili misteriosi che potremmo continuare a riannodare all’infinito e come faremo in seguito. Ma ora è importante sottolineare una cosa. A quel tempo dunque c’erano degli editori che pubblicavano, più o meno segretamente (invisibilmente?) testi magici. E cosa accade ai giorni nostri? Non è importante rispondere subito, domandiamoci invece perché Elémire Zolla si dichiari neognostico. E perché intellettuali e case editrici che ancora oggi si occupano di divulgare opere “magiche” incorrano tanto spesso in ostracismo diffuso proprio come capitava allora, fatta eccezione per il regno settennale di Federico ed Elisabetta.
Niente di nuovo sotto il sole, direbbe Giordano Bruno.
Iside continua imperterrita il suo cammino verso il trionfo del Femminile.

La Grande Madre — Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce

Heidelberg appare sul fiume Neckar nel Baden-Württemberg, il celebre Palatinato. “Appare”, sì, perché è come un’epifania, al di là del corso d’acqua con il centro storico che inizia dal ponte vecchio e termina nei boschi, nei giardini alla fine dell’abitato. Sulla destra, per chi guarda da fuori del paese, c’è il castello con il palazzo di Federico e tutt’intorno la natura che entra ancora oggi nelle case e nei palazzi come un unico tessuto vivente. Heidelberg è un corpo unico, anzi, è materia vivente. Da qui la sua malia che terrorizzò Heinrich Böll, visitato da incubi cattolici. In un suo racconto tutti rimproverano al giovane protagonista: «Vai troppo spesso a Heidelberg». Glielo dicono la fidanzata, i genitori e i professori, ovvero tutte le forze che simbolicamente “costringono” la vita di un giovane borghese in un ambito di “correttezza”, cioè di prigionia dorata. In verità le persone retrive provano una spontanea repulsione per questo luogo. Non fa per loro. È come uno di quei miti, di cui parla Hillman, circondati da un’aura energetica invisibile che allontana le anime brute. La città di Federico ed Elisabetta è stata concepita e voluta come il paradiso in Terra, come luogo ideale, un po’ come Pienza di papa Enea Silvio Piccolomini, solo molto più in grande. E un microcosmo che rappresenta l’infinita armonia dell’universo. Il castello, eretto sul luogo dove viveva Jetta, la maga più celebre di Germania, è la testa pensante. Il paese è il corpo armonioso e i giardini sono le terminazioni nervose, le vene, le arterie e i sentimenti. Questi sono meglio noti come l’Hortus Palatinus, e furono commissionati dallo stesso Federico V all’architetto e alchimista francese Salomon de Caus, che ha realizzato un miracolo di proporzioni e di dolcezza distribuito su cinque terrazze collegate da numerose scale e fontane. Una sensazione di benessere pervade chiunque li attraversi. E pensare che quello che è rimasto è nulla rispetto al progetto originale. Immaginiamoci il suo splendore all’epoca di Federico ed Elisabetta. I due sposi giunsero nella città nel 1613 e trasformarono il borgo fortificato in uno scrigno tardo rinascimentale. Via bastioni, merlature, garitte e trincee inutili. Al loro posto costruzioni che ripetevano in Terra il periodare eterno delle stelle. Così nacque il Friedrichsbau, la dimora di Federico che si affaccia nello stesso cortile dove c’è l’Ottheinrichsbau, forse il palazzo rinascimentale più completo, in senso ermetico, dell’intera germanità. Un intreccio di mitologia e concezioni filosofico-ermetiche che proietta il visitatore in una dimensione di riflessione tutta interiore. L’esterno porta all’interno. Conduce nei giardini dell’anima e in questo stato psicologico può accadere di tutto. Successe così anche a me.
Provenivo dall’Hortus, dove ciò che avevo osservato era coniugato con quanto avevo letto sul primitivo splendore del giardino, mirabilmente descritto da Frances Yates nel suo L’Illuminismo dei Rosacroce. Tra le siepi vedevo con l’immaginazione le statue che cantavano e le fontane che cambiavano colore secondo il progredire delle costellazioni zodiacali. Così mi figuravo la vita della città ideale dove arte, filosofia ed ermetismo si intrecciavano come in una sublime partitura musicale. Imbevuto di sogni avevo imboccato il sottopassaggio che si incuneava tra le torri “delle polveri” e “del farmacista” ed ero sbucato davanti ai resti del palazzo di Federico, deturpato da un incendio appiccato dagli sgherri degli eserciti cattolici dopo che ebbero conquistato la città nel 1620. Ma forse le rovine erano ancora più suggestive. Il non visto mi suscitava fantasie rutilanti e improvvisamente mi venne in mente una frase che avevo letto in un altro testo della Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare. La studiosa, parlando della morte di Enrico, il fratello di Elisabetta, aveva scritto testualmente: «Il 17 novembre 1612, appena un mese dopo l’arrivo [a Londra] dell’elettore palatino, il principe Enrico moriva a diciannove anni. L’elettore aveva circa la stessa età, la principessa Elisabetta era minore di poco. Il gruppo dei giovani, la speranza del futuro, aveva ricevuto un colpo schiacciante. Il loro più forte campione era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». Apparentemente nulla di strano in queste parole. Eppure in me provocarono una folgorazione.
Ecco perché.
«…era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». La Yates, studiosa di rigore, attentissima a ogni parola, adoperava una terminologia teatrale: “palcoscenico”… “recitato la sua parte”. Perché improvvisamente e volontariamente usava queste parole “fuori luogo”? Mi sovvenne anche una affermazione di James Hillman relativa proprio alle parole riportate nei Fuochi blu. Lo psicanalista scrive: «Abbiamo bisogno di una nuova angelogia delle parole… Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di un’anima tra una persona e l’altra. Abbiamo bisogno di ricordare che le parole non sono solo qualcosa che noi inventiamo o impariamo a scuola… le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile… perché le parole sono persone». Le parole-persone della Yates rimandavano al teatro. Questo era il messaggio nascosto della Yates, questi erano e sono gli angeli che la studiosa di filosofia ermetica ha occultamente mandato attraverso il suo libro. Mai prima di quel momento, in tutti i suoi scritti, si era servita di termini teatrali; se l’aveva fatto in questo preciso contesto, continuavo a rimuginare freneticamente, doveva avere un senso e volevo scoprirlo. Bisognava capire il perché di questo messaggio inviato nella “bottiglia” del libro. E mi vennero in mente alcune connessioni. Elisabetta e Federico, prima e dopo la morte del principe Enrico, furono in contatto con Shakespeare, uomo di teatro e inoltre i Rosacroce nei loro “manifesti”, la Fama e la Confessio, definiscono se stessi “teatranti”.
Una folgorazione dentro la folgorazione. Erano in tre a usare termini teatrali: Shakespeare, e fin qui nulla di strano, quindi i Rosacroce, e poi, in maniera alquanto sconcertante, la Yates nella descrizione di Enrico morente e del dolore di Federico ed Elisabetta.
La Yates non era certo tipo da usare le parole a caso e impunemente. Quindi voleva che qualcuno – e chissà in quanti l’hanno fatto al mondo e non dicono nulla – collegasse appunto Federico, sua moglie Elisabetta con Shakespeare è tutti loro con i Rosacroce. Il punto era capire il perché di questa arcana trama che la ricercatrice inglese aveva gettato nel suo libro. Esattamente come un ricamo invisibile tracciato “con sapienza” sulla stoffa del suo telaio Femminile.
Ho esaminato con molta attenzione la questione, e adesso propongo di seguire il filo che ho individuato nella tela della Yates per capire, o solo per tentare di capire, l’enigma gettato da lei come una sibilla “mascelle feroci”, che appunto non dice, come afferma Giorgio Colli, ma accenna appena. Occorre ripartire da quegli anni lontani, dal 1613. Dallo sfondo umbratile dove compaiono i personaggi che erano presenti alle nozze dell’elettore del Palatinato con la figlia del re di Inghilterra e che furono loro vicini nei sette anni, dal 1613 al 1620, in cui trasformarono Heidelberg nella città degli incantesimi e della speranza.
La vollero paese-crogiuolo dove ermetismo, filosofia, scienza, natura, riti e simboli indicassero ossessivamente, per tutto il tempo che ne ebbero il potere, lo stesso concetto e utopia: questo è il regno dell’accoglienza, dell’accettazione, dell’immaginario, della tolleranza. Questo è il regno del Femminile.
Ma nel frattempo sarebbe lecito domandarsi: se Federico ed Elisabetta sono stati così espliciti, ed erano tempi difficili, perché non lo è stata altrettanto la Yates?
I due giovani sposi avevano il potere. Mentre le donne, da sempre, sono costrette a nascondersi per affermare il loro mondo. Devono abbindolare e tessere in segreto. Altrimenti arrivano “i padri” supponenti che deridono e, deridendo, distruggono. La Yates si è “protetta”, ma non ha rinunciato ad “accennare”. Dobbiamo imparare a leggerne la trama.

La Grande Madre — Dove si parla di Heidelberg, nel Palatinato, e dove si racconta della storia d’amore di Elisabetta e Federico V, della morte di un principe, di un regno simile al paradiso e della crudeltà dei fanatici religiosi.

