L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).

 

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La Grande Madre — Giordano Bruno, il mago irascibile, il filosofo dell’immaginazione

Un post del 2009 
Un tornare indietro, nel progredire ancora….

«Un’unica forza, l’Amore, unisce infiniti mondi e li rende vivi»

Giordano Bruno (1548-1600)

Non sono stato io a incontrare Giordano Bruno, ma fu lui a venirmi incontro. È successo per caso, quando ero ancora un ragazzo. Mi chiesero: «Che filosofo preferisce?» e io per darmi un contegno e per non citare sempre gli stessi, i notissimi, feci il suo nome. Non avevo letto neppure un rigo e nel programma liceale ancora non l’avevamo toccato. Al buio.

Da allora mi è rimasto dentro. È impossibile toccarlo senza che lui ti avvolga, definitivamente. Un po’ come i miti secondo Hillman, «Non toccarli se non vuoi che ti ritocchino». Grande verità. Basta farne l’esperienza per comprendere come tutto questo sia reale. Lo dissi anche un giorno, credo fosse il 1991, a Michele Ciliberto, notissimo studioso bruniano e autore di un fondamentale testo sulla sua filosofia. Dunque ero con il professore per preparare un’arringa di difesa del filosofo e letterato nolano. Qualche giorno prima uno studioso inglese aveva accusato Bruno di essere stato una spia della regina Elisabetta. Allora la città di Nola organizzò un dibattito pubblico ma me e quel “pensatore” anglosassone. Ciliberto faceva parte della giuria. Ebbi la meglio sul povero pseudo storico: lo misi subito all’angolo in quanto tutte le sue prove consistevano in alcune lettere che Bruno avrebbe segretamente mandato a Elisabetta I relative a movimenti e trame dei cattolici. Ebbene, non aveva compiuto la perizia calligrafica. Le lettere insomma non erano neppure di Bruno. Una cantonata imbarazzante. La stampa diede qualche attimo di celebrità al “ricercatore”, ma credo che ormai nessuno si ricordi di lui. È la classica fine di chi cerca notorietà infangando il nome dei grandi. Tornando a Ciliberto, fu in quell’occasione che mi chiese, in una splendida mattinata di sole davanti a un ristorante sopra la città di Nola, come mai amassi tanto Bruno. Gli risposi che l’avevo toccato per caso e che non mi aveva più abbandonato. «È successo così anche a me» mi rispose.

Giordano Bruno è il più grande mago rinascimentale. Anche Giorgio Galli ha affermato che i filosofi ermetici del 1500 sono stati gli unici alleati del pensiero Femminile; Bruno quindi, a sua volta, sarebbe un sostenitore di questa cultura alternativa, che si esprime soprattutto mediante la magia.
Siamo di fronte a un pensiero vastissimo la cui somma importanza è però essenzialmente ascrivibile all’ambito ermetico-esoterico, come ha evidenziato, appunto, Frances Yates, mentre in Italia questa componente è stata quasi del tutto trascurata.
La vita di Giordano Bruno é essa stessa “esemplare” in relazione al nostro discorso. È un racconto vero che serve a portare alla luce lo scrigno occultato del Femminile arcano. Per questo è utile ripercorrerla. È un viaggio straordinario da compiere tutti insieme. Una profonda malinconia e una grande gioia di vivere. Giordano Bruno vive tra questi due opposti stati d’animo. Cerca continuamente il dialogo, ma trova solo i volti arcigni del bigottismo. Calvinisti, protestanti, riformati, anglicani e cattolici sono tutti della stessa pasta fondamentalista, alla fine del Cinquecento.
Il Rinascimento purtroppo appare lontano. Ha messo le gemme con Pico della Mirandola, con Marsilio Ficino e il grande Lorenzo. Poi è germogliato sotto la forte influenza del Simposio di Platone e del suo inno all’amore e alla vita. Ed è infine ripiegato, dopo un breve periodo di assestamento, grazie agli odi di religione. E il manto nero che ricopre la mente dei bigotti a intristire Bruno, lui che è un mago e tale ha voluto essere per tutta la vita. Con ciò che ne consegue. Quindi la chiesa l’ha aborrito in quanto eretico e una componente del pensiero marxista l”ha sottovalutato perché da sempre diffida di chiunque si occupi di filosofia ermetica e di occultismo, giudicate tendenze di destra. Personalmente mi rifiuto di avallare questa visione, che ha portato una certa sinistra a bandire personaggi come Giordano Bruno e scrittori come Tolkien.

