Per nessun altro…

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema per la ragione,
troppo forte per la fantasia.
Sei stata saggia a svegliarmi. E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e storia le favole.
Entra tra queste braccia. Se ti sembrò
più giusto per me non sognare tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

Come un lampo o un bagliore di candela
i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Così (poichè tu ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
che conoscevi i miei pensieri meglio di un angelo,
quando interpretasti il sogno, sapendo
che la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, devo confessare
che sarebbe stato sacrilegio crederti altro da te.

Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora che ti allontani
dubito che tu non sia più tu.
Debole quell’amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce
sono prima accese e poi spente, così tu fai con me.
Venisti per accendermi, vai per venire. E io
sognerò nuovamente
quella speranza, ma per non morire.

John Donne

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O labbra, labbra disunite e bianche

O labbra, labbra disunite e bianche
nel valore del pianto penitente,
labbra disunite dentro il bacio
in tenera protesta di follia,
o labbra senza tempo
che avete amato un uomo,
labbra senza perdono
ponete la protesta fuori da una finestra.
O labbra della Vergine divina
che cantan l’Angelo che ormai si avvicina,
è pronto il gran segreto,
vengo meno a un divieto.

Alda Merini

 

 

La tomba di Edgar Poe

Quale in Lui alfine l’eternità lo muta,
il Poeta risuscita con una spada nuda
il secolo spaventato di non aver compreso
che la morte parlava in quella voce strana
Essi, in vile sussulto di idra che ha udito l’angelo
dare un senso più puro alle parole della tribù,
proclamarono altissimo il sortilegio bevuto
nel flutto senza ombre di qualche nero miscuglio.
Del suolo e della nube ostile, o folle colpa!
se la nostra idea non fa un bassorilievo
di cui la tomba di Poe abbagliante si adorni,
calmo blocco caduto da un disastro oscuro,
questo granito almeno mostri il confine
ai neri della Bestemmia voli sparsi al futuro.

Stephane Mallarmè

Felicità e solitudine

“La vera Felicità è impossibile senza la Solitudine. Probabilmente l’angelo caduto tradì Dio perché desiderava la Solitudine, che gli angeli non conoscono”.

Anton Cechov

[Ed io ho trascorso un anno folle]

Amici cari,

vi propongo, oggi, questa lirica del poeta russo Aleksandr Blok (San Pietroburgo 1880-1921):

 [Ed io ho trascorso un anno folle]

[…]

E, raggiungendola, con nuovo ardore
le sussurro tenere parole,
mi prendono di nuovo le vertigini…
Rischiarato da un lontano incendio,
io sto dinanzi a lei come una belva…
Sbatte la porta a vetri spalancata, –

ed entriamo nel grembo della notte,
come in una ripida voragine…
Delirio. E oscurità. Brillano gli occhi…

Tumulto di attimi. Fulgido sogno.
Frenesia di abbracci inconcludenti,
e squilli di campane mattutine:
alla finestra gli angeli si affollano
a schiere dietro la tenda compatta,
ma con noi è la notte – ubriaca, irruente.

Sì! La notte è con noi! Quella del giorno
con un nuovo potere ora ci avvince,
perché il giorno estenuato si consumi
tutto nella passione tormentosa, –
e lunghe ore, lunghe ore su di noi
la notte echeggia, sventolando le ali…

E di nuovo è la sera…

Aleksandr Blok, in “POESIE D’AMORE DEL NOVECENTO”, Oscar Mondadori, 2008.

A proposito di Angeli

Un estratto di grande impatto da “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. Aspetto le vostre considerazioni. Buona giornata!

“Un angelo”

Carissime amiche e carissimi amici,

vi propongo uno delle “immagini” che sento interiormente di più. Si tratta di  “Un angelo” di Fernand Khnopff del 1889. Cosa “apre” dentro di voi?

L’Angelo

L’uomo non sia indegno dell’Angelo

la cui spada lo protegge

da quando lo generò quell’Amore

che muove il sole e le stelle

fino all’Ultimo Giorno in cui rimbomba

il tuono nella tromba.

