Cinema da non perdere: “Forza maggiore” di Ruben Ostlund

Forza-Maggiore-di-Ruben-Ostlund-04Vincitore del premio della Giuria nella sezione “Un certain regard” al Festival di Cannes 2014 e candidato all’Oscar per la Svezia come miglior film straniero, “Forza maggiore”, attualmente nelle sale cinematografiche, ma ancora per poco,  scritto e diretto dal  svedese Ruben Östlund, è uno dei film più belli della stagione. Perché parla di coraggio e di chi non ne è provvisto, perché  alcune convinzioni arcaiche, ai tempi nostri, non sono più valide. Almeno non per tutti. La trama è la seguente: una famiglia composta da padre, madre e due figli, una femmina e un maschio, stanno trascorrendo una vacanza in una località sciistica ai piedi delle Alpi francesi. Sembrano felici, rasentano la perfezione, in realtà Tomas ed Ebba (questi i nomi dei protagonisti) sono una coppia in crisi che sta cercando di rimettere  ordine nella propria vita. Lui si presenta come un padre attento che divide i compiti di gestione familiare con la moglie ed un marito presente. Una famiglia perfetta con qualche oscuro problema. Durante un momento di pausa, mentre stanno pranzando sulla terrazza di un rifugio, una valanga si  stacca dalla montagna di fronte. Spaventato, Tomas afferra il suo cellulare e scappa via, la moglie, sconcertata, afferra i bambini per metterli in salvo.  Per fortuna, il pericolo slavina risulta essere un falso allarme, ma quello relativo alle dinamiche della coppia e alle funzioni che entrambi i partner svolgono all’interno della famiglia è in codice rosso. Tomas non ha svolto il suo compito di padre protettore, compito che svolge invece la moglie, probabilmente seguendo l’stinto animale che le femmine hanno di proteggere i cuccioli. Ebbe, spiazzata dal comportamento del marito, non giustifica il suo modo d’agire e glielo fa presente. Tomas, pentito e avvilito anche lui, le risponde che ha agito sotto l’impulso del momento, ma scavando in profondità, Tomas dovrà ammettere le sue fragilità. Östlund, con questo film, ha voluto  affrontare  i conflitti presenti in molte coppie contemporanee. Gli uomini, in preda a mille incertezze, hanno perso di vista il contatto con la loro vera natura e con quella circostante dell’ambiente selvaggio. Le donne, sempre alle prese con i problemi pratici e con i figli da portare in grembo, hanno mantenuto la parte selvatica che all’occorenza esce fuori. “Forza maggiore” va visto sia per il tema trattato, sia per la profondità con cui la sceneggiatura indaga nella psiche dei personaggi e per la forza con cui descrive immagini e azioni.

Clara Martinelli

 

 

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Anche mi fugge la mia compagnia

Anche mi fugge la mia compagnia,
donne di ghetto, giullari di taverna,
fra cui passai gran tempo,
e morta è la ragazza
a cui ardeva il volto perenne
unto d’olio della pasta azzima
e la buia carne d’ebrea.

Forse è mutata pure mia tristezza,
come fossi non mio,
da me stesso scordato.

Salvatore Quasimodo

Le donne

Si fermano un istante per piangere, poi sollevano il capo e riprendono la strada. Sono maestre di dignità le donne.

Antonello De Sanctis

Lettore vorace

 

«Non riesco a immaginare uno scrittore che non sia stato nell’adolescenza un lettore vorace. Un vero lettore comprende che i libri sono un mondo in se stessi – e che quel mondo è più ricco e più interessante di qualunque altro nel quale abbiamo viaggiato. Credo sia questo a trasformare giovani uomini e donne in scrittori – la felicità scoperta vivendo nei libri. Magari non hanno ancora vissuto abbastanza per avere molto da dire, ma arriva un momento in cui realizzi che questo è ciò per cui sei nato».

