Libri: “Il giudice delle donne” di Maria Rosa Cutrufelli

il giudice delle donne

Fino al 2 giugno 1946, le donne in Italia non potevano votare. Un tentativo per ottenere la possibilità di farlo, però, c’era stato già stato in passato. Lo ricorda Maria Rosa Cutrufelli nel suo ultimo libro “Il giudice delle donne” (Frassinelli), nel quale riprende quel lontano episodio, ormai dimenticato, avvenuto nel 1906 tra Montemarciano, un paesino nei pressi di Ancona, e Senigallia. Dieci maestre avevano un sogno da realizzare, un desiderio riguardante un diritto che allora veniva loro negato: il suffragio universale. Chiesero quindi l’iscrizione alle liste elettorali. L’episodio, che all’epoca fece scalpore, finì sulle prime pagine dei quotidiani e venne preso in seria considerazione. Il compito se dare o meno quella concessione spettò al presidente della Corte d’Appello di Ancona, Lodovico Mortara, il giudice delle donne del romanzo. Un autentico riformatore che divenne in seguito ministro della Giustizia,  epurato poi da Mussolini. Una storia italiana narrata dall’autrice con nitidezza e precisione dei fatti, all’interno di una trama avvincente.”Questo romanzo è opera di finzione, e tuttavia è anche un intreccio, una tessitura di storie o di spunti narrativi pescati durante il lavoro di documentazione”, racconta Maria Rosa Cutrufelli. “Tutto è cominciato da una targa intravista in un giorno di vacanza. Ero a Senigallia e a un tratto ho notato, sul muro del municipio, una targa che commemorava le ‘prime elettrici d’Italia’, dieci donne che nel 1906 avevano chiesto il diritto di voto. E che l’avevano ottenuto, anche se solo per un anno, fino all’intervento della Corte di Cassazione.” Già il lavoro che facevano era considerato pionieristico. Decidere di andare ad insegnare l’alfabeto in paesini sperduti dell’Italia non era un’impresa da poco nella società all’inizio del ‘900, dove pregiudizi e contraddizioni erano predominanti. L’autrice dà voce nel libro a quello che doveva essere il pensiero comune di allora, anche tra le donne stesse:

“… è per quella faccenda, sa’, quella del voto.
Il voto? E che significa mai…
Significa, spiega Albina, che la sora Luiscia, per essere moglie di un sindaco, si crede esperta di ogni diavoleria politica, perciò vorrebbe votare. Proprio come gli uomini. Si è fissata con quest’idea e cerca di mettere su un gruppo di maestre per dare battaglia perfino a suo marito, se necessario.
Ma suo marito, si stupisce quella di prima, non ce l’ha già, il voto? Non è abbastanza bravo da votare anche per lei?
E Albina: vallo a sapere cosa gli gira in testa, a quelle!…”

Clara Martinelli

 

 

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Cinema da non perdere: “Il club” di Pablo Larrain

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Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino 2015 e presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, “Il club” di Pablo Larrain parla di un argomento, la pedofilia nella Chiesa Cattolica, già ampiamente trattato in “Il caso Spotlight”. Ambientato in Cile, mostra come la vita tranquilla di quattro ex sacerdoti e una suora che vivono in una casa per preti esiliati a La Boca dell’inferno sulla costa, venga turbata dall’arrivo di padre Lazcano, che, accusato di pedofilia, è costretto al ritiro come gli altri. L’uomo, come una sorta di coscienza vivente, è seguito nei suoi spostamenti da un individuo chiamato Sandokan, un ragazzo di cui ha abusato da bambino.  Restando fuori dal cancello della villetta, la povera vittima snocciola in una cantilena delirante e senza fine, le molestie che ha subito.Tormentato dal senso di colpa, padre Lazcano prende la pistola che di nascosto porta con sé e si uccide davanti a Sandokan come atto di espiazione finale. Per fare chiarezza sull’accaduto viene mandato ad indagare un gesuita psicologo, il giovane padre Garcia, che cercherà di riportare ordine nella casa. Alla fine, Sandokan sarà ancora più vittima, condannato dal paese intero per un reato che non ha commesso, mentre i “criminali” restano al loro posto, senza scomporsi più di tanto, salvando l’apparenza.

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“Il club”  è un film solido,  che si basa su una sceneggiatura curata, senza cedimenti e su una regia eccellente.  Il gruppo di attori, a partire da Alfredo Castro,  emana una forza interpretativa notevole che rende vibrante e tangibile la freddezza e il groviglio interiore dei personaggi. Ognuno di loro porta con sé sofferenze e insofferenze, provenienti dalla loro vita passata (costellata di azioni peccaminose) e presenti nella routine quotidiana che dovrebbe essere votata al pentimento. Dovrebbe, perché la loro esistenza attuale non è solo dedita alla preghiera e alla ricerca della spiritualità perduta (semmai l’avessero avuta), ma anche a passatempi più terreni come le scommesse per le corse dei cani, alle quali partecipano facendo gareggiare un loro greyhound. Non una casa dove i sacerdoti, ritirati dalle cose mondane, riacquistano la fede, ma un posto dove alimentare la pochezza umana che li contraddistingue. “E’ un carcere”, dice uno di loro, dove però non vi sono sbarre e non si ha neanche tanta voglia di veder la luce. Seppur controllati dall’occhio vigile di madre Monica (la bravissima Antonia Zegers), hanno la possibilità di uscire, passeggiare lungo l’oceano, vedere altre persone che forse non conoscono il loro passato. Peccato che la voce insistente di Sandokan si faccia sentire così forte da tutti, tagliando stridula il silenzio del giorno e della notte. Miserabile quel prete che non è riuscito a liberarsene e lo ha portato con sé. Padre Lazcano (José Soza) ha fatto bene a togliersi di mezzo, ma ora bisogna che tutto ritorni come prima e pulire il suo sangue sporco. I quattro  sacerdoti non cambieranno la loro natura alla fine, resteranno impassibili davanti alle accuse e alla morte, si faranno più scaltri e architetteranno un piano per rendere colpevole un innocente. Anche padre Garcia, idealista che lotta per una Chiesa umile e giusta, si rende conto che la ricerca di salvezza tra quegli uomini è assai lontana.

Clara Martinelli

 

Cinema da non perdere: “Il caso Spotlight” di Tom McCarthy

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Che “Il caso Spotlight” si sia guadagnato due Oscar, uno come miglior film e l’altro come migliore sceneggiatura originale,  non sorprende affatto. Mai dare nulla per scontato, come ha precisato Leonardo DiCaprio al microfono dopo aver ottenuto la statuetta come miglior attore protagonista per “Revenant”, ma la vittoria del film diretto da Tom McCarthy che lo ha co-scritto con Josh Singer, per molti più che una speranza era una certezza. A partire dalla storia, vera, che vi si narra. Nel 2001 la squadra giornalistica “spotlight” (la sezione del giornale che si occupa dei casi difficili)  del “Boston Globe”, guidata dal nuovo direttore editoriale Marty Baron, partendo da diversi casi di abusi perpetrati dal prete cattolico John Geoghan, inizia una clamorosa indagine che svelerà una situazione ancora più drammatica. Baron, Ben Bradlee Jr., supervisore dell’inchiesta, e i quattro membri della squadra investigativa del “Boston Globe”, Walter Robinson, Mike Rezendes, Sacha Pfeiffer e Matt Carroll, pur sapendo dei rischi che avrebbero corso mettendosi contro un’istituzione forte come la Chiesa cattolica, cominciarono a trovare testimoni, raccogliere documenti e dati con la ferma volontà di portare a galla la verità. Far luce cioé su una vicenda che per anni era stata sottovalutata dai media e ignorata dalle autorità, che, sapendo dell’indagine, cercano in tutti i modi di impedirla per evitare lo scandalo. Nell’occhio del ciclone finisce l’arcivescovo Bernard Francis Law, accusato di aver coperto i casi di pedofilia avvenuti in diverse parrocchie. Grazie all’aiuto dell’avvocato Mitchell Garabedian, difensore delle vittime, l’équipe verificherà alla fine il coinvolgimento di circa ottanta sacerdoti nella pratica degli abusi sessuali sui minori, usata come pratica sistematica, tenuti insabbiati dalla Chiesa. Nel 2003, i giornalisti vennero premiati con il Pulitzer di pubblico servizio.Spotlight_film_2015

