Gabriele La Porta Questo Blog è l'unico ufficialmente riconosciuto dal Prof. Gabriele La Porta, filosofo, conduttore radiotelevisivo, già direttore di Rai 2 e RaiNotte.
Ognuno di noi ha almeno una storia segreta da raccontare, un episodio straordinario che lo ha indotto a riflettere sulla vita e sul destino. Questo libro raccoglie alcune di queste vicende: sogni premonitori, defunti che suggeriscono comportamenti e azioni decisive, coincidenze inspiegabili che mutano il corso di una vita. Ciò che accomuna queste storie è l’elemento miracoloso, soprannaturale, il palesarsi di una soluzione positiva in situazioni che sembrano senza via d’uscita. Quale significato dobbiamo attribuire alle cosiddette coincidenze?
Con disegni di Donatella Scatena
Troppe volte Bruno sembra vivere ineluttabilmente con la scardinante dedica dell’Oscuro "ai vaganti di notte, ai maghi, ai posseduti da Dioniso, alle menadi, agli iniziati" (Eraclito 14, A 59, trad. Giorgio Colli). Un empito dionisiaco avviluppante il Dio in una danza a spirale che sfonda secoli inutilmente pesanti solo per gli umani. Perché la forza del Nolano è racchiusa in un perenne vaticinio donativo. Circolarità senza fine, Sphairos consustanziale con Afrodite iperuranica. Per questo è contemporaneo di Hermes, il donatore agli umani, e quindi con Spalle Larghe (Platone), Porfirio e Giamblico lo scrutatore degli Egizi e poi a Giuliano l’Apostata e "all’altro" Giuliano il Kremmerz degli anni nostri...
"Il bello è scoprire che tutto ciò che non abbiamo fatto in tempo ad imparare non è affatto perduto" - il Tempo
"Dedicato ai nostalgici di Sophia, ai profeti dell'incontro tra la magia di Hermes e l'analisi del profondo di Jung. Contro lo strapotere dello scientismo e l'abuso della tecnica" - Libero
“il Regista, sceneggiatore e attore, alessandro bardani, campione d’incassi questa stagione, con lo spettacolo
“il più bel secolo della mia vita”, con Giorgio Colangeli e Francesco Montanari; torna in scena
con lo spettacolo “b side – precari di successo” con un cast di giovani attori che fanno parte della neo-nata
“Compagnia Passion”, che già vanta collaborazioni con attori come Giorgio Colangeli e Luca di Capua.
bardani torna dopo 5 anni al cometa off, teatro doveiniziò la sua carriera e proprio con lo stesso testo”,
“B-Side Precari di Successo” è una vera e propria sit-com live.
I nostri sei personaggi semplici e ostentati all’apparenza, maschere leggere e felici nascondono un b-side …più profondo e ricco di sfumature, più vero e intimo… un po’ come i cd singoli… dove dietro il pezzo commerciale si trova quello inedito… meno scontato, più ricercato e unico… Noè Army Nicoletta Martina Veruska e Antonio sono alla ricerca del proprio posto nel mondo, di sé e della propria realizzazione personale … e si sveleranno al pubblico attraverso Gag divertenti e momenti di verità… una commedia esilarante scritta e diretta ad arte da Alessandro Bardani Andreasi. Musiche originali “Deserto Rosso”
E’ un film bello e potente “Vulcano”, l’opera prima del guatemalteco Jayro Bustamante, vincitore dell’Orso d’Argento – Alfred Bauer Priz all’ultimo Festival di Berlino. La protagonista della storia è Maria (Maria Mercedes Coroy), una ragazza maya di diciassette anni che vive e lavora con i genitori in una piantagione di caffé alle pendici di un vulcano, l’Ixcanul, attivo in Guatemala. La sua vita e quella dei suoi genitori scorrono lentamente con i gesti quotidiani, la lingua locale, le tradizioni e il profondo legale che hanno con la terra. Ma il destino che le è stato assegnato non le piace, anche perché la sua famiglia ha deciso di farla sposare a Ignacio, il supervisore della piantagione, molto più grande di lei, vedovo con prole. La ragazza sogna di trasferirsi nella grande città e questo suo desiderio sembra realizzarsi con Pepe, un giovane raccoglitore che vuole andare a vivere negli Stati uniti. Maria lo seduce facendosi promettere di portarla con sé. Ma il ragazzo fugge, lasciandola, incinta, al suo destino. Il film, oltre che nella perfezione della struttura narrativa, dei