Paul Auster

E così vorresti fare lo scrittore

E così vorresti fare lo scrittore?
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo
a meno che non ti venga dritto
dal cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.

se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.

se lo fai solo per soldi o per fama,
non farlo
se lo fai perchè vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.

Se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.

se devi aspettare che ti esca come un ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.

non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’autocompiacimento

le biblioteche del mondo
hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi per tipi come te
non aggiungerti a loro
non farlo
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sè e continuerà finchè tu morirai o morirà in te.

non c’è altro modo
e non c’è mai stato.

Charles Bukowski

Uomini e donne non possono essere amici…

La dura vita delle donne che lavorano…

Donne, dududu

Le donne di Giovanni Boldini

(Giovanni Boldini, Ritratto Mlle. Lantelme, 1907)

Chi vuol conoscer, donne, il mio signore

Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d’anni e vecchio d’intelletto,
imagin de la gloria e del valore:
di pelo biondo, e di vivo colore,
di persona alta e spazioso petto,
e finalmente in ogni opra perfetto,
fuor ch’un poco (oimè lassa! ) empio in amore.
E chi vuol poi conoscer me, rimiri
una donna in effetti ed in sembiante
imagin de la morte e dè martiri,
un albergo di fé salda e costante,
una, che, perché pianga, arda e sospiri,
non fa pietoso il suo crudel amante.

Gaspara Stampa

Lo spirito di un’epoca

“Le donne di Boldini, sono nature flessuose e disinibite che mostrano senza reticenza un modello di bellezza erudito e, spogliandosi, affermano la loro autodeterminazione di individui maturi e emancipati, pienamente consapevoli della propria femminilità”. (T. Panconi)

(Giovanni Boldini, Ritratto della principessa Marthe Lucile Bibesco, 1911)

Sul Femminile

Il Femminile però non appartiene solo alle donne, ma attraversa tutti. È l’accettazione del diverso, dello straniero, dell’umile, dell’abbandonato, del malato, del reprobo. È la capacità immaginativa, del lasciarsi andare, dell’accogliere e del perdere la posizione acquisita per lanciarsi in altro, del tuffarsi in un diverso mondo e modo di vivere. È anche l’intrigante, il bugiardo, lo svenevole e il malinconico che ci portiamo dentro. Tutte qualità che appartengono a quella parte essenziale del nostro inconscio che Jung ha definito Anima.

Gabriele La Porta

Legami fusionali

È proprio l’insufficienza dei legami fusionali madre-bambino che spinge alcuni uomini alla ricerca di rapporti fusionali e simbiotici con le donne. I problemi inerenti alla relazione madre-bambino comportano una rappresentazione di sé vissuta come una sostituzione, un simulacro deludente del legame fusionale io-altro. E questo spiega perché i talenti non consolano Orfeo. La coscienza di questo inganno lo assegna all’ostinata ricerca dei legami fusionali quali unici e autentici.

Henry Thomas

Piangete, donne, e con voi pianga Amore

Piangete, donne, e con voi pianga Amore,

poi che non piange lui, che m’ha ferita

sì, che l’alma farà tosto partita

da questo corpo tormentato furore.

E, se mai da pietoso e gentil core

l’estrema voce altrui fu essaudita,

dapoi ch’io sarò morta e sepelita,

scrivere la cagion del mio dolore:

“Per amar molto ed esser poco amata

visse e morì infelice, ed or qui giace

la più fidel amante che sia stata.

Pregale, viator, riposo e pace,

ed impara da lei, sì mal trattata,

a non seguir un cor crudo e  fugace”.

Gaspara Stampa

Se ami

Se ami, non mostrare mai un animo abbandonato,

distrutto, pieno di suppliche, fragile;

al contrario sii dignitoso, tieni alta la fronte,

e guarda con occhi avari. Così sono le donne:

fuggono gli uomini troppo superbi, ma si fanno beffe

di quelli che ispirano pena. L’amante perfetto

è chi sa mescolare entrambe le cose,

e nelle sue pene mette un po’ di fierezza.