La storia trattata quindi è di portata eccezionale e fa la sua parte. Mano a mano che le indagini procedono lo stupore e l’indignazione di chi guarda cresce di pari passo con la narrazione, che si articola in maniera pulita e lineare. Ci si trova dentro sempre di più, in una vicenda così torbida da rimanerne coinvolti e da uscire cambiati dalla sua visione.  La bravura del cast contribuisce a rendere “Il caso Spotlight” il miglior film dell’anno. Michael Keaton, Liev Schreiber, John Slattery, Brian D’Arcy James, Marc Ruffalo e Rachel McAdams, entrambi candidati all’Oscar come attori non protagonisti, sono così aderenti ai loro ruoli tanto da sembrare più veri dei giornalisti reali. La regia di Tom McCarthy è ritmata, drammatica, rigorosa, emozionante e potente, senza aver bisogno di ricorrere a sensazionalismi. Un cinema che ricorda la grande tradizione americana che comprende “Tutti gli uomini del presidente” di Alan Pakula, i film di Sydney Pollack e di Sidney Lumet. Un film che è una vera scuola di giornalismo, che mostra, senza retorica, come si deve fare un’inchiesta. Raccogliere meticolosamente racconti, dati, informazioni, telefonare, convincere avvocati reticenti e testimoni rassegnati, mettere insieme tutto e andare avanti con testardaggine fino ad ottenere un risultato. Non lasciarsi spaventare ed essere sicuri del proprio obiettivo: scoprire la verità.  Lavora così il giornalista autentico  e “Il caso Spotlight” fa tornare la voglia di intraprendere questo mestiere. Non si tratta di essere eroi, ma significa semplicemente eseguire il proprio lavoro.

Clara Martinelli

 

Cinema: “Human” di Yann Arthus-Bertrand

Presentato allo scorso Festival del Cinema di Venezia, “Human” del regista e fotografo ambientalista francese Yann Arthus-Bertrand è da ieri  nelle sale italiane in veste di  evento speciale fino a domani 2 marzo. Basta il titolo per spiegare di cosa parla questo film che dura tre ore e un quarto,  realizzato con esclusivi filmati aerei e storie raccontate in prima persona davanti ad una macchina da presa. Girato in 60 paesi, Arthus-Bertrand ha intervistato 2.020 persone in tre anni, realizzando una carrellata di umanità così varia da restarne stupefatti. Dall’Alaska, all’Equador, dall’entroterra americano, all’estremo Oriente, passando per gli indigeni delle più remote zone della terra, uomini e donne, ragazzi e ragazze  guardano dritto nella telecamera e si raccontano in 63 lingue diverse, rispondendo alle domande (gli intervistatori non compaiono mai, né si fa sentire la loro voce) che gli vengono poste. Quaranta quesiti sulla libertà, sul significato dell’esistenza,  sulle esperienze più dure che si sono dovute affrontare,  sull’omosessualità, sulla guerra, sulla condizione della donna, sul lavoro, sull’immigrazione. Volti diversi dicono la loro versione dei fatti, “costringono” gli spettatori ad un incontro con l’altro in forma massiccia, intervallati da stupefacenti riprese aeree che mostrano la natura incontaminata o file di persone che, con fatica, percorrono deserti o una folla umana che festeggia un evento.
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Non uno sguardo superficiale, ma coinvolgente abbastanza per far capire che all’altro capo del mondo esistono persone che condividono con noi valori e sentimenti. E che quindi tanto diversi non sono. Un’opera imponente necessaria nella nostra era globale dove il lontano è sempre più vicino e conoscerlo meglio ci aiuta a capirlo.  Soprattuto in questo periodo in cui grandi masse si accalcano alle frontiere per sfuggire a guerre e carestie. Ogni individuo con il suo dramma quotidiano, come i cittadini delle periferie di Mombay costretti a trasferirsi in città per non morire di sete e lì venire sfruttati per costruire grattacieli dove l’acqua viene usata per riempire le piscine. Qualcuno condivide la propria felicità di avere una vita serena. Dice la sua anche Pepe Mujica, capo di stato uruguaiano dal 2010 al 2015, noto per il suo sobrio stile di vita (tratteneva per sé solo una piccola parte del suo stipendio),  che lo ha fatto denominare il “presidente più povero del mondo”: “Abbiamo inventato una montagna di consumi superflui. Bisogna buttare, comprare, buttare. Ciò che sperperiamo veramente è la nostra vita”.
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Clara Martinelli

“Astrosamantha. La donna dei record nello spazio” al cinema domani e il 2 marzo

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Samantha Cristoforetti, astronauta dell’European Space Agency e capitano pilota dell’Aeronautica Militare, vive senza dubbio un’esistenza straordinaria. In questi giorni, un evento speciale vi renderà partecipi della sua vita fuori dall’ordinario con il docufilm “Astrosamantha – la donna dei record nello spazio” che verrà proiettato nelle sale italiane domani 1 marzo e mercoledì 2, ma dal 3 marzo sarà disponibile anche per le proiezioni scolastiche.  Grazie a questa pellicola la protagonista di “Futura” (la seconda missione di lunga durata dell’Agenzia Spaziale Italiana), la Cristoforetti ha ricevuto qualche giorno fa il premio speciale come protagonista del 2015 nel “cinema del reale” durante la premiazione dei Nastri d’Argento Doc 2016. Diretto da  Gianluca Cerasola, con la voce narrante di Giancarlo Giannini, mostra tre anni nella vita dell’astronauta, durante i quali è stata sottoposta a una dura preparazione fisica e mentale. Sacrifici che le hanno permesso di diventare la prima donna italiana ad andare nello spazio e ad ottenere il primato europeo femminile di permanenza nello spazio, 200 giorni. Partendo dalla base americana della NASA, ci si sposta con lei in quella europea dell’ESA e infine in quella russa, la Roscosmos. La seguiamo nei centri aerospaziali di Star City, vicino Mosca, a  Houston nel Johnson Space Center e nel cosmodromo di Baikonour in Kazakistan, dove è avvenuto il lancio. Davanti agli occhi degli spettatori si disvelano luoghi che fino a poco tempo fa era impensabile visitare.

astrosamantha_0.jpgPresentato all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, “Astrosamantha” è un percorso realizzato da Gianluca Cerasola,  grazie alla disponibilità e alla generosità della protagonista. Perché Samantha Cristoforetti è certamente un’abile professionista, ma è anche un’eccellente divulgatrice di nozioni molto complesse. Passando dal quotidiano trascorso nella sua casa o nelle stanze messe a disposizione dalle varie agenzie, l’astronauta parla con naturalezza di tutti gli aspetti della sua vita professionale e, in parte, del suo privato. Sembrano quasi un gioco (ma ovviamente non lo sono)  gli allenamenti sott’acqua per simulare l’assenza di gravità, le centrifughe e le prove di preparazione all’assenza di peso o  alle  situazioni di emergenza.  Samantha ci spiega tutto, da come si consuma il cibo stando in orbita (eccezionale “il pranzo della domenica” descritto da Luca Parmitano) fino a soddisfare anche la curiosità sull’evacuazione e il riutilizzo dei rifiuti fisiologici.  Emozionanti la tradizione russa della visita prima della partenza alla tomba di Yuri Gagarin,  il rapporto con gli altri astronauti, i saluti con i familiari al momento della partenza e il ritorno a terra dopo la permanenza nello spazio. Il docufilm si tinge di rosa quando la Cristoforetti ci fa conoscere l’esistenza di un gruppo di astronaute, in servizio o a riposo, che si riuniscono quando possono e della loro passione per il B-movie “Tank Girl”, film post apocalittico femminista.