personaggi e i paesaggi straordinari, mette in evidenza realtà oscure come il rapimento dei bambini guatemaltechi. Il regista a quattordici anni è andato via dal Guatemala con la madre medico per trasferirsi prima a Parigi e poi a Roma. Tornato nel suo paese d’origine, oltre al disastro ambientale e civile delle popolazioni indigene, è venuto a conoscenza della piaga riguardante la sottrazione sistematica dei neonati alle madri maya. “Le comunità che abitano gli altipiani guatemaltechi sono sempre state afflitte da un elevato tasso di discriminazione e hanno subito il violento impatto del traffico dei minori nel corso del conflitto armato che ha flagellato il Paese e anche oltre (1960-1996)”, ha raccontato Bustamante. Tra l’altro, non è un fenomeno sconosciuto. L’ONU, infatti, riferisce che avvengono circa quattrocento sequestri di bambini l’anno e la responsabilità di questo crimine va ricercata tra notai, giudici, medici, direttori di orfanotrofi, poliziotti corrotti e altri ancora. Nel film, Maria ha un contatto con il “mondo moderno” quando, a gravidanza avanzata, viene morsa da un serpente e, per salvare lei e la sua creatura, i suoi genitori la portano in ospedale con Ignazio. La ragazza si salva, la bimba che portava in grembo no, le dicono che è morta deformata dal veleno. La verità è un’altra e quando Maria lo scoprirà sarà troppo tardi.
Lo strepitare di un passero alle gronde
La luna che risplende e il cielo latteo,
E l’armonia solenne delle foglie avevano
Cancellato l’immagine e il grido dell’uomo.
Una fanciulla sorse con le rosse labbra
Dolorose e sembrò la grandezza
Di tutto il mondo in lacrime,
Dannata come Ulisse, le navi infaticabili, fiera
Come Priamo assassinato insieme alla sua gente;
Sorse, e all’istante le gronde clamorose, e la luna
Che arrampicava sopra un cielo vuoto, e tutto
Quel lamento di foglie non poterono
Che ricomporre l’immagine e il grido dell’uomo.
“Una storia sbagliata” di Gianluca Maria tavarelli è un film drammatico, che si muove tra un amore tormentato e una guerra ancora più complicata. Il conflitto è quello iracheno, a causa del quale le vite di Stefania (Isabella Ragonese) e Roberto (Francesco Scianna), giovani sposi, con il desiderio di avere un figlio, si dividono. Vivono a Gela, lei è infermiera, partecipa attivamente alla protesta contro l’inquinamento ambientale generato dall’industria, che ha provocato tumori e malformazioni nella popolazione infantile. Lui è un militare in missione a Nassirya. Pensano entrambi ad un’esistenza come tante divisa tra lavoro, famiglia e una nuova casa. Fino a quando Stefania non nota in Roberto un cambiamento, che si fa sempre più evidente ogni volta che il marito ritorna dalla missione. Ha uno strano presentimento e lo implora di non partire più per quei posti che tanto lo inquietano e non lo fanno più essere lo stesso. Ma Roberto non riesce a stare nella quotidianità che Gela e Stefania gli offrono e decide di tornare in Iraq ancora una volta. Sarà l’ultima, perché resterà coinvolto in un attentato. Stefania allora, alla ricerca di una verità che non riesce ad accettare, decide di andare coi Medici di Emergenza Sorrisi a Nassiriya (un’associazione che esiste realmente) per operare i bambini iracheni con il labbro leporino. Vuole sapere chi realmente fosse l’attentatore e conoscere la sua famiglia. Agisce, in gran segreto, aiutata da un giovane iracheno. Una donna, quindi, e il suo dolore che la rende dura e strategica. Stefania, al termine del suo viaggio, comprenderà aspetti di sé che non aveva mai considerato, chiusa nell’ambiente provinciale di Gela. Per la protagonista è un aprirsi al mondo con coraggio e determinazione, misurandosi con qualcosa che è più grande di lei (la seconda guerra del Golfo e le sue conseguenze) e con un mondo, quello arabo, diverso dal suo, ma con un elemento in comune: le opinioni, le sensazioni delle donne contano poco. Roberto non ascolta Stefania quando gli dice di non partire e anche la moglie dell’attentore non avrà neppure interpellato la sua prendendo la decisione di farsi esplodere.