Heidelberg dovrebbe essere una città all’interno di un micro stato, il Palatinato.
Dico dovrebbe, perché si tratta di un sogno. Costruita con mattoni, che messi insieme hanno creato un castello, un palazzo da principe delle fate, strade come nei racconti delle nonne, piazze pensate e costruite da architetti che avevano a cuore le sorti e la felicità degli uomini. Poi ci sono i giardini incantati e le fontane che neanche a immaginarle potrebbero essere più belle. Praticamente un falso. Invece è tutto vero. E incredibile, ma è così.
Infatti chi va a Heidelberg non riesce più a staccarsi e il pensiero corre di continuo a quelle strade, piazze, chiese, giardini, a quel castello. Come esseri animati continuano ad affacciarsi alla memoria, per ricordare che se forse il paradiso non esiste, un piccolo
eden in terra sì. E c’è dell’altro: vi ricordate di Biancaneve e i sette nani di Walt Disney? Quelle casette così struggenti e impalpabili? O del cottage nel bosco, tutto delizie e fiori, in cui Paperino o Topolino si rifugiano di tanto in tanto? O delle abitazioni di alcuni personaggi di Cenerentola? Ebbene, secondo l’architetto Scatena i disegnatori della Disney si sono ispirati all’architettura altoatesina. In realtà la matrice è Heidelberg. Questo luogo, sopravvissuto alla morte degli incanti, perpetua il filo impalpabile e struggente di una dimensione onirica, eppure presente, che non si riesce a identificare. Una ragnatela di rugiada emotiva che invischia e lega inesorabilmente. Persino Goethe, che di viaggi se ne intendeva, non riuscì più a staccarsi da questo paese e fu “obbligato” a tornarvi periodicamente. Oggi è tutto rimasto come quattro secoli fa, fatta eccezione per l’indipendenza politica, perché questo microregno, chiamiamolo così, fu sottomesso nel 1620 e da allora ha perso la libertà e non è contato più nulla come stato autonomo. Smarrita potenza economica, ha conservato la dimensione del mito. E non soltanto per motivi architettonico-urbanistici.
Il fatto è che a Heidelberg si è verificata una serie di eventi straordinari. Qui è nata una storia d’amore che ha varcato la memoria dei secoli e simultaneamente è stata possibile la realizzazione di uno stato dove tutte le razze, religioni, ideologie politiche poterono convivere serenamente. In questo clima propizio di assoluta pace sociale sono fioriti studi umanistici e scientifici all’insegna non della concorrenza, ma della collaborazione attiva. Incredibile, ma vero. E come fu possibile? Per capirlo occorre addentrarci in una vicenda di passioni e di politica, di incantesimi e di intrighi, di mistero e di magia. È una di quelle storie che mi sono permesso di indicare come “esemplari”. Sono accadute davvero, ma è importante rivederle “in controluce”, come il tessuto intrecciato dalle donne di cui parlo spesso, che serve a far vedere la storia da un’altra angolazione. Quella del Femminile, appunto.
Credo che in questa sede sia opportuno semplificarla al massimo, per non far girare la testa al lettore.
Andiamo dunque alla vicenda e ai suoi protagonisti.
Nei primi anni del 1600 il re Giacomo di Inghilterra, nipote della grande Elisabetta, ha due figli, Enrico ed Elisabetta la giovane. Sono entrambi intelligenti, colti, curiosi e dotati di quella “brillantanza” di cui ho avuto modo di parlare. Tutto questo probabilmente è patrimonio genetico ereditato dalla loro grande zia. Come lei si interessano di esoterismo e di magia e come lei sono circondati da poeti, filosofi e letterati che conoscono tali discipline. Non a caso hanno contatti con Shakespeare, che da quando ha conosciuto Giordano Bruno, il mago, è diventato un altro uomo e ha votato se stesso alla divulgazione del sapere ermetico.
Ma di Shakespeare avremo modo di parlare in seguito. Insomma i due sono personaggi straordinari e tutte le forze europee contrarie agli odi di religione vedono in Enrico non solo il futuro re di Inghilterra, ma anche l’uomo che potrà evitare un gigantesco conflitto tra i paesi cattolici e quelli protestanti.
Peccato che Giacomo, il loro padre, sia poco più di un inetto e di un vigliacco. Irresoluto e timido nei confronti delle arroganti potenze cattoliche, si illude di poter rimanere neutrale in caso di conflitto globale dovuto ai fondamentalisti delle varie confessioni. Sia come sia, questo re, in tanta inettitudine riesce a prendere una decisione saggia. Una, ma buona. Dare in moglie sua figlia a Federico V del Palatinato. Un altro giovane colto e decisamente portato agli stessi interessi esoterici della promessa sposa. Inoltre Federico simpatizza subito con il futuro cognato, Enrico. L’amore-amicizia tra questi tre giovani è salutato da tutto il mondo tollerante come una benedizione del Signore. Loro sì che saranno in grado di fermare l’orrore della guerra. Sono forti, decisi, coraggiosi, illuminati, perché non sperare nel futuro? In un domani dove il mondo sia più tollerante?
Nel 1613 Federico giunge a Londra, le nozze sono imminenti nel tripudio generale. Un entusiasmo assoluto, senza precedenti. Ma Satana, il “senza madre”, ovvero l’escluso dal Femminile, ci mette la sua mano malata. Enrico, la speranza degli uomini ragionevoli, si ammala di una febbre comune e non viene curaro a dovere. Decede in poche ore.
Terribile. Il sogno europeo di pace e liberalità frantumato da un banale raffreddore. Ma c’è chi non si arrende agli eventi. Federico ed Elisabetta, assecondando l’ultimo desiderio di Enrico in fin di vita, si sposano ugualmente nella data stabilita. Poi partono per il Palatinato. È il 1613 e fino al 1620 assistiamo a Heidelberg al miracolo del regno del paradiso in terra. Qui accade quello che tutte le anime dolci hanno desiderato da sempre. Libertà di culto, di fede, di ricerca, di studi. A quell’epoca era un vero miracolo. In più era stata attuata una provvidenziale pace tra le classi e una assoluta integrazione razziale.
Insomma, la mitica età dell’oro rediviva.
Poi accade l’imprevisto. Muore Rodolfo re di Boemia, che già aveva compiuto una notevole apertura in direzione della tolleranza religiosa, e i suoi cittadini eleggono come erede proprio Federico V, già noto per la sua liberalità. Lui commette l’errore di accettare. È uno sbaglio, perché la liberalità in un paese piccolo come il Palatinato poteva essere tollerata dai fanatici religiosi, ma non nella Boemia, importante crocevia commerciale. Quelle idee di giustizia vera e applicata potrebbero diventare contagiose e nelle menti offuscate dalla devastazione fondamentalista non è neppure concepibile.
I cattolici con potenti eserciti muovono guerra contro la Boemia e il Palatinato. E il codardo Giacomo di Inghilterra non interviene a favore della figlia Elisabetta. Ah, se fosse staro vivo Enrico! Forse è destino dei sogni quello di sgretolarsi nelle tenebre. Le forze oscure dell’odio prendono fatalmente il sopravvento. Nella battaglia della Montagna Bianca Elisabetta e Federico vengono sconfitti. Da quel momento la Boemia e tutti i paesi limitrofi perdono la libertà per sempre. È il 1620 e coloro che non erano corsi in aiuto ai due sposi saranno travolti da una guerra immane. Forse la più catastrofica mai avvenuta in Europa. Gli storici la identificano come “guerra dei trent’anni”, perché durò tre lunghi decenni contraddistinti da stragi, saccheggi, pestilenze, roghi, torture, stupri e battaglie spietate che ridussero la popolazione europea di due terzi. Un’ecatombe che non è possibile paragonare nemmeno a quella della Seconda guerra mondiale. Un girone infernale in cui precipitarono tutti gli abitanti d’Europa, e ovviamente tutto questo fu giustificato in nome di Dio.
Comunque questa è la storia ufficiale. Adesso invece è importante leggerla attraverso il tessuto, tra i ricami invisibili della stoffa, per scoprire la trama del Femminile.
Iniziamo ritornando a Heidelberg.
Ci andai nel 1977, dopo aver letto L’Illuminismo dei Rosacroce di Frances Yates, da cui ho tratto le notizie su Federico ed Elisabetta che prima ho riassunto. Mi recai lì per realizzare un servizio speciale per il DSE della RAI. Feci la proposta televisiva per poter approfondire de visu quanto avevo letto e poi perché sentivo in qualche modo di “doverci” andare.
Brillantanza? Brillantanza.

il prossimo appuntamento

A Mestre,  presso la Libreria Feltrinelli, Centro Commerciale LE BARCHE – Piazza 27 Ottobre n. 1

il 16 gennaio, ore 17.30 – 19.00

presenterò il mio ultimo libro “Inconscio e Magia” ed. Sperling&Kupfer

(nessuno si senta minimamente obbligato a comprarlo)

Nell’Interiorità di Anima — “Emozione”…

Emozione (1)

… L’emozione infatti è la fonte principale della presa di coscienza. Senza emozione non c’è trasformazione delle tenebre in luce, dell’inerzia in moto. […] Un complesso è realmente superato soltanto quando lo si è consumato vivendolo fino in fondo…

Carl Gustav Jung, citato in John Weir Perry, Emozioni complessi relazioni, in AA.VV., Anima – Per nascosti sentieri, Moretti e Vitali, 2001, pag. 186

Emozione (2)

Queste profonde emozioni viscerali, del fegato, dei genitali, del cuore, queste risposte del sangue animale ci tengono in sintonia, in contatto con il mondo che ci circonda, con la sua bellezza… questi divini influssi, come Blake chiamava le emozioni, non sono nostri. Il desiderio, la rabbia, la paura e la vergogna sono echi dell’anima del mondo, il presentarsi nel mondo di qualità che danno al nostro corpo e al nostro spirito informazioni su come essere…

James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 1999, pag. 64

Estasi (1)

La Luce Increata è l’Energia divina. Chi la contempla risente dapprima la presenza di Dio vivente. Questa sensazione dell’Immateriale è immateriale, intellettuale, ma affatto mentale. Essa rapisce l’uomo in un altro mondo con tanta potenza e sottigliezza che egli non si accorge del momento e non sa più se è nel suo corpo o al di fuori. Tuttavia egli ha del suo essere una coscienza più forte e più lucida, più profonda; nello stesso tempo, preso dalla dolcezza dell’amore divino, dimentica se stesso e il mondo; in ispirito, afferra l’Inafferabile, vede l’Invisibile e lo Respira.