Clara Martinelli

 

Cinema: “Seconda primavera”di Francesco Calogero verrà presentato questa sera a Roma al Cinema Farnese Persol

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Questa sera, alle 20,30, a Roma al Cinema Farnese Persol in Piazza Campo de’ Fiori, il regista Francesco Calogero e il cast presentano il film “Seconda primavera”.  La storia, ambientata a Messina, si svolge nell’arco di sei stagioni, durante le quali si intrecciano le vicende di quattro personaggi. “La divisione in capitoli – spiega il regista – evidenzia non solo come il nostro modo di attraversare la vita cambi col passare degli anni, ma anche come possa essere mutevole la nostra capacità di interpretazione di una realtà che è spesso contadittoria , e soggetta al gioco del fato”. L’architetto cinquantenne Andrea (Claudio Botasso), cercando acquirenti per la sua villa al mare,  conosce l’anestesista Rosanna, sposata con Riccardo, aspirante scrittore di dieci anni più giovane di lei. Durante la notte di Capodanno, Andrea si reca alla festa di un ristoratore tunisino al quale dovrebbe ristrutturare l’attico. L’uomo ha una sorella, Hikma,  che  aveva colpito l’architetto per la somiglianza con la moglie Sofia, morta quattro anni prima nella villa che ha messo in vendita. La ragazza non attrae solo lui, ma anche Riccardo che, avendo litigato con Rosanna, è andato alla festa con Andrea. I due ragazzi passano la notte insieme e lei resta incinta. Con grandi difficoltà decidono di stare insieme e Andrea vuole aiutarli. Aiuta Riccardo a trovare un lavoro, che nel frattempo ha perso quello da commesso e si è separato dalla moglie, e li invita a vivere con lui nella sua villa al mare per risparmiare sull’affitto. Ma ogni giorno che passa, Hikma gli ricorda sempre di più Sofia. In un crescendo di tensioni e di nostalgie mai sopite, Andrea, che si era rassegnato a vivere un’esistenza senza slanci, riscopre la bellezza di lasciarsi sorprendere dalla vita, entrando in una “Seconda primavera”. Il motore della trama del film è il “cuore in inverno” del protagonista che, colpito da depressione in seguito a lutti importanti, rimane nella sua controllata roitine, finché il bagliore di luce portato dalla presenza di Hikma e del suo bambino non lo porta a lasciare l’oscurità che era diventata la sua casa. Calogero compone attorno ad Andrea una fitta rete di personaggi e di luoghi (non a caso il mare simbolo di morte e di rinascita che, con il suo andamento calmo o tempestesoso, rende espliciti e cadenzati i moti dell’anima). Una rete nella quale lui si sente prima impigliato, ma, una volta liberato, diventa una persona nuova. E’ la storia di una trasformazione, non solo quella di Andrea ( bravo Claudio Botasso, attore ben calibrato nel suo ruolo), ma che coinvolge anche tutti gli altri.

Clara Martinelli

 

Cinema: “Il labirinto del silenzio” di Giulio Ricciarelli

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Tra i film usciti nelle sale per ricordare l’olocausto, “Il labirinto del silenzio” di Giulio Ricciarelli (di origine italiana, ma tedesco d’adozione) è senz’altro uno dei più interessanti da vedere. Perché mostra la Germania dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando, in una sorta di omertà generale, tutti o quasi tendevano a non ricordare o a far finta di niente riguardo alle responsabilità della popolazione verso il genocidio degli ebrei. Ambientato nel 1958, il film mostra il paese in piena ripresa economica, quando i tempi del regime Nazionalsocialista sembrano ormai lontani. In questo clima di ricostruzione, il giovane pubblico ministero Johann Radmann (Alexander Fehling), che dovrebbe occuparsi soltanto di verbali automobilistici, incontra in tribunale un giornalista, Thomas Gnielka (André Szymanski). Questi gli racconta che un suo amico avrebbe riconosciuto un insegnante che, in passato, sarebbe stata una guardia di Auschwitz. Nessuno però sembra interessato a perseguirlo legalmente. Radmann, invece, decide di occuparsene, contro il parere del suo diretto superiore che gli consiglia di lasciar perdere. Piano a piano si rende conto che l’impresa non sarà facile perché i colpevoli godono di una rete di protezione, grazie alla quale riescono a condurre una vita normale. Solo il Pubblico Ministero Generale, Fritz Bauer (Gert Voss) incoraggia Radmann a proseguire le ricerche. Lui stesso, infatti, è da molto tempo che spera di attirare l’attenzione sui crimini commessi ad Auschwitz, ma non possiede i mezzi legali per portare avanti un’azione penale.Radmann con l’aiuto dell’amico giornalista trova documenti decisivi per individuare i colpevoli. Comincia così ad interrogare i testimoni sopravvissuti al campo di concentramento, setaccia gli archivi, cerca le prove, rendendosi conto di trovarsi in un vero e proprio labirinto di bugie, che rendono difficile scoprire la verità. Si dedica anima e corpo alle indagini, tanto da sacrificare la sua vita privata, ma alla fine giungerà alla soluzione che cambierà per sempre la storia.

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“Il labirinto del silenzio” è entrato nella shortlist degli Oscar di quest’anno, perché si tratta di un film veramente meritevole e incisivo. A partire dal tema che affronta, basato su fatti realmente accaduti, incastonati in una storia fittizia. Narra infatti la vicenda reale di un gruppo di tedeschi che negli anni ’50 ha  voluto indagare su un passato non troppo lontano, costellato di crimini contro l’umanità compiuti ad Auschwitz e condannare in un tribunale della Germania coloro che li avevano perpetrati. Un’impresa non facile, perché si andava a scoprire tante insospettabili responsabilità. Nel film, infatti, ad un certo punto, il Pubblico Ministero Capo Walter  Friedberg, interpretato da Robert HungerBuhler,  pone una domanda: “E’ davvero importante che ogni giovane in Germania debba chiedersi se suo padre fosse un assassino?”. Un dubbio che vive anche il protagonista che arriva a chiederselo, guardando la foto di suo papà in uniforme. Radmann è un giovane tradizionalista, umanista, con precisi valori. Pensa di essere a conoscenza di cosa sia giusto e di ciò che è sbagliato. Si muove su questa combinazione binaria fino a quando non ha più certezze e capisce che bisogna essere umili per affrontare un processo di tale portata. Radmann, che è un personaggio di finzione, è un concentrato dei tre pubblici ministeri che portarono avanti le indagini all’epoca dei fatti. Persone veramente esistite sono invece Fritz Bauer e Thomas Gnielka. Nella sceneggiatura, scritta da Elisabeth Bartel e Giulio Ricciarelli, sono state inserite alcune frasi dette dallo stesso Pubblico Ministero Generale. Ad esempio, quando si ebbe la necessità di ribadire l’importanza che si svolgesse il processo di Auschwitz, fu lui a pronunciare la frase: “Nessuno ha il diritto di essere obbediente”. Tutti gli imputati infatti per giustificarsi dei crimini commessi, anche di fronte  a cose orribilmente disumane,  affermavano di avere solo eseguito gli ordini. Anche le sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti sono autentiche. Spiega Ricciarelli: “Per quanto riguarda i fatti storici, siamo stati quanto più corretti e precisi possibile. Solamente in relazione alla vita interiore dei personaggi ci siamo permessi delle libertà narrative”. Una regia di stampo classico e una narrazione complessa fanno emergere un’impronta recitativa forte, basata sulle emozioni che animano la storia. Le stesse che hanno animato la Bartel quando, leggendo della vicenda su un articolo di giornale, e si rese conto della potenzialità di una storia che al cinema non era mai stata raccontata. Si parla molto infatti dei processi di Norimberga, ma quelli relativi ad Auschwitz sono quasi sconosciuti ai più. Una curiosità: c’è molto di femminile nella realizzazione del film, perché, oltre alla sceneggiatrice, sono donne anche le persone che hanno acconsentito a produrlo, Sabine Lamby e Uli Putz.

