Il castello incantato

A Giovanna, che ha chiesto una fiaba da leggere ai bimbi della scuola materna, e a Valeria, che ne attende un’altra, mando in dono questa che viene tratta dal nostro primo libro “Le fiabe per affrontare i distacchi della vita” .(In questo testo le fiabe sono più semplici e adatte ai bambini più piccoli. Le fiabe degli altri due testi, “Le fiabe per sviluppare l’autostima” e “Le fiabe per vincere la paura”, sono adatte a quelli più grandi e agli adulti)

Il castello incantato

Nella grande città di Insettopoli vivevano felici alcuni miliardi di insetti di ogni tipo: mosche, zanzare, farfalle, ragni, libellule, falene, api, vespe, calabroni e così via.
Ognuno aveva il suo lavoro, la sua famiglia, i suoi svaghi, le sue abitudini.
A Insettopoli c’erano scuole, cinema, teatri, campi sportivi, supermercati, banche, tutto ciò che poteva essere utile alla comunità meno…. l’ospedale.
Che strano!
E quando gli insetti si ammalavano?
Andavano al castello incantato!
Infatti, su un colle dominante Insettopoli, sorgeva un grande castello un po’ tetro, un po’ buio visto dall’esterno, con le torri merlate sempre avvolte da un sottile strato di nebbia.
L’interno però, diviso dal resto della città da un ponte levatoio gettato sul fiume segoso, era splendente di luce, luminoso giorno e notte, ricco di stelle abbaglianti e di festoni colorati.
E chi abitava nel castello incantato?
Nessuno! Assolutamente nessuno!
O meglio il castello era pieno zeppo di buoni pensieri e di buone azioni!
E già, perché a Insettopoli ogni insetto malato, ferito o sofferente si recava al Castello Incantato, si fermava una mezz’oretta e ne usciva completamente guarito!
In cambio, però, doveva lasciare al castello almeno una buona azione o un buon pensiero.
Così una farfalla ferita, guarendo, lasciava il pensiero di andare a trovare la Ragnetta vecchietta, una mosca con l’influenza prometteva, guarendo, di andare da Vespessa depressa a portare un po’ di conforto, una libellula diabetica, guarendo, si impegnava a sfamare un moscerino magrolino, un calabrone iperteso, guarendo, affermava di aiutare nelle faccende di casa la povera Apina vedovino e le sue dieci figliole e così via.
Il Castello Incantato era così zeppo di bontà che bastava entrarvi per uscirvi guarito da ogni male, pervaso dalla luce benefica di cui era strapieno.
Tutti così si aiutavano a vicenda e gioivano dell’aiuto reciproco e dell’ottima salute di cui godevano grazie al Castello incantato, ma grazie soprattutto a loro stessi.
Un brutto giorno, però, il grande costruttore di ospedali, Topone Affarone, roso dalla rabbia perché a Insettopoli non aveva ancora costruito nulla e, quindi, lucrato nulla, decise di trasformare il suo rancore in fatti: business is business!
Che diamine! Era ora di costruire un ospedale anche a Insettopoli!
E così, con il potere e con il denaro, cominciò a inviare al Castello incantato il suo esercito di lumache e di serpentelli e ognuno di essi aveva il compito di lasciare un cattivo pensiero e una cattiva azione.
Odio, rancore, invidia, bramosia, intolleranza, ogni cattivo sentimento cominciarono via via, lentamente, ma inesorabilmente a riempire il Castello incantato, fino a saturarlo: i cattivi pensieri, pesanti, spinsero via via quelli buoni, leggeri più dell’aria, sempre più in alto, fino a cacciarli fuori dal Castello tutti quanti.
E’ ovvio che così, quando un insetto malato si recava al Castello incantato per guarire e per lasciare un’impronta di bontà, si sentiva soffocare dal peso dei cattivi pensieri che lo schiacciavano al pavimento, lo stordivano e lo lasciavano più malato di prima.
Ben presto la voce si sparse; il Castello era divenuto un luogo malefico dal quale trapelavano i peggiori sentimenti: gli Insetti presero a guardarsi in cagnesco, a odiarsi, a invidiarsi l’un l’altro, a rinchiudersi in sé e nelle proprie case.
Se prima si poteva lasciare incustodito ogni bene senza timore, si poteva sempre contare sull’aiuto di qualcuno alla bisogna, ora furti e insetticidi non si contavano più: ci si rubavano i beni, il lavoro, i piccoli dovevano andare a scuola scortati dalla polizia che prima aveva il compito solo di disciplinare il traffico perché tutti facevano passare prima l’altro.
Insomma, una vera tragedia!
Insettopoli somigliava sempre più a una metropoli umana! Davvero invivibile.
In questa situazione, il Sindaco chiamò subito Topone Affarone affinché costruisse
a tempo di record dieci moderni ospedali dotati di tutte le attrezzature.
Che diamine odio e rancore! Il castello Incantato non solo non guariva più, ma addirittura fomentava odio e rancore!
E poi tutte quelle risse, quelle rapine!
Sì, gli ospedali erano proprio necessari. Topone Affarone, gongolante per aver raggiunto il suo scopo, si mise all’opera e a costi da vero strozzino costruì ben presto degli ospedali.
In questa triste situazione Insettopoli tirava avanti tra un ricovero di un rapinato e quello di una scippata, più naturalmente quelli di tutti i malati che prima al Castello Incantato guarivano nella bontà.
Ma i fratelli Formichini, Ino e Ina, non potevano più vedere la loro città preda dell’odio.
La tristezza e il dolore di Ino e Ina si mutarono ben presto in rabbia e la rabbia in azione: essi avevano saputo tutto da un vecchio lumacone ubriaco che avevano raccolto, ferito e sofferente, al bordo di una strada dopo essere stato rapinato.
Il lumacone era uno di quelli che erano stati pagati da Topone Affarone per portare l’odio al Castello, ma ora era pentito tanto da raccontare la storia a Ino e Ina.
I due piccoli eroi, allora, raccolsero, con l’aiuto di tutte le formiche non ancora contaminate da gelosia e invidia, migliaia e migliaia di palloncini colorati, con pazienza certosina li gonfiarono e li portarono al Castello Incantato e con ardore e coraggio, eludendo la vigilanza delle guardie di Topone Affarone, li fecero esplodere tutti assieme in un sol colpo.
Il boato si sentì in tutta Insettopoli: ovviamente tutti corsero nelle strade temendo il peggio, ma agli occhi esterrefatti di tutti gli Insetti uno spettacolo stupefacente si presentò: i cattivi pensieri, i malevoli sentimenti buttati all’aria dallo scoppio dei palloncini rovinavano per terra da tutte le pareti del castello e si infrangevano spezzandosi, mentre tutti i buoni pensieri e i dolci sentimenti riprendevano dal cielo il loro posto tra le pareti del Castello Incantato che, via via, riprendeva a splendere di luce propria.
Come per incanto, al grido di gioia di Ino e Ina, tutti gli insetti corsero al Castello
Incantato e si riempirono di nuovo di amore e di bontà.
Topone Affarone fu scacciato e diffidato e i dieci ospedali divennero altrettante scuole per i giovani.
Inutile aggiungere che Ino e Ina furono portati in trionfo e festeggiati come eroi: ancora adesso che sono molto vecchi raccontano ai nipoti della faccia di Topone Affarone quando sentì lo scoppio dei palloncini!