Bruno comunque è un mago. È utile ripeterlo perché tutta la sua vita è immersa in un’aura di mistero e di fascino. E in buona parte deve essere ancora interpretata. I continui viaggi, le lezioni, i dialoghi con i grandi del tempo sono forse più significativi degli scritti, almeno di quelli in chiave “essoterica”. Cerchiamo perciò di andare al di là della coltre gettata dagli ignoranti – veri o finti – e vediamo nella tela di questo scampolo di Rinascimento la storia di un uomo vivo, allegro, coltissimo, amante del vino, dell’amicizia, della creatività e, come ovvio coronamento, di Eros, il padre di tutti gli dèi. Senza dimenticare che ci troviamo di fronte a una persona coraggiosa fino all’inverosimile e capace di ogni sacrificio pur di mantenersi coerente.

Nel 1572 Bruno ha ventiquattro anni ed è ordinato sacerdote. Proviene da una famiglia della piccola nobiltà di Nola. Sua madre, Fraulissa Fravolino, è dotata di un ingegno vispo, curioso e duttile. A quindici anni ha preso l’abito domenicano e a diciannove ha già iniziato a criticare la curia vaticana. Dal 1572 al 1575 Bruno, il cui nome di battesimo è Filippo mentre Giordano è quello assunto da frate, passa i migliori anni della sua burrascosa vita. Studia la teologia e l’arte della memoria, di cui, da sempre, i domenicani, quelli del suo ordine, sono i principali esperti in Europa. Si tratta di un’antichissima disciplina che aiuta ad associare immagini e concetti. Della sua efficacia testimoniano Pico della Mirandola e lo stesso Bruno che da questi studi ricava il massimo profitto. Sembra accertato che ricordasse tutto in modo indelebile. Gli bastava consultare un libro per non dimenticarlo mai più. Quindi la sua cultura, con gli anni, diventò sterminata. Pensate ai vantaggi, anche per una persona qualunque, di poter rammentare dalla A alla Z tutto quanto si è letto durante la vita.

La felicità di Bruno ha corso breve. Nel 1576 viene raggiunto dalla prima accusa di eresia. Non è una voce o un rimprovero, ma una vera ingiunzione. A quell’epoca significava subire un interrogatorio iniziale della durata di uno o due giorni e poi, in caso di resistenza alle accuse, essere trasportato nella sala delle “domande” dove giungeva un signore vestito di nero accompagnato da un aiutante. Contemporaneamente facevano il loro ingresso frusta, tenaglie opportunamente infuocate, cavadenti, magli e altri strumenti per spaccare le ossa.
Bruno conosce la “procedura” e fugge immediatamente.
Iniziano così i suoi pellegrinaggi.

È solo, è giovane, ha indosso soltanto il saio che deve necessariamente abbandonare. E ormai spretato, condizione assai pericolosa perché chiunque può denunciarlo per ricevere una congrua ricompensa.
La sua prima tappa è Roma, dove una diceria lo vuole partecipe dell’assassinio di un prete. Un perfetto esempio di falso perpetuato nel tempo. Nessuno sa chi fosse quel prete, di cui non è stato tramandato il nome in alcun atto o documento. Non sono noti neppure la data dell’omicidio e il luogo dove sarebbe avvenuto. Non si conoscono nomi di testimoni, di accusatori e neanche dei giudici. Ciò nonostante su molti libri si continua a leggere di questa ignominia. Una vera diceria da untore sopravvissuta nei secoli.
Comunque sia, a maggior ragione, Bruno deve proseguire nella sua fuga. Ecco Genova, Nola, Savona, Torino, Ginevra, Parigi, Londra, Württemberg. Poi ancora Praga, Helmstad, Francoforte e infine Venezia, nel 1590.
Sono quattordici anni di peregrinazioni incessanti. Sempre povero e solo. Sempre spretato ed eretico, sempre studioso e insegnante di filosofia nelle università delle città dove si sofferma, che poi sono le migliori del mondo. Sempre accolto a corte. A Parigi, a Londra, a Praga.
Un sapiente itinerante che cerca ospitalità e rifugio. Scrive, pubblica finché l’Inquisizione lo ghermisce a Venezia per il tradimento dell’infido Mocenigo.
Questo è, in sintesi, tutto ciò che si sa di lui.
Eppure, qualcosa sfugge.