Clara Martinelli

 

Cinema da non perdere: “Il ponte delle spie” di Steven Spielberg

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Resterà ancora per poco nelle sale italiane, “Il ponte delle spie” diretto da Steven Spielberg e scritto da Matt Charman, Joel ed Ethan Coen. Uscito a dicembre, per chi non lo avesse ancora visto, è un film decisamente da non perdere, appassionante, emozionante e visivamente potente. Sotto la forma di una spy story, “Il ponte delle spie” parla di fatti realmente accaduti durante la Guerra fredda tra Russia e America e che ha avuto come protagonista  l’avvocato James B. Donovan, interpretato nel film da Tom Hanks. Siamo a Brooklyn nel 1957. Il pittore Rudolf Abel (Mark Rylance) viene arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Finalmente il nemico oscuro ha un volto ed è quello di un piccolo uomo di mezza età con gli occhiali da vista, all’apparenza banale e inoffensivo. Nonostante la certezza  che egli sia colpevole, l’America e i suoi principi costituzionali impongono la necessità di sottoporlo ad un processo, seppure di breve durata, che ne sancisca la sentenza e quindi la condanna a morte. Ma Donovan, uomo onesto e tutto d’un pezzo, prende sul serio la difesa di Abel, rispettandolo come individuo, cercando di comprenderlo nel profondo, non lo vede solo come  una spia, un criminale, ma lo guarda come una persona. Con questa decisione, l’avvocato si ritrova a dover combattere contro la disapprovazione generale, compresa quella del giudice e della moglie. Intanto, un caccia U-2 della Cia viene abbattuto mentre sorvola l’Unione Sovietica e il tenente Francis Gary Powers, che lo stava pilotando, viene fatto prigioniero. Il governo Usa, per evitare che potesse rivelare informazioni preziose al nemico, decide di proporre uno scambio con Abel e incarica Donovan di gestire il  negoziato. L’avvocato accetta e si reca a Berlino proprio nei giorni in cui si sta costruendo il muro che dividerà la città in due parti. Nel frattempo viene a conoscenza di un altro prigioniero americano, uno studente arrestato durante i disordini dovuti all’erezione della barriera. Donovan decide di negoziare sia per lui che per Abel, dimostrando grande fermezza e coraggio nell’affrontare le autorità sovietiche e berlinesi.  Lo scambio tra il pilota americano e la spia russa, avviene sul Ponte di Glienicke, detto il “Ponte delle Spie”, il quale collega Berlino Ovest a Berlino Est (nella realtà fu uno dei luoghi simbolo della tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica). Lo studente  di economia Frederic Pryor viene rilasciato al checkpoint Charlie.

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Riprendendo una vecchia storia americana quasi del tutto dimenticata, Spielberg ha portato sullo schermo un film dal contenuto etico di immensa portata, superando se stesso. Tom Hanks impersona perfettamente l’avvocato Donovan, composto e determinato a compiere la sua professione in maniera corretta. “Ci sarà un prezzo da pagare”, gli dice la moglie in preda alla paura per sé e per i figli, dopo essere stati minacciati mentre erano in casa. Ma Donovan, un Ettore contemporaneo, proseguirà nella sua impresa per dimostrare il proprio valore, nonostante le suppliche della sua Andromaca. Un uomo come tanti che, costretto dalle circostanze, usa tutta la sua ostinazione per far andare bene le cose nel verso giusto e a sovrastare gli altri. Diventa l’eroe buono che grazie alla sua integrità morale riporta tutti a casa. Ma la vera protagonista della pellicola è la democrazia, la sua funzione sociale e i suoi valori fondamentali, che la portano ad essere vincente su qualsiasi altro regime. Spielberg usa il cinema civile per ribadire il suo amore profondo per l’America e per tutto quello che di positivo rappresenta e lo fa un grande rigore narrativo. Fantastica la ricostruzione d’ambiente, con le immagini di una Berlino fredda, divisa e caotica,  devastata dal cambiamento in corso.

Clara Martinelli

Cinema: il “Macbeth” spettacolare di Justin Kurzel

Macbeth CopertinaUscito nelle sale italiane il 5 gennaio, “Macbeth” è un film  diretto da Justin Kurzel,che ha Michael Fassbender e Marion Cotillard come protagonisti. La pellicola è l’adattamento cinematografico della tragedia di William Shakespeare. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, il film ha suscitato molte polemiche, perché si tratta di una versione molto diversa da quelle viste finora sul grande schermo. La trama è quella che tutti conosciamo. Il valoroso Macbeth, barone di Glamis, fedele generale dell’esercito del re Duncan di Scozia, ha sconfitto e ucciso il traditore Macdonwald a capo delle forze ribelli in una cruenta battaglia. Mentre cammina per la brughiera con il suo compagno Banquo, Macbeth incontra tre streghe, le quali gli predicono che lui diventerà signore di Cawdor e re di Scozia, mentre il suo amico sarà il capostipite di una dinastia di re. Profondamente scossi da quelle parole, ma senza dar loro troppa importanza, i due uomini ritornano sul campo di battaglia. Appena arrivati, Angus e Ross, due nobili scozzesi, portano a Macbeth i ringraziamenti del re per il coraggio dimostrato e gli comunicano che il sovrano gli ha assegnato il titolo di barone di Cawdor: colui che aveva prima tale titolo è stato giustiziato con l’accusa di alto tradimento.  La profezia comincia ad avverarsi. Macbeth, quindi, va a ringraziare il re Duncan, che gli dice di voler recarsi nel suo castello a Inverness per festeggiare la vittoria con lui. Nel frattempo, Lady Macbeth riceve una lettera dal marito con la quale la mette al corrente dell’incredibile profezia. La donna, ancora in lutto per la perdita del loro unico figlio, depressa per le continue assenze del marito, comincia ad escogitare un piano per uccidere il re e assicurare così il trono al consorte. Ma quello di Duncan non sarà l’unico delitto commesso da Mcbeth che, incoraggiato dalla moglie e divorato da una folle ambizione, darà luogo ad una vera e propria carneficina.