Pubblicità

MUSICA E FIABA, il 24 gennaio, a Genova

Carissimi vi riporto questo invito inoltratomi dalla “nostra” Elvezia Benini

MUSICA E FIABA
Un invito
Siamo riusciti a creare un ponte tra sole e luna, tra conscio e inconscio, tra ragione e sentimento……
Il 24 Gennaio a Genova al Teatro della Corte alle 17 ci sarà un evento speciale: “I giovani per vincere la paura” incontro
i Sonohra a Genova per l’Unicef

un abbraccio
Elvezia

Lo scudiero del re

Siamo tornati!! Bella questa puntata!

E a proposito di Farfalla-Anima ecco
“Lo scudiero del re”
fiaba tratta da “Le fiabe per vincere la paura”…

Lo scudiero del re

La fedeltà è senza dubbio una virtù.
E Crimildo, scudiero prediletto del gran re Asdrubale, era la fedeltà fatta persona.
Era come se Crimildo non avesse una propria volontà, come se non fosse un essere pensante: no, lui agiva per volontà del re, del suo re per il quale, avesse avuto dieci vite, tutte e dieci avrebbe volentieri donato.
Tra l’altro, il fatto che Crimildo fosse lo scudiero preferito del re suonava strano a tutta la corte.
Gli scudieri erano tutti alti, forti, prestanti, aitanti, dei veri guerrieri impavidi e sfrontati, rodomonti e spaccamontagne, assetati di sangue da bere al cospetto del re.
Ma Crimildo lo beveva ai piedi del re.
Crimildo era curvo, il naso aquilino che tentava un improbabile parallelismo con le spalle, decisamente brutto, il viso butterato e il ventre prominente, le storte gambe perennemente protese a evitare che le ginocchia si scontrassero, il fisico strambo al quale nessuno avrebbe attribuito la forza di sostenere l’armatura.
Eppure era il preferito, assolutamente il prediletto.
Crimildo era scaltro. Lui coglieva i sentori del volere del re ancor prima che questi esprimesse l’imperio: uno sguardo all’imponente figura di Asdrubale, il suo re, e la battaglia prendeva una china anziché un’altra, una ritirata strategica simulava un attacco, un’ambascia criptata recapitava un fondamentale volere, un desiderio terreno era subito esaudito.
Crimildo aveva una dote speciale: sapeva”essere” il re, gioiva nel vederlo gioire, smaniava nel vederlo smaniare, pensava per lui e con lui, ne captava il benché minimo mutamento d’umore, distillava la sua volontà in gocce di azione.
Ma la corte non comprendeva sino in fondo questa totale aderenza, non capiva perché il re preferisse i servigi accorti e un po’ sotterranei di Crimildo alla brutale concretezza degli altri scudieri.
E così Crimildo era solo, evitato da dame e cavalieri, con l’unico piacere di servire il suo re e da questi essere amato.
Asdrubale era un re sanguinario e belligerante, amante dei piaceri terreni e bramoso di potere, sprezzante e temerario tanto in battaglia quanto nella vita di corte.
E il fido Crimildo sempre al suo fianco. Non era una guardia del corpo.
Crimildo non ne aveva né la prestanza né la baldanza.
E poi Asdrubale non ne aveva bisogno: era forte e risoluto, impavido e vittorioso, oltre che sempre circondato dalla guardia dei suoi pretoriani, un corpo scelto di trenta guerrieri votati alla morte che non avrebbero mai permesso a un nemico neppure di avvicinarsi al re.
No, Crimildo era molto di più di una guardia del corpo.
Era l’interprete autentico dell’anima del re, ammesso che ne avesse una, era l’unico a vederlo piangere nelle notti insonni, quando gli auspici non erano forieri di buoni pronostici, era l’unico che ne conosceva le profonde debolezze, le insane paure che, a volte, lo attanagliavano alla gola come una barbara morsa da lasciarlo senza fiato e madido di sudore.
Ed erano paure profonde, remote, spirituali si potrebbe dire.
Asdrubale non aveva infatti paura di niente e di nessuno: con un pugno poteva atterrare un bufalo, con un urlo poteva atterrire una fiera.
No, lui aveva paura di dover, un giorno, scontare le proprie immani nefandezze, paura che ogni rivolo di sangue versato ritornasse a lui annegandolo in un rosso mare di velluto, paura che l’inflessibilità atroce riservata ai nemici fosse a lui servita un giorno sopra un piatto di ossa e in un calice a teschio.
Ed ecco Crimildo a consolarlo: “Maestà, ciò che lei infligge ai nemici è la giusta punizione, le sue leggi sono le leggi della forza e quindi nessuno può opporvisi”.
E così via, in un costante rafforzamento della volontà reale.
A Crimildo inoltre venivano affidati dal re i compiti più difficili.
Se la battaglia o la guerra stavano volgendo a sfavore, ecco Crimildo, novello Odisseo, incaricato di volgere a favore con l’astuzia e con l’intelligenza ciò che la forza non riusciva; se un altro re non voleva giungere a patti alle condizioni di Asdrubale, ecco che Crimildo interveniva: o con il sequestro di un figlio o con il ricatto o con l’assassinio a tradimento.
Una volta Crimildo fu inviato ad assassinare il potente re Volpedo, nemico di Asdrubale, insieme a tutta la sua famiglia.
Crimildo si finse uno storpio guaritore, inventore di magici intrugli fornitori della vita eterna, che mescolò al cibo della regale famiglia la quale morì avvelenata tra atroci tormenti.
Quella volta fu la prima volta che la vide.
Una nera, grande farfalla, adagiata sulla parete della sala da pranzo di Volpedo, un’inquietante messaggera inviata ad assistere al misfatto e a registrarne gli esiti nefasti.
E da quel giorno sempre la vide.
A ogni azione nefanda, ad ogni assassinio, ad ogni levantino ricatto, ad ogni tortura e supplizio, ad ogni deprecabile azione.
