Il giorno del mio funerale mi vestirono di viola. Mi sentii ridicolo! Non che pensassi che davanti al padreterno ci si dovesse presentare tutti eleganti, in gessato grigio o in tweed marrone, come se il paradiso o l’inferno fossero una banca a cui chiedere un mutuo, ma credevo che la morte avesse una sua serietà. Occorreva essere sobri, ed io, più che un fantasma novizio, sembravo un personaggio uscito dal “Piacere” di D’Annunzio.
Che ironia, per tutta la vita avevo sempre amato il viola e per il mio funerale mia moglie mi infiocchettò con un vestito di velluto color mammola e una camicia lilla un poco più chiara. La gente non ci fece nemmeno caso, forse per le eccentricità a cui li avevo abituati in vita, o per quelle nuvole che, sospinte da un vento pesante dell’Africa, si allungavano verso il rosso sanguigno della sera. Il cielo sembrava la tavolozza di un pittore ispirato, un guazzabuglio di colori, l’opera alchemica di divinità fanciullesche che se la ridevano per la mia dipartita. Un morto vestito di viola non stonava con quell’atmosfera bislacca!Adesso, quando me ne vado in giro sopra le città nelle giornate d’inverno, agli ubriaconi sembra di intravedere tra la caligine dei palazzi un riflesso cangiante violetto. Naturalmente nessuno dà loro retta, così posso svolazzare tranquillo insieme a tutte le legioni di cherubini, serafini, eroi ed entità varie che riempiono le regioni più in ombra dell’esistenza. Poi c’è il discorso dei sensitivi, ma si sa, a quelli la gente da ancora meno retta che agli ubriaconi. Aggiungo, giustamente! Anch’io, da vivo, non detti mai retta a uno di loro.
Eppure, dall’alba del genere umano, noi fantasmi popolammo la terra numerosi come granelli di polvere e fummo presenti nelle storie tramandate da ogni generazione. Riempimmo le opere degli uomini ispirati e di quasi tutti gli artisti, specie dei poeti e dei pittori, che talvolta esagerarono come Hyeronimus Bosch che disegnava abomini dovunque. Nessuno dotato di comune buon senso però volle credere in noi; i bambini lo fanno, perché riescono a percepirci e hanno paura; ma la paura è un sentimento umano, troppo umano come disse un filosofo, e a noi fantasmi non importa un fico secco di mettere i bastoni tra le ruote a degli indolenti mortali. In tutta la mia vita di spirito, non ho mai tirato i capelli a nessuno, né terrorizzato nonnette novantenni prima che andassero a dormire.
Che io sappia, nessuno dei miei colleghi fantasmi lo fece – non posso garantire per i demoni, lo so, ma solo il padreterno sa cosa ci sia nella zucca di quegli invasati schizoidi.
La sola passione che resta a noi fantasmi è l’ambizione. Tutti noi aspiriamo a salire nella gerarchia demonica e aneliamo al ritorno verso l’Uno da cui siamo stati creati. Siamo creature di ombra, eppure amiamo la luce, terribilmente.
A testimoniare ciò racconterò la storia della signora Dùrer e di quello che accadde nel sotterraneo del suo palazzo.
La signora Dùrer era la discendente di Dùrer, il pittore fiammingo, o almeno così sosteneva. Dùrer era fissato con l’ermetismo e passò la vita a studiarci, noi fantasmi e le forze oscure; disegnò un quadro in cui imprigionò certi spiriti e per tutto il Cinquecento, dopo la sua morte, le gerarchie sottoposero i fantasmi novizi alla prova di ritrovare gli spettri del quadro. Chi ci sarebbe riuscito, sarebbe stato promosso a entità superiore, una di quelle descritte nei libri di Giamblico, ad angelo o arcangelo insomma. In circostanze misteriose il quadro sparì – si disse che intervenne addirittura la Chiesa – e la questione fu dimenticata.A me questa storia fu raccontata dallo spirito di uno sciamano yakuzo. Al principio non volli prestarvi orecchio, anche perché la maggior parte dei critici d’arte dubitò sempre che quel quadro esistesse. Ma poi mi ricordai della signora Dùrer e di ciò che mi aveva detto una volta, quando la conobbi, in vita, in occasione di una delle mie conferenze sulla malinconia. Mi venne il dubbio.
Era possibile ottenere ciò che miriadi di fantasmi prima di me non erano riusciti a raggiungere?“Amico!” mi distolse lo spirito dello sciamano yakuzo, guardando le mie vesti di velluto. “Chi ti ha conciato così? I principi mongoli che vanno per steppe a caccia di renne non sono altrettanto bizzarri!”Sorrisi, ma non replicai. Se non trovavo il modo di togliermi quei vestiti di dosso, avrei fatto ridere tutte le schiere dell’altro mondo fino al giudizio universale.