Agazia Scolastico

Ritorno all’antica natura

 Riferendomi a tutti gli uomini e a tutte le donne dico che la nostra razza sarebbe felice se ciascuno di noi conducesse l’amore al suo fine e ritrovasse il suo amato, ritornando, così all’antica natura. E se questo è il bene più grande, è necessario che dei beni presenti il più grande sia il bene che a quello più si avvicina. E tale bene consiste nell’incontrare un amato che abbia un animo che corrisponda al nostro.

Platone

Dioniso, Dio delle donne

Dioniso è essenzialmente un Dio delle donne. Sebbene sia una figura maschile e fallica, non c’è misogenia nella struttura di coscienza che egli rappresenta, giacché essa non è divisa dalla sua femminilità.

James Hillman

Abbandono amoroso

Le donne hanno meno paura, rispetto agli uomini, dei rischi connessi all’abbandono amoroso. Ogni amore ha in sé una misura di dolore, così come ogni nuovo incontro rinnova il dolore dell’assenza

Ginette Paris

L’amore delle donne

Una delle caratteristiche della donna è che per amore di un uomo, essa è in grado di fare di tutto. Eccezionalissimo invece è il caso delle donne che abbiano compiuto atti notevoli per amore di una cosa: ciò non risponde alla loro natura. L’amore per le cose è una prerogativa maschile.

Carl Gustav Jung

Abbandono amoroso

Le donne hanno meno paura, rispetto agli uomini, dei rischi connessi all’abbandono amoroso. Ogni amore ha in sé una misura di dolore, così come ogni nuovo incontro rinnova il dolore dell’assenza. 

Ginette Paris

Femminile

Perché la magia è femminile, splendidamente femminile. Occorre intendersi su questo elemento: femminile. …non si tratta di una qualità esclusivamente delle donne, ma di una facoltà dello spirito. È la tolleranza, è la capacità di abbandono e di tenerezza, è la curiosità verso il nuovo, è l’accettazione del diverso, del debole, dello straniero. È l’energia che guida il mondo. È il sentimento dolce e rutilante, forte e languido, erotico e avvampante che sussurra alle creature il mistero della vita. È la Luna, è Artemide, è Persefone, è Iside, è Ishtar, è la madre che osserva, riflette, ama e non giudica. È la nostra capacità di intendere e di comprendere, priva di pregiudizi e di rancori. È l’energia raggiante che si dispiega benevola sulle creature. È la possibilità di un mondo privo di lotte e odi. È la pace della mente e del corpo. È la follia, la conoscenza. È contemporaneamente luce e buio, notte e giorno. È la possibilità del mutamento e della trasformazione. È insomma la parte migliore di noi, che la storia della violenza patriarcale ha soffocato per privilegiare il sangue e la lotta all’estasi dell’intuizione radiosa.

Abiura d’Amore

Carissimi, una modesta riflessione sul Rispetto.

Vedete, se guardiamo nella  nostra epoca troviamo un’incredibile tendenza, sempre più accentuata con il passare degli anni: la mancanza di educazione che si è trasformata in assenza, pressochè totale, di Rispetto.

Da sempre non rispettiamo la natura e gli animali.

E che dire dei bambini e delle donne? Degli Ammalati? Degli Anziani? Dei Diversamente Abili? E ancora, scendendo sempre più nella protervia, cosa argomentare sull’intolleranza verso chi ha la pelle di “un’altra” pgmentazione?

E degli Umili? Dei Profughi?

E ancora, sempre più sprofondando in una sorta di delirio di esclusione, cosa sostenere innanzi al dileggio sistematico verso gli esclusi dal lavoro? E il sarcasmo verso chi “non ce la fa”?

A ben guardare questa nostra “civiltà” non tollera la Poesia. Sì, ci sono parole di corcostanza, ma l’Archetipo della Poesia è rinnegato.

Infatti tutto questo ha un solo nome: Abiura d’Amore.