Non lo trascini ai rossi lupanari

né ai palazzi che eresse la superbia

né alle taverne insensate.

Non si abbassi alla supplica

né all’obbrobrio del pianto

né all’illusoria speranza

né alle misere magie della paura

né al simulacro dell’istrione;

l’Altro lo osserva.

Ricordi che non sarà mai solo.

Nel clamore del giorno e nella notte

quell’incessante specchio è testimonio;

non ne incrini una lacrima il cristallo.

Signore, alla fine dei miei giorni sulla Terra

non abbia offeso l’Angelo.

Jorge Luis Borges

Sono morto

Sono morto come minerale e come pianta sorto.
Sono morto come pianta e ancora risorto come animale.
Sono morto come animale e risorto come uomo.
Perché temere allora di divenire meno morendo?
Ancora una volta morirò come uomo.
Per risorgere come un angelo perfetto dalla testa
alla punta dei piedi.
Ed ancora quando da angelo soffrirò la dissoluzione
Io muterò in ciò che supera l’umano concetto.

Mevlana Jalaluddin Rumi

Un piacere nuovo

Un giorno scoprii un piacere nuovo e proprio mentre lo sperimentavo, un angelo e un diavolo si incontrarono alla mia porta e subito si diedero battaglia; l’uno asserendo che il mio piacere di nuovo conio era un vizio e l’altro una virtù… e ancora combattono.
Seneca

“La mia è una donna favolosa”

Oggi invece il post lo regala Valeria. Attenti. Leggete bene.

Quest’uomo invece dice:

“La mia è una donna favolosa” – ( Salvatore Toma – da “Canzoniere della morte”, Einaudi, Torino, 1999)

Vorrei ficcarmi le dita / allo stomaco /
spaccarmi le costole / spezzarle con grandissimo dolore / aprirle
so che non verrebbero fuori / visceri fegato cuore
verrebbero fuori / neve alberi fuoco
vento pioggia / perchè io sono fatto così
vegetale e libero.
Io non sono cervello / ossessioni inibizioni
società paure
Io sono vita / vita libera
libertà foreste / gioia di esistere.

La mia / è una donna favolosa.
In nessuna parte / del mondo avrei potuto
trovare un simile mostro / di pazienza e di amore.
La mia / è una donna favolosa.
Pur di non perderla / rinuncerei ai miei versi.

Lo sbagliato sono io / non c’è che dire
non occorre perciò illudersi / tacitarsi con metodi
d’appendice usuali / il caso le fantasie le occasioni…
o ridursi a un sono fatto così / ma è successo
che un angelo sbandato / e io non so farlo felice.

E’ disperata / per questo mio modo
naturale / (ma sarà poi vero?)
di vivere la vita / (ma sarà poi vera?)
mi tenta l’idea / di spingere il tormento
di sfiorare la pazzia / gonfiando l’assurdo /
a dismisura.
E’ una gara irresistibile / e tremenda
dove il perdente / è evidente.

Ricordo la sua dolcezza / i primi tempi
faceva vergognare il paradiso /
le sue dita sul mio corpo / erano lentissimi ragni
non c’era parte che lei / non avesse esplorato
baciato / stretto a sé.
Darei tutto / perchè oggi si ripetesse
quel tessersi dolcissimo / di carezze di sguardi
di tremiti / oggi ridotti a un tollerarsi /
con violenza con rabbia con ingiurie.

Che cosa si può fare / per tornare indietro?
ringiovanire dimenticare / invecchiare illusi alla rovescia / riproporsi…
Non che io voglia ringiovanire / per rivedermi di nuovo ragazzo / magro e forte
Vorrei ringiovanire / per quelle mani / per quel suo frusciare in un corpo / come un rinascere.
Aveva gli occhi / marrò dolcissimi stremati
una volta lucenti come acqua / io avevo altri amori.