E’ una commedia divertente ed intelligente “Crushed Lives – il sesso dopo i figli”, da oggi nelle sale, diretto da Alessandro Colizzi, che l’ha scritto insieme alla moglie Silvia Cossu, scrittrice e sceneggiatrice. Il film analizza, attraverso alcuni step, cosa succede nella sfera sessuale delle coppie quando arriva un figlio. Quando, appunto, da due si diventa tre, dallo status di coppia si passa a quello di famiglia e il sesso viene meno in conseguenza del fatto che non si è più solo moglie e marito, amanti, ma anche e, soprattutto, madre e padre. Il film è centrato su Saverio (Walter Leonardi), un regista che, per realizzare un film documentario sul “sesso dopo i figli”, intervista tre coppie. Anche lui ha una compagna (Nicoletta Romanoff), hanno un figlio piccolo e raccontano con gli altri della loro intimità. Per avere un quadro completo, Saverio si rivolge anche ad una prostituta, indicata da uno degli intervistati in un colloquio privato, e fa delle domande anche ad un’esperta del settore, la proprietaria di un sexy shop con oggettistica d’avanguardia. Gli attori, tutti molto bravi, mettono in scena quelle che sono le dinamiche, spesso sottovalutate, che si instaurano quando il tempo da dedicare alla coppia è quasi nullo, perché il nuovo arrivato pretende giustamente le attenzioni della mamma e del papà, anche nel cuore della notte. Tali dinamiche, se non sono frenate in tempo, portano inesorabilmente verso la separazione. Pure Saverio, probabilmente, intraprende il suo viaggio documentaristico, più che per fini professionali, per risolvere problemi suoi e che, a confronto con gli altri, gli appariranno comuni e anche meno seri di quello che sembravano. Alessandro Colizzi e Silvia Cossu che sull’argomento aveva scritto il libro satirico “PATRATAC – il sesso dopo i figli” (da qui l’idea per il film), hanno realizzato con questa pellicola uno spaccato sociologico molto importante che analizza i cambiamenti in atto nella nostra società. Partendo da spunti autobiografici (“Siamo insieme dal ’90, abbiamo due ragazzi di 14 e 12 anni e conosciamo bene le situazioni che raccontiamo”, ha detto Silvia), sono riusciti a far parlare i loro personaggi di argomenti di cui gli interessati non discutono volentieri, mettendoli su un piano comune. D’altro canto, quale coppia con prole non c’è passata?
Solo i giovani hanno momenti simili. Non penso ai giovanissimi. No, i giovanissimi, propriamente parlando, non hanno momenti. E’ privilegio della prima giovinezza vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta la bella continuità di speranze che non conosce pause o introspezioni.
Si chiude dietro di noi il cancelletto della pura fanciullezza – e si addentra in un giardino incantato. Persino le ombre vi risplendono promettenti. ogni svolta del sentiero è piena di seduzioni. E questo non perché sia una terra inesplorata. Si sa bene che tutta l’umanità ha già percorso questa strada. E’ il fascino dell’esperienza universale dalla quale ognuno si aspetta una sensazione particolare e personale – un po’ di noi stessi.
Si procede eccitati, divertiti, riconoscendo le orme di coloro che ci hanno preceduto, intrecciando la buona e la cattiva sorte – le rose e le spine, come dice il proverbio – quel pittoresco, comune destino che tiene in serbo tante possibilità di successo per chi le merita, o, forse, per chi è fortunato. Sì, si procede. Ed anche il tempo procede finché non si scorge dinanzi a noi una linea d’ombra che ci avverte che anche la regione della prima giovinezza deve essere lasciata alle spalle.”