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Kurzel (alla sua seconda regia dopo “Snowtown”), per il suo “Macbeth”, ha puntato molto sulla spettacolarità delle scene di battaglia e sui delitti che la perfida coppia compie per raggiungere e poi perdere il potere.  Michael Fassbender è perfetto nel suo ruolo e dimostra ancor di più di essere un attore di statura strordinaria: il film, infatti, regge quasi completamente sulla sua figura. Poco spazio viene lasciato a Lady Macbeth, interpretata dall’esile, ma intensa Marillon Cotillard. Ottima la scelta del regista che ha utilizzato come testo quello originale in inglese arcaico (sceneggiato da Jacob Koskoff, Michael Lesslie e Tod Louiso), lasciando così intatta la potenza della tragedia più breve di Shakespeare. Una Scozia dal fascino primordiale e nebbioso si contrappone  agli interni monumentali dei palazzi che  invadono la scena, come anche la musica di sottofondo. I ralenti delle scene di battaglia servono a mandare avanti il personaggio principale della storia, Macbeth, come se volesse estraniarsi dalla situazione, e, allo stesso tempo, ricordare allo spettatore la sua importanza all’interno della storia.  Ma Justin Kurzel ha voluto portare sullo schermo una storia che potesse avvicinare i giovani a Shakespeare e Michael Fassbender ha dichiarato lui stesso che la sua versione del Macbeth e ai danni che provoca la brama di potere, era rivolta soprattutto ai ragazzi. La spettacolarità del film è così spiegata. Un’operazione riuscita così bene che il regista e l’attore hanno deciso di girare insieme “Assassin’s Creed”, adattamento cinematografico della famosa serie di videogiochi.

Clara Martinelli

 

Cinema da non perdere: “Francofonia” di Aleksandr Sokurov


Presentato all’ultimo festival del cinema di Venezia e uscito nelle sale italiane a dicembre, “Francofonia” di Aleksandr Sokurov parla della storia veramente accaduta di un’alleanza tra due uomini eccezionali, desiderosi entrambi di salvare le opere d’arte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Quest’alleanza è stata la fortuna del museo del Louvre e di altre sale parigine, che così non si sono viste depredare dei propri tesori. Tutto cominciò quando Parigi venne dichiarata città aperta e i tedeschi la occuparono. Tempestivamente messo in guardia da questa possibile minaccia, il direttore del museo Jacques Jaujard (interpretato nel film da Lois-do de Lencquesaing) aveva fatto trasferire le opere, con il consenso dei proprietari, nei castelli circostanti. Anche nel Louvre stesso si erano attivate delle misure di protezione, come, ad esempio, portare le opere rimaste nei sotterranei o installare un impianto antincendio. Nella primavera del 1940 il curatore della Renania Franziskus Wolf-Metternich ricevette l’incarico di occuparsi delle opere d’arte attraverso un Dipartimento appositamente creato. E’ così che i due uomini entrarono in contatto. Il rappresentante delle forze di Occupazione avrebbe dovuto ispezionare l’enorme patrimonio artistico del Louvre e trasferirne una parte in Germania. Anche se molto diversi tra loro (Jaujard era un semplice funzionario, Metternich era un conte), li univa un obiettivo comune che, da nemici quali erano, li fece diventare amici. Bastò poco per essere d’accordo che il tesoro del Louvre doveva restare dov’era e il regista ci mostra come andarono i fatti, senza però voler essere un film storico nel senso tradizionale. “Francofonia” si può definire un documentario, anzi no, è un film di finzione, ma è anche una ricostruzione storica e una riflessione filosofica e politica. “Il nostro scopo era di mettere insieme la parte che abbiamo girato noi e i materiali di repertorio”, racconta Sokurov. “Come potevamo fonderli insieme, in un unico prodotto artistico? Lavorando con il materiale di repertorio abbiamo dovuto liberarlo della sua patina di finzione, del suo aspetto artificiale. Qualsiasi cosa inerente Parigi durante l’Occupazione è stata ricreata. La gente che passeggia per le vie, seduta nei caffè, assolutamente cinema di finzione. Abbiamo fatto la stessa cosa quando abbiamo filmato il Louvre dal tetto. Dietro ogni inquadratura documentaristica c’è un lavoro artistico”. All’inizio, lo spettatore vede un mercantile carico di quadri alle prese con una tempesta, visualizzato sullo schermo di un computer. Il marinaio della barca sta parlando via skype con uno autore che, attraverso i testi su cui si sta documentando, assumerà il ruolo di voce narrante di “Francofonia”, che in lingua originale è quella del regista stesso, mentre nell’adattamento italiano è di Umberto Orsini. Una nave che affonda con il suo carico, un paese che rischia di morire senza i suoi capolavori. “Cosa sarebbe stata Parigi senza il Louvre o la Russia senza l’Hermitage, questi indelebili punti di riferimento nazionali? – afferma Sokurov – Proviamo ad immaginare un’arca nel mezzo dell’oceano con tante persone e tante opere d’arte a bordo – libri, dipinti, spartiti, sculture, ancora libri, dischi e altro. Ma le travi della nave non riescono più a reggere il peso e l’arca rischia di affondare. Cosa salvare? Le persone? O quei muti e insostituibili testimoni del passato? “Francofonia” è un requiem per ciò che è perito un inno al coraggio umano, allo spirito e a ciò che unisce l’umanità”. Il film è un progetto estetico variegato, assemblato con ritratti d’epoca, materiale di repertorio, scene recitate, documentazione e immagini contemporanee, ai quali si associano i.rimbalzi temporali, il presente delle riprese, il passato prossimo dei conflitti mondiali e il passato remoto della scultura giordana di nove mila anni fa. All’incontro tra Jaujard e Wolff-Metternich si affianca quello del cineasta e dello storico che diventano una persona sola. Sokurov li pedina entrando nelle loro vite, nelle loro case, ci fa capire chi sono. I volti sono importanti, come precisa ricordando l’importanza del ritratto che ha caratterizzato le tradizioni familiari, politiche e sociali nei secoli passati attraverso la pittura. E in questa galleria non poteva mancare la Gioconda e il suo enigmatico sorriso. Azzarda e fa uscire fuori dalla cornice Napoleone Bonaparte che, aggirandosi nel museo afferma continuamente “Oui, c’est moi”, quasi a voler convincere se stesso, accompagnato da una Marianna di Francia. Anche lei resa viva dall’immaginazione di Sokurov, che ripetendo “liberté, égalité, fraternité”, vuole ricordare quali sono i sentimenti identitari di una nazione e dell’Europa intera. “Per me Napoleone e Marianne non sono delle figure convenzionali, simboliche – spiega Sokurov – sono dei personaggi reali, vivi. Tutti i fantasmi sono vivi se esistono. Ed io credo nell’esistenza degli spiriti e di tutte quelle creature che abitano i luoghi”. Già nel 2002 con “Arca russa”, bellissimo piano sequenza di un’ora e mezza, ambientato nei corridoi e nelle sale dell’Hermitage di San Pietroburgo, Sokurov si era occupato di riportare sul grande schermo un mondo che non c’è più, attraverso le figure storiche del passato. Per tutta la durata del film vediamo attraverso gli occhi di un personaggio non identificato, del quale sentiamo la voce, che si ritrova, come in un sogno, nel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, un tempo residenza degli Zar e oggi museo. L’unica persona che sembra vedere il nostro visitatore è un diplomatico francese dell’Ottocento, il marchese Adolphe de Custine, che lo accompagna nel percorso attraverso il palazzo. Passando per le varie sale e i corridoi, i due visitatori si muovono nelle diverse epoche della storia russa: compare Pietro il Grande , l’imperatrice Caterina II, gli zar Nicola I e Nicola II, fino ad arrivare ai nostri giorni e ai visitatori dell’Hermitage . Il viaggio si conclude con una grande festa, al termine della quale una folla di nobili russi si riversa fuori dal palazzo. E si scopre che l’edificio si trova sospeso sul mare in eterno. L’Hermitage viene menzionato in “Francofonia”, perché il regista si addolora pensando che ciò che è accaduto, al Louvre, non sia potuto succedere anche nei musei dell’Unione Sovietica o nel resto dell’Europa dell’Est. Il collaborazionismo tra Metternich e Jaujard ha salvaguardato le opere d’arte, mentre sul fronte russo i nazisti avrebbero messo a ferro e fuoco l’Hermitage bolscevico. Qualsiasi altra città ha subito bombardamenti ed incendi durante la Seconda guerra mondiale, mentre i soldati saccheggiavano e portavano via il bottino di guerra. Nelle vecchie fotografie di Parigi invece si vedono i militari tedeschi seduti nei caffè o a teatro e i ragazzi francesi a passeggio per strada a piedi o in bici. Se a Parigi non fosse andata così, cosa avrebbe significato per noi europei? La nostra cultura sarebbe rimasta la stessa? Alla fine del conflitto, i nostri due grandi uomini ebbero un riconoscimento per la loro impresa? Jacques Jaujard rivestirà fino al fine il suo ruolo di funzionario e verrà praticamente dimenticato. Metternich, al contrario, sarà celebrato e ricordato. E’ il narratore stesso ad annunciare ai due uomini quale sarà il loro destino. Li chiama in una stanza e li fa sedere. Un proiettore gli mostrale immagini di quello che avverrà nel loro futuro. Juajard e Metternich guardano e ascoltano forse interrogandosi sul senso di quella opportunità che gli è stata data. Poi se ne vanno. E di nuovo il meta-cinema, storia nella storia, passaggio tra passato, presente e futuro. Sokurov in “Francofonia” mostra tutto il suo talento visuale e narrativo, costruendo un’opera complessa sotto il profilo linguistico, possente sotto quello tematico, a tratti anche divertente. Il film è intriso dell’entusiasmo del regista, veramente felice di poter girare all’interno del Louvre. Per lui è stato un desiderio che si è avverato. L’ha considerato, infatti, un ritorno al suo sogno di realizzare un ciclo di film d’arte all’Hermitage, al Louvre, al Prado, al British. Ma riconosce che “se trattiamo di arte, non possiamo non entrare in contatto con la storia”. E non possiamo non ricordare la su trilogia su tre personaggi importanti per la storia del XX secolo: “Moloch” (1999), film su Hitler che venne premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura; “Toro” (2000) su Lenin e “Il Sole” (2005) su Hirohito. Rientra, forse, anche la figura di Napoleone Bonaparte in questa galleria di dittatori? Lui nega di essere affascinato da tali figure. “Faccio film su coloro che hanno dimostrato di avere una personalità eccezionale. Avevano il potere decisionale tra le mani, ma tante azioni che hanno compiuto erano dettate dalla loro fragilità e dalle passioni. Le qualità umane e il carattere sono più importanti di qualsiasi circostanza storica”. “Francofonia” si conclude con l’immagine della nave cargo che perde in mare il carico che sta trasportando. Un atto simbolico caratterizzante la società culturale di oggi alla deriva, che distrugge le grandi opere del passato fino a rendere vano il sacrificio delle persone che le hanno protette. “Francofonia” è un’elegia emozionante di straordinaria potenza e bellezza, che si avvale del lavoro eccezionale di Bruno Delbonnel alla fotografia e di scelte musicali di altissimo livello. Bravissimi anche gli attori. Qualcuno lo ha definito il vincitore morale dell’ultimo festival di Venezia, dove Sokurov è di casa. Nel 2011 si è guadagnato il Leone D’Oro per “Faust”, ultimo capitolo della tetralogia sul potere iniziata con “Moloch”. “Mi sembra ancora che tutto quello che faccio sia imperfetto”, ama dire Sokurov. “Il mio rapporto con il cinema è quello di uno scolaro, imparo da chi posso imparare. E quei film per me sono delle lezioni. Ringrazio i miei maestri immaginari, studio le lezioni, sostengo esami. Quale sarà il risultato? Ancora non lo so”.