Rivediamo un momento questa cronaca “ufficiale” della sua vita. Bruno, dunque, è un perseguitato, eretico e squattrinato, che vaga per l’Europa. Fin qui nulla di strano, ce ne sono stati tanti altri e molti ancora ne verranno dopo di lui. Ma appunto costoro “vagano”, non hanno un itinerario né una meta. Cercano asilo e quando lo trovano non guardano tanto per il sottile. Trangugiano angherie in cambio di un tetto e di una mensa. Ben contenti di non essere riconosciuti – sono eretici, non dimentichiamolo – e del tutto lieti di non finire in una segreta o in mano al torturatore. Bruno invece ovunque vada viene accolto con tutti gli onori e gli si affidano le cattedre più prestigiose. A uno spretato si assegnano quindi le materie di maggior prestigio culturale e politico.
E un assurdo che contravviene a qualsiasi logica.
Non solo, a Parigi e a Londra frequenta assiduamente la ristrettissima cerchia dei reali.
Bruno riesce sempre, ovunque si trovi, a pubblicare le sue opere di filosofia e di magia. E questo, nonostante che la filosofia ermetica sia perseguitata da tutte le religioni e confessioni.
Dovremmo forse iniziare a chiederci da chi sia continuamente “accolto”.
Nel 1576, all’inizio delle peregrinazioni, è un perfetto sconosciuto. Perché dunque le autorità dei vari paesi, in cui si sofferma, avrebbero dovuto dargli incarichi importantissimi?
È evidente che si muove come su un circuito preordinato. Si reca dove sa di poter andare. Il mago, definiamolo così perché è l’unico modo davvero corretto per identificarlo, percorre rotte sicure. Deve esistere una confraternita, un gruppo, un’associazione, chiamiamola come vogliamo, che gli tesse una tela su cui possa muoversi senza timori. Che riconosce in lui il rappresentante di un sapere alternativo e giusto, gli apre perciò tutte le porte.
La coerenza del nolano, la forza con cui afferma le proprie idee, che poi sono quelle magico-ermetiche, unitamente a un’assoluta incapacità di ipocrisia, gli rendono ostili i bigotti e le autorità religiose. Ma questo avviene “dopo” l’accoglienza.
È un’ipotesi che potrebbe costringerci a rivedere tutta la storia culturale di questo periodo. Dobbiamo necessariamente ipotizzare che sia esistita una segreta associazione di menti aperte e antifondamentaliste, che gli consentiva i movimenti e che lo proteggeva in ogni situazione.
Prima abbiamo detto che Bruno, al momento della sua fuga iniziale, non era un personaggio noto, almeno non a tutti. Ma sicuramente doveva essere conosciuto ai membri di questo “gruppo” di cui finora la storia ufficiale non si è mai occupata. Perché costoro sapessero chi era, Giordano Bruno doveva essere in contatto con loro da molto tempo prima dei cosiddetti “vagabondaggi”. Era stato affiliato dalle persone che professavano la luce del bene e della conoscenza?
È certo che dovunque Bruno giunga lascia come un “segno”. Tanto è vero che in ogni città da lui toccata sorgono congreghe che possiamo paragonare a logge massoniche. Forse quella misteriosa associazione confidava nelle sue capacità di entusiasmare gli animi e organizzare la gente intorno a sé. Qualcosa di simile è accaduto, molto tempo dopo, anche a Casanova, e a Cagliostro.
Comunque i suoi spostamenti e l’ospitalità “innaturale” che riceve richiamano alla memoria i nove Cavalieri Templari e la quanto meno generosa accoglienza riservata loro da re Baldovino di Gerusalemme.
Dobbiamo ipotizzare, finalmente, l’esistenza di una sorta di cerchia di eletti da sempre “nascosta”, che tenta di scongiurare le persecuzioni dei fanatici religiosi, che propugna la libertà di espressione e di ricerca? Forse un gruppo, che oggi definiremmo “di scienziati”, all’esplorazione di campi del sapere a quell’epoca vietati e del tutto ignoti alle masse. Una congrega “coperta”, perché in quei secoli di oltranzismo non è davvero possibile dichiarare simili intenti alla luce del sole.
Affronta inoltre campi che le moltitudini devono ignorare, e questo è forse il più fitto di tutti i misteri. Perché al sapere-potere non possono accedere quelle persone che non si sono purificata l’anima, per usare un’immagine del Dolce stilnovo.
È una questione fondamentale, uno dei massimi arcani della nostra storia. Per questo è utile continuare il racconto di Giordano Bruno e cercare di vederne la “trama”.