Quarto capitolo della fortunata serie interpretata da Mel Gibson, “Mad Max: Fury Road”, ancora per poco nelle sale, è un film diretto soprattutto agli amanti del genere catastrofico e post apocalittico. Scritto e diretto da George Miller, che inventò la trilogia, “Interceptor” (1979), “Interceptor – Il guerriero della strada” (1981) e “Mad Max – Oltre la sfera del tuono” (1985), è il proseguimento rivisitato della saga ambientata in Austalia. Il protagonista principale è sempre Max Rockatansky, impersonato questa volta da Tom Hardy (Il cavaliere oscuro), un ex poliziotto solitario che cerca di sopravvivere a bordo della sua V8 Interceptor. Ha perso la sua famiglia durante l’inizio della serie di catastrofi su scala globale, che hanno causato il crollo della civiltà umana. Inseguito e catturato dai Figli della Guerra, un’armata di guerrieri comandati dal tirannico Immortan Joe, che domina nella Cittadella, la comunità che sorge all’estremità della desertica Fury Road, sottomettendo il popolo tramite il possesso delle riserve di acqua. Abile nel combattimento, nel guidare auto e ad usare le armi, aiuterà l’imperatrice Furiosa (Charlize Theron) a scappare da Immortan Joe. E mentre al principio, Max cercava solo di fuggire seguendo la propria strada, l’incontro con lei lo porterà ad un risveglio di speranza e di trasformazione che lo invoglieranno a cercare qualcosa di più della sola sopravvivenza. Con “Mad Max: Fury Road”, c’è il ritorno del Guerriero della strada in fuga tra le lande desolate. Un mito che nacque appunto con il primo film della serie, quando Miller ideò la storia di un uomo solitario in un mondo i cui abitanti, dopo il crollo della società, erano terrorizzati da bande di psicopatici motorizzati. La trilogia ebbe un tale successo che ispirò anche altre pellicole del genere come “1997: fuga da New York” e “Terminator”. In realtà, Miller aveva individuato senza volerlo un archetipo della mitologia classica. Il personaggio di Max può ricordare un Ronin, il Samurai solitario oppure un pistolero da film western oppure un guerriero vichingo. C’è l’identificazione dello spettatore che nella sua lotta quotidiana vince tutte le sfide. Ad affiancarlo troviamo Furiosa, stereotipo di donna moderna forte e indipendente, che salva le altre dalla schiavitù degli uomini. Si confronta con Max in estrema parità e lo lascia libero di scegliere se restare con lei oppure no, una volta diventata assoluta regina della Cittadella, destinata ad essere la sede di un nuovo matriarcato. Inutile dire che il film è adrenalico dall’inizio alla fine, pensato volutamente come una via di mezzo tra un concerto rock ed un’opera lirica. E’ lo stesso Miller ad ammettere che l’ha ideato per “trascinare via gli spettatori dalle loro poltrone e coinvolgerli in un viaggio intenso e turbolento”.
Quelle come me sono capaci di grandi amori e
grandi collere, grandi litigi, grandi pianti e grandi perdoni.
Quelle come me non tradiscono mai, quelle come
me hanno valori che sono incastrati nella testa
come se fossero pezzi di un puzzle, dove ogni
singolo pezzo ha il suo incastro e lì deve andare.
Niente per loro è sottotono, niente è superficiale o
scontato, non le amiche, non la famiglia, non gli
amori che hanno voluto, che hanno cercato, e
difeso e sopportato.
Quelle come me regalano sogni, anche a costo di
rimanerne prive…
Quelle come me donano l’anima, perché un’anima
da sola, è come una goccia d’acqua nel deserto.
Quelle come me tendono la mano
ed aiutano a rialzarsi, pur correndo il rischio
di cadere a loro volta…
Quelle come me guardano avanti,
anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro…
Quelle come me cercano un senso all’esistere e,
quando lo trovano, tentano d’insegnarlo
a chi sta solo sopravvivendo…
Quelle come me quando amano, amano per sempre…
e quando smettono d’amare è solo perché
piccoli frammenti di essere giacciono
inermi nelle mani della vita…
Quelle come me inseguono un sogno…
quello di essere amate per ciò che sono
e non per ciò che si vorrebbe fossero…
Quelle come me girano il mondo
alla ricerca di quei valori che, ormai,
sono caduti nel dimenticatoio dell’anima…
Quelle come me vorrebbero cambiare,
ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo…
Quelle come me urlano in silenzio,
perché la loro voce non si confonda con le lacrime…
Quelle come me sono quelle cui tu riesci
sempre a spezzare il cuore,
perché sai che ti lasceranno andare,
senza chiederti nulla…
Quelle come me amano troppo, pur sapendo che,
in cambio, non riceveranno altro che briciole…
Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,
purtroppo, fondano la loro esistenza…
Quelle come me passano innosservate,
ma sono le uniche che ti ameranno davvero…
Quelle come me sono quelle che,
nell’autunno della tua vita,
rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti
e che tu non hai voluto…
Piove su tutte le strade
e piove nel fondo al mio cuore:
non so, non so da dove
giunge questo languore.
