“Il rimedio è la povertà”

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni…”

Goffredo Parise

Per l’articolo completo, ecco il link:

https://prismi.wordpress.com/2013/11/09/il-rimedio-e-la-poverta-di-goffredo-parise/

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Riconoscimento dell’alterità dell’altro

“Nella struttura della famiglia circola spesso un improprio aggettivo possessivo che fa dire all’uomo “mia moglie”, alla donna “mio marito”, a entrambi i genitori “mio figlio” o “mia figlia”, quando nella relazione tra individui che hanno deciso di condurre una vita insieme, e insieme di generare, di “mio” non dovrebbe esserci proprio nulla. Infatti l’unica condizione perché nel nucleo familiare possa circolare l’amore è il riconoscimento dell’alterità dell’altro, e non la sua percezione limitatamente a come io vorrei che fosse, con conseguente negazione della sua individualità, e sua riduzione a semplice soddisfazione dei miei desideri o delle mie aspettative. Questo principio vale innanzitutto per tutte le persone che un giorno hanno deciso di condividere la loro esistenza, perché ciascuno dei due aveva incontrato un “altro” che l’aveva affascinato per la semplice ragione che esprimeva ciò che mancava alla propria personalità. E solo rispettando questa alterità l’altro può continuare a incuriosirmi e affascinarmi, mentre se dell’altro vedo solo ciò che risponde alle mie esigenze  ripiombo nella solitudine della mia individualità.
La noia che connota molte relazioni di coppia è dovuta proprio a questa soppressione dell’alterità dell’altro, alla sua riduzione a qualcosa di “mio”, che più non mi consente di incuriosirmi dei pensieri, dei sentimenti, delle sensazioni, dei vissuti che non coincidono con i miei. La conseguenza è la svalutazione, la disattenzione, il disinteresse per tutto ciò che l’altro esprime di diverso di quel che penso e sento io, e il progressivo irrigidimento nelle proprie convinzioni che servono solo a erigere dei muri d’incomprensione.
[…]
Questa mancanza di rispetto dell’alterità dell’altro spesso si esercita anche nei confronti dei figli, a causa di un fraintendimento radicale del concetto di educazione, che non significa condurre i figli ad assecondare le nostre aspettative, ma accompagnarli nella scoperta della loro natura che, per il fatto che sono nati da noi, non significa che coincida con la nostra […]”.

Umberto Galimberti, D la Repubblica

Su Dante e Benevento

Realt. Sannita n. 15/2015 Gabriele La Porta Egidio Senatore

Carissimi amici,

condivido con voi l’articolo che ho rilasciato a Nicola Mastrocinque in occasione del convegno che abbiamo tenuto a Benevento.

Un abbraccio!

“Ognuno si educa da solo”

Essere buoni o cattivi è una scelta cosciente di ognuno di noi. Si dice che chi ha subito la violenza durante l’infanzia diventa cattivo. Non è vero.
Ognuno si educa da solo, ogni giorno, e centomila volte durante la propria vita”.

Herta Muller dall’intervista a D – la Repubblica

Cinema e follia

“Noi del cinema siamo carta moschicida per chi ha problemi mentali, piacciamo moltissimo ai matti. Sul set si avvicinano sempre, abbiamo una lingua comune, ci intendiamo… I ragazzi problematici sono affascinanti, hanno una fantasia non frenata dalla ragione, sono le uniche interlocuzioni che mi arricchiscono, le persone ragionevoli diventano presto di una noia mortale”.

Pupi Avati (intervista “Il venerdì” di Repubblica)

L’intervista / Viaggio attorno alla psiche a bordo del “Dsm-Cinema”. Lo psichiatra Massimo Lanzaro raccoglie le sue “cinepsicorecensioni” in un libro che aiuta a conoscere se stessi attraverso i film

“La psichiatria e il cinema hanno in comune il tentativo (con intenti ed approcci ovviamente diversi) di comprendere, spiegare e prevedere, seppure nella maniera frammentaria che ci consente la vastità e il mistero dell’anima, i sentimenti, i comportamenti, le emozioni e più in generale le vicende umane”. Al Velino parla Massimo Lanzaro, psichiatra napoletano classe 1971, che ha appena pubblicato la raccolta di saggi “Dsm-Cinema. I film che spiegano la psiche” (attualmente sulla piattaforma editoriale Lulu al seguente indirizzo http://www.lulu.com/shop/massimo-lanzaro/dsm-cinema/paperback/product-21578089.html;jsessionid=70A4F8DE17BD32095369FDB868A75B57, in distribuzione globalREACH e presto reperibile su Amazon.it). Il titolo del libro gioca sulle parole del “Dsm-V”, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che è stato pubblicato in Italia in questi giorni (era in programma il 10 aprile 2014). “L’idea del libro – racconta il dottor Lanzaro che scrive di cinema su ilquorum.it – mi è venuta in mente alla conferenza stampa di un film, in cui il regista raccontava la sua opera mentre a me era sembrato di aver visto, per così dire, praticamente tutt’altro! Ho pensato che in effetti la stessa narrazione potesse essere inquadrata con una chiave di lettura differente e magari completamente ignota al regista (ma forse non agli sceneggiatori?). Mi ispiro ai criteri diagnostici del Dsm, che si dice dovrebbero essere usati con cautela in clinica, non certo come ‘una bibbia’, quindi con ancor più cautela quando si usano per rispecchiare il cinema. Insomma le mie riflessioni vanno intese cum grano salis”.

Con il dottor Lanzaro ci addentriamo nel cinema di oggi per avvicinarci al mondo della psiche. Ecco alcuni film da vedere o rivedere. “Chi ha sentito parlare di una diagnosi, ad esempio, di ‘Sindrome di Asperger’, può vedere ‘Zoran’ e farsi un’idea più precisa di cosa sia, al di là dell’ ‘etichetta’ – osserva lo psichiatra -. In ‘Reality’ di Garrone vengono fotografate alla perfezione alcune distorsioni che portano sovente alla stigmatizzazione, non riconoscimento, minimizzazione di problemi legati alla sofferenza psicotica, che se curati tempestivamente potrebbero essere risolti o quanto meno gestiti meglio. E di cui lo spettatore medio probabilmente ignorerebbe l’esistenza anche dopo aver visto il film. In ‘Supercondriaco’ anche un cinefilo potrebbe non sapere che il protagonista in realtà soffre di una sindrome ossessivo-compulsiva con rupofobia e non di una ‘semplice ipocondria’. Ozpetek nel recentissimo ‘Allacciate le cinture’ descrive le fasi di reazione alla perdita secondo il modello di Kübler-Ross. Altri esempi: parlo di stalking tramite ‘L’inferno’, diretto da Claude Chabrol, un film non certo recentissimo; dei meccanismi psicologici dell’abuso e dipendenza da internet e cyber-porn in ‘Don Jon’; passando per l’inquietudine, labilità affettiva e depressione disforica di ‘Blue Jasmine’”.

“Dsm-Cinema” è un libro per trovare se stessi dedicato ai cinefili? “Forse un po’ si – risponde lo psichiatra -. In sintesi, i fenomeni della mente vengono definiti dai manuali più accreditati in base alla prevalenza di determinati vissuti e comportamenti osservabili e descrivibili, senza paradigmi di spiegazione. A ben vedere è possibile fare lo stesso guardando un film, ad esempio sondando i dialoghi ed i comportamenti di ciascuno dei protagonisti. E sviluppando questo metodo è possibile trovare tracce di se stessi: nel processo di coinvolgimento quando guardiamo un film emergono contenuti e meccanismi inconsci che possono rivelarsi un materiale prezioso per la loro amplificazione, alla stregua di sogni e fantasie. Il cinema (la sala cinematografica) è in fondo come un piccolo utero, dal buio del quale abbiamo spesso la possibilità di ‘uscire’ in parte trasformati, a volte quasi un po’ rinati”. Ma “Dsm-Cinema” non è solo per cinefili. “Può interessare – aggiunge il dottor Lanzaro – a chi si avvicina al cinema come strumento di dibattito, riflessione e consapevolezza, anche se fosse a digiuno dei rudimenti di tecnica o storia del cinema. Jodorowsky dice: ‘Non mi piace l’arte che serve solo a celebrare il suo esecutore. Mi piace l’arte che serve per guarire o per espandere la mia coscienza’. Penso proprio che la settima arte possa rientrare in questo genere di discorso…”

Il dottor Lanzaro ha coniato il termine “cinepsicorecensione”, la definizione? “È il tentativo di fornire una chiave di lettura filmica che non sia necessariamente interpretativa (e complicata), come quella ancora in voga tra alcuni freudiani, lacaniani, post-freudiani etc. – spiega lo psichiatra -. Ad un primo livello provo ad analizzare se possibile il processo psicologico che un film descrive, in maniera semplice e fornendo i relativi riferimenti letterari allo stato dell’arte”. Attualmente le sue “cinepsicorencensioni” sono ospitate anche dal blog del Prof. Gabriele La Porta, filosofo, conduttore radiotelevisivo, già direttore di Rai2 e RaiNotte. Ha mai pensato di fare delle “cinepsicorecensioni” un programma radiofonico settimanale? “Si, ma questo progetto non dipende esclusivamente da me…”.

Da “D la Repubblica”: i giovani oggi

“[…]  Oggi che l’unico valore egemone nella nostra società è il denaro che tutto può comprare, persino il sesso e il potere, cosa si pensa che possano acquisire e volere i giovani, se non “le belle cose”, come scrive Platone, che sfilano davanti alla caverna dove sono incatenati gli schiavi? E però, come nel mito della caverna, uno schiavo si libera dalle catene, esce dall’antro e prende a guardare e ad ammirare le “cose vere”. E’ un percorso difficile, che avviene in solitudine, accompagnato dal riso e dal disprezzo di quanti dalla caverna non sono usciti, rassicurati dalla loro prigionia. Una prigionia, che, al pari degli schiavi di cui parla Platone, i giovani di oggi non avvertono come schiavitù, perché le catene sono dorate e luccicanti. E perciò pensano di essere, più degli altri, all’altezza dei tempi, perché hanno lasciato alle spalle libri e cultura, impegno e rispetto. Valori d’altri tempi, anche se verrà il giorno in cui avvertiranno il vuoto che li circonda e il nulla in cui orientarsi. Ma resta pur sempre il divertimento con cui distrarsi, il vivere il presente in presa diretta 24 ore su 24, anche se nel frattempo la loro vita, vissuta da virtuosi dell’irresponsabilità, si srotola in un esperimento dall’esito incerto”.

Umberto Galimberti

Una negoziazione tra il simbolico ed il sublime. L’arte di Caroline Le Méhauté a Bologna Arte Fiera 2014

Il curatore Alberto Mattia Martini ha detto: “Caroline Le Méhauté, pur non potendo essere annoverata tra gli artisti della Land Art sia per una questione anagrafica che per una contestualizzazione dell’oggetto artistico non solamente finalizzato al naturale, interpreta perfettamente il senso del sublime naturale.”

RISVOLTI PSICOLOGICI

In psicoanalisi (Freud), la sublimazione è un meccanismo che sposta una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta non sessuale o non aggressiva. Questo consentirebbe una valorizzazione a livello sociale delle pulsioni sessuali o aggressive nell’ambito della ricerca, delle professioni o dell’attività artistica. “La macchina psicologica che trasforma l’energia è il simbolo” diceva invece Jung nel 1928.

In una piccola opera dal titolo “Energetica Psichica” affrontò il tema in termini evolutivi rispetto all’opera di Freud, sostenendo che la libido subisce in gran parte una trasformazione naturale (metabolica), ma che in piccola parte può essere dirottata per produrre altre forme. Dal corso naturale delle cose, possiamo sottrarre “energia eccedente” con cui fare un lavoro, produrre cioè oggetti e attività di valore individuale e collettivo.

L’energia vitale espressa da una cascata ad esempio – dice Jung – acquisisce un valore funzionale e non solo estetico, nel momento in cui viene convogliata in una diga e dunque in una centrale idroelettrica. L’energia naturale acquisisce valore nel mondo degli uomini quando, ricondotta in un sistema dotato di senso, viene spinta a fare un lavoro. Lo strumento che Jung suggerisce per distogliere energia dal corso naturale (ovvero per la sublimazione) è il simbolo. Il simbolo è un segno ricco di possibilità interpretative in parte individuali, in parte archetipiche. Il simbolo spinge l’uomo a “dare senso”, deviando il corso naturale dell’accadere psichico.

RISVOLTI FILOSOFICI

Nel 1790, Immanuel Kant, muovendo da una contrapposizione tra estetica del bello ed estetica del sublime, torna su quest’ultimo concetto nella Critica del Giudizio, ampliandolo e distinguendo tra sublime dinamico (espressione della potenza annientatrice della natura, di fronte alla quale l’uomo prende coscienza del limite) e sublime matematico (che nasce dalla contemplazione della natura immobile e fuori dal tempo). Al primo tipo appartengono fenomeni spaventosi quali gli uragani o le grandi cascate, al secondo tipo gli spazi a perdita d’occhio del deserto, dell’oceano e del cielo.

CAROLINE

Ora mi soffermerò su qualche pensiero ispirato da una mia conversazione con la stessa Caroline Le Méhauté, artista francese – vive e lavora tra Marsiglia e Bruxelles – che già vanta numerose esposizioni artistiche internazionali.

La galleria Spazio Testoni di Bologna inaugura la sua prima personale in Italia, che si concentra prevalentemente su un nucleo preciso di opere che in una dimensione di “silenzio”, accentuano una comune matrice e sintesi tematica, che indaga la correlazione che intercorre tra “natura, umano, aria, spazio e terra”.

La stessa Caroline mi spiega che “Négociation rappresenta un peculiare dialogo aperto ad esempio tra fruitore e artista, tra natura e uomo, da cui però traspaiono congiunture politiche profonde”.

A supporto della sua poetica, fatta di levità, concorrono anche i molteplici materiali di cui si avvale nella sua ricerca come: torba, fibra di noce di cocco, metallo, chine, acquerelli, paraffina, pigmenti ed elementi naturali di vario genere, dalle quali prorompe sempre un’energia creativa unica.

Négociation è il titolo che la Le Méhauté assegna praticamente a tutti i suoi lavori: Négociation più un numero, che identifica nello specifico a quale opera si sta facendo riferimento. Il termine Négociation che vede la sua traduzione letterale in italiano con negoziazione o trattativa implica e desidera interazione e reciprocità.

Le decisioni presuppongono sempre una rinuncia o comunque una scelta (anche non scegliere implica una scelta), comportando innanzitutto un dialogo/conoscenza/ascolto con il sé, un’introspezione. Questa dinamica intrapsichica è il punto di partenza della installazione Négociation 59, “décisions sourdes”. Una stanza, una lampada, una sedia e un tavolo interamente ricoperti da torba di cocco. Sullo scrittoio si intravede uno specchio. Chiaramente il simbolismo rimanda ai dialoghi intersoggettivi e successivamente tangibile è l’allusione alla morfogenesi della politica se non della società. Mentre la fibra della natura contempla guardingamente la presenza/assenza dell’uomo.

CONCLUSIONE

La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell’universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell’anima, individuale e collettiva. La sordità, l’incapacità di vedere e ascoltare se stessi, gli uomini e la natura, il tumulto che è solo rumore di fondo, creano  disintegrazione, interiore ed esteriore. E Caroline, con la sua arte, sublima tutto questo nell’hic et nunc, ma in silenzio.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/una-negoziazione-tra-il-simbolico-ed-il-sublime/

Yemen: l’avvocato che aiuta le spose-bambine a ritrovare la libertà

Shada Nasser è una professionista yemenita che in qualità di avvocato si oppone alla pratica, molto diffusa, di far sposare bambine di 8-10 anni a uomini molto più anziani, soprattutto nelle aree più povere dello Yemen. A differenza delle sue connazionali, Shada Nasser ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia borghese e di avere un padre giornalista, difensore dei diritti umani. Ha studiato all’estero ed è diventata una delle prime donne avvocato del paese, specializzandosi nella difesa dei diritti di donne e bambini.

Shada si batte da sempre affinché i genitori non facciano sposare le figlie in tenera età, ma solo nel 2008 ha avuto la possibilità di fare qualcosa di concreto per fermare questa pratica, perfettamente legale. Come tutte le mattine, Shada Nasser si era recata in tribunale per discutere una causa, quando le hanno detto che che una bambina era arrivata senza essere accompagnata dal padre o da fratelli, chiedendo di poter parlare con un avvocato.

La piccola, che si chiamava Nojoud (con lei nella foto sotto) e che all’epoca aveva solo 10 anni, si mise a piangere e disse a Shada che era disperata: il padre l’aveva costretta, a suon di botte, a sposare con un 30enne che la picchiava e la violentava regolarmente. Nojoud voleva il divorzio a tutti i costi e, piuttosto di tornare a casa, si sarebbe tolta la vita. “Quando parlavo con lei, era come se parlassi a mia figlia”, ha raccontato Shada,“l’ho abbracciata e le ho detto: non avere paura, ti aiuterò e riuscirai ad ottenere il divorzio”.

Shada2 150x150 Yemen: lavvocato che aiuta le spose bambine a ritrovare la libertàSembrava una “causa persa” in partenza, poiché legislazione yemenita vieta ad una bambina di chiedere la separazione dal marito prima dei 15 anni, ma, grazie ai suoi contatti internazionali, Shada ha fatto in modo che il processo di Nojoud fosse seguito da giornalisti stranieri e che il mondo conoscesse il problema delle spose-bambine diffuso in tutti i paesi mediorientali. Il processo si è concluso con l’annullamento del matrimonio, anche se il giudice ha imposto a Nojoud di “risarcire i danni” al marito, quantificati in 200 dollari e raccolti grazie a donazioni.

Da allora, altre spose-bambine hanno cominciato a rivolgersi con fiducia a Shada Nasser. Tra le altre, anche Sally che aveva la stessa età di Nojoud e che ogni sera veniva drogata e violentata dal marito. “Preferisco morire che tornare da lui”, aveva detto Sally piangendo, perché quando ha chiesto aiuto al padre, quest’ultimo non poteva restituire al genero la dote di 1.000 dollari e riscattare la figlia e, quindi, l’ha picchiata a sangue e drogata a sua volta per farla restare col marito.

Io non lo chiamo matrimonio. Lo chiamo stupro“, ha dichiarato Shada Nasser. “Nello Yemen, la legge sul matrimonio stabilisce che una ragazza non dovrebbe “dormire” con il marito fino a 15 anni. Ma questa legge non viene applicata. E molti giudici hanno forti pregiudizi sulle donne”.

Le spose-bambine che le chiedono aiuto sono in costante aumento, ma la strada è ancora lunga: si tratta di una piaga difficile da estirpare, poiché sono proprio i genitori che vivono nelle aree più povere a combinare i matrimoni delle figlie con uomini molto più anziani, in cambio di denaro che serve a sostenere il resto della famiglia.

Shada Nasser si batte per innalzare ad almeno 18 anni l’età legale per contrarre matrimonio e si impegna affinché, a livello nazionale, l’opinione pubblica non chiuda gli occhi e il dibattito non si fermi. “Il primo caso, il caso di Nojoud, ha cambiato molte cose e migliorato la vita a centinaia di ragazze che vivono nelle campagne. Questi matrimoni precoci derubano le bambine del loro diritto ad avere un’infanzia normale e un’istruzione. Credo profondamente nella professione di avvocato”, ha concluso, “Credo che serva a questo: ad aiutare gli altri”.

Laura Pavesi

http://www.buonenotizie.it/in-evidenza/2014/01/08/yemen-lavvocato-che-aiuta-le-spose-bambine-ritrovare-la-liberta/

Media e politica: riflessioni preliminari su paradossi e contraddizioni

Viviamo in uno stato di cose imbevuto di indecidibilità, stallo e interminabili oscillazioni che finiscono per bloccare la possibilità di direzionarsi e comprendere

Il doppio legame (in originale: double bind) è un concetto psicologico elaborato dall’antropologo e pensatore G. Bateson e utilizzato in seguito da altri membri della cosiddetta Scuola sistemico-relazionale di Palo Alto. L’ingiunzione: “sii spontaneo” è il prototipo del messaggio paradossale. Chiunque riceva questa ingiunzione si trova in una situazione insostenibile, perché per accondiscendervi dovrebbe essere spontaneo entro uno schema di condiscendenza e non di spontaneità, spiegò Watzlawick.

Gli elementi essenziali di un doppio legame sono:

a) una forte relazione complementare (autorità-subordinato);
b) un’ingiunzione che deve essere disubbidita per essere ubbidita;
c) l’impossibilità di uscire dal sistema di relazione, cioè di metacomunicare sulla comunicazione, perché sarebbe un atto grave di insubordinazione.

Bateson ipotizzò come possibile causa della schizofrenia  (teoria che ha subito diverse critiche in verità) l’esposizione cronica a situazioni di doppio legame in ambito familiare.

Il termine schizofrenia, detto per inciso, fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1908 e deriva dal greco σχίζω (schizo, diviso) e φρεν (phren, cervello), ‘mente divisa’.

Consideriamo ora un ulteriore esempio di relazione paradossale, innescata, ad esempio, dall’ingiunzione : “Non essere così ubbidiente!”.

Ancora il destinatario è preso in un doppio vincolo, poiché la frase dev’essere disobbedita per essere obbedita e viceversa; non si può reagire ad essa in modo adeguato.

Ho introdotto i concetti di paradosso e doppio legame per metterli in relazione a comunicazioni più o meno normative e messaggi che ci arrivano ogni giorno da situazioni socio-politiche italiane. Siamo infatti pronti ad aprire un quotidiano recente e leggere, a mò di esempio:

– Le colonnine arancioni finiscono fuorilegge, sono efficaci per scoraggiare chi corre in macchina, ma non sono omologate. Vengono adottate sempre di più dalle polizie municipali, ma per il Codice della Strada non esistono.
– Caos (appunto) Stamina: il Tar boccia la bocciatura.
– Sembra che abbiamo un Parlamento incostituzionale.

In un conflitto la scelta è una soluzione, ma l’ingiunzione paradossale fa fallire qualsiasi scelta o presa di posizione (perché devo accettare le leggi di un parlamento incostituzionale? e se qualcuno boccia una bocciatura cosa ne desumo?).

Qualcuno ha detto che la attuale classe di giornalisti è nettamente figlia della classe politica. Entrambe sembrano contribuire, per restare in tema di paradossi, al cortocircuito.

Se sorvolassimo sul fatto che da un po’ di tempo a questa parte, come dice qualcuno, in Italia “la parola di un fuorilegge è legge”, che destra e sinistra governano assieme, o sul dato di fatto che il precariato è la norma tragica di “una repubblica fondata sul lavoro”, continuare il discorso dei paradossi sarebbe un mero divertissement.

Ma nella realtà quello che leggiamo e che ci viene detto riflette uno stato di cose sempre più imbevuto di indecidibilità, stallo e interminabili oscillazioni che finiscono per bloccare la possibilità di direzionarsi e comprendere. E ciò che emerge dai media forse è l’epifenomeno rivelatore di una patologia politica, sociale e antropologica di fondo. Nessuno è più libero di non essere parte di questo sistema invischiato dell’estrema fittizia libertà.

Nelle contraddizioni autoperpetuantesi la scelta non è possibile e molti giovani sono costretti ad emigrare. Leggere questo fenomeno in base alla teoria delle comunicazioni paradossali secondo cui può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello (fuggire, appunto) è quantomeno suggestivo. Mi fa pensare (un po’ pessimisticamente) alla nostra nazione come una enorme famiglia patogena.