Clara Martinelli

Cinema: “The salvation” di Kristian Levring è un tributo al classico western americano.

the-salvation-mads-mikkelsen-in-una-suggestiva-scena-del-film-western-372748_jpg_1400x0_crop_upscale_q85-kQr-U1030698018454AJE-700x394@LaStampa.it“The salvation”, scritto e diretto da Kristian Levring, è un tributo al classico western americano.  John Ford, Sergio Leone e Akira Kurosawa sono i cineasti ai quali il regista si è ispirato per cogliere in pieno lo spirito del genere che hanno contribuito a creare. Il film, attualmente nelle sale, parla di europei immigrati, fuggiti da guerra e povertà, con la speranza di potersi ricreare un’esistenza dignitosa in un nuovo paese. Sogno spesso infranto dall’ostilità del luogo. Prima c’erano gli indiani che già occupavano quei posti e che per questo vennero decimati, poi la difficoltà di adattarsi ad un clima arido, con terreni polverosi in fattorie isolate e la crudeltà degli altri europei, fuorilegge che potevano continuare impunemente i loro traffici e le loro sporche azioni in un paese senza legge e senza giustizia. Tutto questo è presente in “The salvation”, che ricalca la trama tipica della vendetta, della trasformazione e della rinascita di un uomo.  E’ il 1870. L’immigrato danese Jon (Mads Mikkelsen) riesce, dopo anni, a portare negli Stati Uniti sua moglie e il figlio di dieci anni. Ma, una volta arrivati, sulla diligenza che li sta portando a casa, incrociano due delinquenti appena usciti di prigione.  La felicità dell’uomo si trasforma ben presto in un incubo. I suoi familiari vengono uccisi e lui, per vendicarsi, ammazza i responsabili. Ma, purtroppo per Jon, uno dei banditi era il fratello dello spietato colonnello Delarue (Jeffrey Dean Morgan), un altro cattivo a tutto tondo, che terrorizza e padroneggia il villaggio di Black Creek. Tradito e isolato dalla comunità, Jon è costretto a trasformarsi da uomo pacifico a guerriero senza paura per salvare il villaggio e trovare pace. Kristian Levring è un regista eclettico, abituato a sperimentare, che spazia dal thriller, al film storico, alla rielaborazione dei drammi di Shakespeare e fino al western. Non a caso, nel 1995 ha fondato con Lars Von Trier, Thomas Vintberg e Soren Kragh Jacobsen il movimento Dogma 95, manifesto per la purezza del cinema, che ancora oggi continua ad ispirare registi di tutto il mondo.