Facciamo ancora l’amore / una cosa ormai meccanica / dopo ci si lava (per la verità si lava lei)
ma i baci / i baci sono rabidi / serrati come un morso.
Un tempo erano piume / sofferti come vento estivo.
Eppure qualcosa / ci deve essere / che si può fare
qualcosa di mai tentato.
Si ritrovano civiltà perdute / statue sui fondali / brocche monili / come posso ritrovare / il mio passato se non è sottoterra / e non è sepolto in mare?
Il guaio è che è dentro di me / dove non mi posso tuffare.
E’ il passato / non è la morte / che mi fa paura
è il passato / che è più funebre e più funesto
del buio in una bara / è il passato che mi dilania
questo essere stati senza possibilità di ripetersi / di dirle una parola…

(Non finisce quì ma a questo punto, ogni volta che rileggo la lirica, mi domando cosa dice l’angelo per far tacere il vecchio burbero e sedicente esistenzialista. Forse gli da un bacio sulla fronte e gli sussurra in un orecchio: – Vado a prenderti la pastiglia. Calmati, sono quì! –
Cosa aspetta a volare via?… Non ho risposte! Sta lì perchè tanto ormai è tardi e avrà tempo per volare? L’ho sempre visto lì, quell’angelo, ad aspettare che il suo uomo trovi una risposta alle sue domande. Paziente, incurante del tempo che è passato e che è rimasto. Senza tempo! Proprio bello e umano l’angelo che traspare tra le righe!)

La Grande Madre — Dove si va a vedere la città incantata, Heidelberg, dove si scopre un segreto di una grande studiosa e dove si arriva a Shakespeare e compaiono i Rosacroce