L’immaginazione ermetica II

Eugenio Garin, filosofo e umanista a noi contemporaneo, è forse il primo studioso che abbia spiegato il senso dell’Umanesimo, quello profondo, con la divulgazione e la credenza nella magia. La sua opera è utilissima per comprendere il clima letterario e filosofico in cui nasce un netto mutamento di tendenza, così sintetizzabile: Platone subentra ad Aristotele.

In realtà l’autore dei dialoghi è inteso nel quindicesimo secolo come “opposto” ad Aristotele, come se i due pensatori fossero stati “nemici” anche in Grecia. Cosa del tutto falsa. Il contrasto è però necessario ai vari Ficino e Pico della Mirandola, perché l’avversione ad Aristotele nasconde un radicale risentimento intellettuale contro l’accademismo dell’epoca, la rigidità intellettuale, la scolastica nelle sue forme estreme. Erich Auerbach ha giustamente osservato: «Il Simposio di Platone fu una specie di bibbia per i libertini spirituali italiani, francesi e tedeschi». La citazione di tale opera quasi come testo sacro esemplifica perfettamente la vera motivazione del «successo» del dialogo: l’esaltazione dell’amore e del corpo. A noi contemporanei può sembrare una cosa normale, ma in quei secoli fu una vera rivoluzione. La rigidità degli accademici aveva per secoli indicato il corpo umano e la natura come nemici di ogni ascesi spirituale, in quanto strumenti e portatori del “sensus”, ovvero delle passioni.

La carne conduce al peccato, anzi, è essa stessa peccato, perché in essa è prigioniero lo spirito, che deve essere redento tramite mortificazioni, penitenze, purificazioni.

Immaginiamo l’effetto che devono aver prodotto negli studiosi le parole del Simposio. Figuriamoci per esempio Marsilio Ficino nel suo studio di Firenze, direttamente collegato agli appartamenti privati di Lorenzo il Magnifico. Davanti ha il testo greco del Simposio, e lo sta traducendo. Che cosa legge Marsilio? Di una totale accettazione del corpo, dei desideri, delle passioni. Di una comprensione indulgente verso quella parte dell’umano ritenuta sino ad allora spregevole e ripugnante.

Ficino non deve credere ai propri occhi mentre redige la versione in italiano, perché attraverso i secoli Platone gli sta dicendo cose incredibili. L’amore è sempre lecito, anche quello omosessuale, perché attraverso il desiderio dei corpi si può giungere, dopo successive sublimazioni, alla contemplazione del bello in sé, sino al bene assoluto e universale. Amore e brama divengono strumenti di conoscenza. E come se non bastasse, in questo dialogo la figura principale, la personificazione della sapienza stessa, è Diotima, una donna.

Il movimento poetico e filosofico provenzale e del Dolce stilnovo avevano già fatto della donna un oggetto di venerazione, specchio dell’anima maschile, ma giammai fonte di saggezza. Invece ecco Socrate domandare, chiedere lumi, invocare da lei spiegazioni, insegnamenti spirituali. Incredibile: Socrate, il maesrro del maestro Platone, è in atteggiamento di sottomissione intellettuale, pronto a recepire il senno, l’accortezza, il discernimento di Diotima, di una donna! Ad affermare queste cose non è un pagano, ma l’ispiratore di sant’Agostino, uno dei padri della filosofia greca, appunto Platone in persona («padre», come attributo di Platone è qui adoperato anche come ispiratore dei padri della Chiesa durante la fase detta appunto “patristica”).

Se riusciamo a decifrare le emozioni di una simile riscoperta, il sussulto psichico che avvenne in Marsilio, in Lorenzo, in Pico, negli artisti loro vicini, forse capiremo l’essenza dell’Umanesimo. Certamente l’autorità del filosofo greco serve alle menti più aperte come mezzo di riscatto da una oppressione moralistica, tendente a sminuire ogni creatività non direttamente rapportabile al solco aristotelico. Il Simposio diventa la fonte d’ispirazione non solo di filosofi, ma soprattutto di letterati e artisti. Lo scritto parla a quelle orecchie bisognose di nuovo e di creativo, in termini di eros e di bellezza.