Cui prodest? Non so se questa domanda è lecita. Non sono un esperto di dietrologia e non so in fondo neppure se queste riflessioni siano troppo frammentarie (di certo sono eterogenee ed un po’ ipersemplificate). Però ho sempre amato la teoria della pragmatica della comunicazione. E so che in una famiglia  sarei molto perplesso se un genitore comprasse due cappotti, uno verde e uno rosso, e poi si lamentasse che se indosso quello rosso è perché non mi piace quello verde che mi ha regalato. E viceversa.

Massimo Lanzaro

http://www.ilquorum.it/aspetti-paradossali-della-comunicazione-e-altre-assurdita/

Computer Sex per Don Giovanni 2.0

Esce il 28 Novembre in Italia la pellicola Don Jon di Joseph Gordon-Levitt

Don Jon è un film indipendente scritto, diretto ed interpretato da Joseph Gordon-Levitt, al debutto dietro la macchina da presa in un lungometraggio.
Il titolo del film inizialmente era Don Jon’s Addiction (la dipendenza – da cyberporno – di Don Jon); con questo titolo infatti la pellicola viene presentata al Sundance Film Festival. Successivamente il regista annuncia tramite il suo account facebook che avrebbe cambiato il titolo in Don Jon con la seguente motivazione: “Ho deciso di cambiarlo principalmente perché così è corto e semplice, se mi conoscete sapete che sono un fan della brevità. Secondo, avevo l’impressione che il vecchio titolo facesse giungere certe persone a certe conclusioni troppo in fretta. Alcune persone credevano fosse un film sulla dipendenza dalla pornografia e dal sesso, ma non è così”.
In effetti con un po’ di impegno ci si trovano vari registri di lettura. La storia sembra ruotare attorno a un ragazzo con una vita regolare e rituale. La messa, la palestra, la discoteca, gli amici. Ma la sua più grande passione è il porno online e, diciamo, una certa tendenza alla promiscuità nella vita reale.
Varie pubblicazioni scientifiche concordano sul fatto che per alcune persone la fruizione di pornografia può raggiungere livelli di abuso pari a quelli riscontrati con l’alcool, altre droghe, il gioco d’azzardo patologico (le cosiddette “nuove dipendenze”). Le conseguenze indicate in letteratura sono similmente nefaste con alcune conseguenze specifiche quali sessualizzazione del partner, incapacità di innamoramento profondo e ripercussioni sulla coppia.
Le fantasie del Cyber-Porn addict, oltre a non essere condivise da altri, non sono neanche individuali (come nella masturbazione “reale”), perché la mente non è più libera di immaginare, è “passiva” in quanto la pornografia si appropria della fantasia (idealizzata) di queste persone, stereotipandole alle sue immagini.
Joseph Gordon-Levitt suggerisce anche l’ipotesi che in parallelo questo condizionamento possa avvenire nell’animo della protagonista femminile, preda nel film di variazioni sul tema della soap opera colorata o della narrazione romantica.
Belli i tempi in cui la psicoanalisi ha visto in Don Giovanni l’uomo che passa da una donna all’altra perché, in fondo, è sempre prigioniero del complesso di Edipo e quindi irrimediabilmente innamorato della madre. O quelli in cui Claudio Risé ribaltò queste interpretazioni postulando che il seduttore rappresenti da un lato la negazione del sentimento e dell’amore e dall’altro un aspetto d’ombra, oscuro e violento del maschile. Non è l’attaccamento alla madre che lo caratterizza, ma piuttosto il suo rifiuto di accettare le regole del padre.
In realtà uno sguardo ai dialoghi che avvengono nella famiglia di Don Jon alla luce di questa prospettiva potrebbe restituirci quello che resta dell’anacronismo.
Comunque dopo aver sminuzzato e sublimato con simpatica e celere leggerezza gli aspetti seriosi e difficili, il film se li lascia alle spalle, per veleggiare verso originali domande, una nucleare: cosa accadrebbe oggi a Don Giovanni se incontrasse prima internet e youporn e poi Scarlett Johansson nei panni di una “velina alla ricerca di una sorta di Jack Dawson da ammaestrare”. E poi alcuni quesiti sussurrati: quante di queste persone e sfaccettature esistono davvero in ciascuno di noi? Quanto siamo condizionati dai messaggi e dai “trucchi” della multimedialità, di cui forse non sempre decodifichiamo il valore simbolico, la pervasività e il senso?
Gli ingredienti sono attuali e discretamente stuzzicanti, la risposta è minimalista (anche nella voluta alessitimia dei dialoghi), ma tutto sommato a tratti divertente. Menzione speciale per il montaggio e la fotografia.
La pellicola è stata distribuita nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 27 settembre 2013, mentre in Italia arriva il 28 novembre.

Massimo Lanzaro
tratto da Il Quorum.it
http://www.ilquorum.it/computer-sex-per-don-giovanni-2-0/

Follie non convenzionali

Brevissima riflessione sull’essere “fuori strada”, in cui il cinema è un (buon) pretesto

Perché “Tir”, di Alberto Fasulo (il finto documentario su un camionista che guida il suo mezzo per le strade d’Europa) abbia ricevuto il massimo riconoscimento al Festival del cinema di Roma che si è appena concluso ha suscitato, non solo nel sottoscritto, ampie aperture a teorie dietrologie. Ad esempio sul Corriere della Sera,  Mereghetti parla complessivamente delle premiazioni così:  “follia collettiva (…) che ormai accompagna da troppo tempo una manifestazione che non ha ancora deciso di diventare davvero adulta”.

Delirio deriva dal verbo latino deliràre composto dalla particella “de”, indicante “allontanamento da”, “fuori da” e “lira”, solco: delirio è uscire dal seminato della ragione, essere in qualche modo fuori strada.

Si chiama appunto così (“Fuoristrada”) il documentario in concorso per la sezione Prospettive Doc Italia al Festival del Cinema di Roma, vincitore del premio Menzione Speciale, in cui Elisa Amoruso racconta con delicatezza, discrezione e ironia mai grossolana la storia di un amore inusuale in un paese forse un po’ troppo convenzionale.

Il protagonista è Pino, un meccanico che lavora nell’officina di Via Vetulonia nel quartiere di San Giovanni a Roma e che è anche un campione di rally. Un giorno decide di diventare donna e di chiamarsi Beatrice. Lungo il percorso sterrato (e “fuori strada”) della sua trasformazione incontra Marianna, una donna rumena che accetta la sua natura.

John Forbes Nash ha rivoluzionato l’economia con i suoi studi di matematica applicata alla “Teoria dei giochi”. I suoi deliri più ricorrenti riguardavano le visioni di messaggi criptati (provenienti anche da extraterrestri), il credere di essere l’imperatore dell’Antartide o il piede sinistro di Dio, l’essere a capo di un governo universale. Nonostante la malattia vince il premio Nobel per l’economia nel 1994 e, per così dire, al resto ci ha pensato Ron Howard.

A volte le persone “diverse”, quelle che vanno “fuori strada”, un po’ come  controcorrente, attraversando strade nuove e sconnesse. Non senza sofferenze talora enormi capita che ne escano trasformati. Talora invece si perdono purtroppo irrimediabilmente. Ma, come nel documentario della Amoruso, o come nel caso di Nash, potrebbero essere le persone più “vere” che abbiamo la ventura di “conoscere”.

E poi dietro la storia della follia, della (apparente) insensatezza e della relativa incomprensione non si cela in verità la storia della ragione (individuale o collettiva), nella sua irriducibile volontà di misurare, giudicare ed erigersi al di sopra di tutto?

Massimo Lanzaro
tratto da Il Quorum.it
http://www.ilquorum.it/follie-non-convenzionali/

Prisoners – Siamo tutti intrappolati?

 

E’ il nuovo film di Denis Villeneuve, regista canadese dello straordinario Incendies (La donna che canta, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2011), che stavolta ha girato in inglese quello che sembra un thriller di rapimenti, con due attori del calibro di Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal. Un cenno alla trama senza spoilers: in una (fin troppo) tranquilla cittadina dello stato della Pennsylvania, il giorno del ringraziamento viene turbato dalla inspiegabile scomparsa di due bambine, Anna Dover e Joy Birch, di sei e sette anni. I genitori, fra di loro amici, reagiscono nei modi più disparati (e disperati) mentreil detective Loki (Gyllenhaal, la sua interpretazione forse è una spanna su tutti) avvia le sue indagini fra intoppi burocratici e depistaggi.
Ma il vero discorso dove il film ci porta è sembrato a molti diverso (appunto dicevo: sembra un thriller). In realtà tutti i personaggi di Prisoners sono, appunto, prigionieri di qualcuno o qualcosa, o incarcerati dalla paura (rimossa), dalla rabbia (repressa), dal passato (non elaborato), da istanze di natura più o meno religiosa che finiscono inevitabilmente per seguire sinistri itinerari mistico-deliranti.
La eccellente caratterizzazione dei protagonisti, trincerati dietro armi, rifugi sotterranei e vecchi cancelli arruginiti, ciascuno con la sua personale idea di giusto e sbagliato, vendetta e giustizia, ma ciascuno a modo suo in un profondo stato di smarrimento e solitudine, forse incarna la parabola di una nazione.
Scrive Paola Casella su Mymovies.it:
“La riflessione più ampia riguarda gli Stati Uniti, raccontati come un paese che ha perso la fede e la capacità di proteggere i propri “figli”, pronto a ricorrere, e a giustificare metodi disumani che classificano il nemico come una non-persona, privandolo della sua essenziale umanità. Un luogo in cui la paranoia ha sostituito il buon senso e il caos domina sull’ordine, al di là delle apparenze e delle false sicurezze dell’American way of life”.
Chiaramente, mi sento di sottoscrivere e farne fonte di ulteriore riflessione, principalmente sulla natura delle  convinzioni di chi (nazione o religione o individuo) si sente nel giusto tanto da percepire quasi il dovere di imporlo agli altri.
Forse non c’entra, ma uscendo dalla sala mi è venuto anche in mente, così, che in parlamento di recente si è votato per la soppressione immediata della missione militare in Afghanistan, che all’Italia e’ costata 5 miliardi di euro.

Massimo Lanzaro

Da Il Quorum
http://www.ilquorum.it/prisoners/

 

Psicologia e alchimia

La storia dell’umanità è profondamente plasmata da archetipi, strutture fondanti alle quali il pensiero deve la propria capacità creativa

Tratto da Il Quorum.it

Nell’introduzione del saggio di Arturo Schwarz, “Cabbalah e alchimia”, l’autore nota come per secoli questi due insegnamenti abbiano goduto di poca stima, soprattutto perché misinterpretati fino all’inizio del secolo appena concluso. Di fatto generalmente si tende a pensare all’alchimia come ad una pratica che tentò di trasformare i metalli meno pregiati in oro, di produrre l’elisir di lunga vita mediante la Pietra Filosofale e che, per lenta evoluzione, da essa è derivata la chimica moderna. I testi degli antichi alchimisti scritti volutamente in uno stile oscuro, ermetico, ricchi di immagini allegoriche incomprensibili possono forse giustificare questa interpretazione quantomeno superficiale (6).

Al termine degli anni venti Jung scopre singolari affinità tra antichi simboli cinesi e i sogni dei suoi pazienti: comincia così a studiare i testi degli alchimisti. “Psicologia e alchimia”, dato alle stampe per la prima volta a Zurigo nel 1944, costituisce un ampio rimaneggiamento di due studi (“Simboli onirici del processo di individuazione” del 1936 e “Le rappresentazioni di liberazione nell’alchimia” del 1937). Essi rispondevano all’intento di verificare il fondamento oggettivo, ovvero l’appartenenza all’esperienza psichica collettiva, di risultanze intrapsichiche personali, che, come tali, non potevano pretendere alla validità scientifica. Grazie alla sua esperienza di psicoanalisi Jung poté riscontrare nei suoi pazienti alcuni elementi che ricorrevano nei loro sogni e, distaccandosi dal parere di Freud per il quale i sogni erano una sorta di criptogrammi standardizzati decifrabili sulla base di alcune ricorrenze, capì che non erano solo di tipo patologico (fobie, traumi…) ma affiorano alla coscienza individuale dai contenuti archetipi dell’inconscio collettivo. Per Jung il lavoro degli alchimisti era sì fatto di reali sperimentazioni chimiche ma il loro fine, la Grande Opera, è da intendersi come ricerca di esperienze psichiche che permettevano all’adepto di operare interiormente il processo di Individuazione (la consapevolezza aurea, aurea apprehnsio). Il termine alchimia deriva dall’aramaico al-kimija, pietra filosofale, derivato dal siriaco kimiiya, dal greco bizantino chimeia: mescolamento (1).

Le nozioni alchemiche esercitarono una certa influenza anche sui movimenti artistici post-romantici e di avanguardia, come il surrealismo. Breton nel “manifesto del Surrealismo” del 1924, dichiarò di voler assumere la sapienza Alchemica a modello di un “occultamento” per evitare assolutamente al pubblico di entrare nell’opera, ovvero tenerlo alla porta della provocazione, confuso e sfidato, così le avanguardie, spesso, cercarono dietro astruse e insensate provocazioni, di nascondere un sapere ermetico. Ne fu un anticipatore Marcel  Duchamp, il quale, nella sua opera “La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli”, opera nota più brevemente come “Il Grande Vetro”, cui lavorerà dal ’15 al ’23 senza portarla mai decisamente a termine, (nel ’27 fu danneggiata durante un trasporto – ma Duchamp lasciò intatta la frattura del vetro considerandola un’aggiunta “casuale”) nascose, dietro il precetto alchemico del “silenzio” un significato ben più profondo della stessa provocazione visiva. Nel suo lavoro, oltre a rimandare all’ironia e all’assurdo, che rimangono sempre principi fondanti, rimanda anche all’opus alchemico (7).
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Il Grande Vetro

Maria “portata nella nuvola” è la Vergine Assunta e, in effetti, come nelle tradizionali iconografie dell’Assunzione, il “Grande Vetro” (notare il gioco di parole fra Grande Vetro e Grande Opera) è diviso in due parti, terrestre e celeste; nella prima vediamo una nuvola con tre quadrati, nella seconda un parallelepipedo in prospettiva, simboleggiante un feretro vuoto; i “trebbiatori celesti”, invece, richiamano la definizione duschampiana dell’opera come “macchina agricola” e come “macchina a vapore” con “base in muratura” (ovvero il fondamento massonico-ermetico-filosofale che la spiega). Nel linguaggio dell’alchimia la trebbiatura (“celeste”), l’assunzione della Vergine incoronata dalla Trinità e il denudamento della sposa sono tutte metafore, codificate nei trattati (come nell’immagine tratta dal Rosarium Philosophorum), che significano la purificazione della materia e la sua trasformazione in “pietra filosofale” (3). I dettagli sono molti: La “macinatrice di cioccolato”, come l’artista chiama il congegno con tre rulli (la macina della Malinconia di Durer) che serve a triturare la materia “al nero” (indicata come cioccolato). I sette “setacci” o “crivelli” che la sovrastano corrispondono alle sette chiavi delle operazioni e sono strumenti di progressiva raffinazione. Il “mulino ad acqua” incorporato nel carro-sarcofago e con sopra le “forbici” a croce (secondo i termini di Duchamp) alludono al progressivo dissolvimento della materia la quale, una volta “dissolta”, sale al cielo come vapore. Nel cielo la nuvola con tre finestre (allusive alla Trinità) ricondenseranno la materia per farla tornare sulla terra in forma di gocce fertilizzanti (rugiada filosofica) e dare nuovo avvio al processo alchemico. L’opera così in sé è una continua polarizzazione di principi positivi e negativi e credo che la sua essenza risieda proprio in questa sua ineffabilità, in questa mancanza; il Vetro, ovvero l’assenza dell’elemento che pone una distanza fra l’opera e l’osservatore, inoltre, contribuisce ad aumentare questa partecipazione passiva al processo, questa sorta di ermeneutica infinita che non finirà mai di colpire. Definire il “Grande Vetro” una macchina agricola apparirà meno paradossale alla luce delle seguenti considerazioni: anzitutto c’è un chiaro riferimento al concetto tradizionale dell’agricoltura sentito quale matrimonio simbolico tra la Terra e il Cielo; quindi l’aratura è associata con la semina e l’atto sessuale. Infine è naturale che Duchamp abbia definito, in un’altra nota “un mondo in giallo” questo suo lavoro. nella tradizione esoterica il giallo è il simbolo dell’oro e del Sole; il Sole a sua volta, ha valore simbolico di rivelazione (4).

“La macchina psicologica che trasforma l’energia è il simbolo” (Jung, 1928). In una piccola opera dal titolo “Energetica Psichica” Carl Gustav Jung ha affrontato il tema spinoso dell’energia vitale. In termini evolutivi rispetto all’opera di Freud, Jung ha sostenuto che la libido subisce in gran parte una trasformazione naturale (metabolica), ma che in piccola parte può essere dirottata per produrre altre forme. Dal corso naturale delle cose, possiamo sottrarre “energia eccedente” con cui fare un lavoro, produrre cioè oggetti e attività di valore individuale e collettivo. L’energia vitale espressa da una cascata ad esempio – dice Jung – acquisisce un valore funzionale e non solo estetico, nel momento in cui viene convogliata in una diga e dunque in una centrale idroelettrica. L’energia naturale acquisisce valore nel mondo degli uomini quando, ricondotta in un sistema dotato di senso, viene spinta a fare un lavoro (anche nella fisica inteso come Forza x Spostamento). Lo strumento che Jung suggerisce per distogliere energia dal corso naturale è il simbolo. Cos’è il simbolo? Il simbolo è un segno ricco di possibilità interpretative in parte individuali, in parte archetipiche. Il simbolo spinge l’uomo a “dare senso” dunque produce energia, deviando il corso naturale dell’accadere psichico (7).

Arturo Schwarz scrive: “Nessuna opera più del ‘Grande Vetro’ può rappresentare l’irraggiungibile trasparenza della pietra filosofale. La storia della ricerca della pietra filosofale è la storia di una serie di fallimenti; ma gli uomini che hanno fallito con audacia ci hanno dato insegnamenti più di coloro che hanno avuto effimeri successi. Negli scacchi si può arrivare a una posizione senza via d’uscita, ove nessuno degli avversari può imporre la vittoria. Uno di essi si trova in uno stato di perpetuo scacco. Per Duchamp questa situazione è divenuta la metafora della sua relazione con la vita. Probabilmente, è il suo più bel finale di partita” (5).

Duchamp scrisse che “in nessun momento nel processo la Sposa entra in relazione con la realtà maschile e il culmine dell’opera è lo svelamento, la rivelazione”. Octavio Paz notò che quella che talora viene interpretata come una allegoria dell’onanismo o come l’espressione di una visione pessimistica dell’amore (la vera unione è impossibile e la non consumazione o il voyeurismo sono una alternativa meno crudele al rimorso che consegue al possesso) punta forse invece altrove.

In “Dati”: 1) La caduta d’acqua 2) Il gas illuminante (1946-66) Duchamp infatti suggerisce che l’unione e’ possibile, tuttavia unicamente se lo sguardo si trasforma in contemplazione ed esplorazione dei contenuti psichici proiettati (animus e anima, rispettivamente).

Si tratta in realtà di una enorme scatola ottica, simile a quelle in uso nel XVII secolo, che permette di osservare attraverso due fori praticati su una delle sue pareti la raffigurazione di una donna distesa nell’erba di un prato, nuda e con il volto completamente nascosto, o meglio, volutamente escluso dal campo visivo. Sullo sfondo si scorge una sorgente d’acqua immersa in un paesaggio naturale.

In ambedue le opere (“l’Assemblaggio/Dati” e “la Sposa” il semplice guardare si trasforma nell’atto di vedere-attraverso; in ambedue i casi ci guardiamo guardare, il che ci pone di fronte a noi stessi). Il desiderio, trasformato dall’immaginazione è divenuto conoscenza, consapevolezza, integrazione. Oltre ad essere conoscenza, la visione erotica è creazione, trasformazione. Il nostro sguardo traforma l’oggetto erotico: ciò che vediamo è il simbolo, l’immagine del nostro desiderio proiettato (Jung direbbe di frammenti del nostro Animus o Anima).

Ed è anche probabilmente chiaro il riferimento alla fisica quantistica: colui che “spia” fa parte dello spettacolo, attraverso il suo sguardo l’Assemblaggio si realizza. La meccanica quantistica infatti introdusse due elementi nuovi ed inaspettati rispetto alla fisica classica: una è appunto l’influenza dell’osservatore. Inoltre gli oggetti “quantistici” (atomi, elettroni, quanti di luce, ecc.) si trovano in certi “stati” indefiniti, descritti da certe entità matematiche (come la “funzione d’onda” di Schrödinger). Soltanto all’atto della misurazione fisica si può ottenere un valore reale; ma finché la misura non viene effettuata, l’oggetto quantistico rimane in uno stato che è “oggettivamente indefinito” (come non ricordare, il “proteomorfismo mercuriale e mutevole” di alcuni fenomeni naturali descritto dagli alchimisti), sebbene sia matematicamente definito: esso descrive solo una “potenzialità” dell’oggetto o del sistema fisico in esame, ovvero contiene l’informazione relativa ad una “rosa” di valori possibili, ciascuno con la sua probabilità di divenire reale ed oggettivo all’atto della misura.

Nei “Tre rammendi” di Duchamp il “metro di lunghezza” che cade da un metro di altezza su un piano orizzontale deformandosi a suo piacimento fornisce una nuova immagine dell’unità di lunghezza, che poi altro non è che una “nuova misura” dell’immagine del mondo. Probabilmente l’inclinazione della modernità ad attribuire potere pressochè illimitato alla scienza positivista è controbilanciata dalle incertezze inerenti alla meccanica quantistica (7). Dai mille sogni che Wolfgang Pauli, uno dei fisici più creativi del Novecento, portò in dote a Carl Gustav Jung, scaturì una straordinaria avventura intellettuale e umana. L’incontro portò alla riscoperta della nozione di sincronicità e alla reinterpretazione di quelle coincidenze, prive di connessioni causali ma dense di significato, che ricorrono di continuo nella nostra esperienza quotidiana. Fece maturare la consapevolezza che la storia dell’umanità è profondamente plasmata da archetipi, strutture fondanti alle quali il pensiero deve la propria capacità creativa, dato che costituiscono una riserva psichica pressoché inesauribile da cui trarre alimento (6). Ma soprattutto fu all’origine di un’ulteriore alleanza tra fisica e psicologia, tra materia e psiche, cui, probabilmente, Duchamp aveva già silenziosamente messo il sigillo dell’arte.

Massimo Lanzaro

Bibliografia

1. CG Jung. Psicologia e alchimia 2006, XIV-552 p., Brossura, Bollati Boringhieri

2. Octavio Paz, “Apparenza nuda – L’opera di Marcel Duchamp”, Abscondita, 2000 “Apparenza nuda” è formato da due saggi che Octavio Paz ha dedicato a Marcel Duchamp. Il primo è un’introduzione generale all’opera dell’artista francese: esso contiene una descrizione completa e un’interpretazione del Grande Vetro. Il secondo saggio è un’analisi dell’Assemblaggio di Filadelfia.

3. M. Calvesi, Arte e alchimia, Collana: Dossier d’art, 1995

4. M. Eliade, Il mito dell’alchimia seguito da: L’alchimia asiatica. Collana «Variantine», Bollati Boringhieri, 2001.

5. Arturo Schwarz, Cabbalà e alchimia – Saggio sugli archetipi comuni, Garzanti, 1999

6. Tagliagambe & Malinconico. Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche. Raffello Cortina, 2011

7. Massimo Lanzaro. Reflections on Duchamp, quantum physics, and mysterium coniunctionis (trattasi di una versione precedente, in inglese, di questo scritto presente su CGJ Online).