Anonimo Maestro Spirituale, citato in Pietro Bornìa, Il Guardiano della Soglia, introduzione di Giuliano Kremmerz, Rebis, 1987, pag. 19

Estasi (2)

L’innamoramento si può a buon diritto considerare un’estasi, nel senso letterale, fisico-dinamico della parola, come ek-stasis, in quanto disloca il già dislocato, le due opposte tinture maschile e femminile, facendo intravedere al di là della loro opposizione l’androgino, il maschile nel femminile e il femminile nel maschile e la loro reciproca fusione.

Franz von Baader, Filosofia erotica, Rusconi, 1982, pag. 29

La Grande Madre — Dove si riporta il racconto dello sconosciuto e il mistero della nascita delle cattedrali gotiche

Questo è il resoconto di quanto mi sentii dire all’inizio di quell’estate francese piena di incanti e segreti dall’enigmatico signore incontrato a Chartres.

«È mezzogiorno del 1118. Gli abitanti di Chartres sentono il rumore degli zoccoli di un potente cavallo. Chi sta arrivando di gran carriera?
«E un uomo forte e di bellissimo aspetto. Sicuramente un nobile. Ma porta le vesti dei cistercensi. Tutti si inchinano deferenti al suo passaggio. E l’abate di Clairvaux, Bernardo di Fontaines-les- Dison detto di Chiaravalle. La gente si inginocchia e guarda con ammirazione il cavaliere e il suo seguito. Infatti non è solo. È chi si muoverebbe mai in solitudine in questo secolo? Soltanto i diseredati espulsi dalla comunità, gli indemoniati e i pazzi. Con lui dunque cavalcano otto compagni, cistercensi di provata fede. Emanano energia e coraggio. Hanno appese alle selle bisacce ricolme di libri e poi ciascuno ha una spada e una corta lancia.
«Sotto le runiche indossano una corazza perché sono avvezzi nelle armi come tutti quelli di origine nobile. Sono sei anni che sono entrati nel monastero di Citeaux. Poi nel 1115 hanno seguito Bernardo in quello di Clairvaux. Lui è loro coetaneo, ma sicuramente il primo in eloquenza, saggezza, coraggio e abilità nelle armi. In questo paese ha fondato l’omonima abbazia che immediatamente è divenuta la più importante di Francia, e chissà, forse dell’intera cristianità. Da qui si è diffusa la sua leggenda, il mito del “grande abate”, che lo vuole alto come una quercia secolare, arguto più di un filosofo dell’antichità, coraggioso più di Orlando stesso. Inoltre è un illuminato. Questo si sussurra per ogni dove, fino a Roma, fino negli appartamenti del papa. Irradia una sorta di aura irresistibile che atterrisce gli ipocriti, i falsi, i bugiardi, i simoniaci, i bacchettoni. Le malelingue bofonchiano di strane pratiche, di libri segreti, di riti occulti. E poi questo gigante non fa altro che viaggiare per la Francia. Perché va tanto in giro? O meglio, perché si muove sempre in una zona circoscritta che va da Etampes a Parigi, da Rouen a Bayeux e infine da Evreux a Chartres, dove appunto è appena giunto?
«E un mistero.
«Ma gli infingardi non possono arrestare l’abate di Clairvaux.
Ha una missione da compiere. È la prima volta che arriva in questa cittadina.
«In alto, sovrastante le case, c’è una piccola collina. Una chiesa romanica in via di costruzione. Le mura sono state alzate su altre preesistenti. Si dice siano resti di antichi templi di druidi dove, nei secoli remoti, si officiavano occulti riti e segrete preghiere. Si mormora che qui giungessero dai tempi dei tempi migliaia di fedeli ancor prima della conquista di Cesare. E il flusso non si è arrestato neppure dopo. Non sono forse convenuti qui imperatori di Roma? A far cosa? A guarire di mali che sembravano incurabili, ma che pure si sono risolti in guarigioni inspiegabili. Ma allora che cosa accadeva nei tempi antichi da queste parti? Neppure i più inveterati chiacchieroni osano però sussurrare il nome di una pratica che, soltanto a proferirla, può condurre al rogo. Però ugualmente tutti pensano la stessa cosa: sulla collina si praticava la magia.
«È proprio su questo dosso che è arrivato il manipolo di cavalieri. Non esistono superstizioni che possano arrestarli.
«Per la verità i lavori della chiesa romanica sembrano andare a rilento. Pochi operai si danno stancamente da fare e le corporazioni artigiane non sono rappresentate che in minima parte. Tutti gli altri sono dediti ad altre faccende, insomma non c’è entusiasmo.
«Fino a ora.
«La voce dell’arrivo degli stranieri, che sono nove, è rimbalzata dovunque. Il grosso borgo è colpito come da una frustata. La gente esce di casa e si avvicina ai monaci. Come detto, la fama di Bernardo è vastissima.
«”Sarà proprio lui?”. “Ma qual è del gruppo?”. “È davvero il potente abate di Chiaravalle?”. “Che cosa vorrà da noi?”.
«Questi i bisbigli di quella gente variopinta, coperta da misere stoffe e da ogni genere di berretti. Soltanto i capi dei vari raggruppamenti dei “mestieri” sono vestiti dignitosamente. Comunque la povertà è tanta. Guerre e brigantaggio hanno piegato la Francia e le campagne sono le prime a risentire dell’indigenza.
«Improvvisamente quell’accozzaglia di persone stanche, spaurite, disincantate, è percorsa da un brivido d’eccitazione. Uno dei cavalieri si è tolto il cappuccio.
«Un volto vibrante osserva tutti, due pupille ardenti bucano la testa di ciascuno. Sembrano leggere nel pensiero. “È lui!”. “È lui!” si grida dovunque. Sì, è il grande monaco guerriero.
«Con un gesto della mano destra impone il silenzio. Quindi una voce calma, forte e melodiosa cattura l’attenzione di ciascuno:
“Già in altre dieci città di Francia si stanno innalzando cattedrali in nome di Nostra Signora. Volete voi costruirne una anche qui?”.
«”La stiamo edificando” replica con un filo di voce un mastro lastricatore.
«”Non va fatta più così” afferma imperiosamente il cavaliere “occorre che la dimora della santissima Maria svetti verso il cielo. Alzi le sue mura fino alle nuvole. Uno slancio totale deve portare le guglie direttamente fino ai santi e agli angeli. C’è bisogno di una casa che frantumi la materia e voli entusiasticamente sino alla Perfezione. È indispensabile forgiare un miracolo in terra. Volete voi questo? Siete pronti?”
«Un urlo rimbomba per Chartres. Una sola parola risuona come un grido: “Sì!”.
«Allora i monaci scendono da cavallo. Aprono le bisacce e prendono numerosi fogli. Sono piani tridimensionali che prevedono la costruzione di una chiesa immensa, davvero protesa verso l’infinito, come un canto gregoriano. Il giorno stesso iniziano i lavori.
«È l’undicesima cattedrale di Nôtre-Dame in quella zona. Tutte volute dall’abate di Clairvaux. L’evento straordinario non è nell’edificazione degli undici templi, che possono rientrare in un impeto mistico, eccezionale sì, ma non unico, bensì nella loro dislocazione sul territorio.
«Per capirlo occorre prendere una carta geografica della zona. Unificando con una matita le cattedrali volute da Bernardo si giunge a una constatazione che ha dell’incredibile. Le chiese sono collocate in terra come le stelle nella costellazione della Vergine. Come in cielo, così in terra!
«Un’opera e un lavoro da titani. Undici immani cantieri vengono aperti contemporaneamente per dar luogo a undici costruzioni che a loro volta riproducono la costellazione della vergine celeste, ovvero della Maria cristiana. Così facendo Bernardo ricongiunge il culto antichissimo del Femminile virgineo a quello del cattolicesimo. Mostrando di voler riportare il cristianesimo stesso in un alveo millenario e antichissimo, appunto quello della Nostra Signora, della Grande Madre. Ricordiamoci della invocazione di Apuleio, nell’Asino d’oro: “Madre di tutta la natura, sovrana di tutti gli elementi, origine e principio dei secoli, divinità suprema, regina dei Mani, prima fra i celesti, prototipo degli dèi e delle dee”. Per questo l’abate vuole che le varie Nôtre-Dame siano nella stessa disposizione speculare delle stelle. La Maria è Nostra Signora delle stelle, è lei, la signora del Femminile che torna nei secoli sotto un altro sembiante. È Iside, è Ishtar, è Morrighan, è Laima, è Artemide. È la stessa così cantata dal Tantra: “La donna è il creatore dell’universo. È il vero corpo dell’universo. Non c’è felicità come quella che dà la donna”.
«Ma non è tutto qui.
«Lo stile architettonico è completamente nuovo. È il gotico che si affaccia per la prima volta nella storia del mondo. Anche il più ufficiale dei testi di storia dell’arte data al 1130 la nascita di questo modello di costruzione.
«Il problema, irrisolto per la storia illuminista, è che nacque improvvisamente. Come un fungo.
«Eppure già in natura una pianta non può sorgere dal nulla.
Occorre che il bosco sia preparato da secoli di humus. Figuriamoci uno stile architettonico così complesso come il gotico.
«Siamo di fronte a edifici giganteschi, concepiti in modo nuovo e sublime. Eppure prendono corpo tutti e undici insieme. Ciò presuppone un esercito di ingegneri, architetti, disegnatori, muratori, vetrai, falegnami, piallatori e mille altre maestranze che in perfetta armonia decidono di mutare la propria vita, quella dei figli e dei figli dei figli. Sì, perché le undici Nôtre-Dame non richiedono il lavoro di una sola vita, ma di almeno tre generazioni e in alcuni casi anche di quattro o cinque. E quei progetti chi li ha forniti?
«Certamente Bernardo di Chiaravalle li ha “assegnati”. Ma chi è stato a idearli? E quanto tempo è stato necessario per concepirli? Anche qui ci sono volute generazioni di studiosi. A meno che… .
«E poi c’è dell’altro. Il gotico è contemporaneamente uno stile architettonico e una concezione del mondo. Le cattedrali sono grandi il quintuplo rispetto a qualsiasi altra chiesa dell’epoca. I piani. di edificazione sono laboriosissimi. Occorrono appunto decenni per mettere a punto una filosofia e una tecnica così sofisticata. Quindi, a rigor di logica, Bernardo e i suoi hanno avviato un lavoro concepito prima di loro. Ma chi erano questi “pensatori” occulti?
«E il termine “gotico” che cosa significa?
«Gotico in senso di “barbarico”, secondo la definizione spregiativa della storiografia rinascimentale. Oppure, facendolo derivare dal greco antico, ovvero dalla matrice goeteia, significherebbe magia, quindi magico. Oppure, ancora, potrebbe nascere dal termine goes, strega. O anche da goeteusis, sortilegio e addirittura da goeteuo, arte di affascinare. Il fascino è un modo di legare, abbindolare, unire. E l’arte del telaio, come afferma Elémire Zolla, è la tecnica del Femminile, del magico Femminile per eccellenza.
«Quindi squadre di architetti, tecnici e umili operai hanno lavorato per generazioni seguendo i dettami che altre generazioni, prima di loro, hanno segretamente preparato. Ha dell’incredibile.
«A meno che…»

A questo punto il mio affabulatore si interruppe improvvisamente. Aspettava evidentemente una mia reazione. Che fu istantanea.