Clara Martinelli

Cinema da non perdere: “Teneramente folle”, la difficoltà di vivere in una famiglia disfunzionale

teneramente-folle-preview“Teneramente folle”, attualmente nelle sale, è un bel film autobiografico. Scritto e diretto da Maya Forbes, appartenente alla famosa dinastia editoriale americana, narra la storia vera della sua infanzia, quando la madre dovette lasciare lei e la sorella nelle mani del padre bipolare, per andare a cercare un lavoro che permettesse loro di avere un’esistenza dignitosa. A causa di un forte esaurimento nervoso, il papà non aveva un lavoro e la famiglia d’origine, per motivazioni tutte sue, non li aiutava abbastanza. Nel film, ambientato a Boston nel 1978, l’uomo si chiama Cam Stuart ed è magistralmente interpretato da Mark Ruffalo, la madre, Maggie, ha il volto della splendida e brava Zoe Saldana. La coppia, a causa delle crisi depressive e dell’inaffidabilità di Cam, si sono separati. Quando Maggie deve trasferirsi a New York per seguire un corso di economia alla Columbia University chiede al marito di occuparsi a tempo pieno delle loro figlie. Cam è costretto ad accettare, spaventato dal fatto che per diciotto mesi dovrà condurre una vita normale, fatta di quotidianità e di impegni che non pensa di riuscire a mantenere. Anche le ragazze dovranno adattarsi alle strane uscite del padre, al suo disordine e al suo modo di essere. Si vergognano di lui e dello stato in cui versa il loro piccolo appartamento. Ma, nello scambio dell’affetto reciproco, riescono a trovare un equilibrio. Con la sua carica vitale straordinaria, Cam impara a prendersi cura delle figlie e di se stesso. Una commedia commovente e divertente, che fa riflettere sull’esperienza di dover crescere in una famiglia disfunzionale, a diretto contatto con l’eccentricità della follia. Avere un genitore diverso dagli altri può causare sbandamento nei ragazzi, che però possono fare tesoro degli insegnamenti che una tale situazione può portare. “Il piano di mia madre – ammette Maya Forbes – appariva bizzarro. Mia sorella e io eravamo furiose e ci vergognavamo del modo in cui vivevamo. Eppure, alla fine, ha funzionato. Siamo diventati una famiglia, anche se molto particolare, come tante altre famiglie là fuori, che sopravvivono in maniere non convenzionali”.

Clara Martinelli

 

Cinema: “Una storia sbagliata” di Gianluca Maria Tavarelli parla di amore e di guerra

una storia sbagliata“Una storia sbagliata” di Gianluca Maria tavarelli è un film drammatico, che si muove tra un amore tormentato e una guerra ancora più complicata. Il conflitto è quello iracheno, a causa del quale le vite di Stefania (Isabella Ragonese) e Roberto (Francesco Scianna), giovani sposi, con il desiderio di avere un figlio,  si dividono. Vivono a Gela, lei è infermiera, partecipa attivamente alla protesta contro l’inquinamento ambientale generato dall’industria, che ha provocato tumori e malformazioni nella popolazione infantile. Lui è un militare in missione a Nassirya. Pensano entrambi ad un’esistenza come tante divisa tra lavoro, famiglia e una nuova casa. Fino a quando Stefania non nota in Roberto un cambiamento, che si fa sempre più evidente ogni volta che il marito ritorna dalla missione. Ha uno strano presentimento e lo implora di non partire più per quei posti che tanto lo inquietano e non lo fanno più essere lo stesso. Ma Roberto non riesce a stare nella quotidianità che Gela e Stefania gli offrono e decide di tornare in Iraq ancora una volta. Sarà l’ultima, perché resterà  coinvolto in un attentato. Stefania allora, alla ricerca di una verità che non riesce ad accettare, decide di andare coi Medici di Emergenza Sorrisi a Nassiriya (un’associazione che esiste realmente) per operare i bambini iracheni con il labbro leporino. Vuole sapere chi realmente fosse l’attentatore e conoscere la sua famiglia. Agisce,  in gran segreto, aiutata da un giovane iracheno. Una donna, quindi, e il suo dolore che la rende dura e strategica. Stefania, al termine del suo viaggio, comprenderà aspetti di sé che non aveva mai considerato, chiusa nell’ambiente provinciale di Gela. Per la protagonista è un aprirsi al mondo con coraggio e determinazione, misurandosi con qualcosa che è più grande di lei (la seconda guerra del Golfo e le sue conseguenze) e con un mondo, quello arabo, diverso dal suo, ma con un elemento in comune:  le opinioni, le sensazioni delle donne contano poco. Roberto non ascolta Stefania quando gli dice di non partire e anche la moglie dell’attentore non avrà neppure interpellato la sua prendendo la decisione di farsi esplodere.

Clara Martinelli

Al cinema: “Crushed Lives – il sesso dopo i figli” esplora in modo intelligente e divertente i problemi dei neo genitori

A068_C027_1127PEE’ una commedia divertente ed intelligente “Crushed Lives – il sesso dopo i figli”, da oggi nelle sale, diretto da Alessandro Colizzi, che l’ha scritto insieme alla moglie Silvia Cossu, scrittrice e sceneggiatrice. Il film analizza, attraverso alcuni step, cosa succede nella sfera sessuale delle coppie quando arriva un figlio. Quando, appunto, da due si diventa tre, dallo status di coppia si passa a quello di famiglia e il sesso viene meno in conseguenza del fatto che non si è più solo moglie e marito, amanti, ma anche e, soprattutto, madre e padre. Il film è centrato su Saverio (Walter Leonardi), un regista che, per realizzare un film documentario sul “sesso dopo i figli”,  intervista tre coppie. Anche lui ha una compagna (Nicoletta Romanoff), hanno un figlio piccolo e raccontano con gli altri della loro intimità. Per avere un quadro completo, Saverio si rivolge anche ad una prostituta, indicata da uno degli intervistati in un colloquio privato, e fa delle domande anche ad un’esperta del settore, la proprietaria di un sexy shop con oggettistica d’avanguardia. Gli attori, tutti molto bravi, mettono in scena quelle che sono le dinamiche, spesso sottovalutate, che si instaurano quando il tempo da dedicare alla coppia è quasi nullo, perché il nuovo arrivato pretende giustamente le attenzioni della mamma e del papà, anche nel cuore della notte. Tali dinamiche, se non sono frenate in tempo, portano inesorabilmente verso la separazione. Pure Saverio, probabilmente, intraprende il suo viaggio documentaristico, più che per fini professionali, per risolvere problemi suoi e che, a confronto con gli altri, gli appariranno comuni e anche meno seri di quello che sembravano. Alessandro Colizzi e Silvia Cossu che sull’argomento aveva scritto il libro satirico “PATRATAC – il sesso dopo i figli” (da qui l’idea per il film), hanno realizzato con questa pellicola uno spaccato sociologico molto importante che analizza i cambiamenti in atto nella nostra società. Partendo da spunti autobiografici (“Siamo insieme dal ’90, abbiamo due ragazzi di 14 e 12 anni e conosciamo bene le situazioni che raccontiamo”, ha detto Silvia), sono riusciti a far parlare i loro personaggi di argomenti di cui gli interessati non discutono volentieri, mettendoli su un piano comune. D’altro canto, quale coppia con prole non c’è passata?

Clara Martinelli

Cinema: “Fury” di David Ayer, film di guerra e di “formazione”

Fury-Movie-Reviews-2014Uscito nelle sale italiane il 2 giugno, “Fury” , scritto e diretto da David Ayer, è il classico film di guerra. Ambientato nell’aprile del 1945, quando gli alleati erano impegnati a sferrare l’attacco decisivo per liberare l’Europa dal nazismo, il sergente dell’esercito americano Don Collier, soprannominato “Wardaddy” (Brad Pitt) è a capo di un’unità formata da cinque uomini a bordo di un carro armato Sherman, chiamato “Fury”. Stremati, i soldati sono chiamati a svolgere una pericolosa missione proprio nel cuore della Germania nazista. Il granitico Wardaddy, oltre a guidare i suoi soldati, ha anche il compito di “istruire” una recluta giovane ed inesperta, Norman Ellison (Logan Lerman), che gli viene affidata all’ultimo momento. Tra città devastate, esplosioni di ordigni, uccisioni di soldati e civili, il tremante dattilografo ventunenne diventerà un soldato coraggioso e lo dimostrerà affrontando valorosamente con i suoi compagni un intero battaglione nemico in ritirata. Sotto questo punto di vista, potremmo definire “Fury” un film di formazione: prendi un ragazzo che non ha mai sparato in vita sua, mettilo in un posto dove si deve combattere duramente con un mentore come Wardaddy e vedrai che acquisterà consapevolezza della sua forza interiore e delle sue capacità di guerriero. Per il resto è un film che vuole mostrare come la guerra è veramente, senza sconti. Nella spettacolarità e nel pathos presenti nelle azioni, trova posto tutto lo sgomento dei personaggi che è pari a quello degli spettatori, che assistono impotenti a bombardamenti ed uccisioni, come solo una storia di questo tipo può raccontare. Chi guarda prova lo stesso stupore della giovane recluta quando si accorge che a sparare dal fronte nemico ci sono dei bambini arruolati come soldati dall’esercito tedesco, ormai sprovvisto di uomini da far combattere. “Fury” strizza l’occhio alle vecchie pellicole del genere di stampo hollywoodiano, perché non è mai volgare, ma a differenza dei film che l’hanno preceduto non cade in sciocche ideologie ed è ricco di finezze narrative.