Before Midnight (Harry ti presento Sally, all’infinito)

Da “Il Quorum”
http://www.ilquorum.it/midnight/

Qualche parola per chi non conoscesse Richard Linklater. Regista interessato a film indipendenti e minimali, dopo Slacker, esperimento narrativo sulle 24 ore della vita di 100 personaggi, e dopo la realizzazione di vari cortometraggi e super 8, nel 1993 gira il film La vita è un sogno. Nel 1995 realizza il film Prima dell’alba con Julie Delpy e Ethan Hawke, film con il quale vince l’Orso d’Argento per il miglior regista al Festival di Berlino. Tra gli altri lavori vi sono: Newton Boys con l’amico Matthew McConaughey, Waking Life e School of Rock con Jack Black. Nel 2004 sempre con Julie Delpy e Ethan Hawke, gira Before Sunset – Prima del tramonto, seguito di Prima dell’alba del 1995. Questa settimana (nei cinema dal 31 Ottobre) viene presentato l’ultimo capitolo della saga di Before Sunrise, ovvero Before Midnight, sempre con gli stessi attori dei precedenti.

Lo dice Mamet: il cinema basato soltanto sui punti culminanti, sui parossismi, per così dire, è figlio del cinema porno (ed imparentato ad alcune pellicole d’azione). Ecco. Questo è l’esatto contrario: due persone che parlano per un’ora e cinquanta vi cullano come una brezza soave, semplicemente, senza sussulti, mentre solcano, a velocità costante, le discussioni, le sfide concettuali e la fatica (inevitabile ma benefica) di comprendersi per restare uniti.

Se in “Prima dell’alba” Jesse e Céline si erano incontrati a Parigi e poi persi romanticamente per strada, in “Before Sunset” si ritrovavano sull’onda di un libro scritto da Jesse nel quale il Nostro raccontava esattamente la propria esperienza avuta con la bella francesina. Oggi, in “Before Midnight”, Jesse e Céline sono una coppia sposata, vivono da tempo a Parigi, sono in Grecia, “a sud del Peloponneso”, per una lunga vacanza nella quale Jesse conta di consolidare il proprio rapporto col figlio teenager Hank (Seamus Davey-Fitzpatrick), avuto dalla moglie precedente, colei che lasciò proprio per Cèline. Sullo sfondo ci sono anche diverse situazioni insolute o da risolvere.

Questo è stato uno dei film americani più amati dell’anno, a detta di molti, dei tre, il migliore.

Massimo Lanzaro

In mostra a Roma lo “sguardo” sul cinema di Natino Chirico

http://www.ilquorum.it/mostra-roma-lo-sguardo-sul-cinema-di-natino-chirico/

(Tratto dal quotidiano online Il Quorum)

Dall’8 al 15 novembre “Segno, Cinema e Colore”, 60 opere dedicate ai grandi della pellicola. Appuntamento da SET-Spazio Eventi Tirso

Evento ufficialmente inserito nelle Risonanze del Festival Internazionale del Film di Roma, patrocinato dal ministero dei Beni culturali, regione Lazio, provincia e comune di Roma, in collaborazione con l’Associazione Pediatrica Bambino Gesù.

Un omaggio ai grandi protagonisti del Cinema, da Charlie Chaplin a Marcello Mastroianni, da Federico Fellini ad Anna Magnani. Questo l’obiettivo di “Segno, Cinema e Colore”, la mostra dell’artista Natino Chirico che avrà luogo a Roma dall’8 al 15 novembre.

Un’esposizione strettamente collegata al Festival Internazionale del Film di Roma che si terrà proprio in quei giorni, tanto da essere inserita e consigliata nel palinsesto degli eventi collaterali della kermesse cinematografica. Ad ospitare l’evento sarà SET, Spazio Eventi Tirso, la location nel cuore di Roma, da mesi protagonista della vita culturale e artistica della Capitale.

Più di 60 opere tra dipinti, installazioni e sculture che ritraggono e raccontano il mondo di cellulosa ed i suoi protagonisti. La mostra, patrocinata dalla regione Lazio, ministero dei Beni culturali, provincia e comune di Roma, sarà anche l’occasione per fare del bene, visto l’impegno dell’artista a favore dell’Associazione Bambino Gesù Onlus, partner dell’iniziativa, che festeggia dieci anni della nascita e alla quale l’artista devolverà parte del suo ricavato.

Il Maestro ha avuto modo di realizzare con i bambini dell’Ospedale alcune opere che saranno battute all’asta per beneficenza in occasione di uno speciale charity gala. La settimana della mostra sarà un susseguirsi di eventi ed appuntamenti. Oltre al charity gala, ci saranno laboratori, collaborazioni con brand importanti, corsi di yoga ed interviste e anteprime con i protagonisti del cinema. Apertura il 7 novembre con un Vernissage che coinvolgerà personaggi del mondo politico, dello spettacolo, dello sport, dell’arte e della comunicazione.

Massimo Lanzaro

Sindrome da attacchi di panico: nel sintomo il verbo si è fatto carne? Sindrome da attacchi di panico: nel sintomo il verbo si è fatto carne?

Sindrome da attacchi di panico: nel sintomo il verbo si è fatto carne?

Riflessioni (non del tutto “ortodosse”) sui fenomeni di somatizzazione e sulla dimensione terapeutica dell’arte

Tratto dal quotidiano on line  Il Quorum, diretto da Stefano Campa
http://www.ilquorum.it/sindrome-attachi-panico-nel-sintomo-il-verbo-si-fatto-carne/

L’uomo “primitivo” era governato dai propri istinti più dei suoi moderni discendenti “razionali”, “seconditivi”, che hanno imparato in qualche modo a “controllarsi” (o a reprimere), piuttosto che ad esprimere.

Nel corso di questo processo di civilizzazione abbiamo verosimilmente scisso la nostra coscienza dagli strati profondi dell’inconscio e infine anche dalla base somatica del fenomeno psichico. Mi spiego: l’uomo postmoderno, forse anche a causa di mancanza d’introspezione, è sovente ignaro che, pur con tutta la sua razionalità ed efficienza, è in balìa di “forze non controllabili”. Dei e demoni, direbbe Jung, tengono molti individui in uno stato d’agitazione semplicemente attraverso vaghe apprensioni, o tramite un ingente fardello di nevrosi e di disturbi somatici.

La letteratura recente postula che un’inibizione più o meno forzata e costante del naturale comportamento biopsicomotorio del corpo si traduce in una cronica e sterile microattivazione del sistema nervoso vegetativo, psico-neuro-endocrino ed immunologico. Quest’attivazione produrrebbe le manifestazioni cliniche di tale processo: gli attacchi di panico, i disturbi da somatizzazione gastro-intestinale, sessuale o pseudo-neurologica (si pensi ai vari tipi di cefalea), le sindromi algiche e l’ipocondria, per citare la nosografia di maggiore incidenza.

Giova ricordare in quest’ambito, anche se a margine ai fini del presente discorso, la concezione junghiana sul ruolo vitale della funzione compensatrice dei sogni e della loro elaborazione nell’alleviare la strutturazione di tali disturbi. Analizzeremo ora come esempio la fenomenologia clinica della sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) dura generalmente solo alcuni minuti, ma causa una considerevole angoscia.

Il coinvolgimento del corpo si manifesta con prepotenti sintomi organici come soffocamento, vertigini, sudorazione profusa, tremore e tachicardia cui si accompagnano spesso una sensazione di morte imminente od il timore di impazzire.

Sebbene l’evidenza a favore di fattori neurofisiologici nella genesi di questo corteo sintomatologico sia ineludibile, tali osservazioni sono più persuasive nella spiegazione della patogenesi piuttosto che dell’eziologia del disturbo (ovvero la causa originaria, per così dire). Nessun dato neurobiologico è in grado di farci comprendere cosa scateni l’inizio di un attacco di panico, così come di altri disturbi psicosomatici.

Diverse evidenze suggeriscono invece che fattori psicologici possono essere rilevanti. Ad esempio vari studi hanno dimostrato una maggiore incidenza in questi pazienti di eventi esistenziali stressanti, ed in particolare la perdita di persone significative nei mesi che precedono il disagio.

Questo suggerisce che l’eziologia riguardi il significato inconscio e simbolico degli eventi, nella misura in cui ciascuno lo elabora in maniera diversa, o non lo elabora per niente. La paura ha un oggetto, l’angoscia panica n’è priva, o meglio, il vissuto relativo è rimosso: non c’è insight. Inoltre c’è un consenso quasi unanime nell’attribuire all’alessitimia, concetto centrale della psicosomatica contemporanea, parte della genesi dei processi di somatizzazione.

Si tratta dell’incapacità di riconoscere e identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguerli dalle sensazioni corporee che si accompagnano all’attivazione emotiva e della difficoltà nel descrivere (“dare un nome e un significato”) tali stati d’animo.

Cambiamo punto di vista ed apparentemente cambiamo argomento. Fino a qualche tempo fa lo sfoggio di tatuaggi su braccia, spalle e gambe era considerata la sfida dell’individuo contro le regole convenzionali delle società, un segno di distinzione, in alcuni casi di capacità creativa. Diffusa, inoltre, era la pratica del tatuaggio nel mondo penitenziario che sanciva l’appartenenza a gruppi e/o sottogruppi, esattamente come avviene nelle tribù primitive e quelle più “moderne”. Ad alcune persone tali tendenze inducono sensazioni sgradevoli, eppure tali fenomeni sono divenuti sempre più diffusi, fino ad interessare una certa fascia della società.

Tutte le mode passano o si evolvono.

Al tatuaggio si sono aggiunte altre forme di “body art”, sicuramente più spettacolari, e per certi versi anche potenzialmente dannose per la salute. Si fa riferimento al piercing, con perforazione di narici, ombelichi, lingua od altre parti del corpo.

A riguardo, ricordo le parole di una paziente ventiquattrenne: – è bello, mi piace. Inutile dire che lo ho fatto per sentirmi integrata, per essere alla moda, per sfidare il dolore… il piercing è una forma di arte che collega il corpo allo spirito. E’ l’anima che colpisce la propria carne per farla più sua, per sentirsi di più un “tutt’uno” -.

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Ron Athey – In copertina: Franko B

Procedendo in un ipotetico continuum nell’analisi di questo fenomeno, ho immaginato che un successivo gradino fosse individuabile nell’arte estrema contemporanea. A partire dagli anni Settanta le arti cosiddette “canoniche” subiscono un definitivo cambio di rotta approdando ad una privilegiata, inquietante terra di conquista: il corpo. Il lavoro di Ron Athey rileva l’estremizzazione del dolore fisico come manifestazione privilegiata del disagio esistenziale. Le scioccanti “esperienze” di Franko B, artista-performer italobritannico, conducono il discorso della sfida al dolore alle estreme conseguenze. Nelle sue opere arriva a farsi tramortire e torturare, da un lato mimando le limitazioni che il corpo naturalmente manifesta in alcune situazioni e dall’altro mantenendo un controllo assoluto sulla propria fisicità durante tali rituali.

Questa forma d’arte ha una valenza peculiare: nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una inversione dei processi di somatizzazione attraverso la produzione attiva d’immagini “estreme”. Franko B ha dichiarato in una intervista di “non aver più paura di mostrare le proprie vergogne”, ovvero di non aver timore nell’esprimere verbalmente ed attraverso immagini d’arte il proprio stato affettivo, ideico ed emotivo, per quanto eccessivo possa risultare al fruitore.

A questo punto riassumo la nota tesi di Hillman espressa nel suo “Il mito dell’analisi”: gli Dei rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici. Alcuni esempi sono quelli di Dioniso e l’isteria, della relazione tra Crono-Saturno con gli aspetti paranoici della depressione e di Ermes-Mercurio con quello che chiamiamo comportamento schizoide.

Si tratta di esplorare la psicopatologia in termini di psicologia archetipica. Veniamo dunque a Pan. Il mito greco lo pose come dio della natura, dalle molteplici sfaccettature, dimorante in Arcadia, le “oscure caverne” dove lo si poteva incontrare, una località tanto fisica che psichica. Il suo habitat erano grotte, fonti, boschi e luoghi selvaggi (l’inconscio). A ben vedere esso sussume sia l’angoscia panica che si impadronisce del corpo (dall’alessitimia alla genesi del sintomo ad un polo) che gli aspetti erotici connessi alla sua natura satiresca, caprina, fallica e demonica (autoassertività, capacità di contatto ed elaborazione delle proprie emozioni, vissuti, istinti e pulsioni, simbolizzazione consapevole della sofferenza, produzione laconicamente esplicativa delle proprie immagini interiori). Mi sembra suggestivo osservare ora da una prospettiva olistica le nuove manifestazioni del duplice, antitetico ruolo di Pan nel determinismo di vari aspetti della psiche individuale e collettiva dell’uomo moderno ed ipotizzare il suo potenziale disvelarsi per ciascuno di noi in un punto sito nel percorso che va da un polo all’altro dell’enantiodromia descritta (dalla sofferenza alessitimica all’espressione “spudorata” del dolore del body art performer).

Forse nel passaggio al contatto, alla progressiva capacità di dare forma e parola ai propri vissuti, di esprimere ed agire il bisogno di ascolto della voce del corpo e delle emozioni (magari con l’aiuto di un terapeuta) si concretizza il ruolo che noi scegliamo per Pan o che Pan sceglie per noi. E durante un percorso del genere il ruolo del terapeuta che incontra una persona con disturbi somatici diviene anche quello di mediare la riscoperta del livello di percezione e di esperienza delle immagini a cui la sua storia ha tentato di impedire l’accesso.

Massimo Lanzaro

Amore: esprimere i propri sentimenti migliora la salute

 

Buongiorno, vi suggerisco la lettura di questo testo, pubblicato da La Stampa

http://www.lastampa.it/2013/02/13/scienza/benessere/lifestyle/amore-esprimere-i-propri-sentimenti-migliora-la-salute-DlbDapFqVQAzuGdDjX7G1L/pagina.html

Esprimere concretamente i propri sentimenti fa bene non solo al rapporto, ma anche alla salute

Innamorati, esprimete i vostri sentimenti se volete guadagnare in salute! E’ l’invito dell’esperto che ha scoperto come dichiarare e dimostrare il proprio affetto o amore promuove una migliore salute, sia fisica che mentale

Kory Floyd, professore alla Hugh Downs School of Human Communication presso l’Arizona State University (ASU), dopo aver tenuto una conferenza all’Università del Texas è stato oggetto di una richiesta insolita: un partecipante ha chiesto una “ricetta” per migliorare la salute attraverso la pratica del bacio, che era stata oggetto di discussione proprio durante la conferenza.
Floyd, aveva infatti presentato uno studio in cui si suggeriva come il baciarsi possa per esempio ridurre i livelli di colesterolo, ridurre lo stress e, per contro, aumentare l’intesa di coppia.

Il giovane, secondo quanto riferito dallo stesso Floyd nel comunicato ASU, era molto e sinceramente incuriosito dallo studio sul bacio e voleva una “ricetta” dal dottor Floyd – che tuttavia non è un medico – da far vedere alla moglie in modo che fosse attestata la necessità di baciarsi di più per stare bene.
Tuttavia, baciarsi non è la sola azione che una coppia può mettere in atto per favorire la salute: per esempio Floyd e altri ricercatori hanno scoperto che comunicare i propri sentimenti d’amore, sia attraverso le parole che le azioni può altrettanto offrire tutta una serie di vantaggi per la salute.

Ma, attenzione, come sottolineato da Floyd gli effetti sul benessere non si mostrano soltanto quando si provano certi sentimenti, ma anche e soprattutto quando questi si esprimono – che sia attraverso un gesto, un abbraccio, una frase detta o scritta… Così esternare il proprio affetto o amore, per esempio, pare riduca il colesterolo, abbassi la pressione sanguigna e fortifichi il sistema immunitario.

«Una delle cose che offrono un chiaro esempio del legame tra affetti e salute è il modo in cui ti senti quando passi una giornata davvero orribile, e tutto sembra andare male. E quando, nel corso di quella giornata stressante, si incontra qualcuno che vi è caro e questi vi abbraccia – spiega Floyd nella nota ASU – Questo abbraccio non può cambiare nulla di ciò che sta andando male nella vostra giornata, ma può cambiare tutto ciò che riguarda il modo in cui vi sentite in quel momento. Sembra che tutto lo stress si stia sciogliendo».

Gli effetti positivi dell’affetto non si applicano solo alla persona che lo riceve, sottolinea Floyd, ma anche alla persona che lo esprime – con uno scambio reciproco di benefici. E, spesso, poi, gli effetti benefici si hanno anche se l’altra persona non ricambia necessariamente.
E’ dunque l’azione del voler condividere i sentimenti che promuove il benessere. In uno studio, il dottor Floyd ha sperimentato come l’atto di scrivere una lettera alla persona cara potesse ridurre velocemente i livelli di stress, che non il semplice pensarla, tenere un diario, meditarci su o non fare nulla.

Durante il suo studio, Floyd ha coinvolto un gruppo di partecipanti che sono stati intervistati circa i propri sentimenti al fine di misurare i livelli di affetto nella vita quotidiana. Dopo di che, in laboratorio, sono stati misurate le risposte allo stress e l’intensità.
I risultati dei test hanno permesso di scoprire che le persone più affettuose non ha avuto la stessa forte risposta allo stress dei loro coetanei meno affettuosi. Per esempio, i più affettuosi non producono lo stesso cortisolo (l’ormone dello stress), e la loro pressione sanguigna non mostra i picchi più alti registrati negli altri soggetti.
Essere dunque più affettuosi sembra offrire protezione contro gli effetti dello stress. La chiave, secondo Floyd, potrebbe risiedere nell’ormone ossitocina – conosciuto anche come l’ormone dei legami – che viene rilasciato durante attività come l’abbracciarsi o l’accarezzarsi, il sesso, il parto e l’allattamento.

L’ormone ossitocina viene rilasciato in maggiore misura proprio tra le persone più affettuose, durante momenti stressanti, che non in coloro che sono meno affettuosi e non esprimono i propri sentimenti.
«Gli effetti sul corpo dell’ossitocina sono principalmente quelli di calmante, di calore. E’ molto più di una sensazione di benessere ormonale», commenta ancora Floyd.
Ciò che dunque vuole provare il ricercatore è che il dimostrare concretamente il proprio affetto può fare la differenza sia nel rapporto di coppia, o con le persone care, che nel benessere generale di una persona.

Chi ama è un creatore di MASSIMO GRAMELLINI

Vi consoglio questa lettura, pubblicata da La Stampa

http://www.lastampa.it/2013/07/28/blogs/cuori-allo-specchio/chi-ama-un-creatore-L1eTE3qZo4YSH9tmfX0IcI/pagina.html

Chi ama è un creatore
di Massimo Gramellini

Simposio termina alle prime luci del giorno: è tempo di alzarsi e di andare nel mondo, a mettere in pratica ciò che si è imparato. Ma i convitati dormono: il vino e la notte bianca ne hanno spento i sensi stremati. Soltanto Socrate continua imperterrito a bere e a intrattenere Aristofane e Agatone, lo scrittore di commedie e quello di tragedie. I due fingono di dargli ragione, ma l’oscillazione delle teste appesantite, più che di condivisione, è sintomo di crollo imminente. Quando anch’essi cedono alle leggi del sonno, Socrate – come una madre che ha messo finalmente a letto i ragazzini dopo averli rimpinzati per tutta la notte di favole – lascia la stanza, si sciacqua il viso e va incontro alla giornata che nasce.

Prima di uscire dietro la sua ombra, mi attardo in uno sguardo di congedo ai dormienti. Fedro, che all’inizio del Simposio ha ricordato come l’amore estragga il meglio dalle persone ed è stato abbastanza delicato da non aggiungere che tira fuori anche il peggio. Pausania, che invece lo ha detto, prestandosi ad affastellare i luoghi comuni che Socrate si è poi fatto bello a smontare. Erissimaco, il medico: a lui si deve l’illuminazione sull’amore umano come riflesso di quello eterno (fuori dal tempo) che è la struttura della realtà. Aristofane, che con la sua favola sugli uomini spaccati in due alla ricerca della metà perduta ha illustrato ironicamente la dottrina platonica dell’Uno e della Diade. Agatone, il padrone di casa, che ha saziato l’uditorio di aggettivi nel tentativo di definire l’indefinibile: l’amore, un’energia che non si può ingabbiare dentro le parole, ma solo sentire con il linguaggio muto dell’intuizione. E la sacerdotessa Mantinea, evocata da Socrate, che ci ha concesso di passeggiare nel santuario di Eros, apprendendo misteri che non andrebbero più dimenticati.

A giudicare dai commenti ricevuti, ce n’è uno che ha colpito i lettori di questa pagina in modo particolare: chi ama è un creatore. Se ama con il corpo genererà un figlio. Se ama con la mente genererà un’opera dell’intelletto. E se ama con il cuore, oltre ai figli e alle opere, genererà i frutti del proprio talento: perché tutti ne hanno uno, anche chi si è convinto (o è stato convinto) del contrario. Ecco il messaggio immortale di Platone: ogni essere umano viene al mondo per creare qualcosa attraverso l’amore. Basta che si svegli, si sciacqui il viso e vada incontro con la passione curiosa di un Socrate alla giornata che nasce.

Simposio di Platone (IV sec. A.C.)

Epilogo

Facciamola finita

http://www.maridacaterini.it/opinioni/744-facciamola-finita-commedia-reality-trash.html

Reality pirandelliano o commedia trash?
Chi si occupa di cinema, per passione o per mestiere, entra raramente impreparato in una sala. Le conoscenze pregresse, le informazioni raccolte, anche i pregiudizi fanno parte indubbiamente della stessa esperienza cinematografica. Orbene guardando “Facciamola finita” (“This Is the End”) non riesco a non pensare all’influenza formativa di Judd Apatow su questa variegata banda che ruota intorno a Seth Rogen e al suo fido cosceneggiatore Evan Goldberg, entrambi al debutto registico.

Apatow inizia a fare il comico mentre frequenta la Syosset High School, dove ha un programma chiamato Club Comedy sulla stazione radio della scuola. Si affida ai contatti della madre presso il comedy club per avere accesso ai commedianti; ebbene durante questo periodo riesce a fare intervenire, al programma Harold Ramis (il regista del piccolo capolavoro “Groundhog day” e di “Terapia e pallottole”) insieme all’allora sconosciuto Steven Wright (consigliato a chi non lo conoscesse, ama lo humor nonsense e mastica un minimo di inglese). Judd debutta alla regia nel 2005 con la commedia “40 anni vergine” con Steve Carell, mentre nel 2007 dirige “Molto incinta” con Seth Rogen, con cui aveva già lavorato nel film precedente e nella serie Freaks and Geeks. Questo cerchio, almeno per il momento si chiude qui.

“Facciamola finita” è una commedia reality-trash con ambientazione apocalittica in cui lo stesso Rogen, James Franco, Jonah Hill, Seth Rogen, Jay Baruchel, Danny McBride e Craig Robinson interpretano una versione fittizia e caricaturale di se stessi. Curiosamente il primo trailer è stato distribuito il 20 dicembre 2012, in concomitanza con le profezie sul 21 dicembre. In Italia esce il 18 luglio per la Warner Bros Pictures Italia. E’ ispirato ad un cortometraggio ideato ed interpretato nel 2007 da Rogen e Jay Baruchel (che recitavano insieme nella splendida serie “Undeclared”), intitolato “Jay and Seth vs. The Apocalypse”, che in realtà non si è mai visto, ma di cui è circolato solo il trailer da un minuto e mezzo. Il film è ambientato nella casa di James Franco, allestita per una festa a cui è invitata praticamente la Hollywood simpatica, come ad esempio Michael Cera, Emma Watson e Rihanna. La villa, arredata con opere d’arte e cimeli autoreferenziali sopravvive, sorprendentemente, al disastro che sta devastando Los Angeles, e si trasforma, tra alcool e droghe, nell’ambientazione di un divertentissimo reality show.