Bibliografia consigliata

Sui rapporti tra cavalleria e magia occorre vedere Victor Emile Michelet, Il segreto della cavalleria, Basaia, 1985; Dominique Viseux, L’iniziazione cavalleresca nella leggenda di re Artù, Mediterranee, 1980.

Poesia in “Notturna” — “Poeti con nome di DONNA”

Ricercando il Femminile, consigliamo vivamente Poeti con nome di DONNA, un’antologia di poesie scritte da donne la cui voce è stata, in molti casi, per secoli occultata:

Le donne, lo so, non dovrebbero scrivere; ma io scrivo perché tu possa leggere da lontano nel mio cuore

(Marceline Desbordes-Valmore)

Dalle poetesse più famose come Saffo e Dickinson, a nomi meno noti e pubblicizzati, almeno in Italia, come Jorie Graham ed Else Lasker-Schüler. Poesie violentemente belle, forti, dolci, che liberano dal preconcetto di una poesia di genere, guidandoci verso una poesia come espressione di un’unità interiore che ci accomuna alla radice; come ci ricorda sempre Jung, il Femminile è in ognuno di noi, e permea tutti, uomini e donne.

Poeti con nome di DONNA, a cura di Davide Rondoni e Francesca Cadel, BUR, 2008.

 

La Grande Madre — Dove si parte per Chartres grazie a una Colombina veneziana

Sono state tre le donne della mia vita. Laura, la mia prima moglie, Donatella Scatena, la seconda, e Stefania, con cui ho soltanto convissuto. Con tutte sono stato a Venezia e sempre mi è accaduto “qualcosa” di strano.
Così nel 1968 un evento sconcertante mi obbligò a recarmi a Chartres. Questo è il racconto fedele, per quanto possano esserlo i ricordi, di come ricevetti quella sorta di comando.
Nell’anno della contestazione studentesca la laguna non era di moda e chi ci andava era considerato poco meno di un cretino. Avevo ventitré anni e da qualche mese ero entrato con un buon contratto alla RAI. Mi sembrò un miracolo. Per questo ero felicissimo. E chi non lo sarebbe stato al posto mio? Avevo la possibilità di un lavoro stabile e per di più come programmista nella maggior azienda culturale e informativa d’Italia. E, come se la manna non fosse sufficiente, avrei viaggiato di continuo.
Era dicembre e dovevo realizzare un servizio nell’istituto del Professor Zennaro che tentava un esperimento di scuola a “tempo pieno”, a quell’epoca un fatto quasi eccezionale. Laura era in stato interessante e decisi di portarla con me. Scendemmo dal treno a piazzale della Ferrovia alle otto di sera. Uscimmo dalla stazione ed entrammo in quel sogno che era una Venezia piena di nebbia e del tutto abbandonata. Non l’avevamo mai vista e ci sembrò fantastica. I banchi opalescenti andavano e sparivano come soffiati dalla bocca di un dio gentile e facevano improvvisamente apparire vestigia e case putrescenti. Da una finestra si intravedevano tende strappate, da un’altra stipiti divelti e ogni tanto una luce fioca lasciava indovinare un interno con una vita dimessa e malinconica. Tanto più struggente se confrontata con chissà quale magnificenza del passato. Sì, sembrava di attraversare con il traghetto una dimensione onirica. Poi sulla nostra destra si delineò un giardino protetto in parte da un muro sbrecciato. Nel mezzo la statua di un angelo con una faretra. Come una folgorazione ci rapì il cuore e Laura mi disse trasognata: «Sembra l’arcangelo Michele».
Probabilmente non era vero e non seppi mai che cosa autenticamente raffigurasse. Magari un normale cupido. Ma la creatura che aspettavamo nacque maschio e si è poi chiamato Michele.
Scendemmo in questa aria di impalpabile vagheggiamento alla Salute e da lì andammo alla pensione Cici, in calle della Kabalà. Quasi un presagio, questo nome, di quello che ci sarebbe accaduto di lì a poco. Cominciò con l’arredo. La stanza in affitto era satura di antichi ricordi, non nostri, ma che ci sembravano tali. Ogni oggetto improvvisamente cominciò a evocarci pensieri che non ci appartenevano, ma che si riverberavano su di noi come in un infinito effetto specchio. In verità, non eravamo completamente in noi. Ubriachi di un senso inesprimibile che non riuscivamo neppure per un istante a identificare. Quasi non ci parlammo, tanto eravamo presi da un’emozione fortissima e sconosciuta, mai provata prima. Non potemmo cenare subito. E senza concordare nulla, decidemmo di uscire. La nebbia era ancora più densa e copriva praticamente ogni cosa. Alla vista nulla era concesso. Andammo trascinati da una percezione stringente, vincolante. Proseguì con la musica. La sentimmo leggera. Una pianola persa tra mura e acque. Seguirla fu facile.
Ci trovammo così ai piedi di un pontile. Non vedevamo il fondo. Quindi un soffio di leggerissima brezza. Così al centro della costruzione la scorgemmo. Una Colombina. Una maschera? Forse. Ma non avevamo la mente per porci domande. Era una sorta di epifania. Non osavamo muoverci. Fu lei a scendere i gradini. Ci si avvicinò e senza dire una parola mi porse un biglietto. Poi risalì e scomparve risucchiata dalla stessa dimensione onirica da cui era emersa. Rimasi con il foglietto in mano. Solo dopo alcuni momenti guardai di cosa si trattava. Era un disegno circolare con molti percorsi al suo interno. Laura mi disse: «Sembra un labirinto». Le sue parole svegliarono entrambi.
Tornammo indietro estasiati da quell’incontro, che giudicammo soltanto di buon augurio per la nostra vita. Invece fu determinante. Ma allora non lo sapevo. Capii tutto solo tre anni dopo, per puro caso.
Antonio Di Raimondo, responsabile della rubrica culturale TVM, spazio di aggiornamento culturale del mattino dedicato ai giovani di leva, decise di mandarmi a Chartres per realizzare un documentario sulla cattedrale francese. Felicissimo dell’incarico andai a riferirlo al mio collega, ben più autorevole di me, Sandro Meliciani. Ero nella sua stanza a fantasticare sul viaggio, quando da una tasca mi cadde un pezzo di carta. Non sapevo assolutamente di aver riposto in quell’indumento il foglietto che mi aveva dato la Colombina di Venezia. Anzi, non credevo neppure di averlo ancora. Lo avevo cercato a lungo, rassegnandomi infine all’idea di averlo perso. Invece il disegno era per terra, nell’ufficio al terzo piano di via Novaro. Mentre lo guardavo sbalordito, Meliciani si chinò e lo raccolse. Osservandolo sorrise: «Vedo che ti sei già documentato. Questo è il labirinto rappresentato in un mosaico a Chartres. Pensa, nessuno ha mai saputo a che cosa servisse, né che cosa rappresentasse. Non ci crederai, ma è davvero un mistero».
Che dire. Non feci parola al mio collega, tanto colto quanto incredulo, dell’incontro veneziano. E perché poi fare parola? Per farmi deridere, come succede a tutte le persone che si imbattono nella dimensione della “brillantanza”? Tacqui. Ma andai a Chartres. Partii con l’immancabile amico e compagno di lavoro Ezio Lavoretti, un operatore di grande bravura e di grande sensibilità.Aveva un notevole fascino congiunto a un’intuizione prodigiosa. Di lui si narravano aneddoti straordinari, come la dolce storia d’amore con Anna Magnani. Ma Lavoretti non ne fece mai parola. Certamente, conoscendolo, non ci sarebbe stato nulla di strano se la grande attrice avesse davvero avuto in gioventù una cotta per un uomo al tempo stesso tanto schivo e vibrante.
Ecco, le sue qualità silenti sono state per me di grande aiuto nei viaggi, che vedremo anche in seguito, alla scoperta dei segreti “luccichii” che molti luoghi custodiscono. Percepibili soltanto da chi possiede un poco di quella vista “occulta”, di cui spesso scrive Elémire Zolla, un maestro di conoscenza, come ne Le meraviglie della natura o nel recente Lo stupore infantile.
La brillantanza è come uno sguardo “obliquo”. Un misto di intuizione, curiosità e predisposizione alla meraviglia. Facoltà che hanno quasi tutti i bambini, ma che l’educazione tende ad annebbiare. Non so perché in me non sia andata persa. L’ho attribuita alla mia predisposizione alla mano sinistra, ovvero alla Luna. Sono infatti ambidestro. Ma forse questa specie di qualità è più semplicemente da attribuire al mio infantilismo cronico che, malgrado le ovvie controindicazioni, mi consente, però, di non nutrire pregiudizi e di cogliere le tenui vibrazioni che emanano tutte le cose, animate e inanimate, presenti nel creato.
E proprio così: tra le cose che ho appreso negli anni di lavoro, di ricerca, di studio e di osservazione, c’è sicuramente quella capacità di percepire il mondo come animato. Non è un atteggiamento razionale, tutt’altro, è sentire l’anima in ogni essere, sia esso pianta, sasso o persona. È quest’anima che unifica il mondo e che lo rende uno. Credo fermamente in quello che affermava Spinoza: tutto è Uno e quello che porta all’unità è bene, mentre quello che divide conduce alla lontananza dal bene. Se si potesse applicare questo elementare, semplicissimo principio ai movimenti culturali e politici, si disporrebbe di un ottimo metro di giudizio con cui valutare idee e uomini nella storia passata e presente. D’altronde la magia, di cui parleremo spesso, non è che la ricerca continua e incessante dell’unità, sia interiore sia esteriore. Certo, il magico non si esaurisce in questa facile formula, ma è “anche” questo desiderio di Uno. Senza rinnegare però il molteplice. L’Uno coesiste nei molti e i molti non sarebbero tali se non ci fosse una tela di Penelope a riunirli. E anche questo è un concetto espresso da Zolla nella sua ultima fatica, La nube del telaio.
Ma è ora di tornare a Chartres e alle sue meraviglie.