Porto XVIII

Roma. Palazzo Riario, ora Palazzo Corsini. Il luogo è legato a donna dai misteriosi destini di donne. Vi abitò Caterina Sforza, figlia del signore di Milano e moglie di un Riario. Lasciata Roma, la malcapitata vi tornò prigioniera di Cesare Borgia, che l’aveva incatenata a Forlì, roccqforte del Riario, e la trascinò come preda di guerra in Vaticano. Ma la leggenda narra che il Valentino scelse per lei catene d’oro.

Stesso luogo, altra storia. Quella dell’infelice Cristina di Svezia, fondatrice dell’Accademia da cui doveva nascere l’Arcadia. A Palazzo Riario le morirono misteriosamente due amanti, il Monaldeschi e il cantante fiorentino Alessandro Cecconi, e fu drammaticamente aggredita la sua amica Giorgina (forse Angela Maddalena Voglia). Si dice che l’artefice di tali misfatti fosse l’abate Vaini. Ma quando Cristina accorse alle grida della ragazza, a capo delle guardie, il misterioso aggressore sparì nel nulla.

Nel 1736, i nuovi proprietari dell’augusto edificio, nipoti di papa Clemente XII, acquisirono, insieme all’immobile, i sotterranei abitati da cataste di ossa umane, monito e memoria dei molti delitti consumati in quel luogo nei secoli precedenti.