I ragazzi rimasti rinchiusi, cercano infatti di sopravvivere barricati nella casa ed il loro rapporto si evolve tra litigi,discorsi sguaiati o deliranti ed improvvisi legami da sopravvivenza. Il tutto con tanto di “confessionale”, dove gli esilaranti parossismi dei superstiti vengono progressivamente raccolti da una sgangherata steadycam.

Ad un certo livello questa è una commedia brillante, a tratti geniale, a tratti bizzarra e col solito gusto maschile del politicamente scorretto. Praticamente American Pie incontra La guerra dei mondi e di mezzo ci sono anche L’esorcista e La notte dei morti viventi. Se si gratta un po’ la superficie spassosa, si trova tuttavia una chiave di volta moralistica (con vari riferimenti biblici): “se si è delle brave persone, la giusta ricompensa arriva sempre”, dirà un personaggio. Ma se si va ancora un po’ più a fondo si intuisce che c’è un ulteriore livello di lettura, forse quello più pregnante, nascosto ed intelligente: l’elemento di ricerca nei meandri del binomio attore-persona. Un esempio su tutti: le prodezze tossiche e sessuali di un repellente Michael Cera fanno da contraltare al personaggio straight edge che ormai lo contraddistingueva. Oppure le grandi meschinità di divi ed antidivi gli uni contro gli altri armati. Quali i veri confini nell’ambito del binomio suddetto? Quali le gamme di grigio – viene da chiedersi – quando vengono descritte enantiodromie caratteriali?

Forse è eccessivo a questo punto scomodare Pirandello, il suo “Saggio dell’umorismo”, il cosiddetto contrasto tra vita e forma, ossia tra ciò che ciascuno di noi è veramente e ciò che la società, nelle diverse circostanze, impone all’individuo di diventare. Ma se il folle è l’unico a vivere davvero, perché ha avuto il coraggio di strapparsi di dosso le maschere che la società impone, il tentativo di Rogen di mettere a nudo un po’ della follia dei suoi amici ed al contempo di divertire è decisamente più che riuscito.

Massimo Lanzaro

dr. Massimo Lanzaro

http://www.fattitaliani.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=1108:ebook-%E2%80%9Cnel-punto-atomico-dove-scompare-il-tempo%E2%80%9D-di-massimo-lanzaro&Itemid=201

(In foto: Dr. Massimo Lanzaro)

“Studiare i miti e le fiabe è un buon modo di studiare l’anatomia comparata dell’inconscio collettivo” da questa osservazione di Carl Gustav Jung parte l’idea di Massimo Lanzaro, medico, psichiatra e psicoterapeuta napoletano classe 1971, di raccogliere nell’ebook “Nel punto atomico dove scompare il tempo” (scaricabile gratuitamente all’indirizzo http://www.editoredimestesso.it/ebook/lanzaro/) le sue riflessioni in merito pubblicate negli ultimi anni su riviste internazionali. “Non esiste cultura, antica o moderna, arcaica o civilizzata, che non possieda i suoi miti e molti si assomigliano: l’intreccio di base ed il significato sostanziale delle storie, restano gli stessi, in maniera trans temporale – spiega Lanzaro -.
Le fiabe, i miti, le narrazioni in generale consentono pertanto di ipotizzare paragoni tra l’ieri e l’oggi degli strati profondi della psicologia collettiva”.

In questi “Scritti di psicologia” (come da sottotitolo dell’eBook) i temi più importanti affrontati sono: la valenza simbolica delle fiabe e dei “miti di oggi”, gli stadi di reazione psicologica alla perdita ed ai momenti di crisi; le costanti naturali presenti nell’arte contemporanea; la decodifica dei relativi messaggi e la potenziale valenza catartica; alcuni effetti psicologici del consumismo e della società dello spettacolo; le patologie mentali viste da un punto di vista poco ortodosso ed originale. La lettura di questo lavoro si consiglia a studenti di psicologia, psicologi ad orientamento analitico, operatori sociali, medici, antropologi, studenti di letteratura e storia dell’arte, ma risulta piacevole anche a chi non ha una formazione specifica. Leggendo ci s’imbatterà nella teoria del Super Ego o nell’esortazione a “fare anima” con leggerezza e profondità al tempo stesso. Lanzaro affronta i temi più complessi tenendo il lettore per mano. Eccone una dimostrazione.

“Riassumo innanzitutto la nota tesi di Hillman espressa nel suo ‘Il mito dell’analisi’: gli ‘Dei’ rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici – dice Lanzaro -. Prendiamo come esempio la sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) è oggi diffuso e diverse evidenze suggeriscono che fattori psicologici possono essere rilevanti, ed in particolare l’incapacità di riconoscere ed identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel descrivere, esprimere agli altri tali stati d’animo. La body art e l’arte estrema contemporanea nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una sorprendente inversione dei processi di somatizzazione (passivi) descritti, attraverso la produzione attiva d’immagini e l’uso del corpo”.

Poi si può riflettere a partire da un classico. “In sostanza – dice Lanzaro – il fatto che ne ‘Il signore degli anelli’ il tema del potere e del controllo (orwelliano) delle persone sia così prominente e relativamente nuovo rispetto alle narrazioni del passato (remoto), tanto da offuscare più o meno insolitamente gli altri molteplici elementi classici della mitologia (conquista/liberazione di fanciulle, palingenesi dell’eroe etc.). Anche quando questi temi sono sviluppati sono sempre secondari e le storie d’amore, le imprese degli ‘dèi’, dei nani, degli elfi, degli uomini e dei giganti ruotano sempre intorno al tema liberarsi dall’influenza dell’anello, ovvero del potere e del controllo di pochi (o uno) su molti”.

Autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali e membro dell’International Association for Jungian Studies, il dottor Lanzaro è stato primario al Royal Free Hospital di Londra e direttore sanitario in Italia ed in Inghilterra. Attualmente collabora con il Centro Raymond Gledhil di Roma e con l’Università del Cile.

In che direzione stanno andando le sue ricerche? “In questo momento – risponde – sto approfondendo le applicazioni della Schema Therapy, un nuovo sistema di psicoterapia che integra elementi di terapia cognitiva comportamentale, della Gestalt, della psicoanalisi, della teoria dell’attaccamento, della psicoterapia costruttivista, della psicoterapia focalizzata sulle emozioni, in un modello esplicativo chiaro ed esaustivo formulato dal Dr. Jeffrey Young. La Schema Therapy è particolarmente utile nel trattamento di ansia e depressione cronica, disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata), difficili problemi di coppia, difficoltà di lunga data nel mantenere relazioni sentimentali soddisfacenti e nell’aiutare a prevenire la ricaduta nel disturbo da uso di sostanze. E’ dimostrata, inoltre, la sua efficacia nel trattamento di pazienti con difficoltà complesse e di lungo termine come i Disturbi di Personalità, in particolar modo il Disturbo Borderline di personalità”.

Medico affermato, all’estero è conosciuto anche come fotografo. Ha esposto con successo a Londra ed anche a Lincon, nelle Midlands. La fotografia che valore ha per lei? “E’ il mio modo di produrre immagini. E forse talora di proiettare le immagini che ho dentro. Altre volte soddisfa il mio bisogno di mettermi alla ricerca di un silenzio adeguato: la fotografia ha un suo carico di potenzialità riflessive – risponde -. Per altri aspetti, mi è poi cara la riflessione di Robert Adams che, in sostanza, fa coincidere la bellezza – nella fotografia così come nell’arte in generale – con il parametro della Forma, o, se si vuole, della composizione; Forma, a sua volta, intesa come sinonimo della coerenza e della struttura sottese alla vita (un concetto, a mio avviso, molto vicino a quello di ‘archetipo’). «Perché la forma è bella? – si chiede Adams: – Lo è, perché ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, cioè a dire il timore che la vita non sia che caos e che la nostra sofferenza non abbia dunque alcun senso; quell’elemento (la Forma) ha in sé il potere di consolare, rassicurando sull’esistenza di un ordine, per quanto abilmente dissimulato, in ciò che lo circonda»”.

Come cambiano le emozioni nei libri del XX secolo

(da Le Scienze)

A giudicare dai testi letterari, nel corso degli ultimi cinquant’anni la nostra società sembra sempre meno interessata a comunicare le emozioni, con una sola eccezione: la paura. Questa sorta di “avarizia espressiva” è emersa dall’analisi della frequenza delle parole legate ai sentimenti che compaiono nei libri pubblicati nel secolo scorso, milioni dei quali sono oggi disponibili in forma digitale.

Se la letteratura riflette in qualche misura il mondo in cui nasce, negli ultimi cinquant’anni la nostra società è diventata sempre meno capace o sempre meno interessata a esprimere emozioni. Con una vistosa eccezione: la paura. A scoprirlo è stata una approfondita analisi statistica sull’uso delle parole che veicolano stati emozionali, condotta su un’ampissima base di dati relativa ai libri pubblicati nel XX secolo, e illustrata in un articolo pubblicato sulla rivista “PLoS ONE”.

Alberto Acerbi, attualmente all’Università di Bristol, e colleghi, hanno sfruttato il database Ngram di Google, che contiene la digitalizzazione di oltre cinque milioni di libri, prendendo in considerazione quelli pubblicati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra il 1900 e il 2000. In questo sterminato mare di parole, sono andati alla ricerca delle parole che esprimono emozioni basandosi su elenchi di vocaboli – già applicati in precedenti studi – che permettono di classificarle in categorie come rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa.

Come cambiano le emozioni nei libri del XX secolo© Images.com/Corbis
Il primo risultato è stato l’emergere con grande chiarezza di periodi in cui è molto più frequente l’uso di espressioni che indicano felicità e di altri in cui invece prevale la tristezza, periodi che corrispondono a grandi eventi storici. Così, dopo la felice euforia espressiva degli anni venti del Novecento, si è avuto un picco di manifestazioni di tristezza in coincidenza con la grande depressione e con la seconda guerra mondiale, e un poi ritorno della felicità durante gli anni sessanta del baby boom.

Il secondo dato, più sorprendente, è la diminuzione generale, sempre più netta e progressiva, dell’uso di parole relative a stati d’animo, una diminuzione che non è un riflesso della pubblicazione, per esempio, di un
maggior numero di libri tecnico-scientifici perché si manifesta anche quando si considerano solo le opere di narrativa e critica letteraria.

Come cambiano le emozioni nei libri del XX secolo© Images.com/Corbis
All’interno di questa generale flessione, l’emozione che sembra diventare maggiormente “fuori moda” è il disgusto, mentre l’espressione della paura, dopo essere diminuita anch’essa per gran parte del XX secolo, a partire dagli anni settanta aumenta notevolmente, in controtendenza rispetto al costante declino degli altri stati d’animo.

I ricercatori hanno osservato anche una progressiva diversificazione geografica: oggi, al contrario di quanto accadeva un tempo, gli autori americani esprimono più emozioni di quelli britannici. Questa inversione di ruoli, pur facendo parte di una più generale differenziazione stilistica fra inglese britannico e inglese americano, è iniziata negli anni sessanta per esplodere dagli anni ottanta, in coincidenza – osservano gli autori – con l’aumento di sentimenti narcisisti e “poco sociali” nei testi delle canzoni popolari degli Stati Uniti, rilevato da un’altra recente ricerca.

Questo aumento di espressioni di contenuto emozionale appare però improntato a un intimismo al limite dell’egocentrismo, come evidenzia l’impennata dei pronomi di prima persona singolare (come, “io”, “me”, “mio”), a scapito di parole che indicano interazioni sociali (come “amico”, “parlare”, “noi”, “bambino”).

I Rosacroce

I Rosacroce: i sacri attori
Gabriele La Porta

http://www.airesis.net/giardinomagi_rosacroce.html
La storia di una appassionante intuizione che getterebbe una nuova luce nel complesso mondo della storia del movimento rosicruciano. Un’intuizione che l’autore trova condivisa in un incontro con la celebre Frances A. Yates – una delle più importanti studiose del fenomeno rosicruciano ed in generale dell’ermetismo – svoltosi a Londra poco prima della scomparsa della studiosa. Una relazione assai stretta legherebbe i misteriosi autori dei manifesti dell’utopia rosicruciana – la Fama e la Confessio – e la compagnia di Shakespeare.

I naufraghi sono ormai disperati: da 33 giorni vanno alla deriva nell’oceano, nelle acque gelide di un mare sconosciuto, molto più a nord della Scozia. La loro nave è stata affondata da un improvviso fortunale, hanno fatto appena in tempo a calare le scialuppe, a stipare le provviste e ad allontanarsi prima che il veliero colasse a picco come un sasso. È il febbraio del 1613, 99 uomini si trovano sulle soglie della disperazione, intirizziti, privi di punti di orientamento, sospinti da un’imperiosa e sconosciuta corrente che li spinge a nord, implacabilmente. Ma ecco che improvvisamente, quasi come un’apparizione, dalla nebbia appare un’isola.

Con foga i marittimi vogano verso quell’approdo insperato e sconosciuto. Perché quella terra non è segnata sulle carte nautiche. A pochi metri dal bagnasciuga i naufraghi si accorgono di essere inaspettatamente attesi. Sulla spiaggia ci sono 9 uomini tutti vestiti di bianco, che, con gesti evidenti, li invitano all’approdo. Le scialuppe giungono a riva, gli occupanti scendono e subito sono presi da grande meraviglia. Quegli uomini vestiti di bianco portano sul capo un grande turbante, con al centro un rubino grande come un uovo d’oca. Inoltre i nove, tutti di età indefinibile, ma sicuramente molto anziani, parlano a ciascuno dei naufraghi nell’oro idiomi. Agli inglesi in inglese, agli scozzesi in scozzese, agli irlandesi in irlandese. Non solo, mostrano addirittura di avere padronanza dei dialetti, parlando nello slang dei quartieri, dei villaggi dove ogni naufrago è nato.

Da questo momento i marinai passano da una sorpresa all’altra. L’isola, al cui governo ci sono 99 saggi, tutti vestiti di bianco, tutti con un rubino sul turbante, tutti poliglotti, tutti di età indefinibile, ha una civiltà molto avanzata rispetto a quella europea. Una energia, sconosciuta ai nuovi arrivati, illumina le città anche di notte, permette di rendere mite il clima, guarisce gli ammalati. Prodigi di una tecnica sconosciuta permettono ai candidati di ottenere due raccolti l’anno. La miseria, la fame, il dolore, sono sconosciuti. Non ci sono malviventi; ne diseredati, ne approfittatori. I sapienti reggono il governo della comunità con ineguagliabile saggezza ed abitano tutti insieme in un tempio chiamato Salomone.

Felici di trovarsi in quell’Eden, i naufraghi chiedono però ai sapienti bianco vestiti un grande favore. L’Europa è divorata dall’invidia, dalla paura, dalle guerre, dalle carestie. Vorrebbero quei saggi prendere il mare e portare altrove la loro civiltà? I saggi accettano, ma andranno coperti dell’anonimato e daranno i frutti della loro scienza gradatamente, un poco alla volta, perché una tecnica troppo avanzata, se “regalata” a persone egoiste, potrebbe essere impiegata contro l’umanità invece che a suo favore. Dunque andranno, ma saranno “invisibili” alla gente.

99 “biancovestiti” nel 16l2 salpano verso il mondo occidentale, lasciandola propria isola, chiamata “Atlantide”.

Cosi racconta Francesco Bacone[1], in un capolavoro della letteratura e della filosofia anglosassone; Nova atlantis, opera scritta nel 1620.

Il testo è fondamentale per il ricercatore delle “curiosità” della cultura. Perché con il nome di “invisibili”, di “vestiti di bianco” erano conosciuti proprio in quegli anni gli appartenenti ad un gruppo sapienziale celebre,nel XVII secolo: i Rosacroce.

Ma ci sono anche altre “curiose” corrispondenze. Bacone ambientala sua storia nel 1613 e alla fine di quell’anno, nel suo racconto, i saggi raggiungono l’Europa. Ebbene, nel gennaio del 1614 esce il primo dei “manifesti” dei Rosacroce: la Fama Fratemitatis, un documento impressionante per i contenuti che sembrano sopravanzare la civiltà occidentale dell’epoca di alcuni secoli[2].

Nessuno ha mai saputo chi fossero questi “rosacroce”, coperti da sempre da un impenetrabile mistero. L’unica cosa nota di questi “invisibili” è la, supposta, abitudine di portare nelle loro riunioni segrete abiti immacolati e un rubino sul copricapo.

Sono secoli che gli studiosi di ermetismo e della “occulta filosofia” formulano ipotesi, tutte più o meno inattendibili, alcune delle quali addirittura risibili. Probabilmente a questi ripetuti tentativi è mancato un filo di Arianna con cui addentrarsi nel labirinto. Ma forse la guida giusta per entrare nel “dedalo” è stata trovata nel 1982 a Londra, a casa della più celebre studiosa di ermetismo di questo secolo, Frances Yates[3]. In questo luogo forse il mistero dei Rosacroce è stato definitivamente svelato. Ma questa è una lunga storia e va raccontata da quando è iniziata, appunto nel 1613.

Heidelberg: il castello della sapienza

Il 1613 fu un anno di grande speranza per gli uomini di scienza e di pace. In un’Europa dilaniata dalle guerre di religione, dall’intolleranza e dal fanatismo, una regione sembrò porsi come guida di civiltà, il Palatinato.

Per una serie di coincidenze irripetibili sembrò potersi attuare un’alleanza tra uomini giusti e potenti che garantisse una pace duratura alle nazioni, la fine delle persecuzioni religiose e degli odi confessionali.

La speranza si accese con il matrimonio di Federico V, signore del Palatinato con Elisabetta di Inghilterra, figlia di Giacomo I, e nipote della Grande Elisabetta I, protettrice delle arti e delle lettere.

Federico V era noto nella sua terra per aver riunito ad Heidelberg, la capitale, scienziati e filosofi indipendentemente dalla loro fede religiosa. Giovane, brillante, colto, poeta, studioso di scienze ermetiche, protestante, ma con ampie vedute religiose, nemico dei settarismi, Federico è il punto di riferimento degli intellettuali tedeschi e boemi. Splendida, poco più che adolescente, capace di creare musica e di eseguirla, protettrice dei teatranti e dei tragediografi, amica di Shakespeare, Elisabetta rappresenta lo spirito illuminato anglosassone. curiosa, attiva, ha ereditato dalla zia, la grande Elisabetta, la passione per la “occulta filosofia”.

Logico che il matrimonio tra questi due ragazzi venisse salutato dagli uomini di cultura come l’inizio di una nuova era. Per di più Giacomo I ha un altro figlio, l’erede della corona, Enrico, di pochi mesi più grande di Elisabetta, unito alla sorella da un vero profondo affetto e da una totale stima reciproca.

Quando Enrico e Federico si conoscono stabiliscono immediatamente un rapporto di completa fiducia. Tre ragazzi aperti, intelligenti, uniti dal gusto della vita, della ricerca e della passione per la “scientia scientiarum”. Tre giovani potenti, perché se Federico già è signore del Palatinato, Enrico lo diventerà della Gran Bretagna. È quindi giusto che questi ragazzi ipotizzino un futuro diverso e per i propri paesi e per l’Europa intera.

Ecco i loro sogni: attuare subito nel Palatinato la città ideale, Heidelberg, dove tutte1e ricerche, tutte le filosofie, tutte le religioni possono trovare ospitalità. Praticare immediatamente una forma di governo tollerante verso qualsiasi tipo di fede, incentivare gli studi ermetici e scientifici, abolire i soprusi, le angherie dei potenti, di qualunque confessione essi siano, E poi, forti di questa esperienza, “esportare” questo modello di stato in Inghilterra, non appena Enrico diventerà a sua volta re, titolo che gli spetterà per naturale successione.

Un sogno, certo, ma con moltissime probabilità di attuazione. Non appena Federico e Elisabetta, dopo essersi sposati a Londra, giungono nel Palatinato attuano tutte le riforme che avevano stabilito nelle lunghe riunioni notturne con Enrico nella capitale inglese, alla presenza di Dee e di tutti gli ermetisti amici di Elisabetta, tra cui Shakespeare. Il già celebre drammaturgo che da quando ha avuto modo di conoscere Giordano Bruno, che fu ospite della Grande Elisabetta, ha scritto opere teatrali colme di significati ermetici, quali il Combelino, La Tempesta, il Racconto d’Inverno…

Il castello dove i due giovani coniugi vivono è trasformato in pochi giorni in un tempio della poesia, dell’arte, della filosofia. Statue che cantano, fontane illuminate giorno e notte, musiche perenni, ospedali gratuiti per gli infermi, imposizioni fiscali proporzionali al reddito, istruzione gratuita per i figli di tutti i cittadini. Il sogno si avvera.

Federico ordina che siano acquistati tutti i volumi disponibili di filosofia e di ermetismo, Elisabetta fa giungere a Heidelberg la compagnia dei teatranti di Shakespeare perché tengano continue e pubbliche rappresentazioni delle ultime commedie del maestro, appunto quelle ermetiche. Architetti, ingegneri, pittori ipotizzano la realizzazione di città ideali e la trasformazione di Londra in un Eden, non appena Enrico andrà al trono. Segretamente giungono le opere, finora inedite, di Tommaso Campanella, in prigione a Roma e subito date alle stampe. Sono diffusi gli scritti di Agrippa, di Bruno e di tutti i filosofi greci. n sogno della pace si sta realizzando, forse il mondo cambierà, anzi stà già cambiando. Addio orrori, addio guerre, addio pestilenze, addio tribunali inquisitori, addio torture, addio roghi, addio tenaglie infuocate, addio bigottismi e vessazioni psicologiche. È il 1613; anzi, l’anno è terminato, è il 1614, quando appunto, misteriosamente, è diffuso il primo manifesto dei Rosacroce, la celebre Fama.

Per svelare il segreto dei Rosacroce occorre adesso fare un salto in avanti nel tempo, lasciare Heidelberg e giungere a Londra. Dove chi scrive è stato ricevuto, credo primo fra gli studiosi italiani, nella casa della “mitica” Frances A. Yates.
Una romantica signora inglese e il suo segreto

L’invito mi era giunto inaspettato nel giugno del 1982 mentre ero a Parigi, dove conducevo un seminario al politecnico VIII, su invito della professoressa Elvira Le Duc Liggio, assistente del celebre Chatelet. L’argomento delle 12 lezioni era Giordano Bruno e l’arte della memoria, un argomento che la professoressa Yates ha studiato venti anni prima di me, facendone un cardine del suo insegnamento al Warburg Institute di Londra. Ma soprattutto il merito della studiosa è stato quello di aver mostrato come l’ ermetismo sia stata non una filosofia “minore”, ma una corrente di pensiero divergente da quelle empiriche, razionaliste, metafisiche, dialettiche, positivistiche, idealiste, che trovano da sempre ospitalità nelle Università. Ha sottratto gli studi della “scientia scientiarum” alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori e li ha collocati nella storia del pensiero umano,’con la stessa dignità di tante altre discipline. Nell’alveo delle sue ricerche si è successivamente posto in Italia Eugenio Garin, il quale, dopo un periodo di “perplessità” da parte della truppa accademica, è a sua volta riuscito a far comprendere anche nelle nostre Università l’importanza degli studi ermetici.