Clara Martinelli

 

 

Cinema da non perdere: “Leviathan”

Leviathan_(film_2014)Uno dei film più potenti e più riusciti in circolazione in questo momento è “Leviathan”, scritto e diretto dal russo Andrey Zvyagintsev. Palma d’oro al Festival del Cinema di Cannes dell’anno scorso,premiato con il Golden Globe come miglior film straniero e candidato all’Oscar per la Russia, il film, ambientato in un villaggio vicino al mare di Barents, ha come protagonista Kolia (Alexey Serebryakov), proprietario di un’officina dove ripara macchine. Vive nella vecchia casa dove è nato, ha un figlio adolescente, Roman (Sergey Pokhodaev), nato da un matrimonio precedente, e una giovane moglie, Lilya (Elena Lyadova). Kolia ama la sua terra, la sua casa. la sua famiglia con tutto se stesso e non rinuncerebbe a loro per niente al mondo. Ma il destino gli è avverso. Il sindaco corrotto del villaggio Shelevyat, appoggiato dal sacerdote locale, gli offre seicentomila rubli per comprare tutto con l’intenzione di costruire una chiesa sul suo terreno. Kolia ovviamente non è d’accordo, cerca di opporsi in ogni modo, anche facendosi aiutare da un suo vecchio amico avvocato da anni residente a Mosca.  Il sindaco allora diventa sempre più aggressivo e decide di usare metodi poco ortodossi per far cambiare idea a quell’uomo tanto ostinato.  In un crescendo di minacce e disavventure, Kolia sarà costretto a soccombere alle mire dello Stato leviatano. Il film, che fa riferimento all’opera del filosofo Thomas Hobbes “Leviathan” (1651), con la sua atmosfera dostoevskiana della vita, è la storia del conflitto universale tra individuo e autorità, degli umili soli e perdenti nei confronti di un potere istituzionalizzato e forte. Una sceneggiatura possente, i dialoghi serrati, gli attori straordinari e i paesaggi mozzafiato fanno di “Leviathan” un capolavoro. Da non perdere.

Clara Martinelli

Nel nome del figlio

Tre film, attualmente nelle sale, parlano delle scelte che l’attesa o la nascita di un figlio costringe a fare sia individualmente che nella coppia. Il primo è “Ho ucciso Napoleone”, diretto e scritto da Giorgia Farina con Federica Pontremoli, ha come protagonista Anita (Micaela Ramazzotti), donna in carriera, licenziata perché rimasta incinta del suo capo (Adriano Giannini). Razionale, fredda, completamente dedita al suo lavoro, in un primo momento pensa di rinunciare al bambino. Poi, per calcolo, decide di tenerlo. Ma, andando avanti con la gravidanza, e, con l’aiuto di figure femminili che le faranno scoprire la solidarietà tra donne, Anita acquisirà una nuova consapevolezza, facendo venire fuori la parte più morbida e materna di se stessa, tessendo un nuovo modo di vivere. In questo caso, la nascita è servita alla madre a svelarle i lati più reconditi del suo essere e ad accettarli.

Il secondo film che prendiamo in considerazione è “Second Chance” di Susanne Bier. In questa storia i neonati presenti sono due, figli di coppie totalmente diverse tra loro. Una sembra serena come una famiglia borghese può essere. Marito poliziotto e padre amorevole, moglie benestante e accudente. Altra coppia, altro scenario. Lui manesco e spacciatore, lei prostituta. Entrambi tossicodipendenti. La casa dove vivono è piccola, sporca e fatiscente, il loro bimbo di pochi mesi sopravvive abbandonato a se stesso, mentre i suoi genitori si fanno di eroina. Il poliziotto, amico d’infanzia del padre, irrompe nella loro vita a causa della segnalazione da parte di un vicino, esasperato dalle grida. Nel sopralluogo, l’uomo trova il bambino coperto di feci e chiuso in un armadio. Pensa a suo figlio, amato e protetto, e chiede che il neonato venga sottratto ai genitori. Ma la legge non lo consente, perché il bimbo è sano, non denutrito. Tutto cambia quando, qualche giorno dopo, la brava moglie borghese trova il figlioletto morto nella culla e la follia prende il sopravvento in quella che, all’apparenza, sembrava una coppia equilibrata. Anche in questo caso, la nascita, anzi le nascite di due bambini cambieranno le carte in tavola ad un destino già delineato, facendogli prendere una piega diversa.

Il terzo film, infine, è “La scelta”, scritto e diretto da Michele Placido, liberamente ispirato al testo teatrale “L’innesto” di Luigi Pirandello. Laura, interpretata da Ambra Angiolini, e Giorgio, impersonato da Raoul Bova, non riescono ad avere figli. Anche qui, l’ambiente è quello borghese, lui proprietario di un ristorante, lei insegnante di musica. Una vita fatta di serate con parenti e amici, tutto filerebbe liscio se non fosse per il mancato annuncio di una gravidanza. Ma ecco che l’imprevedibile è in agguato. Una sera, tornando a casa, Laura subisce uno stupro e rimane incinta. Il bimbo tanto cercato è arrivato in modo non convenzionale. Cosa fare? Per Giorgio è difficile accettare un figlio non suo, concepito con una violenza. Per Laura, dopo un primo momento di smarrimento, sente che la vita che si sta formando dentro di lei le appartiene e decide che vuole tenerlo. Un’altra attesa, un’altra nascita che costringe ad un cambiamento, una metamorfosi, a superare i propri egoismi e ad accettare i propri limiti. E anche a prendere coscienza che si diventa altro quando una nuova vita irrompe nella nostra ordinata e predisposta esistenza.

Clara Martinelli

L’attentato di Clara Martinelli

556759_545250772191425_1139790180_nE’ con timidezza e con orgoglio che vi suggerisco il libro d’esordio di Clara Martinelli. Con timidezza e orgoglio perché è la moglie di mio figlio e la madre di mia nipote. E’ una persona di famiglia, non per “acquisizione” ma per l’amore che ci lega e “muove”, insieme. Il libro, soprattutto, l’ho trovato un lavoro molto interessante e mi auguro che sia solamente il primo di tanti altri…
Gabriele

L’ATTENTATO
E’ una mattina di luglio. In una metropoli, dieci persone si preparano per andare a lavorare o per iniziare una nuova giornata. Nove di loro abitano nello stesso palazzo: Ester, Roger e Paul al terzo piano; Hugh, Rose e Jack al secondo; Robert, Scarlett e Jesse al primo. In uno stabile di fronte vive Kate, che ha la mania di osservare le vite degli altri. Ognuno custodisce dentro di sé un segreto o una questione lasciata in sospeso. Tutti saranno coinvolti in un attentato sotto la metropolitana

QUESTO IL LINK…
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