La Grande Madre — Dove si parte per Chartres grazie a una Colombina veneziana

Sono state tre le donne della mia vita. Laura, la mia prima moglie, Donatella Scatena, la seconda, e Stefania, con cui ho soltanto convissuto. Con tutte sono stato a Venezia e sempre mi è accaduto “qualcosa” di strano.
Così nel 1968 un evento sconcertante mi obbligò a recarmi a Chartres. Questo è il racconto fedele, per quanto possano esserlo i ricordi, di come ricevetti quella sorta di comando.
Nell’anno della contestazione studentesca la laguna non era di moda e chi ci andava era considerato poco meno di un cretino. Avevo ventitré anni e da qualche mese ero entrato con un buon contratto alla RAI. Mi sembrò un miracolo. Per questo ero felicissimo. E chi non lo sarebbe stato al posto mio? Avevo la possibilità di un lavoro stabile e per di più come programmista nella maggior azienda culturale e informativa d’Italia. E, come se la manna non fosse sufficiente, avrei viaggiato di continuo.
Era dicembre e dovevo realizzare un servizio nell’istituto del Professor Zennaro che tentava un esperimento di scuola a “tempo pieno”, a quell’epoca un fatto quasi eccezionale. Laura era in stato interessante e decisi di portarla con me. Scendemmo dal treno a piazzale della Ferrovia alle otto di sera. Uscimmo dalla stazione ed entrammo in quel sogno che era una Venezia piena di nebbia e del tutto abbandonata. Non l’avevamo mai vista e ci sembrò fantastica. I banchi opalescenti andavano e sparivano come soffiati dalla bocca di un dio gentile e facevano improvvisamente apparire vestigia e case putrescenti. Da una finestra si intravedevano tende strappate, da un’altra stipiti divelti e ogni tanto una luce fioca lasciava indovinare un interno con una vita dimessa e malinconica. Tanto più struggente se confrontata con chissà quale magnificenza del passato. Sì, sembrava di attraversare con il traghetto una dimensione onirica. Poi sulla nostra destra si delineò un giardino protetto in parte da un muro sbrecciato. Nel mezzo la statua di un angelo con una faretra. Come una folgorazione ci rapì il cuore e Laura mi disse trasognata: «Sembra l’arcangelo Michele».
Probabilmente non era vero e non seppi mai che cosa autenticamente raffigurasse. Magari un normale cupido. Ma la creatura che aspettavamo nacque maschio e si è poi chiamato Michele.
Scendemmo in questa aria di impalpabile vagheggiamento alla Salute e da lì andammo alla pensione Cici, in calle della Kabalà. Quasi un presagio, questo nome, di quello che ci sarebbe accaduto di lì a poco. Cominciò con l’arredo. La stanza in affitto era satura di antichi ricordi, non nostri, ma che ci sembravano tali. Ogni oggetto improvvisamente cominciò a evocarci pensieri che non ci appartenevano, ma che si riverberavano su di noi come in un infinito effetto specchio. In verità, non eravamo completamente in noi. Ubriachi di un senso inesprimibile che non riuscivamo neppure per un istante a identificare. Quasi non ci parlammo, tanto eravamo presi da un’emozione fortissima e sconosciuta, mai provata prima. Non potemmo cenare subito. E senza concordare nulla, decidemmo di uscire. La nebbia era ancora più densa e copriva praticamente ogni cosa. Alla vista nulla era concesso. Andammo trascinati da una percezione stringente, vincolante. Proseguì con la musica. La sentimmo leggera. Una pianola persa tra mura e acque. Seguirla fu facile.
Ci trovammo così ai piedi di un pontile. Non vedevamo il fondo. Quindi un soffio di leggerissima brezza. Così al centro della costruzione la scorgemmo. Una Colombina. Una maschera? Forse. Ma non avevamo la mente per porci domande. Era una sorta di epifania. Non osavamo muoverci. Fu lei a scendere i gradini. Ci si avvicinò e senza dire una parola mi porse un biglietto. Poi risalì e scomparve risucchiata dalla stessa dimensione onirica da cui era emersa. Rimasi con il foglietto in mano. Solo dopo alcuni momenti guardai di cosa si trattava. Era un disegno circolare con molti percorsi al suo interno. Laura mi disse: «Sembra un labirinto». Le sue parole svegliarono entrambi.