Quando ho tra le mani la lettera di invito per poco non svengo dall’emozione. Come mi riprendo prenoto un aereo per Londra e la sera stessa sono nella capitale anglosassone.

Devo però spiegare come mai la signora Yates mi abbia “convocato” per un colloquio, perché è proprio questo il nocciolo che permetterà di chiarire l’enigma dell’identità dei Rosacroce (ovviamente qui parliamo di coloro i quali, sotto questo nome, pubblicarono la Fama e la Confessio).

Tutto nasce dalla lettura di un’opera della ricercatrice, Gli ultimi drammi di Shakespeare, edito in Italia da Einaudi. Mentre sto leggendo il testo, siamo nel 1979, ho la sensazione che l’autrice abbia nascosto un “segreto” nelle sue pagine. Applico allora al volume un metodo di lettura diverso, ossia comincio a leggere tre righe sì e tre no, ma non raggiungo alcun risultato. Allora leggo il testo alternando sette righe in sette righe. Nulla. Dopo un mese di prove mi arrendo. Ma una sera, mentre sto per prendere sonno, improvvisamente, nel dormiveglia, mi ricordo alcune parole di Giorgio Colli, il filosofo toscano studioso di Dionisio e di Nietzsche. Mi rammento che, a suo dire, i misteri eleusini (una ritualità della Grecia antica con cui si celebravano le “storie” dionisiache) venivano proposti “sotto l’aspetto della rappresentazione teatrale”. Anzi costituirono la prima forma di teatro sacro, tanto è vero che Eschilo, per aver scritto le prime tragedie fu considerato un profanatore. Così diceva Colli.

Mi sveglio di soprassalto, perché la Yates afferma in molti suoi studi che i Rosacroce si definivano “attori”. Collego questa informazione con i sacri officianti le cerimonie dionisiache, che appunto erano “attori “. Mi fulmina allora una intuizione.

Stabilisco un rapporto tra “l’essere uomini di teatro” con coloro i quali conoscono i “misteri” e giungo ad una conclusione che, per ora, qui non anticipo.

Dunque nel 1973 scrivo alla Yates e la lettera le giunge tramite un comune amico, uno scienziato, che non vuole essere nominato. Posso soltanto dire che è un fisico di fama mondiale, insignito recentemente della massima onorificenza internazionale per i suoi studi.

Passano anni e quindi, ecco, inaspettata, a Parigi, la lettera d’invito.

La casa della Yates è a Kensington High Street, nei pressi dell’Holland Park.

Vengo introdotto da un cameriere in un giardino all”‘italiana”, un labirinto di siepi. Qui trovo la studiosa a prendere il tè.

Mi fa accomodare e poi mi dice in perfetto “toscano”:

Lei mi ha scritto formulando un’ipotesi sulla identità dei Rosacroce nel XII secolo. Io la condivido perfettamente e lei è stato bravo a comprendere che questa idea io l’ho segretamente rivelata nelle mie opere. Ma non ho mai potuto esplicarla perché non ho prove certe. Però personalmente sono sicura che effettivamente i Rosacroce erano quelle persone che lei mi ha indicato. Peccato non poterlo affermare a livello “universitario”.

I Rosacroce, ovvero i “sacri attori”

Siamo dunque giunti al termine di questo lungo articolo, se siete arrivati fin qui, forse avrete già capito. Comunque ricapitolo: l’attore, da un punto di vista ermetico, è un sacro officiante gli “antiqui” riti. Gli “invisibili” si identificano come attori. La Fama e la Confessio sono resi noti quando una compagnia teatrale comincia a rappresentare in Europa le commedie di Shakespeare dense di significati ermetici. L’ipotesi è che i Rosacroce fossero la compagnia teatrale di Shakespeare. Date, luoghi, contenuti coincidono in modo impressionante. E non dimentichiamo che il drammaturgo inglese era amico di Elisabetta la Grande, protettrice di Giordano Bruno, il mago che diffuse la “scientia” in Europa.

Questo è tutto. Rimane soltanto da dire un’ultima cosa, facendo ancora un salto indietro nel tempo.

Il sogno di Elisabetta la nipote della grande regina) e di Federico si infranse. Tutto fu causato dalla morte di Enrico, il fratello di Elisabetta, l’erede al trono. Infatti, quando la reazione cattolica (Spagna e Papato) investì con le sue orde il Palatinato, l’Inghilterra non scese al fianco di Federico e questi fu sconfitto alla battaglia della Montagna Bianca.

1620: in questa data i sogni muoiono. I “manifesti” rosacrociani rimangono lettera morta in un’Europa investita dalla inquisizione. Soltanto Francesco Bacone rammenta “quello che avrebbe potuto essere” nella Nova Atlantis, il libro con cui si è aperto questo lungo articolo.

Ma la “scientia” non può morire. Ad maiora.

Note

[1] Francesco Bacone (1561-1626), uomo di stato e filosofo inglese. Per tutta la vita accarezzò un vasto progetto di indagine della natura, che prevedeva la costruzione di strumenti tecnici per il dominio del mondo naturale. Bacone si propose la stesura di una grande opera, la Instauratio Magna, nella quale esporre i temi della propria speculazione, ma di essa scrisse solo la prima parte, Il Novum Organum (1620). Postuma venne pubblicata la Nuova Atlantide, nella quale è descritta un’immaginaria società fondata sul sapere scientifico.

[2] I due manifesti rosacroce, la Fama Fraternitatis e la Confessio Fraternitatis, sono entrambi riportati integralmente in italiano in appendice a L’illuminismo dei Rosacroce, di F. Yates, ed. Einaudi.

[3] Frances Yates, studiosa inglese formatasi nell’ambiente del Warburg Institute, ha compiuto ricerche essenziali sulla cultura del ‘500. A lei si devono, fra gli altri, i saggi Giordano Bruno e la tradizione ermetica (ed. Laterza), L’Arte della Memoria (Einaudi), L’Illuminismo dei Rosacroce (Einaudi).

Articolo pubblicato sulla rivista Abstracta n. 3 – marzo 1986

Da leggere…

Carrismi, giorni fa vi ho parlato del musicista, autore e ricercatore, Alberto Tebaldi. Oggi è uscita una interessante intervista su Il Velino.
Ve la consiglio

Buona lettura
Gabriele

http://www.ilvelino.it/it/article/alberto-tebaldi-mostro-una-strada-alternativa-agli-operatori-musicali/54255fb5-01b9-4f63-a678-c42307f7a0c1/

Alberto Tebaldi: Mostro una strada alternativa agli ‘operatori musicali’
Con “Trattato di Armonia Jazz Alchemica” il musicista è al suo terzo libro

Chi è Alberto Tebaldi? Più uno studioso, più un musicista o più una persona in cerca di sé? “Un noto pianista del panorama Jazz italiano, con il quale ho avuto la fortuna di collaborare nel mio ultimo disco, mi ha definito un ‘Ricercatore’. Probabilmente è la parola che racchiude in sé i tre aspetti messi insieme. Sicuramente sono una persona in cerca di sé; grazie alla stesura del ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’ posso dire, oggi, di conoscere quella persona un po’ di più”. Così il musicista romano classe 1972 che ha da poco pubblicato il suo terzo libro (Narcissus Self Publishing). L’artista si descrive “lunatico, esigente, autocritico” e mastica le note sin da quando era piccolo, amando suonare ed insegnare a farlo. “Mi sono avvicinato alla musica per caso, grazie a mio padre, artigiano del legno, il quale un giorno restaurò una vecchia chitarra gettata via da chissà chi e me la regalò. Da quel momento non ho mai più abbandonato lo studio di questo strumento – racconta Alberto Tebaldi al Velino -. L’interesse per la didattica è nato parallelamente ai primi approcci alle sei corde. Ho iniziato sin da subito ad ‘auto-insegnarmi’ e ad insegnare cercando di comprendere le potenzialità dello strumento, compilando decine e poi centinaia di fogli che ancora oggi conservo, pieni di speculazioni e teorie, spesso strampalate, qualche volta azzeccate, a volte illuminanti, che sarebbero poi state alla base del materiale delle mie pubblicazioni”. Se gli si chiede cos’è per lui la musica, Alberto risponde: “Uno dei più noti studiosi di esoterismo del 1800, Eliphas Levi, sosteneva che… ‘La Magia è la scienza tradizionale dei segreti della Natura…’. Io penso che la Musica, intesa come ‘vibrazione’, sia tra i principali elementi di cui la Magia dispone per esplorare i segreti della Natura”. “Trattato Di Armonia Jazz Alchemica” è il suo terzo libro. “Il mio primo libro ‘Metodologie di linguaggio musicale p.1’, edito da Sinfonica Jazz, venne pubblicato nel 2001; nel 2007 Nuova Argos pubblicò il mio secondo libro dal titolo ‘Manuale creativo di Chitarra jazz’, dedicato alla figura di John Coltrane e alla visione simbolica dell’armonia jazzistica comparata alla teoria del colore. Il ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’ è il terzo scritto – spiega -, al momento solo in versione eBook, e rappresenta un ampio approfondimento dei concetti esposti nei primi due”. DA DOVE NASCE L’IDEA DI QUESTO NUOVO LAVORO? “Iniziai a realizzare nuove tavole didattiche già nel 2009 in occasione di un Seminario tenuto, in qualità di docente, presso l’Istituto d’Arte Osvaldo Licini di Ascoli Piceno. L’intento per questo nuovo libro non era rivolto unicamente all’analisi degli equilibri interni che regolano alcune cadenze armoniche; volevo, infatti, capire se e cosa potesse esserci dietro questi equilibri. La lettura di testi di natura alchemica e di Magia, in associazione alla sperimentazione onirica spontanea e indotta, mi ha permesso di poter formulare l’esistenza di una tonalità occulta che condiziona la composizione del musicista suggerendogli linee melodiche e accordali, senza che possa rendersene conto. Al momento – sottolinea Alberto Tebaldi – la ricerca mi ha portato a determinare l’aspetto cromatico di questi suoni occulti, nonché la disposizione degli stessi all’interno della tonalità d’appartenenza. Per quanto riguarda invece la parte tecnica, il ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’ offre un gran numero di soluzioni armonico-improvvisative, che prendono spunto dalla suddivisione in parti uguali dell’ottava musicale illustrando sovrapposizioni e veri e propri sistemi, certamente già utilizzati in passato da John Coltrane, ma che ancora oggi vengono studiati e rielaborati dai più grandi musicisti di Jazz contemporaneo”. QUALI I PASSAGGI FONDAMENTALI DELLA TEORIA CHE ILLUSTRA? “Non credo d’essere in grado di fornire una ‘teoria’ nei miei libri, piuttosto il mio è l’intento di mostrare una strada alternativa a coloro che io chiamo ‘operatori musicali’; quella strada che io stesso ho intrapreso grazie ad alcuni ‘suggerimenti’ ricevuti sin dagli inizi del mio cammino artistico”. A CHI CONSIGLIA QUESTO LIBRO? SOLO AGLI ADDETTI AI LAVORI? “Lo consiglierei a chi non si è ancora reso conto che dietro alla Realtà conosciuta si nasconde un ‘sopra’ e un ‘sotto’ fatto di numerosi ‘luoghi dimensionali’ il cui accesso è indissolubilmente legato alla sensibilità soggettiva dell’individuo e alla propria ‘capacità onirica’ e percettiva della forma, del suono e del colore, nonché del simbolismo che i tre elementi portano con sé. Questo libro può essere utile a tutti i musicisti e, almeno per ciò che riguarda l’intera prima parte, anche a chi con la musica non ha nulla a che fare, ma che è dedito ad una personale e profonda ricerca interiore”. USA SPESSO PARLARE IN PRIMA PERSONA: LO FA PERCHÉ SI PROPONE AD ESEMPIO PER GLI ALTRI MUSICISTI O PER SOTTOLINEARE IL FATTO CHE QUESTA RICERCA È UN VIAGGIO INTERIORE? “Rispetto ai miei primi due libri ho voluto espormi ancor di più – dice Alberto -, anche a rischio di incorrere in critiche feroci, poiché ho ritenuto molto più importante affrontare aspetti da cui la didattica musicale convenzionale si tiene alla larga, un po’ per mancanza di argomenti, un po’ per paura di affrontarne i risvolti. Un capitolo del libro è dedicato al mio pensiero sulla misteriosa quanto nota legge di Adolfo Gustavo Rol e alla spiegazione che i miei studi mi hanno portato a darne. Il tentativo di scandagliare ciò che l’abbinamento percettivo del colore verde e della quinta musicale comporta a livello psichico e di consapevolezza individuale è un chiaro esempio di come questo libro sia in fondo il ‘racconto’ del mio personale viaggio interiore, che non nasconde la ‘presunzione’ di riuscire ad indurre una forte spinta nel viaggio interiore del lettore il quale, lungo il proprio percorso di crescita personale, si trova ad incrociare i miei scritti”. ATTUALMENTE DOVE INSEGNA? “Da tre anni circa ho uno Studio privato nel centro di Roma che ho chiamato ‘Nono livello di percezione’ (‘9th Level of Perception’ per gli appassionati anglofili). Il nome prende spunto dal simbolo complesso delle 9 Dimensioni rappresentate dalla Chiave d’accesso all’Armonia universale descritta nel mio secondo libro. Grazie ad internet, ricevo spesso richieste di studenti e musicisti disseminati per l’Italia che mi chiedono aiuto riguardo le problematiche armoniche e improvvisative. Estratti dei miei libri sono stati utilizzati anche in alcune tesi universitarie”. LEI SUONA MUSICA JAZZ. CON QUALE FORMAZIONE I SUOI PROSSIMI LIVE? QUALE IL CONCERTO CHE STA PREPARANDO ATTUALMENTE? “Successivamente alla pubblicazione del Cd album Cyber Alice (2010 – etichetta discografica Zone di Musica) mi sono dedicato alla raccolta e all’ideazione di nuovo materiale utile alla stesura del ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica’. Nei miei progetti musicali di stampo jazzistico ‘Cyber Alice’ e ‘Phalaen (opsis)’ ho sempre presentato composizioni originali, dove l’utilizzo dell’armonia jazz si fondeva alle esperienze giovanili di stampo rock-progressive. Riguardo i miei prossimi live, non ho fretta… reduce dalle fatiche del libro, attualmente sto lavorando alla ricerca di una formazione stabile i cui requisiti fondamentali dovranno essere necessariamente serietà e umiltà. Mi piace selezionare i miei collaboratori principalmente in base alle doti umane prima ancora che musicali (che, naturalmente, non devono mancare) e questo richiede, necessariamente, tempo. Il concerto che sto preparando prevede la presentazione di alcune composizioni inedite, sulle quali sto lavorando già da molti mesi, dalle armonie alquanto complesse che prendono volutamente spunto dagli studi proposti nel ‘Trattato di Armonia Jazz Alchemica”. QUALE IL SUO LIVE INDIMENTICABILE E CHI È IL MUSICISTA CON CUI ASPIRA A SUONARE? “Il mio live indimenticabile è senz’ombra di dubbio il primo in assoluto, all’età di 17 anni credo, fatto di cover rock, d’imbarazzo, di inconsapevolezza armonica, di totale incoscienza musicale, di fraseggi rubati e mal riproposti, di fuori tempo, di scale pentatoniche legnose, di note sbagliate e di una tecnica a dir poco improbabile… ma con la sensazione che da quel giorno avrei intrapreso un percorso importante che mi avrebbe portato a fare un passo fondamentale verso la conoscenza di me stesso e delle ‘forze’ che mi circondano. Più che aspirare a suonare con un musicista in particolare, il mio sogno è quello di poter un giorno ascoltare le mie composizioni suonate dai grandissimi della musica contemporanea, sedermi al tavolo con una buona birra e godermi lo spettacolo”. PER UN MUSICISTA CONTA PIÙ LA DIDATTICA O LA PROPRIA CAPACITÀ DI TRASMETTERE EMOZIONI? “Non mi sono mai posto il problema di dover trasmettere emozioni; se la propria musica nasce da un lavoro serio e costante è inevitabile che ne trasmetta, siano esse positive o negative. La musica non è sempre piacevole, ciò che fa la differenza è l’onestà del musicista e di ciò che propone. Per quanto riguarda la didattica è per me un processo di crescita personale e al contempo di condivisione irrinunciabile. L’attitudine a pubblicare nei miei libri i traguardi raggiunti è l’inevitabile conseguenza della mia avversione nei riguardi di una ‘certa didattica’, italiana in particolare, fatta di pseudo insegnanti terrorizzati all’idea di essere surclassati dagli stessi allievi, e che spesso si nascondono dietro la bravura tecnica, paragonabile a ginnastica per le dita, capace solo di impressionare uno stolto”. ALTRI PROGETTI IN CANTIERE? “Non escludo l’idea di scrivere un libro sulle tecniche empiriche e spontanee da me utilizzate nella sperimentazione onirica. È un argomento che mi sta molto a cuore e che vorrò affrontare con il massimo rispetto, per cui credo passerà molto tempo prima che questo progetto possa vedere la luce. Più a breve termine ho intenzione di realizzare dei video esplicativi sulle armonie che caratterizzano alcune mie composizioni e, parallelamente, vorrei lavorare ad un nuovo disco, dove valorizzare al meglio la consapevolezza musicale fin qui acquisita. Ma, ad essere sincero, il ‘progetto’ che in assoluto ritengo più importante per la mia ricerca artistica è, senza dubbio, quello di avvicinarmi sempre più al ‘Cancello verde’ (…) e tentare di varcarne la soglia!”.

“Mi candido con il Movimento Unione Italiano per rilanciare la cultura”

http://www.lenovae.it/gabriele-la-porta-sceglie-il-movimento-unione-italiano/

Gabriele La Porta: “Mi candido con il Movimento Unione Italiano per rilanciare la cultura”

Movimento Unione Italiano: alle prossime elezioni amministrative si candida anche Gabriele La Porta

Il Movimento Unione Italiano rappresenta la vera novità in vista delle elezioni amministrative che si svolgeranno a Roma il prossimo 26-27 maggio. Tra le proprie fila il Movimento Unione Italiano annovera anche Gabriele La Porta, giornalista, filosofo, scrittore e Professore Italiano, nonché ex direttore di Rai2 e di Rai Notte

Professore, cosa l’ha spinta a scegliere di candidarsi insieme al Movimento Unione Italiano?

“Io penso che il bacino culturale presente nella città di Roma sia così straordinario che possa consentire ai cittadini di vivere “di rendita”. Mi spiego: sembra che non ci sia mai stata nella Capitale, al di là delle dichiarazioni, una vera volontà di impresa. A Roma ci sono tutti gli stili architettonici, tutti gli stili pittorici, che messi insieme sono più o meno pari alle vestigia di tutta la Francia e di tutta l’Inghilterra. In realtà senza voler addossare facili colpe, penso che Roma possa offrire un panorama culturale unico al mondo. E la possibilità di avere milioni, e ribadisco milioni, di turisti possa rendere la vita dei cittadini migliore rispetto a quella attuale. Il Movimento Unione Italiano fa proprio della cultura uno dei punti cardine del rinnovamento della città di Roma. Per questo ho accettato di candidarmi con il Movimento Unione Italiano“.

 

 

NEL MONDO LIQUIDO: AMORE E ALTRI DISTURBI

Il termine borderline (BPD) deriva da un ampliamento della classificazione psicoanalitica classica dei disturbi mentali, raggruppati in nevrosi e psicosi, e significa letteralmente “linea di confine”. L’idea originaria era riferita a pazienti con personalità che funzionano “al limite” della psicosi pur non giungendo agli estremi delle vere psicosi (come ad esempio la schizofrenia). Questa definizione è oggi considerata più appropriata al concetto teorico di “Organizzazione Borderline”, che è comune ad altri disturbi di personalità, mentre il disturbo borderline è un quadro particolare. Le formulazioni del manuale DSM IV e le versioni successive, come pure le classificazioni più moderne internazionali (ICD-10) hanno ristretto la denominazione di disturbo borderline fino a indicare, più precisamente, quella patologia i cui sintomi sono la disregolazione emozionale e l’instabilità del soggetto. È stato proposto perciò anche un cambio di nome del disturbo. Il disturbo borderline di personalità è definito oggi come disturbo caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e variabile, e da instabilità riguardanti l’identità dell’individuo. Uno dei sintomi più tipici di questo disturbo è la paura dell’abbandono. I soggetti borderline tendono a soffrire di crolli della fiducia in se stessi e dell’umore, ed allora cadere in comportamenti autodistruttivi e distruttivi delle loro relazioni interpersonali. Alcuni soggetti possono soffrire di momenti depressivi acuti anche estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare comportamenti normali. Si osserva talvolta in questi pazienti la tendenza all’oscillazione del giudizio tra polarità opposte, un pensiero cioè in “bianco o nero”, oppure alla “separazione” cognitiva (“sentire” o credere che una cosa o una situazione si debba classificare solo tra possibilità opposte; ad esempio la classificazione “amico” o “nemico”, “amore” o “odio”, etc.). Questa separazione non è pensata bensì è immediatamente percepita da una struttura di personalità che mantiene e amplifica certi meccanismi primitivi di difesa. La caratteristica del disturbo borderline è, inoltre, una generale instabilità esistenziale, caratterizzata da relazioni affettive intense e turbolente che terminano bruscamente, provocando “crolli” nella vita lavorativa e di relazione dell’individuo. Il disturbo compare nell’adolescenza e concettualmente ha aspetti in comune con le comuni crisi di identità e di umore che caratterizzano il passaggio all’età adulta, ma avviene su una scala maggiore, estesa e prolungata determinando un funzionamento che interessa totalmente anche la personalità adulta dell’individuo. Diagnosi secondo il DSM IV-TR Il disturbo di personalità borderline è un disturbo delle aree affettivo, cognitivo e comportamentale. Le caratteristiche essenziali di questo disturbo sono una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1. sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono; 2. un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione; 3. alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili; 4. impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (quali spendere oltre misura, sessualità promiscua, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate etc.); 5. ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante; 6. instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (es. episodica intensa disforia o irritabilità e ansia, che di solito durano poche ore e, soltanto più raramente più di pochi giorni); 7. sentimenti cronici di vuoto; 8. rabbia immotivata ed intensa o difficoltà a controllare la rabbia (es. frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici etc.); 9. ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress. Secondo alcuni autori i soggetti con un numero sufficiente di fattori di rischio che hanno sviluppato un BPD nella nostra cultura, avrebbero potuto avere uno sviluppo diverso se fossero stati educati in un differente ambiente socio-culturale, magari sviluppando altri e diversi quadri psicopatologici. In questo breve scritto tento di mostrare che alcuni dei fattori socio ambientali suddetti sono stati minuziosamente descritti nei suoi lavori dal sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, il quale ha inteso spiegare la postmodernità usando le metafore di modernità liquida e solida. “Lo smantellamento delle sicurezze caratterizza una vita liquida sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa”. Sostanzialmente, Bauman ritiene che l’uomo di oggi non abbia più certezze né punti di riferimento stabili. È diventato tutto più fluido, liquido appunto. Nel nostro mondo fuggevole, fatto di cambiamenti imprevisti e talora insensati, quei sommi obiettivi dell’educazione tradizionale quali le consuetudini radicate e le scale stabili di valori diventano degli ostacoli. Quanto meno come tali vengono presentati dal mercato della conoscenza, per il quale lealtà, vincoli indistruttibili e impegni a lungo termine sono considerati (come ogni merce, in ogni mercato) anathema, e visti come altrettanti impedimenti da eliminare. Ci siamo spostati in un libero mercato in cui tutto può accadere in qualunque momento, e tuttavia nulla si può fare una volta per tutte. Il settore in cui è più evidente questa trasformazione è quello lavorativo: «In un’epoca in cui […] i luoghi di lavoro scompaiono con poco o punto preavviso e il corso della vita è suddiviso in una serie di progetti una tantum sempre più a breve termine, le prospettive di vita appaiono sempre più […] accidentali.» Ma la liquidità è riscontrabile anche nelle relazioni sentimentali, ed è proprio questo è il tema centrale del saggio Amore liquido. In particolare, le riflessioni in esso contenute riguardano l’uomo senza legami fissi. Insomma la cultura dominante ci esporrebbe ad una vulnerabilità nei rapporti interpersonali e nel lavoro e in generale ad una serie di esperienze negative con conseguenti possibili vissuti di paura, vergogna, solitudine e abbandono (Adler, 1985; Kohut, 1974), che in varia misura si riscontrano nella psicologia del BPD. Più di un autore quindi ha cominciato a domandarsi se questa cultura può seriamente contribuire se non allo sviluppo di un disturbo mentale conclamato, almeno a dei tratti di personalità disfunzionali, che causano sofferenza. E forse sarebbe anche lecito domandarsi se le neuroscienze sociali e le discipline che interfacciano sociologia, filosofia e psicopatologia dovrebbero in qualche modo cominciare ad occuparsi di questi temi (magari anche con approcci più originali e innovativi?).

