FRANÇOIS VILLON, IL POETA DELL’ENIGMA ovvero DELL’IDENTITÀ NASCOSTA E DELLA PAURA DELL’ERESIA

Un Ebreo con un’oca è praticamente un uomo morto. Bene che gli vada, ed è raro, gli tagliano la mano destra, altrimenti lo inchiodano «come Gesù Cristo» a espiazione dei peccati e il pennuto è subito preparato per il fuoco e arrostito, ovviamente «per la gloria di nostro Signore». I delitti denunciati sono oltre centomila all’anno, quindi la stima è irrisoria rispetto alla realtà.

È la Parigi della seconda metà del Quattrocento, dove i criminali si nascondono ovunque e la violenza è pane quotidiano. Gli omicidi e gli stupri sono cosi ordinari che non vengono neppure citati nei rendiconti della «sicurezza», a meno che non riguardino personaggi altolocati e il clero.

Le prostitute sono quattromila, i lenoni, i malversatori, gli aguzzini, gli strozzini e i frequentatori abituali delle carceri sono oltre ventimila. E questo su una popolazione globale di trecentomila anime.

Tre persone su dieci hanno dunque a che vedere con la giustizia e non si tiene conto dei tagliagole al servizio dei nobili. Sotto la protezione di un conte o di un marchese si gode infatti una quasi totale impunità. La notte è abitata da questi sgherri con licenza di offendere, ferire, colpire, rubare, torturare. Dopo il tramonto, ogni donna sorpresa per strada è un bottino offerto al primo smargiasso, e un «giudeo» può essere colpito con sassi, con mazze o addirittura trafitto da spada o pugnale anche di fronte ai pur temuti e odiati sbirri. Un incubo. Non basta essere forti o valenti con le armi. Se non si è in gruppo, si ha la certezza di essere aggrediti e sventrati anche solo per sadico divertimento. Per questo si esce in compagnia. Ognuno si aggrega agli uomini del nobile o dell’alto prelato a cui fa riferimento. Come piccole schiere vandaliche si cammina, si insulta, si cerca il capro da sacrificare.

Capita sempre qualcuno che, per necessità, è dovuto uscire. Allora comincia la festa. Se è un vecchio, gli si incendiano le vesti per il gusto di vederlo correre; se è una donna anziana, le si aizzano contro i cani; se è giovane, la si violenta tutti insieme e poi la si sgozza; se è un villano, gli si conficcano a forza nello sfintere gli ortaggi; se è un bambi­no gli si mozzano le orecchie o il naso; se è una fanciullina, la si sequestra per venderla ai mezzosangue che commerciano con i mori.

È in questo inferno che vive François Villon, uno dei massimi poeti di tutti i tempi. Una vera e propria leggenda.

Perché? Pierre Champion ha scritto su di lui la prima biografia romanzata della storia della letteratura. Poi ne sono seguite almeno una ventina. Tutte più o meno credibili e tutte affascinanti. Il personaggio è un vero e proprio mistero. Anzi, un rebus che lo stesso poeta, nelle sue opere maggiori, Lascito e Testamento, ha voluto contribuire a costruire. Infatti nei suoi versi immortali dà precisi riferimenti.

È uno studente così povero che di più non si può, nero come una mora e magro come una chimera. Uno «scolaro» del quartiere latino che studia senza profitto e frequenta cattive compagnie. Da qui ubriacature, furti e prigione. Lui stesso dice che è entrato e uscito da quella terribile di Meung. Insomma un vero e proprio poeta maledetto, anzi, il primo in assoluto. Da qui il mito. Di più, una malia che ha attratto ammiratori-letterati di ogni tempo, tutti a cercare di scoprire la sua vera identità. E sì, perché in realtà su di lui, malgrado le «tracce» lasciate a bella posta nei suoi versi, non si sa un bel niente: sparisce dopo aver creato quel capolavoro del Testamento.

La scomparsa in sé non dovrebbe troppo meravigliare. È un delinquente, di genio, ma sempre delinquente e per di più recidivo. Non ce l’ha fatta a scappare una volta di più e la giustizia l’ha appeso. Non è forse lui che ha scritto che diversi suoi amici sono stati condannati a morte? Inoltre, si ha notizia di un «François des Loges autrement dit Villon» in una lettera di remissione, firmata da Carlo VII, nella quale lo si scagiona da un fosco delitto in cui è stato ucciso un prete. In un’altra lettera, sempre firmata da Car­lo VII, è citato un François de Montcorbier, maître des arts, che viene sollevato da responsabilità sempre per lo scannamento di un prelato. Quindi c’è da scegliere. O questo o quello, o «des Loges» e «de Montcorbier», sempre di lui si tratta. Di quel poeta secco, nero, povero, studente, coinvolto in un giro losco di denari e pugnalate.