La nera farfalla era sempre presente: a Crimildo ora sembrava l’immagine stessa della morte, ora un vessillo divino, ora l’anima degli uccisi, ora un incaricato divino che riportava il cumulo de peccati che lui avrebbe dovuto scontare. Inflessibile come Asdrubale, il suo re, ma molto, molto più tremendo perché lo avrebbe condannato per l’eternità.
Un giorno, la fiera città di Sandronia, rivale di Asdrubale per i commerci di vino e di olio, venne attaccata da questi deciso ad avere il monopolio dei guadagni.
Asdrubale era convinto di piegare la città in breve tempo: le sue truppe erano cariche e assetate di sangue e di bottino, gli auspici erano stati favorevoli, Sandronia era ricca, ma poco abituata a combattere.
Ma nonostante il ferro e il fuoco, gli assalti continui, gli arieti e le catapulte, Sandronia resisteva.
I suoi abitanti, protesi al bene comune, davano volentieri la vita per la salvezza della città e l’olio non mancava da rovesciare bollente sui soldati di Asdrubale che morivano come cavallette.
L’assedio fu intensificato, si protraeva, ma Sandronia resisteva.
Ci voleva Crimildo.
Egli si travestì da vecchia levatrice e si presentò alle porte della città come un dono di pace di un Asdrubale ormai rassegnato.
Che potevano temere gli abitanti di Sandronia da una vecchia levatrice? Nulla, anzi ce n’era bisogno, molte erano morte nell’assedio e la città aveva bisogno di giovani.
Ma la vecchia levatrice di notte ritornò a essere lo scudiero del re che aprì le porte ai soldati e diede inizio alla strage uccidendo per primi proprio i neonati.
E mentre ne squartava uno, ecco posarsi sulla sua spalla la nera farfalla, in un fremito, in un tremore delicato e inquietante che tolse a Crimildo le forze.
Da un po’ di tempo la nera farfalla lo visitava anche in sogno; solo che in sogno essa parlava.
Crimildo si rivolgeva spesso a lei per cercare di capire chi essa fosse, che cosa volesse, che cosa rappresentasse, che cosa portasse in messaggio, ma la farfalla, invariabilmente, con una voce di fanciulla, rispondeva:”Io sono, tu sei”.
Sempre e comunque, a qualsiasi domanda Crimildo ponesse, la risposta era la stessa:”Io sono, tu sei”.
E così, dopo quelle notti, dopo quei sogni, Crimildo si svegliava sconvolto incredulo e dubbioso, con il terrore di vedere apparire davvero la nera farfalla alla prossima nefandezza.
E questa appariva, sempre, nel momento del maggiore inganno, della più tremenda crudeltà, silenziosa e inerte, ma terrificante nel suo insoluto significato.
Un giorno Crimildo doveva compiere l’ennesima scelleratezza.
Il re Asdrubale si era invaghito di una giovane fanciulla, Pulcra, figlia di un povero fabbro e di una lavandaia.
Crimildo aveva capito da tempo la passione e le intenzioni del re: non era certo la prima volta che il re gli faceva rapire una fanciulla che, dopo essere stata ridotta in schiavitù, veniva personalmente sgozzata dal re non appena gli veniva a noia.
Ma adesso era diverso, Crimildo sentiva un brivido nella schiena, una strana paura, un’inquietudine come quando si scorge all’orizzonte una tromba d’aria che si sta avvicinando e che sappiamo ci coglierà nel vortice del suo turbinare.
Così Crimildo tergiversava, adduceva motivi strategici e politici impellenti per rimandare il rapimento.
Ma la pazienza del re era terminata, la brama verso Pulcra non lo faceva dormire.
Crimildo doveva adempiere all’ordine, doveva rapire Pulcra.
Arrivato alla povera casa della fanciulla con un drappello di soldati, legati e imbavagliati i genitori, la prima cosa che fece Crimildo fu di esplorare pareti e suppellettili alla ricerca della farfalla nera.
Ma non la vide. “Che strano”, pensò Crimildo.
L’assenza della farfalla lo inquietava più della sua presenza.
Ma doveva agire, portare a compimento la volontà del suo re.
Si accingeva a compiere il misfatto, legando la fanciulla e strappandola alla sua casa, quando questa parlò.
“Crimildo, fido scudiero del re, basta con i misfatti, i delitti, le scelleratezze; sei ancora in tempo a cambiare la tua vita e a salvare la tua anima, lasciami libera di volare!”
E tra il terrore e la meraviglia di Crimildo, la splendida fanciulla si trasformò in una nera farfalla che si librò in volo sopra di lui.
Crimildo temette di svenire, barcollò, sudava freddo. Ma comprese.
Il re lo avrebbe giustiziato di sicuro, ma almeno avrebbe avuto la vita eterna.
Un rinnovato Crimildo si presentò quel giorno al cospetto del re.
“Maestà”, disse lo scudiero, “non posso più compiere misfatti, giustiziatemi per avervi disobbedito e deluso, ma io d’ora in poi non compirò più azioni malvage!”
Un rinnovato re rispose a Crimildo:”Mio fido scudiero, anch’io mi vergogno profondamente delle nefandezze compiute; ho appena abdicato la corona in favore di mio fratello Pierotto, io mi ritirerò in convento per dedicarmi ai lebbrosi; ogni mia malefatta dovrà essere coperta da almeno dieci buone azioni. Ho deciso anche di donare ogni mio avere ai poveri e ai bisognosi e, d’ora in poi, andrò scalzo e vestito di un saio. Se tu vorrai, mio caro Crimildo, d’ora in poi non sarai più mio scudiero, bensì mio fratello!”
Un enorme gioia, la vera gioia, pervase Crimildo.
Accettò di buon grado e da quel giorno Fra Asdrubale e Fra Crimildo vissero in santità, morendo di lebbra contratta dai molti che avevano aiutato.
E mentre stavano per morire, una farfalla nera si posò dolcemente sul volto dell’uno e dell’altro.