DR. MASSIMO LANZARO

1. Zygmunt Bauman. Cose che abbiamo in commune. 44 Lettere dal mondo liquid. Laterza, 2010.
2. Zygmunt Bauman. Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi. Laterza, 2006.

Psichiatria, con il Dsm-5 tutto ciò che piace diventerebbe disturbo mentale

La nuova versione del Manuale diagnostico dei disturbi mentali divide. Il Velino incontra Massimo Lanzaro, medico, psichiatra e psicoterapeuta

Qualcosa sta cambiando negli studi della mente. A maggio negli Stati Uniti (edito da Penguin) – l’anno prossimo in Italia -, sarà pubblicata la quinta edizione del Dsm, conosciuto come il Manuale diagnostico dei disturbi mentali, varato dall’Apa, l’Associazione americana di Psichiatri. A distanza di dieci anni dall’ultima versione – la prima risale al 1952 –, il frutto della task-force che ha interessato 1500 scienziati di 39 Paesi, anticipato da alcuni focus online, ha scosso il mondo medico. L’accusa più grande è che si “medicalizza la normalità”. Il Velino ha incontrato Massimo Lanzaro, napoletano classe 1971, medico, psichiatra e psicoterapeuta. E’ stato primario (al Royal Free Hospital di Londra) e direttore sanitario in Italia e in Inghilterra. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali. E’ membro dell’International Association for Jungian Studies. Attualmente scrive sulle riviste “B-liminal” e “N9ve”, sulla CG Jung Page e collabora con il Centro Raymond Gledhil di Roma e con l’Università del Cile.

 

Il Dsm è davvero la bibbia della diagnosi per psicologi e psichiatri?

“I criteri diagnostici del Dsm, costruiti su base statistica, sono essenziali per la sperimentazione farmacologica e perché un sistema classificatorio descrittivo dovrebbe essere compatibile con teorie diverse e quindi consentire di conciliare diverse scuole di pensiero: psichiatri più orientati sul versante neurobiologico, psichiatri e psicologi ad indirizzo psicoanalitico, quelli di matrice cognitivo-comportamentale etc. In altre parole, la sfida delle ultime edizioni del Dsm (due, anzi quattro se si considerano le revisioni: Dsm-III del 1980, Dsm-III-R del 1987, Dsm-IV del 1994, e Dsm-IV-Tr del 2000) è stata quella di tentare di far andare d’accordo tutte le scuole e i paesi del mondo, permettendo quindi la comunicazione tra operatori diversi, basandosi solo sull’aspetto esteriore dei sintomi, senza ipotesi teoriche sottostanti. Tuttavia questi criteri dovrebbero essere usati con cautela in clinica e nella pratica quotidiana, non certo come ‘una bibbia’. Quando lo psichiatra incontra una persona dovrebbero essere considerati solo come un orientamento, un’indicazione di possibilità, magari un punto di partenza”.

 

Quanto è vera l’accusa mossa al Dsm-5 di spingere i medici ad un’eccessiva prescrizione di farmaci?

“Il Dsm-5 effettivamente potrebbe produrre secondo alcuni un incremento di nuove diagnosi con un aumento della medicalizzazione della normalità, il che, se accadesse, sarebbe fonte di ingenti proventi per l’industria farmaceutica. Questa tendenza è stata in verità documentata nel 2011 in un importante saggio della prof.ssa Marcia Angell, che insegna ad Harvard e non si può dire sia l’ultima venuta, perché tra le altre cose ha diretto quella che viene considerata una delle più importanti riviste mediche del mondo: il New England Journal of Medicine. Il saggio è intitolato ‘L’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria’…”

Quali sono i comportamenti considerati prima normali ed ora catalogati dal Dsm-5 come disturbi su cui intervenire?

“Elenco alcuni di quelli che ha segnalato Allen Frances (uno dei capi delle task force dei due precedenti Dsm). Il disturbo di disregolazione dirompente dell’umore: in un certo senso gli scatti di rabbia potrebbero diventare un disturbo mentale. Il normale lutto diventerà Depressione maggiore (l’elaborazione normale di un lutto non va curata con i farmaci ma l’uso di una diagnosi potrebbe indurre i medici a fare il contrario). Le normali dimenticanze e debolezze cognitive senili saranno diagnosticate come Disturbo neurocognitivo minore, creando potenziali falsi allarmi in persone che non svilupperanno mai una demenza vera e propria. A causa dell’abbassamento della soglia dei criteri del Binge Eating Disrder (Disturbo da alimentazione incontrollata), abbuffarsi di cibo dodici volte in tre mesi (magari segno di cospicua golosità) potrebbe condurre ad una diagnosi”.

 

E’ solo la spinta ad un abuso di farmaci ad aver scosso la comunità medica mondiale, o il Dsm-5 presenta altre novità discutibili?

“La diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) dell’adulto subirà un’ulteriore ascesa, con aumento potenziale dell’abuso di stimolanti nel mercato parallelo delle droghe da strada. Contrariamente a quanto si era pensato per il fatto che veniva introdotto il concetto di ‘spettro’, i diversi criteri diagnostici dell’autismo, per il modo con cui sono stati specificati, abbasseranno i tassi di questo disturbo nella popolazione (del 10% secondo la task force del Dsm-5, o del 50% secondo altre fonti). Un rischio è, ad esempio, che vengano tolti a molti bambini gli insegnanti di supporto che sono fondamentali nelle fasce deboli. L’introduzione del concetto di ‘dipendenze comportamentali’ potrà subdolamente favorire una cultura secondo la quale tutto quello che semplicemente ci piace diventa un disturbo mentale; occorrerà forse stare in guardia dall’uso sconsiderato di diagnosi quali dipendenza da Internet o dal sesso, nonché dai costosi programmi di trattamento che potrebbero essere proposti per questi ‘nuovi pazienti’. Il confine tra il Disturbo d’ansia generalizzato e la normale ansia quotidiana, che è già poco delineato, lo sarà ancor meno, col risultato che vi saranno molte più persone alle quali verrebbero prescritti farmaci ansiolitici che, come è noto, creano dipendenza e assuefazione”.

Qual è il peso del mondo anglosassone sugli studi italiani di psichiatria?

“In realtà la comunità anglosassone subisce una discreta influenza dalla cultura americana, che si riverbera in un certo qual modo sulla comunità scientifica italiana. Fino a quando in psichiatria e psicopatologia dominava la cultura tedesca, le classificazioni dei disturbi psichici erano le più precise e ordinate possibili, saldamente fondate sui pilastri epistemologici della medicina. Il tentativo era quello cioè di raggiungere prima o poi una classificazione che rispecchiasse allo stesso tempo i fondamenti della medicina e l’ordine della natura, così come botanici, entomologi, biologi erano riusciti a fare con le specie viventi. Dopo la seconda guerra mondiale però, quando il testimone passò, in psichiatria, alla pragmatica cultura nordamericana, le cose cambiarono. Da allora ad oggi i modelli e le classificazioni adottate dall’Apa si sono rapidamente diffusi nel mondo intero, diventando la nosografia di riferimento”.

Qual è lo status quo delle strutture italiane in merito ai disturbi mentali?

“Forse un epifenomeno rivelatore dello status quo, estremamente attuale, è la situazione delle persone con disturbi mentali ricoverate negli OPG. Il termine per il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari era infatti fissato al primo febbraio 2013. Così prescrive la legge 9 del 2012 (comma 1 articolo 3 ter). Ma è evidente che tale termine non è stato rispettato, come aveva auspicato la Commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Marino. Lo stesso Presidente Napolitano ha definito la situazione ‘un orrore medioevale’. Le risorse destinate ai Dipartimenti di Salute Mentale, che devono presentare e attuare i progetti individuali finalizzati alle dimissioni degli internati o per progetti di alternativa alla misura di sicurezza detentiva e molti dei Dipartimenti stessi sono in ritardo inaccettabile. La sensazione generale è che a pochi contesti di eccellenza si affianchino molte realtà insufficienti e inefficaci”.

da Il Velino http://www.ilvelino.it/it/article/psichiatria-con-il-dsm-5-tutto-cio-che-piace-diventerebbe-disturbo-mentale/1be8e021-5caf-41f9-9433-81f981c033fd

Jung, Leonardo e le immagini dell’inconscio

 

di Massimo Lanzaro

Leonardo suggeriva agli artisti del suo tempo di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle “cose confuse”, perché “nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni”. Nel tedesco corrente gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente. Nella weltanshaung junghiana infatti, l’abbandono insito nel geshehenlassen (“lasciar accadere”) assume una valenza-chiave: lasciare che tutto avvenga e tuttavia conservare intatta una vigilanza etica ed intellettuale sono le condizioni dell’individuazione, di una prova totale di se stessi. Da note biografiche apprendiamo che Jung maturò personalmente tale concetto in seguito ad un momento che molti conoscono: l’assenza di riferimenti. Al termine di un periodo di enorme sofferenza (1912-1919) ci rende partecipi della sua estenuante esperienza personale: “Mi sentivo letteralmente sospeso. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di divenire preda dell’inconscio, e quale psichiatra sapevo fin troppo bene che cosa ciò volesse dire. Le tempeste si susseguivano, e, che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta”. Invece di riagganciarsi a idee o ad una situazione sociale, Jung decise di “lasciar accadere”, di abbandonarsi (dal francese à ban donner: mettere a disposizione di chiunque), di mettersi a disposizione delle immagini interiori che l’inconscio gli forniva. Possiamo supporre che in un simile contesto non basti scartare le resistenze e lasciar accadere, e che sia necessario un doppio ancoraggio. Da una parte la cura del corpo, la regolarità dell’attività professionale, dall’altra lo sforzo costante per obbligare le emozioni a prendere forma. “Perché altrimenti – scrive – correvo il rischio che fossero esse ad impadronirsi di me. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni. Dopo sei anni al limite della dissociazione, cominciarono a presentarsi forme nuove”. Jung le dipinse senza sapere che cosa fossero. Notò che l’oscurità interiore si dissipava e che si stabiliva da sé una solidità: “Quando cominciai a disegnare i mandala vidi che tutto, tutte le strade che avevo seguito, tutti i passi intrapresi, riportavano ad un solo punto, cioè nel mezzo. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è il centro (…). Cominciai a capire che lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé”. E nel passaggio dalla pittura all’idea si creò lo spazio che gli consentì l’elaborazione. Jung considerò il simbolismo del mandala come una fenomenologia del Sè e definirà l’archetipo del Sè come la totalità della psiche, l’integrazione compiuta tra conscio e inconscio, quello stato psichico che scaturisce dal superamento della dissociazione, dei poli conflittuali, il centro. Quindi, alcuni anni dopo chiamò funzione trascendente la cooperazione tra dati consci e dati inconsci, di immagini ed idee, al fine dell’integrazione di contenuti precedentemente non noti. Probabilmente anche basandosi sulle esperienze personali descritte postulò che le strade per conoscere l’inconscio fossero sostanzialmente due: una procede nella direzione della raffigurazione (la cui manifestazione più immediata è l’attività onirica e quelle più “mediate”, se così si può dire, sono, nella psicologia analitica, l’immaginazione attiva e la sandplay), l’altra della comprensione. Ed affermò: “Le due strade sembrano essere l’una il principio regolatore dell’altra, entrambe sono legate da un rapporto di compensazione. La raffigurazione estetica ha bisogno della comprensione del significato, e la comprensione ha bisogno della figurazione estetica”. Le due tendenze s’integrano in quella che appunto denominò funzione trascendente. Piace a questo punto ricordare l’esortazione di Hillman sul “fare anima”, cioè: “fare anima attraverso l’immaginazione delle parole”. Bisogna notare che la capacità di abbandonarsi consapevolmente alle proprie immagini interiori, in una condizione di sospensione della quotidianità, non è solo foriera di insight rispetto agli strati profondi della psiche. Tale stato di liminalità è, infatti, anche fonte di intuizioni ed ispirazioni che consentono di allentare la struttura normativa personale e sociale, di affrontare gli ostacoli incontrati dalla mente conscia, e talora di superarli col sorgere di modelli e simboli nuovi. Riflettendoci, è strano che le origini oniriche del pensiero moderno non siano altro che una nota in calce alla storia: mentre le idee più utili di Cartesio furono accolte a braccia aperte, la reazione alla loro origine fu violentemente negativa. Cartesio stesso fece notare la profonda importanza sia delle sue immagini oniriche, sia dei suoi calcoli e operazioni logiche per costruire il suo metodo. Ma pochi dei suoi contemporanei vollero accettare l’anomalia della conoscenza fondata sul sogno e, di conseguenza, sulle immagini. La conoscenza degli archetipi della mente (i mandala dipinti da Jung e quelli della tradizione alchemica ed orientale raffigurano l’archetipo del Sé) è in effetti difficile a chi crede nella sola forza denotativa delle parole: una definizione solitamente indica il punto di intersezione di una tassonomia, mentre un archetipo è ciò che proietta la tassonomia stessa. Il logos dell’anima predilige il linguaggio immaginale dell’intuizione e dell’evocazione, così come si manifesta nella durata di una psicoterapia analitica. L’individuazione degli archetipi è più agevole quando una parte della psiche si traspone in simboli e, in definitiva, in immagini, come avviene normalmente in sogno. Di tale trasposizione è inoltre capace il poeta, il pittore, lo scultore, un mimo sacro, o il danzatore che traccia spirali attorno al cuore, mostrando la vita che ne procede come un filo dal gomitolo…

Dr Max Lanzaro is an Italian Psychiatrist currently based in London, Verona and Naples;  he has worked as a Consultant in Italy (Naples, Milan) and in the UK (London, Exeter)

Bibliografia

C.G. Jung. La vita simbolica. Biblioteca Bollati Boringhieri, 1993.
E.G. Humbert. L’uomo alle prese con l’inconscio. La Biblioteca di Vivarium, 1998.
Reale B. Le macchie di Leonardo. Moretti & Vitali, 1998.

Archetipi e trasformazione in psicologia analitica (di Massimo Lanzaro)

Ogni 2 febbraio una marmotta predice la durata dell’inverno: se fa capolino dalla sua tana e vede la propria ombra, il clima invernale negli Stati Uniti si protrarrà per altre sei settimane; se invece non vede l’ombra, bisogna festeggiare, perché la primavera è ormai alle porte. Si tratta di una tradizione importata in Pennsylvania dagli immigrati tedeschi, ed è probabile che abbia le sue radici nelle credenze degli antichi romani che ritenevano appunto la prima decade di febbraio utile a intuire la durata dell’inverno, Una tradizione che poi ha assunto forme (e date) diverse in molti paesi.

Il 3 Aprile 2009 l’autore del Blog “Go into the story”, nonchè sceneggiatore e critico di ambito hollywoodiano, Scott Myers, recensiva una mia lettura psicologica (pubblicata in inglese) del film Ricomincio da capo (Groundhog Day), commedia del 1993 diretta da Harold Ramis ed interpretata da Bill Murray e Andie MacDowell, che prende spunto da tale tradizione.

In esso Phil Connors è un meteorologo televisivo che, controvoglia, deve recarsi nella piccola città di Punxsutawney per fare appunto un reportage sul Giorno della Marmotta. Un circolo temporale fa si che ogni mattina, alle 6.00 in punto, Connors viene svegliato dalla radio che trasmette sempre lo stesso brano musicale (I Got You Babe di Sonny & Cher), e da allora la giornata trascorre inesorabilmente allo stesso modo della precedente (e la marmotta intanto continua ogni giorno “a vedere la propria ombra”).

La recensione, tra l’altro dice: I’ve seen Groundhog Day probably 3 times, yet it never occurred to me that the Protagonist Phil Connor (Bill Murray) has the same first name as the groundhog Punxsatawney Phil. If not for that fact, I would tend to consider Dr. Lanzaro’s analysis to be a bit overblown. But a fact is a fact – and there is Phil the Protagonist, and Phil the Groundhog.

“Overblown” in italiano può essere tradotto con esagerato, pomposo (“over” in questo caso allude ad un “troppo”). In pratica mentre cercavo di analizzare l’evoluzione cinematografica di un carattere connotato filmicamente come presuntuoso, Scott Myers alludeva al fatto che prendessi quantomeno troppo seriamente la mia interpretazione. Quale ragione più interessante anche se un po’ autoreferenziale per scrivere e riflettere nuovamente sull’argomento. Barthes diceva che “quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia”; mi accingo dunque a riproporre non solo frammenti della mia precedente analisi, ma anche a tentare di rivedere il mio punto di vista di allora.

Suggerisco di guardare il film prima di leggere il resto di questi commenti. Vorrei inoltre segnalare che non state leggendo un articolo di critica cinematografica. Discuto di un film che dietro il racconto brillante è estremamente denso. Myers scrisse innanzitutto di essere sorpreso dal fatto che nella mia digressione avessi notato la coincidenza del nome del protagonista del film e della marmotta (entrambi si chiamano Phil), nonché dal fatto che facessi notare come più volte nel film il nome “Phil” appare nelle inquadrature sulla testa di Bill Murray, quasi a mò di didascalia.

Pensando alla non casualità di questi dettagli in effetti immaginai che il regista avesse voluto prendere spunto dalla tradizionale ricorrenza che in Pennsylvania si festeggia ormai da ben 126 anni per trattare in realtà (in maniera più o meno consapevole) il tema psicologico dell’ombra. In Analyze this del 1999 (Terapia e pallottole) Harold Ramis rivelerà più direttamente, forse, l’intreccio tra il suo cinema e la psicologia.

Sarà bene fare ora un piccolo excursus sui tre concetti chiave del pensiero junghiano: lnconscio Collettivo, Archetipo (uno dei quali è appunto “l’Ombra”) ed Individuazione.

Per Freud l’inconscio non è altro che il punto ove convergono contenuti rimossi o dimenticati. Secondo Jung esso poggia su uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato ed ha strutture che (cum grano salis) sono le stesse dapperutto e per tutti gli individui.

Gli archetipi riguardano i contenuti dell’inconscio collettivo e sono i tipi arcaici e primigeni espressi riccamente nei sogni e nelle visioni, oltre ad essere la sostanza del mito, della fiaba e delle dottrine esoteriche. Nel mio articolo (cui rimando) partivo dal concetto di coerenza cinematografica archetipica (Conforti, 1995), per suggerire la possibilità che una narrazione filmica possa compiutamente rappresentare la natura e gli sviluppi psicologici di (frammenti di) una delle istanze archetipiche della psiche e, nella fattispecie, l’ombra.

Il processo di individuazione è la presa di coscienza con cui ciascuno attribuisce un senso alla propria esistenza. Si realizza attraverso una congiunzione ed integrazione di coscienza e inconscio. In “Groundhog day” si può postulare che Phil Connors progressivamente entri in contatto con le parti meno gradevoli della sua personalità (l’Ombra), le comprende e lentamente, attraverso una somma di esperienze (favorite dal loop temporale) diventa una persona nuova, più completa, integra, consapevole e capace di amare.

La dottrina Junghiana vede dunque l’Ombra come parte inferiore della personalità ed una parte della totalità della psiche. Le profonde antipatie ingiustificate, per esempio, sono quasi sempre il frutto della proiezione della propria Ombra. Jung la definisce come il contenuto di sentimenti e ed emozioni rimossi da ognuno di noi, perchè ritenuti per così dire “brutti, sporchi e cattivi”, non corrispondenti ad una visione ideale di se stessi. In effetti nel film Murray veste dei panni calzanti in questo senso: è la “prima donna” televisiva, è definito “presuntuoso ed egocentrico”, non va d’accordo praticamente con nessuno, si sente sprecato in un canale televisivo locale, è sempre insofferente, tratta le persone con sufficienza ed è “troppo innamorato di se stesso per avere una relazione autentica”.

Il (non) passare dei giorni gli consente di attraversare fasi di depressione e poi di euforia ed onnipotenza fino a quando la sua vita e il suo modo di approcciarsi alle cose e alle persone comincia a cambiare.

Nonostante egli riesca a ottenere facilmente sesso e denaro, non riesce a conquistare Rita (di cui pian piano si innamora), cui non interessa quello che Connors sa, e addirittura la indispone che egli sappia anticipare tutti suoi desideri: la sua erudizione è totalmente inutile perché a lei “interessa un certo tipo di uomo, con certe qualità”. Con la conoscenza erudita non nasce mai un Phil Connors nuovo o migliore, e difatti egli si ritrova ogni giorno ad essere la persona che era il giorno prima. Questo è forse un pregnante significato della seconda parte del film, il vero senso, incidentalmente, del ricominciare da capo. Connors spezzerà il cerchio infernale quando passerà da una conoscenza che si limita a raccogliere dati a una conoscenza che trasforma (e ad una autentica consapevolezza delle parti della sua “ombra”, delle cose sgradevoli di sè, cui rinuncia o che riesce a modificare con la pazienza e la disciplina). I giorni seguenti lo vedono infatti affabile con Rita e Larry. Si dà alla scultura di statue di ghiaccio. Decide di dedicarsi agli studi. Inizia a seguire un corso di pianoforte. Imparare a suonare il piano trasforma colui che impara perché nell’apprendimento non ci si limita a memorizzare un pezzo, ma si acquisisce una tecnica che permette la padronanza di un numero virtualmente illimitato di pezzi (ironicamente, la rivelazione della bellezza della musica avviene grazie alle note della sonata K. 545 in do maggiore di Mozart, il magnifico pons asinorum di tutti i principianti).

Ne seguiamo ulteriormente i progressi. Conosciamo un Connors “buono”, che si dispera per non riuscire a salvare un pover’uomo che pare condannato a morire un due di febbraio e che finisce con l’accettare che alcune cose non possono venir comunque cambiate nel giorno che egli vorrebbe perfetto. Nell’ultimo giorno della marmotta Connors compie una serie di “buone azioni” che gli permettono di guadagnare l’affetto degli abitanti di Punxsutawney e l’ammirazione di Rita che lungi oramai dal trovarlo insopportabile lo compra all’asta degli scapoli. L’amore infine conquistato lo libera dalla ripetizione; il risveglio al tre febbraio porta con sé l’accettazione del destino: Connors vuole vivere a Punxsutawney (che tanto aveva disprezzato inizialmente). La primavera è alle porte.

Massimo Lanzaro,
Psichiatra e Psicoterapeuta

Bibliografia

C.G. Jung. Gli Archetipi e l’inconscio collettivo. In: Opere, Vol. IX, 1980, 1997, Bollati Boringhieri.