Sonoro bruir della piova
per le zolle, sopra le ardesie;
a un cuor che dolce s’accora
oh dolce bruir della piova!
Questo pianger da dove mi viene?
Inganno? E quale? Nessuno.
Eppure nel cuore che geme
da dove, da dove mi viene?
E come duole un dolore
senza radice alcuna.
Odio non c’è, non c’è amore:
e tanta è la pena del cuore.
Prima di venire
Portami tre rose rosse
Prima di venire
Portami un grosso ditale
Perché devo ricucirmi il cuore
E portami una lunga pazienza
Grande come un telo d’amore
Prima di venire
Dai un calcio al muro di fronte
Perché li dentro c’è la spia
Che ha guardato in faccia il mio amore
Prima di venire
Socchiudi piano la porta
E se io sto piangendo
Chiama i violini migliori
Prima di venire
Dimmi che sei già andato via
Perché io mi spaventerei
E prima di andare via
Smetti di salutarmi
Perché a lungo io non vivrei.
“Pitza e Datteri”, quarto film di Fariborz Kamkari, regista curdo iraniano dell’acclamato “I fiori di Kirkuk”, tratta con leggerezza il problema dell’integrazione multiculturale nel nostro paese. La storia è ambientata a Venezia, storico incrocio tra Oriente e Occidente, dove la pacifica comunità musulmana viene sfrattata dalla sua moschea da un’avvenente parrucchiera. Il luogo sacro si trasforma così in un salone di bellezza e a nulla servono i mezzi usati per riappropriarsene da parte del presidente della comunità e dei suoi fedeli. Decidono così di chiedere un aiuto religioso più concreto, che sembra vanificarsi quando vedono arrivare in loro soccorso un giovane e insesperto Imam afgano. Tutti i loro goffi tentativi continuano a fallire , i poveretti sono costretti a improvvisare la preghiera negli angoli più impensabili della città (persino su chiatte in movimento), finché alla fine troveranno un nuovo luogo di culto. Tra i personaggi spiccano Bepi, interpretato dal bravo Giuseppe Battiston, un veneziano, nobile caduto in disgrazia, convertitosi all’Islam, il giovanissimo Imam Saladino, ben impersonato da Mehdi Meskar, attore calabrese-magrebino-parigino, e la splendida parrucchiera Zara, che ha il volto di Maud Buquet, attrice, regista e producer franco-africana. La struttura narrativa riprende la classica commedia all’italiana, ma a dirla tutta sembra più un film francese per la modernità e l’homour tipicamente d’oltralpe con cui affronta l’argomento. Un altro tema che il film tratta molto bene è il ruolo delle donne nella società musulmana moderata, le quali, afferma lo stesso Kamkari, sono “la vera forza dei cambiamenti”. In “Pitza e Datteri”, vediamo vere e proprie rivalse femminili, senza cadere però nell’estremismo femminista. Lo vediamo negli atteggiamenti di autoaffermazione e presa di coscienza da parte della figlia e della moglie di Karim, il presidente della comunità, interpretato dal bravo Hassan Shapi, ma è soprattutto il personaggio di Zara a rappresentare la vera rivoluzione sociale e culturale. La bella e voluttuosa parrucchiera, alla quale poi si uniscono in coro le altre donne, fa da contrappunto arguto e sfrontato al Saladino e ai maschi conservatori e confusionari.Lei è indipendente, ha vissuto molti anni in Francia e alla piccola comunità sembra una straniera a tutti gli effetti. Incarna il peccato ed emana fascino puro e sfacciato, quello che fa cadere ai suoi piedi gli uomini. Attraverso Zara, però, il Saladino matura una diversa visione dell’esistenza (“Terra, donna, luna, acqua, poesia… tutte le cose più belle di Dio sono femmina”) e tornerà a casa con una nuova consapevolezza.