Le difficoltà del cammino …

Le difficoltà del cammino …
Stasera ho vinto anch’io …

(tratto da- Le fiabe per vincere la paura)

“Campione forever”

L’Australia è una terra sconfinata, ricca e assolata, ove i confini sono pure entità convenzionali, persi nel rossore della terra e nel verde del rigoglio naturale.
L’uomo, in Australia, ha creato luoghi bellissimi dove l’art house colpisce per essere riuscita ad imbrigliare negli edifici l’infinita creatività del protendersi umano verso il cielo e verso la perfezione.
Ma l’uomo, in Australia, è solo un corollario alla natura, una parentesi di abitudine nella più grande organizzazione naturale.
E di questa natura, come è noto, il simbolo è il canguro.
Il canguro, principe e re, baluardo e portavoce, antica immagine di una terra ancora oggi pervasa da un’aura di mistero.
I canguri sono animali atletici: così atletici da essere campioni di corsa e di … pugilato.
Essi infatti eccellono in tutti gli sport, ma sono veramente e decisamente imbattibili in queste due discipline atletiche.
I canguri sono sì anche molto teneri e graziosi, con il marsupio greve dei loro piccolini, con i loro balzi incredibili, con il loro caracollare apparentemente senza meta, ma sono soprattutto degli atleti, fuori dubbio dei campioni, senza discussione dei muscolosi e ruvidi animali da competizione, sempre in forma, agili e forti come bronzi di Riace.
Se i cavalli possono ritenersi gli Ateniesi naturali, se i lupi e le aquile possono a pieno titolo affiancarsi ai Romani, i canguri sono sicuramente gli Spartani della natura, sempre pronti come questi al confronto maschio e belligerante, aspro ma leale, sempre pronti a petto in fuori come Leonida e i trecento delle Termopili a contrastare i Persiani di turno che vogliono invadere il loro territorio, sempre in guardia, sempre in allerta, col balzo felino al fulmicotone inserito nelle zampe potenti.
Insomma i canguri sono veri e vincenti atleti, nel salto in lungo come nel salto in alto, nella corsa di velocità come in quella di resistenza, nella lotta come nel pugilato.
E Primo era proprio un pugile, un grande pugile, il migliore dei pugili canguri.
E se è vero che nel nome sta tutto un destino, il nome Primo era già un simbolo, un segno, una garanzia di ciò che lui sarebbe stato: il primo tra i pugili, il migliore, l’invincibile, colui che fuori dal ring poteva abbattere un orso con un pugno e che dentro al ring non aveva rivali.
Un destro, un sinistro, un gancio, un uppercut e l’avversario era k.o.!
Primo era famoso perché vinceva ogni suo incontro prima del limite per k.o. tecnico o per lancio della spugna; Primo non aveva mai perso, ma non era mai arrivato neanche a una vittoria ai punti.
Primo distruggeva i suoi avversari ben prima del termine dell’incontro!
Ormai era una costante: dove Primo combatteva stuoli di canguri accorrevano, ogni televisione pagava fior di diritti per accaparrarsi la diretta dell’incontro, i giornalisti sportivi andavano in delirio così come le folle che lo adulavano e lo adoravano.
Non c’era avversario, per quanto grande e grosso, forte e allenato, che potesse tener testa a Primo; la sua era una dote naturale, una innata potenza esplosiva, una buona cattiveria appresa nelle affollate e perigliose lande australiane, una costanza maniacale negli allenamenti defatiganti, uno spirito di sacrificio non comune, un rispetto totale per gli avversari, una deferenza antica verso le regole e verso gli arbitri, una fiducia illimitata nel suo vecchio allenatore: tutto ciò faceva di Primo un atleta unico, forte, rigoroso, invincibile.
Primo aveva tra i canguri un successo strepitoso: nelle tv era ricercatissimo e pagatissimo, gli sponsors si mettevano in fila, nascevano come funghi i fans club, fidanzate come se piovesse, soldi, tanti, tantissimi soldi, lusso, auto sportive, ville, preziosi, guardie del corpo, ogni agio era suo, ogni ricchezza era sua, ogni beneficio era il suo, ma anche stima e affetto erano con lui.
Venne chiamato “Campione Forever”.
E quando Primo era annunciato sul ring, ogni enfatico e adorante telecronista
urlava : ”E ora, canguri e cangure, ecco a voi Primo Campione Forever”, e giù applausi, urla deliranti, spintoni per abbracciarlo, toccarlo, odorarlo, prima e dopo il combattimento, prima per assaporare il profumo del suo bagnoschiuma, dopo per godere degli umori del suo sudore.
Primo era ormai “Campione Forever” per tutti e per tutte.