Heidelberg appare sul fiume Neckar nel Baden-Württemberg, il celebre Palatinato. “Appare”, sì, perché è come un’epifania, al di là del corso d’acqua con il centro storico che inizia dal ponte vecchio e termina nei boschi, nei giardini alla fine dell’abitato. Sulla destra, per chi guarda da fuori del paese, c’è il castello con il palazzo di Federico e tutt’intorno la natura che entra ancora oggi nelle case e nei palazzi come un unico tessuto vivente. Heidelberg è un corpo unico, anzi, è materia vivente. Da qui la sua malia che terrorizzò Heinrich Böll, visitato da incubi cattolici. In un suo racconto tutti rimproverano al giovane protagonista: «Vai troppo spesso a Heidelberg». Glielo dicono la fidanzata, i genitori e i professori, ovvero tutte le forze che simbolicamente “costringono” la vita di un giovane borghese in un ambito di “correttezza”, cioè di prigionia dorata. In verità le persone retrive provano una spontanea repulsione per questo luogo. Non fa per loro. È come uno di quei miti, di cui parla Hillman, circondati da un’aura energetica invisibile che allontana le anime brute. La città di Federico ed Elisabetta è stata concepita e voluta come il paradiso in Terra, come luogo ideale, un po’ come Pienza di papa Enea Silvio Piccolomini, solo molto più in grande. E un microcosmo che rappresenta l’infinita armonia dell’universo. Il castello, eretto sul luogo dove viveva Jetta, la maga più celebre di Germania, è la testa pensante. Il paese è il corpo armonioso e i giardini sono le terminazioni nervose, le vene, le arterie e i sentimenti. Questi sono meglio noti come l’Hortus Palatinus, e furono commissionati dallo stesso Federico V all’architetto e alchimista francese Salomon de Caus, che ha realizzato un miracolo di proporzioni e di dolcezza distribuito su cinque terrazze collegate da numerose scale e fontane. Una sensazione di benessere pervade chiunque li attraversi. E pensare che quello che è rimasto è nulla rispetto al progetto originale. Immaginiamoci il suo splendore all’epoca di Federico ed Elisabetta. I due sposi giunsero nella città nel 1613 e trasformarono il borgo fortificato in uno scrigno tardo rinascimentale. Via bastioni, merlature, garitte e trincee inutili. Al loro posto costruzioni che ripetevano in Terra il periodare eterno delle stelle. Così nacque il Friedrichsbau, la dimora di Federico che si affaccia nello stesso cortile dove c’è l’Ottheinrichsbau, forse il palazzo rinascimentale più completo, in senso ermetico, dell’intera germanità. Un intreccio di mitologia e concezioni filosofico-ermetiche che proietta il visitatore in una dimensione di riflessione tutta interiore. L’esterno porta all’interno. Conduce nei giardini dell’anima e in questo stato psicologico può accadere di tutto. Successe così anche a me.
Provenivo dall’Hortus, dove ciò che avevo osservato era coniugato con quanto avevo letto sul primitivo splendore del giardino, mirabilmente descritto da Frances Yates nel suo L’Illuminismo dei Rosacroce. Tra le siepi vedevo con l’immaginazione le statue che cantavano e le fontane che cambiavano colore secondo il progredire delle costellazioni zodiacali. Così mi figuravo la vita della città ideale dove arte, filosofia ed ermetismo si intrecciavano come in una sublime partitura musicale. Imbevuto di sogni avevo imboccato il sottopassaggio che si incuneava tra le torri “delle polveri” e “del farmacista” ed ero sbucato davanti ai resti del palazzo di Federico, deturpato da un incendio appiccato dagli sgherri degli eserciti cattolici dopo che ebbero conquistato la città nel 1620. Ma forse le rovine erano ancora più suggestive. Il non visto mi suscitava fantasie rutilanti e improvvisamente mi venne in mente una frase che avevo letto in un altro testo della Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare. La studiosa, parlando della morte di Enrico, il fratello di Elisabetta, aveva scritto testualmente: «Il 17 novembre 1612, appena un mese dopo l’arrivo [a Londra] dell’elettore palatino, il principe Enrico moriva a diciannove anni. L’elettore aveva circa la stessa età, la principessa Elisabetta era minore di poco. Il gruppo dei giovani, la speranza del futuro, aveva ricevuto un colpo schiacciante. Il loro più forte campione era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». Apparentemente nulla di strano in queste parole. Eppure in me provocarono una folgorazione.
Ecco perché.
«…era stato allontanato, del tutto inaspettatamente e all’improvviso, dal palcoscenico di questo mondo, sul quale non aveva ancora recitato la sua parte». La Yates, studiosa di rigore, attentissima a ogni parola, adoperava una terminologia teatrale: “palcoscenico”… “recitato la sua parte”. Perché improvvisamente e volontariamente usava queste parole “fuori luogo”? Mi sovvenne anche una affermazione di James Hillman relativa proprio alle parole riportate nei Fuochi blu. Lo psicanalista scrive: «Abbiamo bisogno di una nuova angelogia delle parole… Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di un’anima tra una persona e l’altra. Abbiamo bisogno di ricordare che le parole non sono solo qualcosa che noi inventiamo o impariamo a scuola… le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile… perché le parole sono persone». Le parole-persone della Yates rimandavano al teatro. Questo era il messaggio nascosto della Yates, questi erano e sono gli angeli che la studiosa di filosofia ermetica ha occultamente mandato attraverso il suo libro. Mai prima di quel momento, in tutti i suoi scritti, si era servita di termini teatrali; se l’aveva fatto in questo preciso contesto, continuavo a rimuginare freneticamente, doveva avere un senso e volevo scoprirlo. Bisognava capire il perché di questo messaggio inviato nella “bottiglia” del libro. E mi vennero in mente alcune connessioni. Elisabetta e Federico, prima e dopo la morte del principe Enrico, furono in contatto con Shakespeare, uomo di teatro e inoltre i Rosacroce nei loro “manifesti”, la Fama e la Confessio, definiscono se stessi “teatranti”.
Una folgorazione dentro la folgorazione. Erano in tre a usare termini teatrali: Shakespeare, e fin qui nulla di strano, quindi i Rosacroce, e poi, in maniera alquanto sconcertante, la Yates nella descrizione di Enrico morente e del dolore di Federico ed Elisabetta.
La Yates non era certo tipo da usare le parole a caso e impunemente. Quindi voleva che qualcuno – e chissà in quanti l’hanno fatto al mondo e non dicono nulla – collegasse appunto Federico, sua moglie Elisabetta con Shakespeare è tutti loro con i Rosacroce. Il punto era capire il perché di questa arcana trama che la ricercatrice inglese aveva gettato nel suo libro. Esattamente come un ricamo invisibile tracciato “con sapienza” sulla stoffa del suo telaio Femminile.
Ho esaminato con molta attenzione la questione, e adesso propongo di seguire il filo che ho individuato nella tela della Yates per capire, o solo per tentare di capire, l’enigma gettato da lei come una sibilla “mascelle feroci”, che appunto non dice, come afferma Giorgio Colli, ma accenna appena. Occorre ripartire da quegli anni lontani, dal 1613. Dallo sfondo umbratile dove compaiono i personaggi che erano presenti alle nozze dell’elettore del Palatinato con la figlia del re di Inghilterra e che furono loro vicini nei sette anni, dal 1613 al 1620, in cui trasformarono Heidelberg nella città degli incantesimi e della speranza.
La vollero paese-crogiuolo dove ermetismo, filosofia, scienza, natura, riti e simboli indicassero ossessivamente, per tutto il tempo che ne ebbero il potere, lo stesso concetto e utopia: questo è il regno dell’accoglienza, dell’accettazione, dell’immaginario, della tolleranza. Questo è il regno del Femminile.
Ma nel frattempo sarebbe lecito domandarsi: se Federico ed Elisabetta sono stati così espliciti, ed erano tempi difficili, perché non lo è stata altrettanto la Yates?
I due giovani sposi avevano il potere. Mentre le donne, da sempre, sono costrette a nascondersi per affermare il loro mondo. Devono abbindolare e tessere in segreto. Altrimenti arrivano “i padri” supponenti che deridono e, deridendo, distruggono. La Yates si è “protetta”, ma non ha rinunciato ad “accennare”. Dobbiamo imparare a leggerne la trama.