La Grande Madre — Dove si ricorda di una passeggiata alle falde del Vesuvio e dove compare una zingara

Ho sempre avuto un buon rapporto con le donne. Sarà perché sono cresciuto in mezzo a loro. Infatti nella casa di Boscoreale, alle pendici del Vesuvio, vivevo con mia nonna Carla, che ho sempre chiamato mamma perché avevo preso il suo latte, come ho già raccontato, e con le zie Sandra e Felicetta. Un po’ in tutto il napoletano le donne sono le padrone della casa; da noi questo era vero in modo particolare. Gli uomini c’erano, eccome, ma nel vivere quotidiano finivano per essere figure sbiadite. Eppure mio nonno Alfonsino era sindaco del paese, comunista accanito, e vero rivoluzionario. Portò infatti l’acqua ai vasci, alle grotte abitate ancora negli anni cinquanta da centinaia di persone, togliendola però ai benestanti della zona e soprattutto al barone Oliva. Insomma quasi una rivoluzione. Anche il figlio, mio zio Angelo, aveva un caratterino niente male; alto, grosso, un gigante muscoloso. Comunque non contavano né lui, né il padre. C’erano e non c’erano, almeno per me che dormivo spesso tra la mia “mamma” e Sandra con sogni popolati di sesso familiare radioso. Come i loro immensi seni che vedevo e sentivo quasi cuscini del paradiso. Questo servì a togliermi per sempre ogni problema con l’altro sesso, in contrasto con qualche facile teoria psicanalitica che sicuramente avrebbe visto in quella supposta “promiscuità” chissà quale insidia per il bambino che allora ero.
Dunque armonia e serenità da parte mia in ogni contatto con le donne. E non sarà stato certamente un caso che a nominarmi direttore di RAIDUE sia stata proprio una donna, la signora Moratti, ma questa è una storia che qui non interessa davvero.
Dicevo dunque dei buoni rapporti da me sempre intrattenuti con le signore di tutte le età. Così non ebbi alcun sussulto particolare quando a sei anni incontrai nel centro del bosco, che dal paese portava al Vesuvio, la signora Maria, una zingara. Andò così.
Camminavo da solo in pieno sole primaverile, appena dopo pranzo. Avevo superato da tempo la bella villa pompeiana che compare in tutti i libri di storia dell’arte, ma che a me e ai miei amici serviva per i giochi di guerra, e andavo per il solito sentiero che portava alla bocca del vulcano, quando un merlo si mise a zampettare sul mio cammino. Anche in seguito, sulle Dolomiti, mi è successa la stessa cosa. Solo che ero grande e non mi misi a seguirlo. “Questa volta non ho il coraggio” pensai in montagna. Ma allora, invece, gli andai dietro, fuori dal sentiero. Lui a passettini veloci, io quasi di corsa. Non c’era alcun motivo per quell’inseguimento, ma ero spinto da un impulso. Non era neppure curiosità, ma qualcosa dentro mi suggeriva di proseguire. Guardavo fisso l’uccello e non so bene per quanto andai, comunque per un bel pezzo. La vegetazione si faceva più fitta e appoggiai male un piede su di una radice. Caddi. Mi rialzai subito. Ma il merlo era sparito. Lo cercai con lo sguardo, anche dietro di me, da dove ero venuto. Già, ma da dove ero arrivato? Non c’era sentiero e mi resi conto di aver perso la strada. Tentai di tornare sui miei passi, ma dopo un’ora ancora non avevo trovato nessun punto di riferimento. Non ero inquieto, non avevo paura: mi dispiaceva soltanto per mia nonna. Le avevo detto che non sarei stato fuori a lungo e non volevo che si preoccupasse. Passò altro tempo, ancora non ero riuscito a rintracciare il sentiero, e cominciavo a stare in pensiero. Non per me, ma per “mamma”, appunto.
L’ansia mi colse quando mi accorsi che il sole cominciava a sfiorare le cime degli alberi. Stava davvero facendosi tardi. Avevo una stretta allo stomaco e quasi quasi mi veniva da piangere. Poi la vidi.
Era ferma in mezzo a una piccola radura tra gli alberi. Una vecchia enorme. Così mi apparve. Una liberazione. Corsi verso di lei e mi buttai tra le sue gonnellone, abbracciandole le gambe.
Mi sollevò e allora le cinsi il collo. Era gigantesca.
«Chi sii?» mi disse. Le spiegai del merlo e che mi ero smarrito. Allora allungò le braccia per vedermi meglio. Mi teneva sospeso davanti al suo faccione rugoso. Poi chiuse gli occhi e mi avvicinò al suo seno. Quasi cullandomi. Senza dire una sola parola mi accompagnò al sentiero. Da lì sapevo come tornare dai miei.
«Mo’ vavattenne» mi sussurrò «ma non ai rìcere a nisciune che m’hai ‘ncuntratata, va bbuono?»
«Sì.»
Andai via, ma dopo pochi metri risentii la sua voce.
«Tu hai da sta’ sempre cu nuie, nun te scurda’.»
Mi voltai, la salutai e tornai a casa senza ovviamente capire il significato di quel «Tu devi stare sempre con noi, non dimenticarlo». Soltanto dopo molti anni ne compresi, forse, il senso. Ma ne parleremo in seguito, per ora è meglio rimanere a Boscoreale.
Mia nonna per poco non mi mangiò vivo. E per la prima volta mi spedì a letto senza cena.
Ero nel lettone a occhi aperti. Stavo ripensando a quella donna, di cui non avevo fatto parola, vestita con gonne ampie sovrapposte, con un fazzolettone in testa e grandi orecchini, senza dubbio una zingara, quando sentii la porta che si apriva. Feci finta di dormire. Era zia Sandra con pane e salame. Gioia e baci. Poi zitti zitti, per non farci sentire, ci mettemmo tutti e due sotto le coperte.
«Ma perché la mamma si è tanto arrabbiata? Altre volte sono stato via per un bel pezzo.»
«Oggi è diverso» mi disse. «Dietro la casa dei romani, in un accampamento di zingari, la moglie del loro capo ha ucciso il marito e poi è scappata nel bosco. Per questo la mamma si è arrabbiata. Ha avuto paura che tu l’avessi incontrata.»
Non fiatai. Ricostruii tutto nei giorni successivi, interrogando i miei amici e mio nonno. Un poco alla volta venni a sapere di Maria, la gitana napoletana, che aveva sgozzato il marito. Ma lo aveva fatto dopo che l’uomo aveva sferrato un terribile calcio al loro figlio più piccolo, rompendogli una gamba. Era l’ennesima di mille e mille brutalità. Soltanto che questa volta la donna si era ribellata e aveva sferrato il colpo mortale. Poi era fuggita nei boschi, proprio dove l’avevo incontrata io. Perché non mi aveva fatto niente? Perché mi aveva lasciato andare? Come aveva potuto fidarsi della parola di un bambino? E che cosa significava quella frase che quasi mi aveva gettato dietro come un suggerimento e un vincolo allo stesso tempo? Non sono mai riuscito a trovare una risposta convincente, almeno a livello razionale. Ma credo di aver capito qualcosa soltanto molti anni dopo. Ma anche di questo parlerò in seguito. In ogni caso Maria era una ribelle. La prima che incontrai nella mia vita. La cercarono con accanimento per giorni e giorni, poliziotti e carabinieri, ma che io sappia non la presero mai. Comunque da sempre gli uomini hanno dato una caccia feroce alle donne che a un certo punto della loro esistenza si sono rifiutate di portare il giogo.
Basti pensare al cosiddetto mito delle baccanti e delle amazzoni. Giorgio Galli nel suo Cromwell e Afrodite afferma che in un’età compresa tra il 1000 e il 700 avanti Cristo ci fu una spaventosa rivolta di donne in Grecia, nei pressi di Atene. È storia, non leggenda. Ci fu una lotta sanguinosa e soltanto dopo strenui combattimenti le ribelli furono sterminate. Il ricordo di quell’evento fu così terrifico che gli uomini ci costruirono sopra un mito. Appunto quello della rivolta delle amazzoni che invasero l’Ellade e che per poco non occuparono Atene. Fu l’intervento provvidenziale di Ercole, Teseo e Giasone, vale a dire degli eroi più significativi del pantheon leggendario, a scongiurare la capitolazione delle città.
Pensate, tutti gli eroi coalizzati contro le donne. Dovevano davvero rappresentare un pericolo assoluto per gli uomini che hanno creato questo racconto mitologico in seguito all’evento che Galli considera storico e quindi accaduto. Il problema è capire il perché di tanta paura. Anche se nella risposta troveremo una porta segreta che condurrà a un vero mistero. Non il primo, non l’ultimo, di questo viaggio verso l’ignoto femminile.
Devo soltanto aggiungere una piccola cosa. Nel 1969 andai a realizzare un servizio per la rubrica Scuola aperta. Riguardava un nuovo esperimento didattico che vedeva per la prima volta l’integrazione tra bambini napoletani della piccola borghesia con loro coetanei rom, vale a dire zingari.
Dopo tre giorni di riprese mi ero fatto apprezzare dalla comunità nomade e uno di loro mi disse di andare al campo perché c’era una signora che voleva vedermi. Andai e dentro una confortevole roulotte mi trovai davanti una donna vecchissima. Mi fece avvicinare e, senza una parola, mi diede un seme di melograno trafitto da una spilla da balia.
Mi spiegarono che nel linguaggio rom è un dono simbolico per chi sa mantenere un segreto.