E.G. Humbert. C.G. Jung, The fundamentals of Theory and Practice. Chiron Publications, 1988 (Originariamente pubblicato nel 1984 come C.G. Jung. Ed Universitaires, Paris).

Morire dal ridere

Un tempo ridevamo delle disavventure del nostro vicino, degli abitanti del nostro villaggio, delle città, delle nostre province, della nazione in cui abitavamo. Oggi, grazie alla grande diffusione dei mezzi d’informazione, possiamo ridire di tutto il mondo. Come si ride? E’ molto semplice: premesso che il riso è una facoltà propria dell’uomo, è sufficiente modificare il ritmo respiratorio e la mimica del volto. Si ha dapprima dilatazione e contrazione dei muscoli delle labbra e delle guance, mentre l’espirazione viene sospesa; quindi le contrazioni si rafforzano e si estendono a tutti i muscoli della faccia, le scosse si ripercuotono nella gola e le spalle cominciano ad agitarsi; infine tutto il corpo vi partecipa convulsamente sino al punto da potersi verificare lacrimazione, perdita di urine specialmente nelle donne, dolor di ventre per gli urti del diaframma sulla massa intestinale. Il riso, in conclusione, può essere pericolosissimo infatti, si dice: <<Morire dal ridere..>>, <<Ho riso da morire…>>. Mentre non si dice: <<Morire dal piangere…>>, <<Ho pianto da morire…>>.”

Alberto Sordi da “La Repubblica”

E DIO CREO’ L’UOMO A SUO ODIO E SOMIGLIANZA di Michele Mezzanotte

Carissimi, su consiglio dell’Amico Massimo Lanzaro, vi suggerisco questa rivista http://www.animafaarte.it/
e questa rilessione di Michele Mezzanotte

Buona lettura…

Nel corso della storia del pensiero e delle emozioni umane, l’Odio ha avuto un ruolo da attore protagonista. In questa piccola dissertazione sull’Odio apriremo la nostra visione ad un Odio
filosofico, un Odio mitico e un Odio simbolico: in sintesi un Odio Psicologico. Dio creo l’uomo a sua immagine e somiglianza, in questo caso, a suo Odio e somiglianza.
L’Odio prendeva vita attraverso Empedocle di Agrigento, Philipp Mainlander, attraverso Ulisse e i suoi viaggi, Stige e la sua sozzura. Inoltre, vedremo come ogni relazione analitica tra pazienti
e terapeuti si apre con un doppio atto d’Odio. Iniziamo leggendo di Empedocle di Agrigento del quale sono rimasti, nel corso della storia, numerosi frammenti derivanti dalle sue opere:
“Sulla natura” e “Carme lustrale”. In questi narra di spiriti i quali, a causa delle loro colpe, si incarnano nei corpi mortali: piante e animali.
Empedocle nella sua trattazione afferra i concetti di Amore e Odio e ne fa dei principi generatori e distruttori al tempo stesso.

“Duplice dunque e la nascita, duplice e la morte
delle cose mortali. La riunione di tutte le cose ne
genera e distrugge una; l’altra invece si produce e
si dissipa quando di nuovo si disgiungono.”

L’amore crea e distrugge, e anche l’odio crea e distrugge al tempo stesso. Stupenda e l’affermazione di Empedocle: “duplice dunque e la nascita, duplice e la morte delle cose mortali”. Essa ci suggerisce che ogni immagine può avere una doppia nascita e una doppia morte: una nascita d’odio e una nascita d’amore; una morte d’odio e una morte d’amore. Lui stesso all’età di sessant’anni si distrusse gettandosi all’interno del cratere dell’Etna: si suicido. L’azione dell’odio e dell’amore cosi come descritta da Empedocle di Agrigento, e anche uno dei temi fondamentali della “mitologia scientifica” contemporanea. Il famoso Big Bang non e nient’altro che l’espressione fisica della teoria di Empedocle. Da uno sfero, attraverso l’azione dell’Odio, inizia la separazione delle parti fino a che non ritorna tutto in uno sfero ad alternanze
temporali cicliche: sfero-separazione, sferoseparazione. Vediamo l’eterno agire di queste forze primigenie che uniscono e separano, creano e distruggono. Proseguiamo dunque, attraverso questo percorso scientifico-speculativo, analizzando un altro pensiero: parliamo ora di un filosofo il quale desiderava che il suo nome andasse dimenticato col passare degli anni, perciò si firmava diversamente come Philipp Mainlander. E con un atto d’Odio che Dio decise di creare il mondo, e non come facilmente pensiamo con un atto d’amore. Sentiamo le parole del filosofo:

“Noi sappiamo che, questa semplice unita, Dio,
frantumandosi nel mondo, scomparve del tutto e
tramonto; in seguito sappiamo che il mondo sorto
da Dio, proprio a causa della sua origine da una
semplice unita, si trova senza eccezioni in una
connessione dinamica e, perciò, in collegamento
sappiamo che il movimento che si riproduce
dall’attività delle singole essenze e il destino;
infine, che l’unita precosmica e esistita.
L’esistenza e il sottile filo che getta un ponte
sull’abisso fra la regione dell’immanente e quella
del trascendente, e ad esso, per prima cosa,
dobbiamo prestare attenzione.
La semplice unita esistette: su di essa non
possiamo predicare di più in nessun modo.
Di
quale genere, di quale essere fosse questa
esistenza ci e totalmente nascosto. Volendo
stabilire pero la cosa più prossima, noi dovremmo
ricorrere ancora alla negazione e affermare che
essa non ha alcuna somiglianza con un qualche
essere a noi conosciuto, poiché tutto l’essere che
noi conosciamo e essere in movimento, e un
divenire, mentre la semplice unita era priva di
movimento, nell’assoluta quiete.
Il suo essere era sovressere.”

Mainlander sostiene che Dio per creare il mondo, con tutti i viventi che lo popolano, si suicido; quindi si distrusse e attraverso questo atto d’Odio creativo, genero il mondo, destinato a proseguire
in atti di disgregazione. Un’esplosione divina, un Big Bang che creo l’universo e i suoi pianeti.

“Dio e morto e la sua morte fu la vita del mondo”
“Ma questa semplice unita e divenuta; non e più.
Mutata la sua essenza, essa si e frantumata
completamente e totalmente verso il mondo del
molteplice. Dio e morto e la sua morte fu la vita
del mondo.” “L’esplosione fu l’azione di una semplice unita, la
sua prima ed ultima azione, la sua singola azione.
Ogni volontà del presente conserva essenza e
movimento in questa unica azione e perciò tutto si
connette reciprocamente come un ingranaggio nel mondo.”

A questo punto risulta facile collegare l’Odio empedocleo con il Suicidio di Mainlander: atti distruttivi che creano vita. L’inconscio individuale nella psicologia non e nient’altro che un ingranaggio di una più vasta macchina: l’inconscio collettivo. L’unita primaria, che possiamo chiamare nella nostra cultura Dio (inconscio collettivo), si e esibita in un enorme atto d’Odio e di separazione. Si e suicidata, usando l’espressione del filosofo tedesco. Grazie a questa azione creativa hanno preso vita gli individui e le loro singolarità, immerse sempre in un collettivo. Ha preso vita il “molteplice”. Come vedremo più tardi in questo articolo, ha preso vita un uomo dal “molteplice ingegno”. Il suicidio ci conduce alla vita, secondo Mainlander, infatti, un archetipo fondamentale che ci muove fin dalla nostra creazione e il suicidio, ovvero la morte. Mainlander vide bene: Dio si suicidò e la sua morte fu la vita del mondo. L’archetipo del Dio mainlanderiano si ripete coattivamente dall’alba dei tempi e noi siamo alla ricerca della morte: una vita per la morte; e questo è molto psicologico. Secondo Hillman, infatti, la domanda del fare anima è:

Che cosa sommuovono nella mia anima
questo evento, questa cosa, questo attimo? Cosa significano per la mia morte?”.

Il filosofo tedesco storicizzo il suo pensiero suicidandosi letteralmente e concretamente alla fine del suo scritto. Il fine della vita e la morte. Morte come suicidio e atto creativo. Una morte fisica e psicologica. Una morte trasfromativa. Ricordiamo fonti psicologiche come Freud, Sabina Spierlein e Adler che parlavano di “Morte e Thanatos” come motori fondanti della psiche. Nel setting analitico sono molti gli atti d’Odio e di Suicidio che devono entrare in scena. Nell’analisi odiamo e amiamo, ci suicidiamo e commettiamo omicidi psichici. Ogni omicidio di un personaggio psichico e un suicidio personale, perché riferito a una nostra parte d’anima. Prendiamo ad esempio i sogni in cui incontriamo personaggi morti, uccisi. Sono atti d’Odio, di distruzione appunto. Tutti quei personaggi sono nostri personaggi. Se sogno di uccidere mia madre, e l’immagine di mia madre che ho ucciso, per cui ho commesso un atto d’Odio verso me stesso, ovvero un suicidio. Questo suicidio da vita ad altri immaginari, apre nuove prospettive e trasforma. Possiamo affermare che uno dei passaggi fondamentali dell’analisi e il suicidio, la morte intesa sia da un punto di vista d’odio, sia da un punto di vista d’amore. Molti pazienti entrano in analisi perché non sanno morire. Non sanno suicidarsi: l’analisi e un processo che ci aiuta a suicidarci, a ritirare le nostre proiezioni, a uccidere il mondo amandolo e odiandolo. Cerchiamo di approfondire ancora di più il concetto d’Odio. Si riconduce Odio alla radice ad con il significato di rodere, ma anche al greco odoys, Dente, Dolore; e al latino edo, Mangiare, che darebbe il senso di rodimento interno, dolore interno. Il rodimento e il dolore interno sono sicuramente riconducibili ad una Nigredo alchemica, una nera energia fortissima, un marasma e un sommovimento di emozioni che ci agisce dall’interno del nostro stomaco e che ci percorre in tutta la sua potenza caotica ed ingestibile. Possiamo notare una curiosa somiglianza alle sensazioni di innamoramento, e da questo possiamo capire la forte vicinanza tra le due energie. Quando l’Odio si impossessa di noi ci “sentiamo esplodere”. Quindi l’Odio ci avvolge attraverso una situazione nigredica oscura, in cui iniziamo a coltivare nuove immagini e il caos ci pervade. Quando si attiva l’Odio dentro di noi, sentiamo una pulsione a dover fare qualcosa, un’energia che ci suggerisce un movimento verso qualcuno o qualcosa, un movimento molto forte come se fosse impellente: a quel punto desideriamo la distruzione, il suicidio.
Tuttavia non e un suicidio-distruzione fine a se stesso, ma finalizzato a creare nuove opportunità e possibilità. Una distruzione che libera il rodimento interno e il dolore marasmatico. Un’immagine psichica distrutta, genera altre migliaia di immagini, altri pezzi psichici che vagano e vanno ricondotti all’origine, per permettergli di vivere e di acquisire nuova energia. E un quadro generale del processo analitico di scioglimento; di scomposizione di un tutto in elementi semplici. Un desiderio di suicidio come desiderio di trasformazione.

“Musa, quell’uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto erro, poiché ebbe a terra
Gittate d’Ilion le sacre torri… ”
Il nome Odisseo significa etimologicamente
odiare. Così disse Autolico suo nonno:
“Nel corso della mia vita mi sono messo in urto
con molti principi e chiamerò dunque mio nipote
Odisseo, che significa l’odioso, perché sarà la
vittima delle mie antiche inimicizie. Tuttavia
semmai salirà al monte Parnaso per
rimproverarmi, gli cederò parte dei miei
possedimenti e placherò la sua ira”

Autolico collega il suo mettersi in urto con molti principi con il nome Odisseo, ovvero questo suo agire lo chiama Odio. L’Odio durante la vita gli ha permesso di urtare verso un principio. La parola principio significa che vi e una causa-prima, un principio appunto, e urtandolo Autolico compie un tentativo di Odio: un’operazione di creazione di fattori multipli. Partendo da un principio quindi, lo si può sposare (amare), o lo si può metter in discussione odiandolo e generando altre piccole unita di principio. Odisseo sarà il portavoce di tutto questo grazie al suo “molteplice ingegno”. Autolico, e stato in vita un uomo che ha sempre odiato, quindi, ha sempre creato milioni di possibilità senza amarne neanche una. Odisseo, il nipote, ha la croce di queste “multiformi” suddivisioni e passera la vita viaggiandone attraverso, per cercare di tornare al principio, allo sfero primordiale: a casa sua, da sua moglie e suo figlio. Ma per farlo dovrà passare per eventi multiformi e userà il suo multiforme ingegno per affrontarli. Abbiamo visto che l’Odio a cui si riferisce Autolico può avere una duplice valenza: una in cui e Odisseo stesso ad essere protagonista e soggetto; la seconda in cui e oggetto dell’Odio. Ora chiediamoci il perché di tutto questo astio nei confronti dell’uomo dal “multiforme ingegno”. Ulisse indica nella mitologia la scomparsa dell’eroe per antonomasia, ovvero di tutte quelle figure mitologiche, come ad esempio Ercole, che vengono sostituite da un altro modo di rapportarsi alla realtà: più ermetico e più multiforme (infatti Odisseo e anche diretto discendente di Hermes). Ergo, una caduta del complesso dell’Io (ricordiamo la figura dell’eroe in James Hillman). Nuovamente possiamo osservare una distruzione di uno sfero (Io), che genera un multiforme ingegno: un “universo psichico” fatto di pianeti, dei, patologie; un suicidio dell’Io.

Narrami o musa, dell’uomo dall’agile mente, che
tanto vago, dopo che distrusse la sacra citta di Troia

“Odisseo, uomo che distrusse la citta di Troia, e vago per vent’anni per trovare la strada di casa e riunirsi alla famiglia.” Ponendo sul teatro psichico questa storia, scopriremo un atto psichico ouroborico, un atto d’eterno ritorno. Dopo un lungo periodo di stagnamento, nel quale greci e troiani si affrontavano in campo aperto, Ulisse pone finalmente termine alla guerra attraverso una intuizione: il cavallo di Troia. Odisseo compie un atto d’Odio distruggendo Troia, creando cosi i suoi vent’anni successivi, nei quali si confronta con il suo atto d’Odio nella separazione di svariati nuclei psicologici (i suoi molteplici viaggi), nei quali affina il suo ingegno. Alla fine come in un tipico copione ouroborico di odio e amore, Ulisse riesce a tornare a casa e unirsi al suo sfero famigliare. L’Odio e una atto di grandi energie, infatti viene iniziato dal cavallo di Troia, simbolo di grande forza ed energia psichica, che da la fine ad un principio costituito (Troia), iniziando cosi diversi altri principi: Enea che fonderà Roma, o Ulisse che parte per i suoi viaggi, e le narrazione degli altri “ritorni” alla fine della guerra. A questo punto c’è un altra prospettiva mitologica da prendere in considerazione: il punto di vista di un fiume infernale che ci apre al secondo atto d’Odio presente all’inizio di un’analisi. In un tempo e in un luogo ormai lontani, c’erano cinque Fiumi immersi nelle profondità dell’Ade, fino a toccare i confini del Tartaro. Fiumi che proteggevano, bruciavano, ghiacciavano, rubavano ricordi nitidamente offuscati. Cinque nomi per cinque fiumi: Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte, Lete. Lete e il fiume del mito platonico di Ur, il mito della rinascita dopo la morte, della scelta del Daimon, l’angelo che seguira ognuno di noi durante il suo cammino nelle fantasie terrene. Flegetonte, o Piriflegetonte (nome più arcaico), e il fiume del mito della palude ignea e del fiume psichico che brucia parricidi e matricidi, rende inaccessibile il meandro più oscuro della psiche: il tartaro. L’ Acheronte e il fiume dalle amare acque, per punizione del divino Zeus, che segna la mitologia del passaggio tra vita e morte, tra mondo notturno e mondo diurno. Cocito e affluente dell’Acheronte, dove le anime prive di oboli (energie psichiche), erano costrette a vagare come ombre lungo le sue rive. E infine il fiume che ci interessa in questo mythos: Styx (Stige, Odio) con la sua palude, la sua sozzura e il suo odio. Stige (in greco antico Styx), ha diverse funzioni nella fantastica storia umana: innanzitutto veniva chiamato dagli Dei a testimone dei loro giuramenti inviolabili, pena un anno in coma e nove anni lontano dai simposi, senza poter gustare del divino nettare ambrosiano; inoltre le acque di questo gelido fiume erano in grado di donare l’immortalità, come capito all’eroico Achille e non solo. Stige come suggellatore di patti divini, come d’altronde accade in analisi con il patto iniziale. L’analisi dunque inizia con un doppio atto d’odio: il primo e distruttivo o suicidante, il secondo e il patto analitico tra terapeuta e paziente, nel quale si pongono i termini e le regole analitiche inviolabili e predeterminate, regole a cui non si può venir meno, pena la fine dell’analisi e non solo. Nel nostro temenos analitico e possibile e doveroso invocare la potenza creativa e distruttrice dell’Odio al fine di sommuovere energie, per esempio: le libere associazioni sono un atto d’odio, un suicidio analitico, un partire da uno sfero iniziale per abbandonarsi ad altre immagini che nascono dalla sua distruzione e analisi. Lo stesso James Hillman considera il lavoro con le immagini come un atto di Stige:

“Inoltre questo lavoro formativo
dell’immaginazione e sempre allo stesso tempo
distruttivo, deformativo. Per accedere al mondo
infero bisogna necessariamente attraversare Stige,
superare l’ostacolo della sua odiosa freddezza.
Che e inevitabile e non può essere
sentimentalizzata. Ogni gesto nel mondo notturno,
se e giusto, uccide ciò che tocca. Ci troviamo di
fronte a densità, luoghi di violenta resistenza, che
si possono penetrare con l’intuizione, un’intuizione
che sconvolge e comunica un senso di morte. Il
lavoro sui sogni e arduo da compiere per il
terapeuta e arduo da accettare per il paziente. Ed
e qualcosa che non sembra possibile fare da soli.
Forse perché non e mai possibile vedere dove si e
inconsci; ma più probabilmente perché esiste in
noi una resistenza di fondo che si oppone alla
distruzione che il lavoro onirico comporta:
l’uccisione degli attaccamenti e il disvelamento di
profondità immutabili. La regina del mondo infero
e Persefone e il suo nome significa: “portatrice di distruzione”.

L’Odio e solo un punto di partenza: apre l’analisi ai viaggi di Odisseo; apre l’analisi ai figli di Stige e la rivoluzione che condussero insieme a Zeus nei confronti del principio generatore Saturno. Conseguentemente l’Odio viene ad essere un’energia fondamentale nei processi di cambiamento e di apertura. Il Suicidio-Odio abbatte lo sfero e crea nuove individaulità dando energia vitale ai suoi figli. L’analisi si apre attraverso un doppio atto d’Odio. Il primo atto e un suicidio analitico, come abbiamo visto in precedenza: il suicidio del pronome indefinito Io. Vi sono in un’analisi atti d’Odio e atti d’Amore, tuttavia parte tutto da un suicidio.  Il paziente uccide il suo Io non-paziente, uccide il suo non-essere paziente, introducendosi nelle migliaia di immagini che lo possiedono, e viaggiando odisseicamente attraverso le sue parti e componenti: si apre al multiforme ingegno e al mondo infero. Il nostro obiettivo attraverso l’analisi e la morte, come la morte e l’obiettivo della vita. Entriamo in analisi per morire, per suicidarci. L’archetipo mainlanderiano del Dio che si suicida e crea la vita e un archetipo che vive a pieno l’analisi e le sue storie. Nel contempo bisogna tessere storie, bisogna amare i pezzi che sono venuti fuori dalla distruzione odiosa, bisogna ricomporre e filare i pezzi che si sono suicidati. Il secondo atto d’Odio e il patto analitico con cui paziente e terapeuta cominciano il viaggio psichico. Vi e, oggi, un moto d’Odio nei confronti della psicologia, un tentativo di distruzione. Guardando questo processo dall’ottica di questo articolo comprendiamo facilmente il perché: la psicologia per creare compie un tentato suicidio ai danni del mondo, attiva l’archetipo del Dio di Mainlander, ci conduce alla morte; l’analisi in un certo senso uccide, odia ed ama. Odiando attiva contemporaneamente le proiezioni di Odio verso di essa. Purtroppo pero per creare vita c’è bisogno di un iniziale suicidio, di un Odio iniziatico, un Big Bang che ci apra le porte ai viaggi odisseici e nuove galassie. Solo la psicologia può reggere un peso simile, solo lei ha la forza di fungere da capro espiatorio per i peccati degli altri. Solo lei può caricarsi del suicidio collettivo che porterà a nuova vita, alla morte e alla rigenerazione di un nuovo ciclo. E se come abbiamo detto all’inizio, Dio creo l’uomo a suo odio e somiglianza, un giorno ci alzeremo e ci guarderemo nello specchio di Dioniso: in quel momento vedendoci capiremo che tutto ciò che abbiamo odiato nella vita, siamo profondamente noi

La tv al tempo del web 2.0

Carissimi, oggi ci tengo particolarmente a parlarvi di un libro scritto da un caro amico. Ovviamente attendo le vostre riflessioni. Un abbraccio. Gabriele

Ogni giorno, milioni di giovani nel mondo, preferiscono navigare su internet piuttosto che accendere la televisione. Gli studiosi del settore sostengono che accade perché hanno la libertà di scegliere, di consultare e di condividere con i propri amici ciò che reputano più interessante. Eppure i maggiori picchi di traffico su internet sono dovuti proprio alla visione e alla condivisione di programmi televisivi. Un controsenso? Assolutamente no e ce lo spiega abilmente Maurizio Gianotti con il suo ulimo libro ’La tv al tempo del web 2.0’, edito dall’Editore Armando. Il saggio analizza la metamorfosi del piccolo schermo dalla sua nascita fino all’utilizzo delle nuove tecnologie che, grazie alla trasmissione in tempo reale di contenuti audio e video, sta trasformando il telespettatore in reporter liberandolo dal suo contesto di ricettore passivo. Un evento impensabile solo fino ad alcuni anni fa che sta modificando radicalmente il modo di fare televisione. Gli ingegneri e i tecnici designati alla messa in onda dei programmi, infatti, avevano come unico obiettivo quello di garantire la qualità tecnica delle trasmissioni, scartando ogni immagine che non raggiungesse gli standard previsti. Gradualmente, però, con il diffondersi delle nuove tecnologie queste barriere sono state ampiamente rivoluzionate e superate. Basti pensare ai recenti accadimenti avvevuti durante la ’primavera araba’oppure in Siria, testimoniati e resi noti al mondo proprio attraverso le immagini riprese dei telefonini che di certo non possono attestarsi su eccellenti livelli qualitativi. Nel nostro Paese c’è una interessante piattaforma multimediale (www.youreporter.it) che basandosi proprio su questo, quasi quotidianamente, fornisce i propri servizi amatoriali ai nostri telegiornali nazionali. Il loro slogan, presente sul sito internet, appare fin troppo evidente: “Vuoi raccontare una notizia? Sei stato testimone di un fatto di cronaca?Allora non perdere l’occasione di far sentire la tua voce, iscriviti a YouReporter e inizia ad inviare foto e video perché siamo la prima piattaforma italiana di videogiornalismo partecipativo, seguitissima da tutti i principali mezzi d’informazione”. Recentemente anche il quotidiano “La Repubblica”, nella sua versione on line, con il progetto “Reporter”, ha dato vita ad una iniziativa simile ricevendo, in pochissimi giorni, migliaia di adesioni e di visite. Ovviamente a Giannotti, storico e lungimirante autore televisivo Rai e Mediaset, tutto questo non poteva sfuggire. Con il suo lavoro editoriale, vuole quindi dare forma a una nuova Tv in cui cittadini e professionisti della comunicazione e dell’informazione lavorino alla creazione di un nuovo villaggio globale nel quale a nessuno sia negata la possibilità di partecipare in modo attivo e propositivo. Ma “La Tv al tempo del web 2.0” non parla solamente di questo. Come scrive la collega Marida Caterini sulle pagine di Panorama, il volume analizza anche le metodologie classiche della fruizione televisiva facendo riferimento alle principali trasmissioni del passato. Dalla cosiddetta preistoria del piccolo schermo, fatta dai programmi di Bongiorno, Tognazzi e Vianello, fino agli show moderni, analizzandone la varie componenti strutturali e indagando anche sul cosa guardano in tv gli italiani. Infine, attraverso l’analisi quotidiana dei dati Auditel, ci delinea un identikit dell’utente televisivo, indispensabile per comprenderne ogni sfaccettatura. Ma non allarmatevi, non è il solito testo per addetti ai lavori che, troppo spesso, sembrano “parlarsi da soli”. Giannotti grazie ad una scrittura chiara e incisiva, riesce a spiegare a tutti cos’è la televisione, quali sono le sue regole e quali protranno essere gli scenari futuri, quando il web3 segnerà un’altra ricoluzione.
E chi cambia canale, resterà indietro…

Insostenibile leggerezza dell’apparire

Nel mondo d’oggi siamo tutti condannati a indossare una maschera:
un saggio sui mutamenti del prestigio sociale

di MASSIMILIANO PANARARI
 
Viviamo nella società dello spettacolo, dove l’abito fa decisamente (insieme con vari altri accessori) il monaco. Ce lo ha detto Guy Debord, ma ancor prima è stato, secondo un interessante libro che esce oggi, il filosofo (e vescovo) irlandese George Berkeley, al quale dobbiamo la celebre massima est percipi («essere è venire percepiti»). Nel suo Le apparenze Una filosofia del prestigio (il Mulino, pp. 222, € 20), la storica della filosofia Barbara Carnevali (ricercatrice invitata al parigino Institut d’Études Avancées) prende le mosse proprio dall’immaterialismo berkeleyano, riformulandolo ad hoc per analizzare il peso delle apparenze e dello nelle società occidentali. Ed ecco che il motto del teologo empirista che, appositamente parafrasato «in chiave mondana» diviene in societate esse est percipi aut percipere («in società esistere è essere percepiti o percepiti»), fornisce una chiave interpretativa originale per spiegare le aspirazioni e i bisogni di rappresentazione dell’aristocrazia e della borghesia europea, arrivando sino all’incontenibile e generalizzata smania postmoderna che ci vorrebbe far essere «tutti divi».