Non poteva uscire al ristorante che subito era circondato da giornalisti a caccia di scoop e da fans a caccia di autografi, doveva mimetizzarsi tra la folla con ampi cappottoni e occhiali da sole, ma invariabilmente un fan più attento degli altri riconosceva il suo fisico statuario e il delirio ricominciava.
Ma muto e silenzioso, così come inesorabile e incontrastabile, il tempo passava, il tempo passò.
Tutto o quasi può un canguro, così come un uomo, tranne che fermare il tempo.
L’artefice divino che pare sonnecchiare sulle nostre azioni e sulle nostre venture ha messo un ineffabile e imparziale arbitro a disciplina di esse: il tempo, l’immortale tempo che nasce e muore, rinasce e rimuore, milioni, miliardi di volte, all’infinito, in ognuno di noi, in ognuna delle creature, sia essa effimera come una farfalla o longeva come una tartaruga.
Il tempo, paziente e silenzioso, impalpabile nel benessere e interminabile nel malessere, il tempo che tutto muta e che tutto cancella, per il quale la parola “forever” è una briciola di pane da scrollarsi dalla barba, per il quale le parole “campione forever” risultano piccole interpunzioni nello spartito infinito del disegno divino.
E il tempo segnò anche Primo, e l’ictus lo segnò anche più.
E fu così che “Campione Forever” mutò prospettiva.
Divenne un canguro invalido, divenne un canguro con progetti di suicidio.
Primo rimaneva sempre nell’affetto di molti, non più di tutti, ma di molti, veniva ancora chiamato in tv, ma come ex pugile, di lui si parlava come di ex campione anche sui giornali, si diradavano molti canguri e molte cangure prima sempre intorno a lui, alcuni restavano, ma lo trattavano, appunto, da ex, ex campione, ex canguro, solo ex.
E Primo si chiuse: lui che sempre colpiva era stato colpito, lui che sempre ledeva era stato leso, lui che sempre abbatteva era stato abbattuto.
Lui che aveva sempre avuto rispetto per l’avversario era stato trattato senza rispetto alcuno dall’avversario più forte e più tenace di lui, il Tempo, era stato distrutto senza ritegno e vigliaccamente, lui così coraggioso, dal più vile e silente degli avversari, l’Ictus.
Entrambi questi avversari a Primo non erano stati presentati, non gli avevano stretto la mano, non lo avevano abbracciato e confortato dopo la sua sconfitta.
E Primo si chiuse, non parlava più, lui “Campione Forever” era ora in balia di chi lo assisteva e che, in grazia solo dei suoi soldi, lo curava e badava a lui.
Lui, indomito come Leonida, invincibile come Cesare, pugnace come Alessandro era ora un’ameba irriconoscibile che via via scivolava nell’oblio.
La sua forza non c’era più, colpita, così come il movimento, dal feroce avversario Ictus, non più l’agilità, la bellezza, la prontezza, l’aitanza,: tutto perduto, meglio morire, meglio farla finita, l’avesse vinto fino in fondo questo match il Tempo e l’avesse vinto come lui, Primo, vinceva i suoi di match, prima del tempo, per k.o.!
E Primo decise di morire il primo gennaio.
Ma il trentuno dicembre, durante la consueta visita che quasi tutti i giorni faceva a Primo, il suo amico Cassio gli lesse una fiaba.
La fiaba parlava di castori, animali che piacevano molto a Primo; in particolare narrava di un castoro disperato perché, col passare del tempo, aveva perso tutti i denti e con essi il suo ruolo nella comunità: non poteva più costruire le tane, portando i rami con i denti, non poteva più nutrirsi, non poteva più difendere la sua famiglia dalle lontre invadenti e fameliche. Aveva deciso di affogarsi, di lasciarsi affondare nel fiume che lo aveva visto giovane e forte.
Ma un amico aveva narrato al castoro una fiaba nella quale si affermava che vi è un tempo per la forza, uno per l’azione, uno per la gioia, uno per la debolezza, uno per la sofferenza, uno per il tramonto; nella fiaba si spiegava come questi tempi siano naturali e come vadano affrontati e accettati con serenità tra gli affetti veri, pochi, non eclatanti, non mondani, ma stretti, forti e autentici, come la vita vada gradita e accettata come un dono da non sprecare, da non umiliare, da non dissacrare.
E il castoro aveva capito, si era disteso e si era lasciato amare così, senza denti, per quello che era diventato.
E anche Primo capì: non era importante essere “Campione Forever”, lo era stato, ne aveva beneficiato a piene mani, ma ora vecchio e malato capiva di essere finalmente un canguro vero, amato da pochi, ma autenticamente.
Capì anche che il Tempo non è né avversario né nemico: è solo il tessitore delle nostre trame, è colui che tiene in mano il capo e la coda del filo che tesse le nostre azioni, come una tela più o meno lunga che viene poi avvolta nel magazzino della memoria.