Nell’Interiorità di Anima — “Bocca”…

Bocca (1)

Teneva ancora gli occhi chiusi, ma era chiaro che non dormiva. La baciai, stupefatto dalla mia audacia, mentre in realtà era lei che, mentre io mi avvicinavo al suo viso, aveva attirato la mia testa contro la sua.

Raymond Radiguet, Il diavolo in corpo, Peruzzo, 1985, pag. 68

Bocca (2)

Léa gli spazzolò i capelli sopra le orecchie, rettificò la scriminatura sottile dai riflessi azzurri, gli passò sulle tempie un tocco di profumo, posò un rapido bacio, non potendo trattenersi, su quella bocca tentatrice che respirava così vicina a lei…

Simonie-Gabrielle Colette, Chéri, Newton & Compton, 1995, pag. 25

Braccia al collo

Sono stato almeno cento volte sul punto di buttarle le braccia al collo! Lo sa Dio che cosa significa vedersi passare e ripassare davanti tanta grazia e non poterla afferrare…

Johann Wolfgang von Goethe, I dolori del giovane Werther, Demetra, 1996, pag. 137

La Grande Madre — Dove si va alla ricerca della città di Troia e si narra di un sogno misterioso

L’Iliade ha fatto improvvisamente irruzione nella mia vita quando frequentavo la prima media alla Massimo D’Azeglio a Roma. Fu come una vampa. Mi bevevo i canti come un nettare e i miei soldatini, cowboy e pellerossa, diventarono troiani e pellerossa. Mia madre Antonella disegnava molto bene e le facevo copiare le illustrazioni del libro di testo. Enucleavo il guerriero acheo e quindi quello di Ilio e ci giocavo alle figurine. Poi imparai a memoria l’intero poema e sistematicamente interpretavo tutte le parti. Il professore di lettere, Porciello, pensava che fossi un po’ matto, ma si beava di questo studente un poco invasato, ma tutto sommato eccezionale per passione. E infatti si trattava di una sorta di incantamento. Motivato, però. Perché il mio trasporto era tutto per Ettore e per i suoi. Mi colpiva qualcosa di questo eroe, ma non avrei saputo dire esattamente che cosa. Ero dalla loro parte e basta. Come mi era già capitato con i pellerossa. Tutti i miei amici tifavano per le giubbe blu, per i vaccari e invece io, in perfetta solitudine, parteggiavo per gli sconfitti di sempre. Soltanto molto più tardi ho compreso il significato di questo mio moto dell’anima. Accadde quando avevo ventisette anni e lavoravo per la RAI.
Per la mia azienda – era il 1972 – andai a girare un documentario sulle rovine di Troia. Allora il servizio pubblico produceva grandi momenti di cultura ed era del tutto naturale che un suo “programmista”, allora era questa la mia qualifica, andasse con tutta la troupe per un mese intero in Medio Oriente. Quello che contava era il prodotto, che doveva essere di grande qualità, altrimenti il mio capo servizio di quegli anni, lo storico Furio Sampoli, mi avrebbe potuto levare la pelle.
Dunque andai a Troia, o meglio a Hissarlik, dove Schliemann tra il 1871 e il 1890 aveva condotto, contro tutti i pareri degli esperti, gli scavi che lo portarono a scoprire l’antica Ilio e il tesoro di Priamo.
Il mio operatore era il compianto Ezio Lavoretti che fu subito contagiato dal mio stato psichico. Delirante. Non mi sembrava vero di trovarmi là dove i “miei” guerrieri avevano combattuto. Mi immaginavo le battaglie, oppure i duelli tra i maggiori campioni dei due schieramenti. Qui vedevo Priamo, là Ecuba. Su quel sasso c’era Andromaca, su quella sporgenza Cassandra mentre profetizzava e su quell’altra versava lacrime di impotenza di fronte alla cecità dei suoi compatrioti. Erano soprattutto le donne a colpirmi in questo invasamento. Una commozione interiore che ritrovai molto simile nel racconto che mi fece anni dopo Giorgio Colli del suo primo viaggio a Eleusi nei pressi di Atene, ma questa è un’altra storia che racconterò poi.
Dunque erano le signore di Ilio a venirmi in mente. Non ci feci troppo caso. Almeno fino a notte.
Quando cominciai a sognare.
Per la verità ero abituato a fare viaggi onirici molto complessi. Un po’ come andare al cinema. Vedevo spesso vere e proprie scene di massa collegate nel tempo. Come un assalto al treno nel Far West o l’edificazione di un immensa torre a opera i schiavi appartenenti a un’epoca non meglio definibile di un vago passato remoto. Un andare con Morfeo per avventure, mai però angosciose. Guardavo da lontano, appunto come o spettatore. Questa volta però fu del tutto diverso.
Non so da quanto tempo ero assopito, ma improvvisamente avvertii un rumore leggero. Aprii gli occhi, così credetti, e ai piedi del letto c’era una splendida signora con abito di veli. Trasalii spaventato. L’albergo era poco più di una locanda e immaginai mille cose contemporaneamente. Il padrone aveva potuto lasciar salire una prostituta, oppure c’era una pazza nella mia stanza. Ma l’inquietudine durò solo un attimo. Fino a che lei non mi parlò.
«Vedi, era solo. Troppo solo.»
Non disse altro. Rimase ferma, con un’espressione di indicibile malinconia. La mente come rapita da immagini lontane, irrimediabilmente perse. Intuii chi poteva essere e con quel pensiero fui invaso da una sottile e struggente tristezza. Il suo stato d’animo si riverberò come in uno specchio in me. Ci guardavamo muti e, mentre mi sembrava che una parte di me si sciogliesse in un’acqua tenue e lenta, ecco che la donna cominciò a dissolversi. Non lo volevo, ma non potevo far nulla. Come una tela secolare gradatamente svanisce alla luce, la dolce signora si stemperava davanti ai miei occhi fino a scomparire del tutto. Allora piansi senza ritegno. Come quando da bambino vedevo mia madre andare via con il treno alla stazione di Napoli. Per colpa del lavoro stava poco con me. Arrivava, si fermava poco e poi ripartiva subito. Neanche era apparsa che subito spariva. A nulla valsero allora le suppliche, a nulla servirono ora.
Poi avvertii forte una pressione sul braccio. Mi guardai le dita, erano strette nella mano di Ezio Lavoretti.
«Che ti succede?» mi disse. «Hai fatto un brutto sogno?»
Ritornai in me e lo rassicurai. Anche se istintivamente cercai con lo sguardo la creatura che in qualche modo mi aveva fatto visita.
Quando il mio amico e compagno di lavoro uscì, mi avvicinai alla finestra che dava sulla piana della città sepolta. Era quasi l’alba e guardando le pietre cercai le mitiche Porte Scee. Là dove Andromaca aveva inutilmente tentato di fermare il suo sposo Ettore, scongiurandolo di non andare in battaglia. Soltanto il tentativo di individuare quel posto mi procurò ancora commozione, ma composta. Struggimento silente. Tenue, languido. Riflessivo.
Finalmente però in quel chiarore capii perché da ragazzo avevo tanto amato i troiani. Fu quella presenza a illuminarmi. Fu quel simulacro, che credetti di identificare nella moglie più tenera e innamorata di sempre, a portarmi in una strada dentro di me che mi permise di comprendere. Perché era lei che avevo sognato: Andromaca.
Nell’attimo onirico che cosa mi aveva sussurrato? Ma sì, mi aveva raccontato della solitudine di Ettore.
Soltanto Afrodite gli era favorevole. Tutti gli altri dèi erano avversi fino all’odio. Per prima Atena, rimproverata tre secoli dopo da Poseidone nelle Troiane di Euripide. «Perché sei così smodata nei rancori?» le dice. In effetti il livore l’acceca. Ma che cosa aveva fatto poi il figlio di Priamo? Apparentemente nulla. Ma riandai a quanto Omero aveva scritto e compresi che l’eroe aveva compiuto davvero una terribile eresia. Proprio lì, alle Porte Scee. Mentre sua moglie lo pregava in nome dell’unico loro figlio, Astianatte, di astenersi dal combattimento, lui rispondeva che non aveva il coraggio di tradire i compagni. Ma non era questo il vero motivo del suo rifiuto. No. Il combattente in realtà non voleva supplicare gli dèi crudeli. Anche H.I. Marrou aveva ben visto nella sua Storia dell’educazione nell’antichità che cosa si agitava nel cuore di quell’uomo. Non ha colpe, eppure il fato lo ha spinto a una guerra indesiderata e senza speranza. Conosce perfettamente il suo destino. Tutti i congiunti saranno uccisi. Suo figlio precipitato dalle torri e la sua amatissima donna addirittura fatta schiava dal suo peggiore nemico. Nulla gli sfugge. Ma è innocente. Non ha compiuto misfatti per meritare una simile sorte. Per questo non vuole chiedere pietà a quelle divinità crudeli che giocano con la vita degli uomini. “Siamo trastulli nelle loro mani” sembra dire “ma almeno intendo salvare l’onore”.
Eresia pura.
Simile a quella del mago rinascimentale che volle armonizzarsi con la natura, con il creato, cambiandogli però valenza. Il mondo è preda della sopraffazione, occorre mutarlo in armonia.
Eresia pura mettersi al posto del dio vendicativo.
Ettore non giunse a tanto, ma ci andò molto vicino. Il problema era per me capire in nome di che cosa rifiutava di piegarsi.
Questo era il punto.
Riandai con la mente ai due campi avversi. Quelli degli achei e dei troiani.
Tra i greci venuti dal mare non compaiono mai donne, neppure nei ricordi. Soltanto Briseide, una schiava che i potenti si contendono come un oggetto.
Achille se la vede portare via da Agamennone e si adira, è vero, eppure non è per amore, neppure per affetto. È soltanto per l’offesa ricevuta. Insomma il dispiacere, se pure ci fu, era soltanto di Achille per Achille. Ovidio, infatti, nella terza delle sue Epistulae così immaginò che Briseide scrivesse al Pelide: «…sono lontana da tante notti e tu non mi reclami; indugi… ma tieniti la tua fama di amante appassionato!… Quali colpe ho commesso per diventare così insignificante per te Achille? Dove è fuggito così velocemente lontano da noi il volubile amore? …Ho visto le mura di Lirnesso distrutte dalla tua furia guerriera, e io ero parte importante della mia patria; ho visto cadere tre uomini, accomunati dallo stesso destino di nascita e di morte: tre guerrieri che avevano la stessa madre. Ho visto mio marito, steso sul terreno cruento, con tutto il suo corpo, agitare il petto insanguinato. Tu, da solo, sei bastato a ripagarmi di tante perdite; tu eri per me signore, marito e fratello…»
Ben altro è l’atteggiamento di Ettore di fronte ad Andromaca, quando alle Porte Scee lei gli dice esattamente le stesse cose. Infatti gli confida che lui è tutto il suo mondo, appunto padre, madre e fratelli. Ma, a differenza di Achille, il capo dei troiani si commuove e mostra compassione per la moglie. Il motivo? È semplicissimo, l’ama. Così come Priamo ama Ecuba e Paride Elena. La stessa Cassandra, la veggente, è adorata dai fratelli.
A Troia le donne sono protagoniste, non oggetti sessuali. Non a caso a difendere la città giungono le amazzoni, ostili a tutti tranne agli abitanti di Ilio. Evidentemente sapevano che in quella città c’era qualcosa di diverso rispetto a tutte le altre del mondo greco. Ma che cosa? È quanto capii davanti alla finestra che dava su quella piana rischiarata dall’alba, dove una volta si innalzavano splendide le insegne di Troia, l’ultimo regno dove ancora sopravviveva il ricordo del matriarcato.
Bastava rifletterci.
I troiani erano amici dei cavalli, e il quadrupede, come Bachofen ha dimostrato, è un simbolo femminile. Erano protetti da Afrodite, dea dell’amore e del Femminile per antonomasia. E inoltre i troiani accettavano le donne veggenti, appunto Cassandra, mentre tra gli Achei erano gli uomini ad avere la possibilità di esprimere questa dote.
Ecco perché le donne guerriere, anche loro amiche dei cavalli, si allearono con gli eredi di Teucro. Riconobbero in loro la valenza del matriarcato.
Ripensai ancora a Ettore. Oltre a odiare la guerra, come tutte le donne in ogni luogo e in ogni tempo, mostrava sempre pietà e magnanimità. E mi venne in mente che quelle doti, quasi venti secoli dopo le aveva Lancillotto del Lago. Le praticava in ogni azione quotidiana. Ovvero agiva sempre con pitie e largesce come giustamente ha affermato Köhler nel suo L’avventura cavalleresca. Ovvero il cavaliere della Tavola Rotonda assunse in sé, come costume, alcune qualità che sono mediate dal mondo femminile. Non a caso tutto il ciclo poetico di re Artù canta di cavalieri che hanno accolto in sé il Femminile come propria anima.
Non ebbi più dubbi.
Ettore era stato da sempre anche il mio eroe perché apparteneva al mondo magico del Femminile. Ovvero, era dalla parte della tolleranza, degli affetti, della natura, del rispetto, del rifiuto della violenza, dell’accoglienza e del mistero.
Quando finimmo le riprese seppi anche finalmente da che “parte” ero sempre stato e da che “parte” sarei sempre rimasto. Da quella “parte” dove si trovava anche Apuleio, quando nelle Metamorfosi lancia la sua invocazione attraverso i secoli: «Madre di tutta la natura, sovrana di tutti gli elementi, origine e principio dei secoli, divinità suprema, regina dei Mani, prima fra i celesti, prototipo degli dèi e delle dee [proteggici]».