E allora? Cosa c’è da sapere di più? Molto, moltissimo.

Per cominciare, Villon scrive in jargon, una sorta di gergo di malaffare, ma ogni rigo trasuda una cultura letteraria eccezionale. Molto al di sopra di quella di uno studente o anche di un maître des arts. Da qui l’ipotesi recentissima che si tratti di un personaggio, forse di grande prestigio sociale ed economico, che si nasconde dietro una sorta di maschera saturnina molto in voga nell’Umanesimo. Insomma, una specie di travestimento con cui si mostra ai contemporanei e soprattutto ai posteri per farli impazzire.

Una trovata teatrale straordinaria. Un uomo potente e coltissimo che si rappresenta come un vero e proprio attore da palcoscenico: una falsa identità, una falsa professione, una falsa povertà, una falsa fedina penale e una falsa galera.

Solo i versi eterni sono veri.

Per generazioni, i critici sono caduti nella trappola, ma adesso alcuni hanno scoperto l’inganno e finalmente hanno svelato la doppia identità del poeta. Tutto chiaro, finalmente. È un grande doppiogiochista. Ha teso un tranello in cui tutti sono rimasti impigliati per anni e anni. Ma ora tutto sembrerebbe svelato grazie a un lavoro di revisione filologica dei testi e delle fonti,

E invece no.

Ecco perché l’Hermes è approdato in questa Parigi plumbea rigurgitante di ombre. Il mistero di Villon rimane immutato. Almeno fino a ora. E merita di essere scoperto. Una volta per tutte. Ma occorrono i soliti occhi privi di pregiudizi e remore e soprattutto il solito grimaldello che i marinai curiosi si portano dietro sin dall’inizio di questo itinerario. Per aprire versi ermeticamente chiusi, occorre infatti la chiave giusta, quella ermetica.

A ben vedere, nel disvelamento della vera identità di Vil­lon potente, ricco e istruito, manca la motivazione della ma­schera.

Perché un uomo altolocato, di cospicui mezzi e cultura, avrebbe messo su una simile messinscena? Per puro godimento, rispondono i critici più avveduti, e per un gusto tipicamente d’epoca: la rappresentazione fine a se stessa, il ludus della maschera saturnina, l’uomo nero e magro e povero e sfortunato che, nella seconda meta del Quattrocento, era molto in voga in Francia e in Italia.

In verità è un movente veramente debole.

Ma come? Un poeta perfettamente conscio del proprio valore, che deride i suoi contemporanei che si cimentano con i versi, si condanna all’oblio eterno soltanto per un divertimento alla moda? Se così fosse, un suo contemporaneo avrebbe lasciato un appunto, una lettera, uno schizzo, un motto, un sonetto sulla vera identità di quel geniale dissacratore.

Invece nulla. Solo le lettere di remissione di Carlo VII.

Evidentemente, nell’artista che si nasconde sotto lo pseudonimo di François, ovvero «il francese», Villon, ovvero «l’arguto», è necessario l’anonimato assoluto per cause ben più forti e gravi del semplice divertimento letterario.

Lui sapeva che nei suoi versi c’era qualcosa di terribile agli occhi dei suoi contemporanei. Di qui il travestimento e la falsa pista dello studente impelagato con la legge. Oggi non si riesce più a cogliere l’autentica valenza misteriosa delle sue composizioni. Nel Quattrocento, invece, non era così.

L’uomo celato sotto i panni di Villon sapeva perfettamente che alcuni suoi concittadini avrebbero letto nel giusto senso i suoi scritti. Alcuni ne avrebbero tratto giovamento, ma altri vi avrebbero visto eresia e componenti demoniache. Perché è di questo che si tratta.

I versi sono un capolavoro poetico, ma sono anche un bando, un manifesto ermetico diffuso nei secoli. Un paradigma magico proposto agli uomini delle generazioni a venire.

È per sciogiere questo enigma che il nostro battello approda a Parigi.

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Per Ginevra, per Lancillotto e per Artù, per Mordred e per un altro santo, Galgano – Parte IV

I due amanti sono trovati addormentati di notte da Artù, che mette tra loro la sua spada. Da quel momento l’arma si chiamerà Excalibur, ovvero «mezzo per raggiungere il divino». Lancillotto e Ginevra sono dunque aiutati da Artù per giungere, nella loro fusione di maschile e femminile, alla dimensione eterna. E poiché la spada rappresenta l’anima, ecco che il re dona loro l’anima per arrivare a Dio.

Questo è il vero significato dell’episodio, il mistero celato dietro un’apparente storia di tradimento.