Oltre ad essere eccezionalmente ricca, la signora Dùrer viveva nella mia città e possedeva uno scantinato pieno di meraviglie della più straordinaria natura. Per farla breve, aveva una delle collezioni d’arte private più importanti d’Europa. Tuttavia si lamentava come il suo scantinato fosse invaso da legioni di spiriti.“È una maledizione!” mi disse. “Tra tutti quei quadri, che iddio solo conosce e che mio padre, buon anima, portò con sé dalle sue avventure coi preti, si aggirano dei fantasmi grossi e panciuti, che se la ridono alle mie spalle. Lo sa lei da quanto tempo non scendo più nello scantinato?”“Cosa dice signora Dùrer?” le risposi. “La sua collezione farebbe invidia a un museo!”
Di certo faceva invidia a me.“Quando guardo certe opere mi sento agghiacciare. Sa, quelle sul pianeta Saturno e su quegli uomini pieni di bile nera… quelle scene abiette, quelle facce scavate. Non riesco ancora a capire cosa ci trovi lei in quelle figure di morte”.Secondo la tradizione, Saturno – il settimo dei pianeti osservati dagli antichi – era quello che governava gli uomini di intelletto. Negli scritti di eminenti studiosi, come Marsilio Ficino o Cornelio Agrippa, si teorizzava che avesse una duplice natura: oscura e distruttiva da una parte, purificante e luminosa dall’altra.
“Io credo che sia la sua vendetta!” disse infine la signora.“La vendetta di chi?” domandai.“Di Dùrer, naturalmente!
Del pittore. Credo che non gli faccia piacere sapere che possiedo metà delle sue opere e che vado in giro per la città facendomi bella con la storia della discendenza. Dovrei far vedere quei quadri da un prete altro che critici d’arte…”Come tutti, sorridevo di fronte a quelle affermazioni, ma adesso che so cosa si aggira nell’ombra, aggiungo: “Ahimè, povera signora Dùrer! Lei non sa di quale sostanza sia pervasa la notte; non ancora…!
”Ad ogni modo si rafforzò in me l’idea che fosse possibile ritrovare i fantasmi del quadro, anche perché non solo ero un fantasma unico nella storia, un fantasma vestito di viola, ma nessuno spirito prima di me aveva scritto libri sui pittori fiamminghi. E così decisi di avventurarmi tra le collezioni della signora. Mi introdussi nel suo palazzo, svolazzando cautamente. Non volevo allarmare nessuno: ci mancava solo lo scongiuro di qualche maggiordomo superstizioso e mi sarei ritrovato a timbrare per giorni le deliberazioni della commissione demonica.
Lo scantinato era esattamente come lo ricordavo: Rembrandt, Manet, Raffaello al loro posto, a cui si erano aggiunti nuovi quadri di artisti nord-americani. Come sempre le matrone di Cranach mi accendevano di languida voluttà e i trittici di Bosch turbavano la mia immaginazione, con le loro schiere di personaggi sadici da incubo. Ma a me interessava Dùrer: il padre della signora aveva reperito mezza dozzina dei suoi quadri in giro per l’Europa, ritenendo che le opere dovessero tornare in famiglia. Era stato il padre a mettere in giro la storia della discendenza – francamente, non ho mai capito se fosse stata vera o una frottola. Non lo capisco nemmeno adesso, con i miei sensi di spirito. Mi avvicinai all’angolo più a nord del sotterraneo. Ammirai una lunga serie di opere che avevano come soggetto uomini caduti sotto l’influenza di Saturno. Saturno era il pianeta più lontano dal fulgore solare e perciò il più freddo, così non mi sorpresi dall’osservare le figure dal carattere greve, invernale dipinte sui quadri: volti emaciati e appesantiti dallo sforzo intellettuale, uomini svigoriti dall’accidia, vecchi lussuriosi avvinghiati a giovanette avvenenti.
In alcune opere, si trovavano squadre, compassi e martelli, strumenti dell’antica arte muratoria presieduta dal pianeta Saturno.Una tela catturò la mia attenzione: non l’avevo mai vista prima e non ero certo se si trattasse di un Dùrer o di un’opera di un suo discepolo. Sotto la luce asfittica di un astro al tramonto, una schiera di disperati arrancava lungo una valle brulla, cercando di raggiungere un fiume attorniato da certe piante esotiche. L’uomo che guidava gli altri era nudo e calvo. Un corvo infieriva su di lui.Anche se era solo un dipinto, provai pena per quell’uomo. Inoltre aveva tre fori sul cranio, come dei colpi di pistola, i quali – rammentai – rappresentavano un’ulteriore afflizione saturnina.