In questa notte d’autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini.
“Questo è il mio film più intimo”, ha detto Paolo Sorrentino a proposito di “Youth – La giovinezza”. E lo è, veramente. L’ha scritto e diretto toccando corde di profondità notevoli. Dietro i volti di mostri sacri del cinema quali Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz e Jane Fonda, Sorrentino canalizza le domande e le risposte che potrebbero sembrare banali ai più, ma che tanto banali non sono. In questo film si parla di genitori e figli, più di padri che di madri. Perchè i protagonisti sono due vecchi amici alle soglie degli ottant’anni, Fred, un compositore in pensione (Michael Caine), e Mick, un regista cinematografico (Harvey Keitel) in procinto di girare il suo “film-testamento”. La coppia di artisti si ritrova, come era successo molte altre volte, in un elegante albergo svizzero, ex sanatorio, ai piedi delle Alpi per una vacanza primaverile, prima di tornare a impegni e routine. Chiacchierano, dicendosi però soltanto “le cose belle”, passeggiano tra valli e verdi boschi, ricordando il passato filtrato dalla lente del presente. In realtà, il film è una resa dei conti dei protagonisti. Due uomini che nella vita professionale hanno avuto tutto, si trovano a dover fronteggiare i problemi e le accuse dei figli. Sono stati padri assenti (memorabile lo sfogo di Lena, impersonata da Rachel Weisz, figlia e collaboratrice di Fred, nella stanza dei massaggi), molto presi da se stessi, sfruttatori delle proprie mogli e compagne. I due amici, in un’atmosfera da albergo di Davos de “La montagna incantata” di Thomas Mann e quadri viventi che ricordano quelli di Tamara de Lempicka, guardano con curiosità agli altri bizzarri ospiti. Fred soprattutto intesse un legame con il giovane attore hollywoodiano Jimmy Tree (Paul Dano), con il quale ha un curioso confronto generazionale, quasi da padre a figlio appunto. Jimmy è deluso dalla propria carriera perché i suoi fan lo ricordano soprattutto per il ruolo da uomo robot che gli ha dato la fama, pur avendo preso parte ad altre pellicole più interessanti. Un giorno però, mentre lui e Fred si trovano in un negozio di orologi a cucù (un altro simbolo del tempo che passa?), una bambina lo riconosce non per il suo solito personaggio, ma per un altro, un padre che dopo quattordici anni ritrova il figlio che aveva abbandonato, spaventato dall’impegno di essere genitore. Anche Mick, per realizzare il suo film testamento si è circondato di giovani sceneggiatori, con i quali condivide idee ed esperienze personali. Li sente vicini, più del figlio vero con cui non ha un rapporto. “Youth” è uno scambio tra vecchi e giovani, un continuo preoccuparsi da parte dei primi di cosa lasceranno ai secondi. Trattandosi di due artisti esiste un doppio rimando: cosa lasceranno alla società un grande compositore e un bravo regista? E’ Jimmy Tree a dirlo, citando una frase chiesta a Novalis (non dimentichiamoci che Sorrentino è un regista colto) da qualcuno che lo interrogava su quale fosse il senso della sua arte e lui rispose: “Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio padre”.
Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.
Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.
La luna si nasconde e poi riappare
lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.
“La psicologia conosce degli stati […] di ‘svuotamento’ dell’Io, quando il senso di realtà si fa così inquieto e confuso da tradursi in un dolore uniforme che inutilmente va in cerca di un ricordo o di un’immagine contenitrice: ciò avviene tipicamente nelle stagnazioni della melanconia. Aristotele pensava che la passività piena di affanno melanconico non possa essere risolta ‘finché l’oggetto ricercato non sia raggiunto’ e tuttavia nel melanconico qualcosa di irremovibile sembra opporsi a questo esito guaritore, come se l’Io non potesse in alcun modo ‘richiamare’ le immagini di cui è in ricerca”.