Tornammo indietro estasiati da quell’incontro, che giudicammo soltanto di buon augurio per la nostra vita. Invece fu determinante. Ma allora non lo sapevo. Capii tutto solo tre anni dopo, per puro caso.
Antonio Di Raimondo, responsabile della rubrica culturale TVM, spazio di aggiornamento culturale del mattino dedicato ai giovani di leva, decise di mandarmi a Chartres per realizzare un documentario sulla cattedrale francese. Felicissimo dell’incarico andai a riferirlo al mio collega, ben più autorevole di me, Sandro Meliciani. Ero nella sua stanza a fantasticare sul viaggio, quando da una tasca mi cadde un pezzo di carta. Non sapevo assolutamente di aver riposto in quell’indumento il foglietto che mi aveva dato la Colombina di Venezia. Anzi, non credevo neppure di averlo ancora. Lo avevo cercato a lungo, rassegnandomi infine all’idea di averlo perso. Invece il disegno era per terra, nell’ufficio al terzo piano di via Novaro. Mentre lo guardavo sbalordito, Meliciani si chinò e lo raccolse. Osservandolo sorrise: «Vedo che ti sei già documentato. Questo è il labirinto rappresentato in un mosaico a Chartres. Pensa, nessuno ha mai saputo a che cosa servisse, né che cosa rappresentasse. Non ci crederai, ma è davvero un mistero».
Che dire. Non feci parola al mio collega, tanto colto quanto incredulo, dell’incontro veneziano. E perché poi fare parola? Per farmi deridere, come succede a tutte le persone che si imbattono nella dimensione della “brillantanza”? Tacqui. Ma andai a Chartres. Partii con l’immancabile amico e compagno di lavoro Ezio Lavoretti, un operatore di grande bravura e di grande sensibilità.Aveva un notevole fascino congiunto a un’intuizione prodigiosa. Di lui si narravano aneddoti straordinari, come la dolce storia d’amore con Anna Magnani. Ma Lavoretti non ne fece mai parola. Certamente, conoscendolo, non ci sarebbe stato nulla di strano se la grande attrice avesse davvero avuto in gioventù una cotta per un uomo al tempo stesso tanto schivo e vibrante.
Ecco, le sue qualità silenti sono state per me di grande aiuto nei viaggi, che vedremo anche in seguito, alla scoperta dei segreti “luccichii” che molti luoghi custodiscono. Percepibili soltanto da chi possiede un poco di quella vista “occulta”, di cui spesso scrive Elémire Zolla, un maestro di conoscenza, come ne Le meraviglie della natura o nel recente Lo stupore infantile.
La brillantanza è come uno sguardo “obliquo”. Un misto di intuizione, curiosità e predisposizione alla meraviglia. Facoltà che hanno quasi tutti i bambini, ma che l’educazione tende ad annebbiare. Non so perché in me non sia andata persa. L’ho attribuita alla mia predisposizione alla mano sinistra, ovvero alla Luna. Sono infatti ambidestro. Ma forse questa specie di qualità è più semplicemente da attribuire al mio infantilismo cronico che, malgrado le ovvie controindicazioni, mi consente, però, di non nutrire pregiudizi e di cogliere le tenui vibrazioni che emanano tutte le cose, animate e inanimate, presenti nel creato.
E proprio così: tra le cose che ho appreso negli anni di lavoro, di ricerca, di studio e di osservazione, c’è sicuramente quella capacità di percepire il mondo come animato. Non è un atteggiamento razionale, tutt’altro, è sentire l’anima in ogni essere, sia esso pianta, sasso o persona. È quest’anima che unifica il mondo e che lo rende uno. Credo fermamente in quello che affermava Spinoza: tutto è Uno e quello che porta all’unità è bene, mentre quello che divide conduce alla lontananza dal bene. Se si potesse applicare questo elementare, semplicissimo principio ai movimenti culturali e politici, si disporrebbe di un ottimo metro di giudizio con cui valutare idee e uomini nella storia passata e presente. D’altronde la magia, di cui parleremo spesso, non è che la ricerca continua e incessante dell’unità, sia interiore sia esteriore. Certo, il magico non si esaurisce in questa facile formula, ma è “anche” questo desiderio di Uno. Senza rinnegare però il molteplice. L’Uno coesiste nei molti e i molti non sarebbero tali se non ci fosse una tela di Penelope a riunirli. E anche questo è un concetto espresso da Zolla nella sua ultima fatica, La nube del telaio.
Ma è ora di tornare a Chartres e alle sue meraviglie.