Dell’opera è recepita l’equazione eros-creatività e a tale sorgente bevono Botticelli, Raffaello, Tiziano e scultori come Luca della Robbia (Edgard Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, 1971, pagg. 101-119). Chiunque abbia visto anche una sola volta le celebri Cantorie del museo del duomo di Firenze ha avuto modo di constatare come un vitalismo erotico, permeato di classicismo, sia subentrato in quelle menti di artisti, divenendo ispirazione costante di ogni loro opera.

L’entusiasmo per i contenuti del Simposio si estende a tutti gli altri dialoghi e, in quel fervore, l’attenzione si accentra sul Timeo e sulla figura centrale del testo, il demiurgo. Inquietante semidio, capace di solcare lo spazio delle idee purissime e quindi di tornare alla materia per vivificarla con l’anima. A molti sembra una sembianza filosofica, precorritrice di quattro secoli del Cristo. Ricerche, confronti, paragoni conducono ad altre fonti, ai cosiddetti neoplatonici, a Plotino, a Porfirio, ai filosofi del periodo alessandrino. In questo modo si realizza una scoperta fondamentale, come quella dell’eros creativo del Simposio. I neoplatonici praticavano una disciplina definita scientia scientiarum, la somma supposta di tutte le saggezze, la magia.

Di nuovo stupore, incertezze, e anche paura. Perché la magia è da sempre condannata dal cristianesimo. Come è allora possibile, si chiedono gli umanisti, che i seguaci di Platone, dallo spirito puro, dedito soltanto alla conoscenza, esaltassero una disciplina esecrata in seguito per secoli?

Marsilio Ficino chiede, e ottiene, da Lorenzo il Magnifico di fondare l’Accademia platonica a Firenze. Qui convoglia tutti i testi, finora reperiti, dell’antichità. Si compiono traduzioni parallele, si confrontano capillarmente le fonti, si approfondisce ogni frase, ogni rigo dei filosofi “antiqui”, finché i dubbi vengono fugati. Platone, e successivamente i neoplatonici, studiavano davvero la magia, concepita come sapienza totale ed esclusiva, da tramandare per via orale. Infatti, secondo Ficino, l’allievo di Socrate aveva chiaramente scritto nelle sue lettere, soprattutto nella settima, come il suo autentico insegnamento non fosse quello racchiuso negli scritti, ma quello tramandato per via orale. Nel profondo della sua coscienza, Marsilio Ficino giunge alla conclusione finale: la magia non è scienza da esecrare, ma semmai da studiare e da tentare di rapportare al cristianesimo (F.A. Yates ha dedicato un intero capitolo a quei cristiani che consideravano la magia naturalis non pericolosa e non avversa alla propria religione: “L’ermetismo religioso nel sec. XVI”, pagg. 191-227 del volume Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 1981).

Stralci di traduzioni dal greco circolano nelle mani anche di chi non è né letterato, né filosofo, creando quello che oggi può essere definito un movimento di opinione. In questa situazione di rinnovamento, di scoperta, di stupore, si affermano gli studi sulla magia naturalis, intesa anche nei sui aspetti pratici, rituali.

Questa atmosfera è fedelmente resa da Garin: «L’unità di una vita universale, che fluisce dovunque e anima tutto, giustifica speculativamente la simpatia universale e le molteplici operazioni che l’uomo, immagine abbreviata del cosmo, viene a compiere. Che poi il nesso fra la totalità, oggetto dell’intuizione metafisica, e la molteplicità delle cose e degli eventi, in cui opera la magia, si presenti come qualcosa di arbitrario e fantastico, è logica conseguenza di quella visione metafisica e teologica. Il rapporto tra metafisica neoplatonica e pratica magica indica una precisa simmetria: la magia degli incantamenti è il momento scientifico adeguato alla teologia platonica. Come questa è in realtà una visione “poetica” del cosmo, sono spiriti quelli che muovono i pianeti… In un universo animato e consenziente, connesso e cospirante, in una simpatia onnicomprensiva, si parla con gli astri, con le pietre: si pregano, si comandano, si costringono, facendo intervenire, mediante preghiere e discorsi adatti, spiriti più potenti» (Eugenio Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, 1982, pag. 60).