«La vanità è alla base di tutto», scriveva Gustave Flaubert, uno che se ne intendeva al punto da avere creato il personaggio di Madame Bovary e diagnosticato il fenomeno del bovarismo, manifestazione patologica del «manierismo snobistico» e perfetta raffigurazione della farsa di una piccola borghesia che si mostra (e vive) al di sopra delle proprie possibilità nel disperato (e sventurato) tentativo di scimmiottare la classe sociale superiore, non avendone, però, i mezzi e le dotazioni materiali. A identificare chiaramente – e severamente – per primo il ruolo della vanity nelle umane esistenze è però, come ci racconta il volume, il sommo Thomas Hobbes, il quale designava con questa parola una malriposta sensazione di superiorità che si dedicava quasi esclusivamente a «bagatelle» e «scemenze», ma possedeva un impatto devastante sul consesso sociale; e ne era a tal punto preoccupato da considerarla tra le cause principali della famigerata «guerra di tutti contro tutti».

La società occidentale prende così a ruotare sempre più vorticosamente intorno alla «fiera delle vanità» (centrifuga irresistibile di prestigio, successo, pettegolezzi, fama, mode, e chi più ne ha più ne metta, a partire dalle invidie) e all’apparire sociale; un combinato disposto che trova una serie di formidabili cronachisti in alcuni, più o meno grandi, letterati, da William M. Thackeray (autore, nel 1848, giustappunto del romanzo Vanity Fair ) a Marcel Proust. La letteratura europea si popola quindi di rampanti e arrivisti, tutti in cerca del loro quarto d’ora di notorietà ante litteram , ma nessuno, più dell’autore della torrenziale Recherche , sublime narratore della «chiccosa» Café Society, saprà tradurre in scrittura il senso e il côté mondano del motto di Berkeley mediante le vicende che fanno perno sull’aristocratica famiglia Guermantes.

E se Proust, ossessionato dalla memoria, cerca di configurare l’identità dei suoi personaggi sullo sfondo della trama dei loro «giochi di società», c’è chi invece, come Luigi Pirandello, alimenta la dissoluzione dell’io e proclama, malinconicamente e angosciosamente, ma senza negarsi qualche punta di umorismo, l’inaggirabilità della dimensione dell’apparenza. I suoi individui, d’altronde, sono pensati per il teatro, medium di rappresentazione per eccellenza, e il Novecento in cui lo scrittore siciliano giganteggia è secolo mediale per antonomasia, così come mediale si rivela il ruolo delle apparenze, mezzi di comunicazione e di definizione delle relazioni tra le persone, che, per loro tramite, indossano, per la maggior parte del tempo, delle maschere (come insegnano la psicanalisi e lo stesso Pirandello).

Non c’è da stupirsi, allora, se il prestigio nel XX secolo (e all’inizio del XXI) passa in primis attraverso i mass media, e quella loro peculiare (e spesso discutibile) filiazione che è l’industria del gossip – regno e pollaio della discussione collettiva intorno alla reputazione dei cosiddetti vip – che ha visto kingmaker e vittime illustri, da Andy Warhol a Marilyn Monroe.

E qui il cerchio parrebbe (quasi) chiudersi. Le apparenze sembrerebbero infatti dettare incontestabilmente legge e mettere la parola fine alla storia della separazione tra l’ Homo oeconomicus e l’uomo estetico che aveva segnato tanto fortemente la cultura occidentale. Perché la società dello spettacolo, dolorosamente intuita e stigmatizzata dal neo-russoviano e neoromantico Debord, col suo feticismo della merce e l’idolatria del valore simbolico dei beni, getta le premesse per l’affermazione di un capitalismo simbolico che tutto tiene e tutto vince. E, così, all’aristocrazia e all’alta borghesia subentra la «nuova nobiltà» dello star system che rovescia le «strategie di distinzione« di cui parlava Pierre Bourdieu, e vede i «divi» imbevuti della stessa cultura pop e di massa da cui le élite del passato erano impegnate a differenziarsi proprio mediante i gusti estetici.

A questo punto, per la gioia degli apocalittici, dovremmo assistere, ahinoi, al trionfo assoluto dell’alienazione. E rimarrebbero solo gli status symbol, come la limousine superaccessoriata su cui viaggia il protagonista di Cosmopolis di Don De Lillo, intento a contemplare la fine de facto della civiltà capitalistica e, in buona sostanza, dell’Occidente per come lo abbiamo conosciuto.

Ma speriamo che si tratti, per l’appunto, di una mera apparenza…

L’infelicità al tempo dello spread. Interessante riflessione dell’amico Raffaele La Capria

Bolli, multe, conguagli: il vocabolario molesto della crisi

Si parla di ricchezza e felicità e ci si domanda se la ricchezza rende felici. Felicità è un parola troppo grande, comprende troppe cose, e certamente è incommensurabile con la ricchezza. Tuttavia, anche a rischio di apparire banale, penso che a me basterebbe poco per essere più spensierato. E chi è spensierato è probabile che afferri, se gli si presenta, quel tanto di felicità che la vita può concedere. Ho detto che a me basterebbe poco. Quanto? Beh il quanto è soggettivo, dipende dalla situazione, dalle circostanze. Se uno ha una grave malattia da curare, se uno ha più persone a carico, e così via, tutto questo va messo in conto per stabilire quanto. Ma c’è anche un dato oggettivo, per esempio l’appartenenza a una certa classe sociale, mettiamo il ceto medio, pesantemente tassato in quanto tale, con tutti gli obblighi che impone, obblighi che se non li osservi ti complicano la vita con conseguenze talvolta disastrose. La pensione che ricevi crea anch’essa differenze e spesso delle vere e proprie ingiustizie che ti mettono in uno stato di aperta ribellione contro il sistema che le ha determinate. Quando ho letto il libro La Casta di Stella e Rizzo, mi si sono rizzati i capelli in testa. Se a tutti gli italiani quel libro ha fatto l’effetto che ha fatto a me, direi che saremmo pronti a una rivoluzione simile a quella francese contro la Versailles dei privilegiati che prendono pensioni dieci e venti volte superiori alla mia. Sono sicuro che nessuno di questi privilegiati sia felice in proporzione all’entità della sua pensione, probabilmente sono più felice io, ma certo da un punto di vista pratico, il privilegiato sta meglio di me.

Mai come oggi in tempo di crisi si parla tanto di soldi. Si dice che parlare di soldi sia volgare: ebbene, oggi viviamo nell’era della volgarità. Non si parla d’altro che di soldi, di spread, di debito pubblico, di finanza e finanziamenti, di default, che poi sarebbe il fallimento, (ma dire default forse attenua l’impatto con la parola), e insomma di farcela o non farcela ad arrivare alla fine del mese. Si parla di tutto questo, ma non si sa bene di che si parla quando se ne parla, resta solo il disagio. Il disagio non è solo quello della nazione ma anche quello del singolo che non sa più a che santo votarsi, non sa quali sono le forze che lo dirigono e che lo portano verso quell’abisso che viene puntualmente evocato come uno spauracchio. Mai come oggi il cittadino comune viene sballottato di qua e di là, mai come oggi il cittadino di classe medio borghese, in cui m’identifico, quello per intenderci che paga le tasse, è stato più indifeso e in balia delle altrui pretese. E non parlo soltanto dell’affitto troppo alto, della luce, del gas, del telefono, della benzina troppo cari (come fai a dire è troppo caro, pagare non posso?), parlo anche del suo essere indifeso di fronte a tutti coloro che fanno parte di una corporazione, che oggi sono potenti come nell’antichità lo erano i sacerdoti o i militari. Parlo dei notai, degli avvocati, dei medici, dei dentisti, dei commercialisti et similia. Di costoro il cittadino medio borghese indifeso ha bisogno, ma anche a loro come può dire: la tua tariffa è troppo alta, non ce la faccio a pagarla? Come fa il cittadino indifeso a controllare se è giusto quel che loro mettono nel conto? Chi può discutere la parcella di un avvocato, la notula di un notaio, la distinta spese di un commercialista? Non puoi, sei nelle loro mani, sei tu che li hai scelti, il mercato è il mercato e li fa lui i prezzi, e così via. Ecco sono queste le forze che sballottano il povero cittadino comune, soprattutto oggi che c’è disperazione economica e mancanza di moneta corrente.

 Si dirà che sto scoprendo l’acqua calda. Lo so, lo so, dico cose ovvie, ma io voglio solo far notare che chissà dove, chissà come, chissà perché, c’è sempre qualcosa di burocratico tra te e i pochi soldi che hai in tasca, sia esso il bollo, la bolletta, la percentuale, l’assicurazione, l’ingiunzione, la multa, il conguaglio, c’è sempre qualcosa che si intromette e cerca di portarteli via fino all’ultimo, e rende per te difficile non dico la felicità, che è chieder troppo, ma quello stato di serenità necessario a ogni uomo per dare il meglio di sé, e soprattutto a un artista o a uno scrittore consente di lavorare senza troppe di queste zanzare che continuamente lo punzecchiano.

L’indifeso cittadino comune, chi lo difenderà da tutte le forze burocratiche o corporative cui accennavo, e persino dallo Stato stesso quando impone tasse o tariffe demenziali? Sua difesa dovrebbe essere una democrazia funzionante che a tutti dovrebbe garantire pari diritti e pari opportunità in cambio di pari doveri. È lui, il cittadino indifeso, che elegge i suoi difensori votando per questo o quel partito, per questo o quel politico da cui si sente rappresentato. La sua vera difesa dovrebbe essere lo Stato di diritto, e dovrebbe essere lo Stato di diritto a garantirgli la possibilità, qualora si presentasse, di essere felice. Dovrebbe. Ma lui non appartiene a nessuna lobby e dunque per lui la cosa è più complicata. Eppure il diritto a perseguire la felicità è essenziale, è uno dei primi articoli della Costituzione americana, dopo il diritto alla vita e quello alla libertà.

Raffaele La Capria

…a proposito di danza III

Rosone della Basilica di Santa Croce a Lecce

Valeria-Luo D.A. ci immerge nei ritmi e nelle immagini del Salento, portandoci nella magnifica città di Lecce attraverso questo contributo da leggere con attenzione:

Custodisco questa pagina del Quotidiano dal 7 marzo… (oggi scopro che è leggibile on-line, che fortuna incollabile! Si ringrazia perciò: http://www.info-salento.it/Testo-notizia.asp?Progr=7481&Filtro=Cultura&page=1 , che non è l’unico sito a riportare l’articolo del professore De Giorgi. Non riesco a trovare, invece, alcun sito che condivida la stessa foto dell’altorilievo in questione pubblicata da il Quotidiano.)

“La città di Lecce è direttamente coinvolta nella cultura del tarantismo e della tarantella arcaica chiamata pizzica, nonostante di solito si immagini il contrario. Ho analizzato per la prima volta nel mio libro “La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico” (Congedo), gli elementi di pizzica e di tarantismo presenti in un altorilievo del palazzo Giaconìa di Lecce. L’altorilievo è una graziosa opera in pietra leccese attribuita all’architetto e scultore Gabriele Riccardi, databile al 1550 o a qualche anno dopo. L’opera, secondo Michele Paone e Andrea Cappello è “Il duello di Davide e Golia”, il combattimento biblico del Libro I di Samuele che decide la battaglia tra Israeliti e Filistei, ossia tra il “popolo del Signore” e i suoi nemici. Il gigante Golia rappresenta il male che viene sconfitto da Davide, in una sorta di rituale tragico.

Un’attenta osservazione ci porta ad un’entusiasmante scoperta: quest’opera leccese (del 1550 circa, come già detto) è la prima raffigurazione conosciuta di pizzica terapeutica, e quindi di tarantella in generale. Il Riccardi descrive la sconfitta di Golia celebrata da un grande rito femminile a base di suonatrici e danzatrici di pizzica. Sei donne con le tipiche gonne lunghe a pieghe del Cinquecento suonano e danzano. Non può trattarsi di altro che della pizzica, una cultura tradizionale in primo luogo femminile.

Le due donne più vicine a Golia suonano il tamburello in modo oppositopolare, secondo posture e tecniche tradizionali, la prima, a sinistra, con il cerchio di legno rivolto verso l’osservatore, la seconda, a destra, con il lato della pelle in evidenza. Emerge il valore sacro dell’antico modo duale e aioretico (a culla) di suonare il tamburello. Ci sono forti rimandi alla tradizione come, per esempio, la consuetudine di sollevare e abbassare ritmicamente il tamburello (ogni ricaduta corrisponde al battere pari del pollice sulla pelle), come accade durante la festa di San Rocco a Torrepaduli. Oppure di spostarlo a destra e a sinistra entro un angolo di circa 90 gradi. Lo scopo inconscio è quello di esprimere la congiunzione degli opposti. Nella tradizione popolare alto e basso, destra e sinistra si accompagnano al ritmo simultaneamente pari e dispari della percussione, detto biritmìa simbolica.

Siamo in presenza di ciò che chiamo il pensiero armonico del Mediterraneo: l’armonia è concepita come un intero che riunisce le due forze fondamentali del cosmo. Il tamburello, costruito con pelle di capra cioè di un animale sacrificale morto che nel suono rinasce, produce un ritmo simbolico che rappresenta l’”unità duale” dell’armonia da offrire all’infermo per guarirlo. Lo spazio è ugualmente simbolico e la riunificazione, tipica anche della danza, della destra con la sinistra e dell’alto con il basso dà forma all’antico concetto analogico di armonia. Il due viene riunificato nell’uno, e l’intero viene ricreato senza dover annullare le differenze bipolari. I tarantati, in piena corrispondenza, nel loro rito danzato uniscono scenograficamente morte e vita per ricreare nuovamente la vita. E muovono sistematicamente la testa o l’intero busto a destra e a sinistra. Con una serie di movimenti, passi e simboli sistematicamente duali, la pizzica si mostra come ritmo armonico. È un’oscillazione periodica che evoca la sacra altalena (aióresis) del dio Dioniso, un tempo il più diffuso in Magna Grecia e dintorni. La pizzica, in definitiva, incarna l’arcaico pensiero armonico del Mediterraneo.

Nella scultura del Riccardi questi contenuti sono socialmente condivisi a Lecce, altrimenti non avrebbero un così alto livello estetico e non sarebbero utilizzati in ambito religioso. L’eleganza e la simbologia dell’opera sono rafforzate dalla posizione simmetrica delle altre quattro donne impegnate nella danza. Le due più vicine alle suonatrici danzano con il braccio piegato sul fianco, in un atteggiamento tipico della più ortodossa pizzica terapeutica e della tarantella italiana. Dai volti delle donne traspare allegria e soddisfazione. La bellezza e la capacità di infondere gioia della pizzica vengono utilizzate in un senso terapeutico analogo a quello tipico del tarantismo. La sconfitta del negativo rappresentato da Golia è, infatti, opera di Davide che, in piena coerenza, è anche uno iatromusico. Negli episodi biblici di Samuele I, infatti, Davide guarisce il re Saul mutando ripetutamente il suo stato d’animo con la potenza incantatrice della musica (XVI, 14-23). La terapeutica pizzica del tarantismo, pertanto, appare al Riccardi la migliore coreografia possibile per celebrare simbolicamente la vittoria sul male ottenuta da Davide. L’altorilievo è forse di qualche anno antecedente alla costruzione di palazzo Giaconia e si può ipotizzare provenga da una perduta collezione di opere d’arte e reperti archeologici dell’umanista Vittorio De Prioli.”

Cosa è accaduto all’Amore?

Carrissimi, in questi giorni l’Istat ha fotografato noi italiani e il matrimonio. Sono drasticamente aumentate le separazioni. Cosa è accaduto, secondo voi, all’amore? Al nostro modo di concepire la famiglia?
E’ un “bene” perché siamo più liberi e consapevoli delle nostre scelte o non sappiamo più “sacrificarci” per Amore?
Lo chiedo a Voi. Parliamone…

In calce un articolo del quotidiano Le Novae

Famiglia, in aumento le separazioni: in media i matrimoni non durano più di 15 anni
Gli italiani e il matrimonio. Secondo l’Istat la durata media di un’unione è 15 anni. In aumento il numero di coppie che si dividono. Ed è boom di separazioni tra gli ultrasessantenni.
La famiglia in Italia è sempre più in crisi. Lo certifica un rapporto dell’Istat, che ha rilevato che separazioni e divorzi negli ultimi anni hanno subito un’impennata. Se nel 1995 infatti per ogni mille matrimoni c’erano 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2010 si è arrivati a 307 separazioni e 182 divorzi. La durata media di un’unione è diventata, dunque, di 15 anni.
L’età media alla separazione è 45 anni per gli uomini e 42 per le donne, mentre nei casi di divorzio raggiunge, rispettivamente, 47 e 44 anni.
Nell’85,5% dei casi, le separazioni sono consensuali. Al Sud, però, la percentuale di separazioni giudiziali sale.
Nel caso di coppie con figli, questi vengono affidati congiuntamente ad entrambi i genitori nella stragrande maggioranza dei casi (l’89,8%).
Solo in una separazione su cinque un coniuge deve corrispondere all’altro un assegno mensile: in questo caso è quasi sempre il marito a dover aiutare la moglie. L’importo degli assegni di mantenimento è più elevato al nord (520 euro di media) che nel resto del Paese (447,4).
Per quanto riguarda la casa, nel 56,2% dei casi viene assegnata alla moglie, nel 21,5% al marito, nel 19,8% gli ex coniugi vanno ad abitare in case distinte e diverse da quella coniugale.
Un dato che sorprende è l’aumento di separazioni tra gli ultrasessantenni, cresciute dell’8% in dieci anni.

Redazione Le Novae

Shock da noccioline

Il pediatra dottor Julia Bradshear, presidente della Food Allergy and Anaphylaxis Network, avanza l’ipotesi dell’iperigiene. Se negli ultimi vent’anni il numero di bambini afflitti è cresciuto negli Usa del 45%  è per l’effetto paradossale della nostra ossessione di genitori per l’igiene e la sterilizzazione maniacale del mondo in cui crescono. Fra detersivi, disinfettanti, battericidi, germicidi, semplice pulizia, il sistema immunitario dei cuccioli d’uomo allevati nelle nazioni ricche fatica a sviluppare nei primi tre anni di vita quella capacità di combattere e di riconoscere i veri nemici che lo porta a reagire scompostamente e pericolosamente a quelli che lui, il sistema immunitario confuso, crede siano pericoli. E si rivolta contro se stesso. Nelle nazioni povere e di scarsa igiene, dove il problema non è l’intolleranza al cibo, ma la mancanza di cibo, i bambini che sopravvivono alla miseria, alle malattie da denutrizione, alla sporcizia, ai virus, ai batteri, non mostrano allergie nella stessa misura degli Stati Uniti, dove undici milioni di adulti e tre milioni di bambini ne soffrono in forma grave. Muoiono di dissenteria, ma non di shock da noccioline.

Vittorio Zucconi

Sulla famiglia

Se poi passiamo dai grandi scenari a quel piccolo scenario costituito dalla famiglia, che resta il nucleo essenziale per la nascita, la crescita e il sostentamento dei figli, assistiamo, rispetto agli anni precedenti, a un maggior desiderio di generare figli, dovuto al fatto che tendenzialmente, i maschi hanno dismesso quello stile padre-padrone che aveva caratterizzato il comportamento maschile delle generazioni precedenti, e acquisito quel tratto di accudimento, un tempo riservato alle donne, nella cura dei loro figli. Questi ultimi, a loro volta, come tendenza generale, non sono più oggetto di trascuratezza o di violenza come un tempo, anche se al limite corrono l’eccesso opposto di essere un po’ troppo viziati da genitori che, per farsi perdonare la mancanza di tempo a loro disposizione da trascorrere con i loro figli, tendono a riempirli di regali e ad accondiscendere ai loro desideri, rendendo così più difficile il loro passaggio dal principio di piacere al principio di realtà.

Umberto Galimberti

Cacciator di cacciatori

Secondo il Corriere della Sera i cacciatori in Italia sono “solo” 750 mila, ovvero, nella stagione dei massacri, ops venatoria, ci sono 750 mila fucili che sparano per uccidere.

Facendo un calcolo minimo, per diletto 3 milioni di creature sono sterminate ogni giorno in quel periodo di “sport”.

Ebbene fondiamo l’associazione cacciator di cacciatori.

E con che cosa cacciamo?

Con l’Anima del Sindaco del Rione Sanità. 

Il pernacchio. 

Partire, Morire, Rinascere.

Vi lascio una riflessione di George Simenon vi chiedo: indipendentemente dalla volontà dello scrittore, che cosa vuol dire questa frase? Buona pesca:

“Sono nato nel buio, sotto la pioggia, e me ne sono andato. I crimini che racconto sono i crimini che avrei commesso se non me ne fossi andato. Sono  uno di quelli che hanno avuto fortuna. Cos’altro si può dire di quelli che hanno avuto fortuna se non che se ne sono andati?”

(Da una intervista del New Yorker del 1953)