La Grande Madre — Dove si ricorda di una passeggiata alle falde del Vesuvio e dove compare una zingara

Ho sempre avuto un buon rapporto con le donne. Sarà perché sono cresciuto in mezzo a loro. Infatti nella casa di Boscoreale, alle pendici del Vesuvio, vivevo con mia nonna Carla, che ho sempre chiamato mamma perché avevo preso il suo latte, come ho già raccontato, e con le zie Sandra e Felicetta. Un po’ in tutto il napoletano le donne sono le padrone della casa; da noi questo era vero in modo particolare. Gli uomini c’erano, eccome, ma nel vivere quotidiano finivano per essere figure sbiadite. Eppure mio nonno Alfonsino era sindaco del paese, comunista accanito, e vero rivoluzionario. Portò infatti l’acqua ai vasci, alle grotte abitate ancora negli anni cinquanta da centinaia di persone, togliendola però ai benestanti della zona e soprattutto al barone Oliva. Insomma quasi una rivoluzione. Anche il figlio, mio zio Angelo, aveva un caratterino niente male; alto, grosso, un gigante muscoloso. Comunque non contavano né lui, né il padre. C’erano e non c’erano, almeno per me che dormivo spesso tra la mia “mamma” e Sandra con sogni popolati di sesso familiare radioso. Come i loro immensi seni che vedevo e sentivo quasi cuscini del paradiso. Questo servì a togliermi per sempre ogni problema con l’altro sesso, in contrasto con qualche facile teoria psicanalitica che sicuramente avrebbe visto in quella supposta “promiscuità” chissà quale insidia per il bambino che allora ero.
Dunque armonia e serenità da parte mia in ogni contatto con le donne. E non sarà stato certamente un caso che a nominarmi direttore di RAIDUE sia stata proprio una donna, la signora Moratti, ma questa è una storia che qui non interessa davvero.
Dicevo dunque dei buoni rapporti da me sempre intrattenuti con le signore di tutte le età. Così non ebbi alcun sussulto particolare quando a sei anni incontrai nel centro del bosco, che dal paese portava al Vesuvio, la signora Maria, una zingara. Andò così.
Camminavo da solo in pieno sole primaverile, appena dopo pranzo. Avevo superato da tempo la bella villa pompeiana che compare in tutti i libri di storia dell’arte, ma che a me e ai miei amici serviva per i giochi di guerra, e andavo per il solito sentiero che portava alla bocca del vulcano, quando un merlo si mise a zampettare sul mio cammino. Anche in seguito, sulle Dolomiti, mi è successa la stessa cosa. Solo che ero grande e non mi misi a seguirlo. “Questa volta non ho il coraggio” pensai in montagna. Ma allora, invece, gli andai dietro, fuori dal sentiero. Lui a passettini veloci, io quasi di corsa. Non c’era alcun motivo per quell’inseguimento, ma ero spinto da un impulso. Non era neppure curiosità, ma qualcosa dentro mi suggeriva di proseguire. Guardavo fisso l’uccello e non so bene per quanto andai, comunque per un bel pezzo. La vegetazione si faceva più fitta e appoggiai male un piede su di una radice. Caddi. Mi rialzai subito. Ma il merlo era sparito. Lo cercai con lo sguardo, anche dietro di me, da dove ero venuto. Già, ma da dove ero arrivato? Non c’era sentiero e mi resi conto di aver perso la strada. Tentai di tornare sui miei passi, ma dopo un’ora ancora non avevo trovato nessun punto di riferimento. Non ero inquieto, non avevo paura: mi dispiaceva soltanto per mia nonna. Le avevo detto che non sarei stato fuori a lungo e non volevo che si preoccupasse. Passò altro tempo, ancora non ero riuscito a rintracciare il sentiero, e cominciavo a stare in pensiero. Non per me, ma per “mamma”, appunto.
L’ansia mi colse quando mi accorsi che il sole cominciava a sfiorare le cime degli alberi. Stava davvero facendosi tardi. Avevo una stretta allo stomaco e quasi quasi mi veniva da piangere. Poi la vidi.
Era ferma in mezzo a una piccola radura tra gli alberi. Una vecchia enorme. Così mi apparve. Una liberazione. Corsi verso di lei e mi buttai tra le sue gonnellone, abbracciandole le gambe.
Mi sollevò e allora le cinsi il collo. Era gigantesca.
«Chi sii?» mi disse. Le spiegai del merlo e che mi ero smarrito. Allora allungò le braccia per vedermi meglio. Mi teneva sospeso davanti al suo faccione rugoso. Poi chiuse gli occhi e mi avvicinò al suo seno. Quasi cullandomi. Senza dire una sola parola mi accompagnò al sentiero. Da lì sapevo come tornare dai miei.
«Mo’ vavattenne» mi sussurrò «ma non ai rìcere a nisciune che m’hai ‘ncuntratata, va bbuono?»