La Grande Madre — Introduzione

Tutto cominciò alle cinque di un mattino del 1945, quando decisi di nascere causando interminabili doglie a mia madre. Ero grosso e quindi dopo alcune ore di travaglio, alle cinque appunto, il medico si stufa e decide di ricorrere al forcipe. Mi prende per la testa e mi tira fuori. Così facendo, però, ne esco con il cranio un po’ allungato.
Poi mi prende per i piedi, perché stentavo a respirare, ma non calcola bene le distanze e mi fa sbattere contro il lettino. Un po’ lo strumento ostetrico, un po’ l’urto, un po’ la natura, e la mia faccia non ne giovò certo. Tanto è vero che la mia povera mamma quando mi vide si impressionò e lanciò il fatidico urlo: «Non voglio vederlo, è troppo brutto!».
Be’, come inizio niente male. Finisco così da mia nonna Carla. È lei a darmi il latte al suo seno, non materno, ma “nonnerno”.
Sì, avete letto bene. È stata mia nonna ad allattarmi perché anche lei aspettava un bambino. La differenza d’età con mia madre era di appena diciotto anni e a sua volta lei mi ha partorito a diciassette. Purtroppo il bimbo di mia nonna morì dopo il parto. Per questo io riesco a succhiare al suo seno. Già questo credo sia un caso unico al mondo.
Ma c’è dell’altro.
Da questo momento in poi, in tutte le occasioni importanti della mia vita, compare il nome di questo neonato “caro agli dèi” invece del mio. Quando la RAI mi fa il primo contratto, quando scrivo il mio primo articolo per una testata, quando mi laureo, ecco che invece di Gabriele appare scritto il suo nome. Anche quando ho condotto la prima diretta è apparso in sovrimpressione al posto di quello giusto. Ci sono abituato e mi stupisco ormai quando non capita.
Come mi sono assuefatto a questa stranezza, ho affrontato con lo stesso spirito numerose altre occasioni che mi si sono via via presentate, fino al giorno in cui ha fatto irruzione, appunto, nel mio vivere quella dimensione che gli anglosassoni chiamano “brillantanza”.
Nel 1968 decido di sposarmi. Faccio le pratiche (inutile dire che devo fare i documenti due volte perché scrivono il mio nome di battesimo errato con il solito scambio) e quindi con la mia futura moglie, da cui sono oggi divorziato, decidiamo di andare a comprare le fedi nuziali.
Ci troviamo casualmente in via Nomentana a Roma e altrettanto casualmente entriamo nella prima oreficeria che incontriamo sul cammino. Al banco c’è un anziano signore. Diamo i nostri nomi e, quando dico il mio, il padrone se ne esce con un: «Lei è per caso parente di Arturo La Porta?». Gli dico di sì e lui immediatamente aggiunge: «Ma lo sa lei che suo padre e sua madre hanno comprato le fedi proprio da me?».
Quanti gioiellieri ci sono a Roma? Come ha fatto quell’uomo a ricordarsi? Perché si rammentava proprio di papà? Credo sia inutile tentare di dare una spiegazione. Come è altrettanto inutile tentare di spiegare ciò che mi accadde al Salone del libro di Torino, nel 1990.
Sono da sempre un ammiratore di Hugo Pratt. Lo incontro e sono emozionato, felice.
E non do peso al fatto che lui mi si rivolge subito con un «Ciao, da quanto tempo». Poi parliamo con grande intensità di esoterismo e al momento di salutarsi lui mi fa una dedica sul suo libro Il romanzo di Criss Kenton.
Ma invece della firma fa un disegno.
Il volto di profilo di un indiano irochese che porta un grande orecchino, con sopra incastonato un cerchio con la croce di re Salomone. Ovvero il sigillo di Geova con un agnello al centro. Ebbene io da anni portavo al collo un talismano: un pendaglio con sopra impressa la croce di re Salomone. Mi stupisco e gli racconto della “coincidenza”.
Mi guarda a lungo e sussurra: «Niente di nuovo sotto il sole». Ovvero mi cita una frase di Giordano Bruno, una delle mie preferite: io sono un biografo di questo filosofo.
Coincidenze. Come quelle che mi inducono a ventitré anni a sognare un grande portone in via Arbia a Roma. Una voce mi dice di andare. Il giorno dopo mi reco sul luogo e “casualmente” incontro un uomo che mi chiede un fiammifero per la pipa. Scambiamo due parole, ci attardiamo, facciamo amicizia e questo signore diventa determinante nella mia vita. Mi fa scoprire la filosofia emetica e tutto un universo che mi porto dentro. Mio figlio porta il suo nome, Michele.
Che in ebraico vuol dire: chi è come Dio? Per rispondere occorre un poco di “brillantanza”, come per leggere questo libro che ha un solo vero scopo. Rivelare una dimensione parallela, e spesso nascosta, della realtà. La storiografia ufficiale ha sistematicamente cancellato i ricordi del mondo magico perché giudicato irrazionale, quindi indegno di esistere. Cercheremo invece di mettere in evidenza questo universo sconosciuto e spesso perseguitato, sia a livello psichico che fisico. È un lungo viaggio verso una forma di conoscenza che si esprime con concetti non necessariamente obbedienti alla logica di causa ed effetto, ma non per questo meno potenti dello scientismo. Si avvale anche dell’intuizione, che spesso non rispetta né spazio né tempo. A questo punto, però, si rende necessaria un’avvertenza. Stiamo per entrare in un mondo femminile. Perché la magia è femminile, splendidamente femminile. Occorre intendersi su questo elemento: femminile. Per ora è importante comprendere che non si tratta di una qualità esclusivamente delle donne, ma di una facoltà dello spirito. È la tolleranza, è la capacità di abbandono e di tenerezza, è la curiosità verso il nuovo, è l’accettazione del diverso, del debole, dello straniero. È l’energia che guida il mondo. È il sentimento dolce e rutilante, forte e languido, erotico e avvampante che sussurra alle creature il mistero della vita. È la Luna, è Artemide, è Persefone, è Iside, è Ishtar, è la madre che osserva, riflette, ama e non giudica. È la nostra capacità di intendere e di comprendere, priva di pregiudizi e di rancori. È l’energia raggiante che si dispiega benevola sulle creature. È la possibilità di un mondo privo di lotte e odi. È la pace della mente e del corpo. È la follia, la conoscenza. È contemporaneamente luce e buio, notte e giorno. È la possibilità del mutamento e della trasformazione. È insomma la parte migliore di noi, che la storia della violenza patriarcale ha soffocato per privilegiare il sangue e la lotta all’estasi dell’intuizione radiosa.
Il viaggio è dunque un itinerario sia esteriore sia interiore. Nella storia vedremo dove e quando il Femminile, che correderemo di maiuscola in segno di rispetto, è riuscito a emergere o a lasciare tracce simboliche in pittura, scultura, filosofia, letteratura, poesia e politica. E una volta evidenziati questi momenti, ecco che l’itinerario diventerà anche sotterraneo, verso l’elemento psichico più recondito. Perché Femminile è anche l’inconscio, sia individuale sia collettivo. Scoprendo l’oscura trama di questo millenario movimento, faremo anche dei ritrovamenti nella nostra città interiore. Scopriremo la città dei gioielli celata tra la vegetazione del rimosso e dell’oblio. Scopriremo il tesoro perduto che non sapevamo di possedere e che invece era soltanto in attesa di una principessa che tramutasse l’orrido apparente in un folgorante essere manifesto.
È un viaggio tra folgori, lampi, acqua, squarci e vampe. Tra persecuzioni e indomite resistenze. È scoprire il sotterraneo del cuore. È ascoltare la musica che l’orecchio cupo non riusciva a percepire più.
È, insomma, Femminile.
Sognare, forse. Ma che le interiorità erranti ci siano propizie.