Elvezia Benini

La ghianda racchiude ogni cosa…

La ghianda racchiude ogni cosa…

Una fiaba in dono (tratta da “Le fiabe per sviluppare l’autostima” di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra edito da Franco Angeli)

L’asino
Il mondo degli animali, si sa, con le sue multiformi e variegate moltitudini di creature, ha sempre ispirato il mondo degli umani i quali hanno attribuito, un po’ a torto un po’ a ragione le loro idiosincrasie, le loro caratteristiche più evidenti, le loro più marcate attitudini, il loro mondo onusto di significati e di significanti ai poveri animali per i quali l’unico significato della loro vita è sempre stato quello di condurre una vita più lunga possibile, in ragione delle infinite insidie, seguendo il corso naturale degli eventi preordinate per loro dall’Armonia dell’Artefice divino.
E così un individuo truffaldino ecco che diviene “furbo come una volpe”, una persona viscida e levantina è associata a un serpente, un uomo robusto è “forte come un toro”, un altro un po’ incosciente è “coraggioso come un leone”, una donna un po’ leggera è ” proprio una gattina”, una altra un po’ ingenua è “un’oca”, un bambino agile e veloce sembra proprio una gazzella, mentre un altro che a scuola fa fatica è “sicuramente un asino”.
L’antica scuola, poi, ha sempre applicato le orecchie d’asino a quei bambini che o perché un po’ tontolini, o perché il dialetto in casa loro era l’unica merce di scambio, non riuscivano a soddisfare il maestro che chiedeva di ripetere a memoria tutta, ma proprio tutta, “La cavallina storna”…che portava colui che non ritorna, così come non è mai ritornata l’autostima del povero malcapitato bambino additato a scuola per anni come l’asino.
Orbene, consapevoli di quanto le vessazioni umane sul mondo animale siano foriere di vessazioni anche sugli stessi umani, dobbiamo sapere che nel piccolo paese contadino di Terrabruciata la vita scorreva tra fatiche negli aridi campi che, avaramente, elargivano i loro frutti e fatiche casalinghe per tutte le incombenze che le folte nidiate di bambini imponevano, prima di divenire esse stesse, le nidiate, parte attiva in quelle fatiche che l’antica vita contadina portava con sé.
La vita e la morte, a Terrabruciata, avevano lo stesso significato : ineluttabile era la morte, ma ineluttabile era anche la vita, con i suoi carichi, le sue piccole e povere gioie, le sue semplici evidenze, le sue proverbiali angosce per un futuro senza speranza di cambiamento dalle miserrime incombenze, ove il freddo dell’inverno patito nei geloni delle dita e il caldo dell’estate subito nei campi riarsi scandivano con semplicità una vita pervasa da una grande religiosità che, tramite la fede, rendeva accettabile, semplicemente e amorevolmente, il decorso della storia individuale e collettiva.
A Terrabruciata le due grandi istituzioni che portavano speranza e alleviavano i pesi quotidiani erano la Chiesa e la Scuola, unici segni di un’organizzazione sociale che cercava di fornire strumenti diversi dal primitivo possesso dei fondamentali della vita.
E per la Scuola e la Chiesa, a Terrabruciata, vi erano grande deferenza e grande riverenza, un’accettazione incondizionata di ogni verbo rivelato dall’una o dall’altra, una genuflessione e uno “scappellamento” che non distinguevano abnegazione da protervia, così come non discernevano tra zelo e malvagità.
Nella Scuola di Terrabruciata insegnava da anni l’anziana maestra Conlabarba che in una cosiddetta “pluriclasse”, accorpava quaranta bambini di tutte le età, dai piccolini di sei anni appena sbocciati dalla porta della stalla ove dormivano al calduccio fino ai ripetenti di quattordici anni che duramente lavoravano nei campi il mattino sino alle otto, quando la campanella della scuola li richiamava ai loro altri doveri.
Conlabarba non era di Terrabruciata : lei arrivava tutte le mattine alle otto con la corriera dalla città e, appena scendeva dal predellino del mezzo, le sue mani subito scrollavano dalla giacca di tweed o dal cappotto grigio pesante l’aria fetida di pollame che stagnava, a suo dire, nella corriera, unico mezzo per i villici per andare in città dal medico, a pagare le tasse, a commerciare i loro semplici averi.
E poi, dopo questo rito inusuale, la liturgia di Conlabarba la faceva dirigersi impettita verso la scuola con il mento all’insù, gli ispidi capelli raccolti a crocchia che si elettrizzavano di recondite ire e i tacchi squadrati delle squadrate scarpe che squadristicamente risuonavano sul selciato come richiamo imperativo per i suoi alunni.
Tra essi ve n’era uno Armando, Armandino per tutti perché era gracile e malaticcio, etereo e femmineo, vulnerabile e assente, indifeso come uno scricciolo, tenero come un passerotto, sensibile come una procellaria, buono come un agnellino, orfano di padre come un vitellino.
Però Conlabarba non lo riteneva, non lo chiamava né scricciolo, né passerotto, né procellaria, né agnellino,né vitellino, ma molto , molto più prosaicamente asino.