Nell’Interiorità di Anima — “Demoniaco”…

Ognuno di noi è portatore di una naturale polarità e ambivalenza – luce e oscurità – che è tensione all’interezza. Il demoniaco è un impulso naturale, presente in ogni essere, un bisogno di affermazione dell’individuo che, tuttavia, non deve prevaricare su ogni altro aspetto del Sé esprimendosi in un’eccessiva ostilità, aggressività o ferocia, ossia gli aspetti di noi stessi che maggiormente suscitano il nostro orrore e che noi rimuoviamo e proiettiamo sugli altri. La nostra vita è un flusso che oscilla tra questi due aspetti del demoniaco. Rimuovere il demoniaco, che è fonte di creatività, comporta l’insorgenza di un’apatia e di una conseguente dis-integrazione personale e interpersonale.

Demoni e angeli

Nell’epoca ellenistica e, successivamente, in quella cristiana, il dualismo fra i il bene e l’aspetto negativo del demoniaco divenne più pronunciato. Si cominciò così ad avere una popolazione celeste separata in due campi: i demoni e gli angeli, i primi schierati con Satana, i secondi alleati di Dio… Ha inizio così il problema avvertito da Rilke: se i demoni vengono scacciati anche gli angeli spiccano il volo.

Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, 1971, pag. 137

Demoniaco (1)

Il demoniaco è connesso all’eros piuttosto che alla libido o al sesso in quanto tali… Il demoniaco lotta contro la morte affermando incessantemente la propria vitalità e non accetta alcuna gara né alcun’altra regolamentazione temporale della vita… non si arrende di fronte a nessun “rifiuto” razionalmente motivato e sotto questo aspetto esso è nemico della tecnologia: non accetta né gli orari, né le tabelle cronometriche, né le linee di montaggio che noi invece accettiamo come robot.

Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, 1971, pagg. 126-127

Demoniaco (2)

Quanto più riusciamo a venire a patti con le nostre tendenze demoniache tanto più ci riscopriremo come esseri che concepiscono una struttura universale della realtà e vivono entro di essa. Questo movimento verso il logos è transpersonale. Vediamo allora che noi muoviamo da una dimensione personale ad una transpersonale della coscienza.

Rollo May, L’amore e la volontà, Astrolabio, 1971, pag. 176