Lasciati i due amanti, il re torna a Camelot, ma poiché non può vivere senza l’amico e senza Ginevra, cade gravemente ammalato. Solo il Santo Graal, la coppa da cui sgorga una bevanda magica che dona «ogni sapienza», potrà salvarlo. I Cavalieri della Tavola Rotonda partono quindi alla ricerca.

Approfittando dello stato di confusione di Artù, la sua sorellastra Morgana, la strega, assume le sembianze di Ginevra e riesce a fare l’amore con il re, il quale nel delirio è convinto di abbracciare la moglie perduta.

Morgana concepisce da lui un figlio, Mordred, erede del regno. Ormai Artù sembra avere i giorni contati. Infatti i cavalieri non riescono a trovare il Graal e, nella ricerca, cadono tutti vittime di orchi, streghe, negromanti.

Solo un cavaliere puro e padrone di sé, capace di guidare i suoi istinti, può reperire il sacro vaso contenente la bevanda miracolosa. Perfino Parsifal, «è colui che ha mondato il cuore», è caduto vittima degli intrighi di Morgana e Mordred, il figlio dell’incesto. I due l’hanno catturato e appeso a un albero, con la testa in giù.

Ma in questa posizione Parsifal comprende il segreto per raggiungere il Graal.

Qui è nascosto un altro insegnamento velato: il guerriero giunge all’intuizione dal momento in cui «è appeso», quando ha assunto la posizione dell’omonima carta dei Tarocchi. La saggezza arriva capovolgendo i termini del ragionare ordinario, modificando completamente la cultura, la mo­rale, i luoghi comuni.

Parsifal riesce a slegarsi dall’albero, si getta in un torrente, raggiunge un castello sotto le acque, apre le porte con la chiave nascosta «nel suo cuore» e prende il Graal. Immediatamente corre a Camelot e arriva giusto in tempo: Artù sta per morire. Ma appena beve un solo goccio della preziosa bevanda, il re «conosce il bene, il male e tutto come è sempre stato» e guarisce.

Finalmente il signore della Britannia può marciare contro i Sassoni, guidati da Morgana e Mordred. In una battaglia epica Artù li sconfigge. Mordred è il ricettacolo di ogni male: lussuria, invidia, odio, arroganza, ira bestiale si annidano dentro di lui.

Il re sguaina Excalibur e si avventa contro Mordred, che a sua volta ha sfoderato Rubilacxe, la sua lama.

I due si colpiscono contemporaneamente e si uccidono in un abbraccio selvaggio, affondando fino all’elsa le rispettive armi l’uno nel corpo dell’altro. A terra, le loro teste si appoggiano l’una accanto all’altra.

In realtà, osservando i significati della storia al di sopra del senso letterale, Artù e Mordred sono complementari: tutta bontà l’uno e tutta malvagità l’altro, tant’è vero che persino la spada Rubilacxe è il nome di Excalibur rovesciato. Insomma, Mordred è Artù allo specchio. Per questo «devono» fondersi: non esiste vera saggezza se la parte spirituale dell’uomo non si armonizza con quella brutale e selvaggia.

Questa simbologia è davvero rivoluzionaria: anche il peccato, vedi Lancillotto e Ginevra, anche Mordred con le sue mostruosità, sono utili al mantenimento dell’armonia primitiva, quella racchiusa nei disegni arcani.

Nella filosofia ermetica non è possibile perciò dare un significato univoco a un personaggio, a un simbolo o a un avvenimento. Tutto rientra in un disegno complessivo. Occorre rifarsi a sensi più alti, a conoscenze più vaste, circolari, complete. Uomini, leggende, gesta, spade, santi, simboli rientrano tutti in questo immane mosaico della Conoscenza Femminile nascosta.

Appunto un’altra storia, parallela a quella ufficiale dei libri di testo. Occhi nuovi per vedere le cose vecchie e anche queste diventano improvvisamente nuove.

Ricordate? È stata questa una delle esortazioni con cui è iniziato il viaggio. Ora però occorre fare un altro sforzo sulla rotta del «disvelamento» e capire uno del momenti fondamentali della scienza di cui abbiamo parlato sovente, di quella magia di cui in fondo nessuno parla volentieri, a meno che non si tratti di un iniziato. Una scienza spesso travisata nelle sue valenze originarie.

Per entrare nel suo cuore, è necessario comprendere la ritualità dei gesti, dei movimenti, dei canti, delle formule. Bisogna insomma procedere sulla rotta che conduce al rito.

In effetti, tutta la magia comporta una ritualità. Ecco allora delle storie che servono come mezzo esplicativo. Sono esempi, racconti emblematici necessari per quella via di scioglimento delle tenebre che ha ricoperto l’altra storia della civiltà, quella segreta, quella dell’antica sapienza del Femminile.