Durante l’appello di ogni giorno, Armandino era chiamato asino già dall’inizio e la A di Armando era divenuta la a di asino.
La mamma di Armandino era una povera vedova da libro Cuore, che viveva di stenti, tisica e malferma, incapace di staccarsi dalla bottiglia che subito comprava non appena qualcuno le dava qualche quattrino.
Armandino accudiva come poteva la mamma, faceva qualche servizietto nelle case dei generosi, ma poveri contadini che gli fornivano di che mangiare per lui e per la madre, togliendo dal poco che avevano un pochino per lui.
I suoi logori vestitini erano gli stessi estate e inverno : per questo motivo Conlabarba, non appena lui le si avvicinava timidamente, ogni volta si turava il naso con le dita e, con voce nasale, imperativamente lo scacciava, stigmatizzandolo invariabilmente con l’epiteto di asino.
E così, tutti, a poco a poco, chiamarono sempre Armandino “asino” : dapprima gli sciocchi compagni di scuola, poi i ragazzi più grandi e infine gli adulti.
Sembrava quasi che il bambino, se chiamato per nome, fosse avulso e in un altro mondo, mentre se chiamato “asino” scattasse come un soldatino di stagno sull’attenti e pronto a essere vilipeso.
Conlabarba la liturgia la rispettava ogni giorno proprio tutta : l’appello con “asino”, l’interrogazione con “asino”, prima e dopo la richiesta di alimentare la stufa al1’ “asino”, il trasporto dei pesanti libri richiesto all’ “asino”, la pulizia dell’aula con scopa, paletta, secchiello e acqua gelata da effettuarsi da parte dell’ “asino”.
Alla fine persino sua madre lo chiamava asino, non appena Armandino “la faceva morire di crepacuore”, come affermava lei, magari perché i contadini in cambio dei suoi piccoli servigi gli davano tre uova anziché l’ambita bottiglia di vino.
Ormai Armandino aveva addosso l’appellativo di Asino e come tale veniva trattato : l’asino è un animale da soma e lui veniva caricato all’inverosimile, l’asino lo si bastona e lui riceveva ogni giorno la sua consueta e costante razione di legnate, l’asino mangia poco e lui quasi non mangiava, l’asino è offeso e vilipeso e lui era lo zimbello di tutti, l’asino è ritenuto ignorante e lui era ritenuto l’asino per antonomasia.
Tra le botte, la malnutrizione, la depressione, la gracilità, l’asino Armandino era destinato a una breve vita : e lui, la sera, sul pagliericcio dentro la stalla, prima di abbandonarsi esausto al sonno, pensava sempre di raggiungere il suo papà, anzi lo sperava, lo voleva, lo chiedeva a Gesù Bambino.
E poi, nel sogno, si vedeva per mano al papà, in una radiosa giornata di sole, mentre andavano a pescare o mentre il papà gli raccontava, la sera, una storia accarezzandogli le guance.
E una notte, in sogno, il suo papà gli disse : “ non ti tormentare Armandino se tutti ti chiamano asino”. “L’asino è l’animale più nobile, forte e buono, sempre pronto ad aiutare gli altri con il suo lavoro, talmente nobile con la sua umiltà che , insieme al bue, Gesù ha voluto accanto a sé nel Presepe!”. “Tu, Armando, sei nobile come l’asino, la nobiltà è nel tuo animo, e come l’asino sarai presto chiamato a grandi compiti, come l’asino riscaldò Gesù Bambino, anche tu sarai chiamato a riscaldare”.
Armando si svegliò di colpo, con una strana sensazione di leggerezza e di incredulità. Il suo adorato papà gli aveva rischiarato la mente ed il cuore : l’asino non era il più infimo e reietto tra gli animali, ma quello che con il suo fiato aveva riscaldato Gesù Bambino e lui Armando, chiamato l’asino, non era l’ultimo dei bambini, il più stupido e da massacrare come lo riteneva Conlabarba, ma era destinato ad un grande compito futuro.
Ma, passato il primo momento di euforia, Armandino si disse che era stato solo un sogno, anche se molto bello, ma solo un sogno.
Però il suo papà non aveva mai tradito la sua fiducia, non gli aveva mai raccontato una bugia! Ma no, non voleva, non poteva credere che lui, l’ultimo di Terrabruciata, l’ultimo degli ultimi, l’asino, potesse vedere la sua vita cambiata ed essere addirittura chiamato a un grande compito.
Ma era stato bello lo stesso, se non altro ora la parola “asino” gli risuonava meno sgradita, meno annichilente.
E arrivò lo zio d’America : Giuseppone, fratello del papà di Armandino, era emigrato in America per sfuggire alla terribile miseria di Terrabruciata e là, in quel Paese lontano, aveva accumulato una vera fortuna.
Lo zio prese Armandino con sé in città, lo curò, lo nutrì, lo fece studiare: Armandino divenne un brillante ingegnere e, come gli aveva detto il papà, che non gli mentiva mai, inventò l’incubatrice, quella macchina che riscalda i bambini usciti troppo presto dal calduccio del ventre materno.
Così, come l’asino riscaldò Gesù Bambino, Armandino riscaldò tutti i bambini del mondo, con quel calore che solo la nobile umiltà riesce a fornire a chi ne ha bisogno.