Ginette Paris, “La rinascita di Afrodite”

Ginette Paris interpreta il mito della Dea dell’amore indicando la via che riconduce verso il mondo di una “femminilità interiore”, vincolata, nelle sue meravigliose espressioni, da secoli di cieco patriarcato. La rinascita di Afrodite è allora per noi la riscoperta di una sessualità affrancata dall’ombra del peccato e del male, vissuta come dono naturale di bellezza e piacere, come un’esperienza mistica e un’apertura diretta al numinoso. Come sostiene l’autrice:

La “rivoluzione sessuale” ha inteso sottrarre la sessualità al dominio della religione, per liberarla del senso di colpevolezza e di peccato… La sessualità così laicizzata diventa avventura erotica ed esperienza di piacere fine a se stesso… ma che ne è stato della sessualità come forma di iniziazione a stati di coscienza che fanno parte del regno del sacro? Il mito di Afrodite ci appare come un’alternativa…
[…] …fare l’amore eleva l’uomo e lo riavvicina alla divinità, piuttosto che abbassarlo al rango del bruto o della bestia. È così che si rende evidente l’immensa opera di civiltà di una Dea che insegna agli uomini non solo l’arte di amarsi ma tutte le raffinatezze che l’accompagnano.

L’opera di Ginette Paris ci riconnette ad un sapere più ampio e profondo, con il quale l’uomo moderno sembra apparentemente non dialogare più: quello del mito. La dimensione mitica ci insegna come in noi esiste un pantheon, attivo in ogni momento della vita, di divinità (o immagini) con cui dialogare, senza escluderne nessuna, se non si vogliono ottenere conflittualità interne inconciliabili.
L’esclusione culturale e psicologica del femminile operata in molte culture di ogni epoca, ed anche contemporanee, preclude all’essere umano in toto, e non solo quindi alle donne, di esprimere ed esprimersi “naturalmente”. Tutto questo ha portato danni apparentemente irreversibili, mali psicologici che sfociano spesso in brutalità disumane. Ciò significa non onorare Afrodite.
Afrodite ci insegna anche che non è la bellezza intesa come forme aggraziate e perfette armonie a portarci all’estasi estetica. Afrodite non accorda solo alle donne considerate “belle” le sue grazie:

La bellezza che ci offre Afrodite oltrepassa il piacere della vista o la perfezione delle forme del compagno. Si tratta piuttosto della bellezza che scaturisce dall’incontro sessuale profondo e che ha in sé il potere di trasmutare l’esperienza fisica del piacere in un’esperienza estatica. Dall’amore sessuale alla bellezza, dalla bellezza all’estasi, questa è la sequenza dell’esperienza afroditica. Il piacere conserva tutta la sua importanza, perché è la via d’accesso, un mezzo, un sentiero che conduce alla spiritualità afroditica, in cui l’epifania della bellezza informa l’intera coscienza. Il compagno è rivelatore di una bellezza abbagliante, e quell’attimo di eternità ha in sé una serena perfezione perché ci è stata donata la visione aurea di Afrodite! Un’esperienza di questo genere è più che “umana”, è religiosa, perché il bello è sempre trascendente!

La rinascita di Afrodite

 

 

 

Ginette Paris, La rinascita di Afrodite, Moretti & Vitali, Bergamo 1997.

Breve scheda sull’autrice.

Ginette Paris, canadese di origine francese, è nata nel 1946. Vive in California, dove insegna Psicologia e Mitologia al “Pacifica Graduate Institute” di Santa Barbara. Ha pubblicato inoltre per la Moretti & VitaliVita interioreLa grazia pagana, Hermes e Dioniso.

 

 

 

La Grande Madre

La Grande Madre è uno dei gangli della filosofia ermetica e junghiana. Da oggi cominciamo a trattare alcuni punti salienti.

Questo itinerario attraverso i secoli ha un solo scopo: tentare di comprendere il magico Femminile. Quell’arcano che, secondo Giorgio Galli, di tanto in tanto riemerge come al tempo delle baccanti, di Cesare e Cleopatra, delle streghe, del Rinascimento magico e attraverso alcuni momenti davvero misteriosi della storia occidentale. Parliamo dei Templari, di Bernardo di Chiaravalle, di Giovanna d’Arco, di Casanova e di altri personaggi che, per lo più inconsapevolmente, affermavano il Femminile credendo di fare soltanto ermetismo. Perché la filosofia ermetica può essere letta prevalentemente in questa chiave, sebbene molti dei suoi praticanti non sapessero che affermando l’una sancivano anche l’altra.
Inoltre dobbiamo capire anche che le cosiddette “storie” di vita vissuta o eventi con caratteristiche oscure sono da interpretare in chiave simbolica. Insomma, alcuni straordinari e misteriosi episodi devono essere letti come attimi esemplificatori di profondi contenuti. La vita come simbolo. Così va anche interpretata, per esempio, la vicenda terrena di un Giordano Bruno. Pensate, le opere di questo filosofo sono in chiave ermetica, ovvero hanno vari significati nascosti, e la sua stessa esistenza va reintepretata come monito e come simbolizzazione dei contenuti del Femminile.
Avventura, amore, morte, lotte e battaglie devono essere viste come una rosa. Un petalo esterno ha un significato, quello più interno un altro più complesso, e così via fino al cuore.
Il cuore: senza la sua valenza è impossibile comprendere questo viaggio. Non si legga soltanto con l’intelletto, ma anche, e soprattutto, con la forza del sentimento. Questo percorso non è per i finti accademici, ma per le persone che non hanno pregiudizi. Non intendo fare bella figura con quei pedanti che snervano i significati con spocchiosa supponenza. Desidero soltanto restituire, senza enfasi, quello che credo di aver appreso, ciò che ho direttamente vissuto.

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La Grande Madre Iside

Io sono tutto ciò che fu, che è e che sarà…
E nessuno dei mortali riusci mai a scoprire.

Tempio di Sais – Alto Egitto

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O Regina del Cielo,
O Benedetta Iside
O Madre Celeste,
Tu che in ogni tempo sei salvatrice
dell’umana specie
Tu che nella Tua grande generosità
porgi aiuto ai mortali
Tu la cui bocca, Madre, sa pronunciare gli Incantesimi
Nutrimi,
Abbi cura di me e confortami.
Aiutami a ritrovare le parti disperse della
mia personalità spirituale,
come hai cercato e ritrovato le parti disperse
del tuo Sposo Divino.
Sorreggimi nelle avversità
Proteggimi con il Tuo Amore Benevolo
Guidami verso la Tua Luce
Tutto il Creato Ti venera e Ti invoca
O Regina del Cielo
O Benedetta Iside
O Madre Celeste.

L’immagine e i testi su Iside sono tratti da Ada Pavan Russo, Iside: Promessa di Immortalità, Ed. Tempio di Iside.

Alla Loggia dei Lanzi – Perseo

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A piazza della Signoria, a Firenze, rimango sempre stupito dinanzi alla terribile bellezza del Perseo di Benvenuto Cellini. Anche al primo sguardo si comprende che l’eroe è dotato di un corpo atletico, muscoloso; ed è anche evidente che ha un atteggiamento maschile e contemporaneamente una movenza del tutto femminile. È l’incontro di due ambiti, a dimostrazione che non esiste il maschio che sia solo maschio.
L’eroe e il guerriero, per essere davvero tale, ovvero sia rispettoso della sua forza, nella sua forza, e verso l’altrui forza, deve, innanzitutto, avere rispetto degli altri, perché altrimenti saremmo destinati a combatterci sempre.
Affinché tutto questo possa accadere si deve avere un elemento di femminile. E qui è evidente, ed è potentissimo. È un guerriero che esprime eros, e che esprime anche una profonda umanità.
Non c’è nessun atto di trionfo mentre solleva la testa, ma tutt’altro; se andiamo a guardare il volto inclinato verso il basso, verso chi osserva la statua, è un volto pieno di pietas.

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