«Sì.»
Andai via, ma dopo pochi metri risentii la sua voce.
«Tu hai da sta’ sempre cu nuie, nun te scurda’.»
Mi voltai, la salutai e tornai a casa senza ovviamente capire il significato di quel «Tu devi stare sempre con noi, non dimenticarlo». Soltanto dopo molti anni ne compresi, forse, il senso. Ma ne parleremo in seguito, per ora è meglio rimanere a Boscoreale.
Mia nonna per poco non mi mangiò vivo. E per la prima volta mi spedì a letto senza cena.
Ero nel lettone a occhi aperti. Stavo ripensando a quella donna, di cui non avevo fatto parola, vestita con gonne ampie sovrapposte, con un fazzolettone in testa e grandi orecchini, senza dubbio una zingara, quando sentii la porta che si apriva. Feci finta di dormire. Era zia Sandra con pane e salame. Gioia e baci. Poi zitti zitti, per non farci sentire, ci mettemmo tutti e due sotto le coperte.
«Ma perché la mamma si è tanto arrabbiata? Altre volte sono stato via per un bel pezzo.»
«Oggi è diverso» mi disse. «Dietro la casa dei romani, in un accampamento di zingari, la moglie del loro capo ha ucciso il marito e poi è scappata nel bosco. Per questo la mamma si è arrabbiata. Ha avuto paura che tu l’avessi incontrata.»
Non fiatai. Ricostruii tutto nei giorni successivi, interrogando i miei amici e mio nonno. Un poco alla volta venni a sapere di Maria, la gitana napoletana, che aveva sgozzato il marito. Ma lo aveva fatto dopo che l’uomo aveva sferrato un terribile calcio al loro figlio più piccolo, rompendogli una gamba. Era l’ennesima di mille e mille brutalità. Soltanto che questa volta la donna si era ribellata e aveva sferrato il colpo mortale. Poi era fuggita nei boschi, proprio dove l’avevo incontrata io. Perché non mi aveva fatto niente? Perché mi aveva lasciato andare? Come aveva potuto fidarsi della parola di un bambino? E che cosa significava quella frase che quasi mi aveva gettato dietro come un suggerimento e un vincolo allo stesso tempo? Non sono mai riuscito a trovare una risposta convincente, almeno a livello razionale. Ma credo di aver capito qualcosa soltanto molti anni dopo. Ma anche di questo parlerò in seguito. In ogni caso Maria era una ribelle. La prima che incontrai nella mia vita. La cercarono con accanimento per giorni e giorni, poliziotti e carabinieri, ma che io sappia non la presero mai. Comunque da sempre gli uomini hanno dato una caccia feroce alle donne che a un certo punto della loro esistenza si sono rifiutate di portare il giogo.
Basti pensare al cosiddetto mito delle baccanti e delle amazzoni. Giorgio Galli nel suo Cromwell e Afrodite afferma che in un’età compresa tra il 1000 e il 700 avanti Cristo ci fu una spaventosa rivolta di donne in Grecia, nei pressi di Atene. È storia, non leggenda. Ci fu una lotta sanguinosa e soltanto dopo strenui combattimenti le ribelli furono sterminate. Il ricordo di quell’evento fu così terrifico che gli uomini ci costruirono sopra un mito. Appunto quello della rivolta delle amazzoni che invasero l’Ellade e che per poco non occuparono Atene. Fu l’intervento provvidenziale di Ercole, Teseo e Giasone, vale a dire degli eroi più significativi del pantheon leggendario, a scongiurare la capitolazione delle città.
Pensate, tutti gli eroi coalizzati contro le donne. Dovevano davvero rappresentare un pericolo assoluto per gli uomini che hanno creato questo racconto mitologico in seguito all’evento che Galli considera storico e quindi accaduto. Il problema è capire il perché di tanta paura. Anche se nella risposta troveremo una porta segreta che condurrà a un vero mistero. Non il primo, non l’ultimo, di questo viaggio verso l’ignoto femminile.
Devo soltanto aggiungere una piccola cosa. Nel 1969 andai a realizzare un servizio per la rubrica Scuola aperta. Riguardava un nuovo esperimento didattico che vedeva per la prima volta l’integrazione tra bambini napoletani della piccola borghesia con loro coetanei rom, vale a dire zingari.
Dopo tre giorni di riprese mi ero fatto apprezzare dalla comunità nomade e uno di loro mi disse di andare al campo perché c’era una signora che voleva vedermi. Andai e dentro una confortevole roulotte mi trovai davanti una donna vecchissima. Mi fece avvicinare e, senza una parola, mi diede un seme di melograno trafitto da una spilla da balia.
Mi spiegarono che nel linguaggio rom è un dono simbolico per chi sa mantenere un segreto.