Luisa Colli (La morte e gli addii, Moretti e Vitali)
Uscito nelle sale italiane il 2 giugno, “Fury” , scritto e diretto da David Ayer, è il classico film di guerra. Ambientato nell’aprile del 1945, quando gli alleati erano impegnati a sferrare l’attacco decisivo per liberare l’Europa dal nazismo, il sergente dell’esercito americano Don Collier, soprannominato “Wardaddy” (Brad Pitt) è a capo di un’unità formata da cinque uomini a bordo di un carro armato Sherman, chiamato “Fury”. Stremati, i soldati sono chiamati a svolgere una pericolosa missione proprio nel cuore della Germania nazista. Il granitico Wardaddy, oltre a guidare i suoi soldati, ha anche il compito di “istruire” una recluta giovane ed inesperta, Norman Ellison (Logan Lerman), che gli viene affidata all’ultimo momento. Tra città devastate, esplosioni di ordigni, uccisioni di soldati e civili, il tremante dattilografo ventunenne diventerà un soldato coraggioso e lo dimostrerà affrontando valorosamente con i suoi compagni un intero battaglione nemico in ritirata. Sotto questo punto di vista, potremmo definire “Fury” un film di formazione: prendi un ragazzo che non ha mai sparato in vita sua, mettilo in un posto dove si deve combattere duramente con un mentore come Wardaddy e vedrai che acquisterà consapevolezza della sua forza interiore e delle sue capacità di guerriero. Per il resto è un film che vuole mostrare come la guerra è veramente, senza sconti. Nella spettacolarità e nel pathos presenti nelle azioni, trova posto tutto lo sgomento dei personaggi che è pari a quello degli spettatori, che assistono impotenti a bombardamenti ed uccisioni, come solo una storia di questo tipo può raccontare. Chi guarda prova lo stesso stupore della giovane recluta quando si accorge che a sparare dal fronte nemico ci sono dei bambini arruolati come soldati dall’esercito tedesco, ormai sprovvisto di uomini da far combattere. “Fury” strizza l’occhio alle vecchie pellicole del genere di stampo hollywoodiano, perché non è mai volgare, ma a differenza dei film che l’hanno preceduto non cade in sciocche ideologie ed è ricco di finezze narrative.
Centinaia di fiori in primavera,
la luna in autunno,
la brezza fresca d’estate,
la neve in inverno.
Se non occupi la tua mente
in inutili cose,
ogni stagione è per te
una buona stagione.
E’ nelle sale italiane il bel film documentario della regista e produttrice americana Lydia B. Smith “Sei vie per Santiago: Walking the Camino”. Il cammino di cui si parla è il percorso di 500 miglia che migliaia di pellegrini attraversano a piedi ogni anno per raggiungere il Santuario di Santiago de Compostela nella Spagna settentrionale. Luogo di pellegrinaggio fin dal medioevo, la cattedrale, che ospita le spoglie mortali di Giacomo il Maggiore apostolo di Gesù, è uno dei riferimenti religiosi più importanti d’Europa. La stessa Santiago e il cammino del pellegrinaggio sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1985. Nel documentario, Lydia Smith racconta il viaggio di sei pellegrini, molto differenti tra loro che per diverse ragioni hanno intrapreso il cammino. I motivi non sono tutti di ordine religioso, ma piuttosto per molti di loro è un mettersi alla prova, accettare una sfida con se stessi oppure per lasciarsi una vita che non li soddisfa alle spalle attraverso un percorso catartico. “Quando la gente affronta a piedi il Cammino, si stacca dalle proprie convinzioni per abbandonarsi ad una visione che è unica al mondo”, spiega la regista. “Non c’è lezione migliore e per questo il cammino deve essere intrapreso. E’ una metafora della vita – non esiste un modo giusto o sbagliato per farlo, tutto dipende dal modo in cui lo si affronta. Il viaggio è individuale – ognuno di noi deve trovare la sua strada. E’ tutta una questione di scoprire se stessi”.