Vocatus atque non vocatus deus aderit

Il contatto con ciò che è dentro di noi, con la profondità dell’inconscio, è assolutamente necessario perchè indica il cammino.
E non dimentichiamo le parole di Jung “Vocatus atque non vocatus deus aderit”.
“Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano …Anche nel nostro rapporto con gli altri uomini la questione decisiva è se in essi si manifesti o no un elemento infinito.Il sentimento dell’illimitato, comunque, si può raggiungere solo se siamo definiti al massimo..”

Elvezia Benini

La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore

Buongiorno! Noi siamo convinti che le fiabe debbano avere un lieto fine e ciò per consentire di far affiorare la luce della speranza attraverso le immagini che nascono dall’ascolto di una fiaba. Le nostre prime fiabe sono nate per il desiderio di offrire a coloro che soffrono, e a chi sta vicino ad essi, uno spazio vitale per ritrovare energia. E così, dopo aver scritto “Bambini in pigiama”, ed.scientifiche Magi, testo soprattutto teorico, ho sentito l’esigenza di creare uno strumento operativo, un libro più vivo tramite l’immediatezza delle fiabe. Oggi il mondo vive nella condanna dicotomica tra razionalità e irrazionalità : dobbiamo cercare di aiutare a creare un ponte tra questi due estremi, al fine di recuperare, attraverso le immagini e l’immaginazione, la creatività necessaria per una vita più sana e gioiosa. Come dice il nostro Carl Gustav Jung “La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi”
Elvezia


Le Fiabe per… Affrontare i Distacchi della Vita

Un aiuto per grandi e piccini

Numerosi sono i distacchi che si devono affrontare nelle diverse fasi della vita.
C’è il bambino che non vuole partire per la settimana di campeggio estivo, quello che viene preso da crisi di pianto ogni volta che il papà deve allontanarsi per lavoro, o, ancora, quello che deve andare in ospedale…

Ma il problema del distacco è un problema che anche i grandi sentono e a volte non riescono ad affrontare.
Fermiamoci, allora, e leggiamo una fiaba…

L’utilizzo della fiaba favorisce lo sviluppo psico-affettivo ed aiuta ad elaborare le sofferenze psichiche che oggi sono forse più laceranti, o semplicemente più visibili, di un tempo.
I piccoli e i grandi lettori, sia quelli più “fragili” che quelli già “forti”, potranno identificarsi nei vari personaggi e, ritrovando le parti nascoste di sé, potranno recuperare l’energia necessaria a proseguire il cammino.

Ogni fiaba si presenta con una veste di facile accessibilità e di immediatezza emotiva per ogni lettore, specialista o no, ed è anticipata e seguita da un’analisi dettagliata che porta la fiaba stessa ad essere utile nella vita di ciascuno, diventando uno strumento di riflessione e di riconoscimento “nella storia” della propria storia, che non è altro che parte della storia dell’umanità.

Per grandi e piccini, per genitori e insegnanti, per psicologi ed educatori, per ogni persona che crede nell’importanza della comunicazione emotiva, prima ancora che in quella cognitiva e razionale: solo attraverso il cuore si può raggiungere la mente.

Il testo è corredato da illustrazioni della pittrice Lia Foggetti e da un’appendice relativa al burn-out di chi “si prende cura”.