Chi sono le persone che la Smith ha scelto per documentare la fatica e le motivazioni del Cammino? Annie di Los Angeles che lo ha intrapreso per ragioni spirituali, Jack e Wayne, due pensionati canadesi, Misa, una studentessa di sport danese, Sam, una donna brasiliana, Tomas, trentenne atletico, in cerca di un’esperienza “molto fisica”, Tatiana, madre single francese, che compie il suo percorso con il figlio di tre anni e il fratello Alexis, con il quale discute spesso. Con loro e attraverso di loro percorriamo anche noi il Cammino e ci ritroviamo a provare gli stessi problemi, sensazioni e sentimenti. Li vediamo all’inizio entusiasti e incuriositi da quest’avventura, li osserviamo e sentiamo con loro il dolore fisico, la fatica, la sensazione di non riuscire a proseguire e mentalmente li incoraggiamo a non arrendersi. Con loro vediamo splendidi paesaggi, i paesi caratteristici della zona e vorremmo andarci in vacanza, perché tutto il percorso per arrivare a Santiago ha una personalità tutta sua anche dal punto di vista turistico. Ti colpiscono l’ospitalità della gente del posto e dei volontari disseminati lungo la strada, che offrono ai pellegrini un pasto caldo e un posto per dormire. Affronti con loro i problemi legati al viaggio come le vesciche ai piedi che non fanno camminare, gli ostelli dove ti trovi a dividere letto o pavimenti con degli sconosciuti, la pioggia che fitta cade sulla schiena e sulla testa. Condividi con loro la gioia dell’arrivo, una felicità contagiosa che rende leggero anche te che sei stato seduto a vedere il film. Una lotta contro tutte le contrarietà, fuori e dentro il film, e all’uscita dal cinema ci si sente cambiati anche noi. Sì, Santiago de Compostela è un luogo magico.
Veleggio come un’ombra
nel sonno del giorno
e senza sapere
mi riconosco come tanti
schierata su un altare
per essere mangiata da chissà chi.
Io penso che l’inferno
sia illuminato di queste stesse
strane lampadine.
Vogliono cibarsi della mia pena
perché la loro forse
non s’addormenta mai.
Vincitore del premio della Giuria nella sezione “Un certain regard” al Festival di Cannes 2014 e candidato all’Oscar per la Svezia come miglior film straniero, “Forza maggiore”, attualmente nelle sale cinematografiche, ma ancora per poco, scritto e diretto dal svedese Ruben Östlund, è uno dei film più belli della stagione. Perché parla di coraggio e di chi non ne è provvisto, perché alcune convinzioni arcaiche, ai tempi nostri, non sono più valide. Almeno non per tutti. La trama è la seguente: una famiglia composta da padre, madre e due figli, una femmina e un maschio, stanno trascorrendo una vacanza in una località sciistica ai piedi delle Alpi francesi. Sembrano felici, rasentano la perfezione, in realtà Tomas ed Ebba (questi i nomi dei protagonisti) sono una coppia in crisi che sta cercando di rimettere ordine nella propria vita. Lui si presenta come un padre attento che divide i compiti di gestione familiare con la moglie ed un marito presente. Una famiglia perfetta con qualche oscuro problema. Durante un momento di pausa, mentre stanno pranzando sulla terrazza di un rifugio, una valanga si stacca dalla montagna di fronte. Spaventato, Tomas afferra il suo cellulare e scappa via, la moglie, sconcertata, afferra i bambini per metterli in salvo. Per fortuna, il pericolo slavina risulta essere un falso allarme, ma quello relativo alle dinamiche della coppia e alle funzioni che entrambi i partner svolgono all’interno della famiglia è in codice rosso. Tomas non ha svolto il suo compito di padre protettore, compito che svolge invece la moglie, probabilmente seguendo l’stinto animale che le femmine hanno di proteggere i cuccioli. Ebbe, spiazzata dal comportamento del marito, non giustifica il suo modo d’agire e glielo fa presente. Tomas, pentito e avvilito anche lui, le risponde che ha agito sotto l’impulso del momento, ma scavando in profondità, Tomas dovrà ammettere le sue fragilità. Östlund, con questo film, ha voluto affrontare i conflitti presenti in molte coppie contemporanee. Gli uomini, in preda a mille incertezze, hanno perso di vista il contatto con la loro vera natura e con quella circostante dell’ambiente selvaggio. Le donne, sempre alle prese con i problemi pratici e con i figli da portare in grembo, hanno mantenuto la parte selvatica che all’occorenza esce fuori. “Forza maggiore” va visto sia per il tema trattato, sia per la profondità con cui la sceneggiatura indaga nella psiche dei personaggi e per la forza con cui descrive immagini e azioni.