Avrei voluto ridare un po’ di pace a quella figura triste, così sfiorai i fori per cancellarli, quando due altri corvi uscirono da essi muovendosi dentro il quadro. Il loro gracchiare mi fece agghiacciare, ancor più di quanto non fosse già gelido il mio corpo di spirito. Non potevo crederci: i corvi avevano il loro nido dentro i fori dipinti!Un attimo dopo capii che gli schiamazzi erano moti di scherno. Ed erano rivolti verso di me. “Ah! Ah! Ah!” starnazzarono. “Il fantasma viola! Il fantasma viola!” La loro ilarità invase tutto il sotterraneo e per un attimo temetti che la signora Dùrer scendesse allarmata con l’intera servitù al seguito. I miei sensi di spirito mi avvertirono che i corvi erano fantasmi come me ridotti in quella forma per via di un incantesimo.L’uomo nudo sul dipinto si mosse e disse tossicchiando: “Acqua… vi prego!” “Fa’ silenzio, tu!” gracchiarono i corvi, beccandogli il collo. L’uomo piegò il viso per il dolore e non osò più fiatare.Esclamai deciso: “Finitela di tormentare quel poveretto! Non vedete come è ridotto?” Detti una manata a un corvo, che volò via sull’altra parte del quadro, ma un altro mi graffiò e io mi ritrassi.“Il fantasma viola! Il fantasma viola!” sghignazzavano ancora. Guardai con odio quelle bestiacce e feci di nuovo per colpire, quando una luce abbagliante invase la stanza. I corvi smisero di ridere. L’uomo del dipinto rialzò lo sguardo, come gli altri che lo seguivano sulla tela. Sentii che una forza gioviale stava ridando vigore a quelle figure sfinite. Anche le mie membra di spirito si riscaldarono e per un attimo ebbi timore di evaporare.Un essere di luce apparve davanti ai miei occhi. Era un arcangelo. Il viso dolce era quello di un ragazzo, gli occhi di fulmine quelli di un essere che aveva attraversato quasi tutte le ere del mondo.
Egli disse rivolto a me: “Nessuno era mai riuscito a ritrovare i fantasmi del quadro. Hai appena varcato la soglia di questo mondo, caro signor P., e già hai il diritto di esprimere un desiderio. La commissione demonica darà il suo assenso a qualunque tua richiesta”. L’arcangelo era stato richiamato dall’angelo custode della signora Dùrer, che scosso dal bisticcio tra me e i fantasmi del quadro, aveva richiamato un angelo che svolazzava sopra il palazzo; questi, a sua volta, aveva fatto rapporto a un suo superiore. Insomma, per farla breve, la voce arrivò fino agli arcangeli che capirono cosa stesse accadendo e mandarono il più giovane di essi giù per conoscermi.I corvi, intimoriti dal bagliore dell’arcangelo, si rintanarono lemme lemme nelle loro tane, cioè nei fori sul cranio del poveretto. Io invece iniziai a immaginare a quale desiderio avrei potuto esprimere: sarei potuto diventare un angelo, o un arcangelo perfino; lasciai che la vanagloria corresse dentro di me, ma subito dopo riflettei che un angelo non sarebbe mai andato in giro con degli abiti stravaganti come i miei. Gli angeli, anime piè dai biondi, folti capelli, vestivano con tuniche bianche e immacolate. “Voglio un abito nuovo!” esclamai deciso.L’arcangelo si mostrò sorpreso.“Un bel vestito grigio, o nero, o bianco se possibile! Uno insomma che sia adatto alla mia condizione di spirito”. “Una richiesta insolita per un fantasma” rispose l’arcangelo, investendomi con il suo sguardo di fulmine. “Ma difficile da ottenere! Non si può cambiare il vestito con cui ci si è presentati nell’aldilà! L’unico modo per farlo sarebbe quello di incarnarsi in un nuovo corpo”. Che bella prospettiva, pensai, affrontare una nuova vita solo perché il giorno del mio funerale mia moglie mi aveva giocato quell’ultimo tiro: vestirmi come un damerino stile belle époque o fin-de-siecle per farmi cadere nel ridicolo. Chissà come se la stava ridendo, anzi, come se la stava spassando, adesso, dopo avermi sotterrato!
Mentre il brontolio dei miei pensieri continuava, sentii l’uomo sul dipinto mormorare qualcosa: mi supplicava di aiutarlo, anche se era incapace di parlare ad alta voce perché intimorito dall’arcangelo.Allora un’idea mi illuminò: “Userò il potere del quadro!” “Cosa vuoi dire?” domandò l’arcangelo. Aveva a che fare con un fantasma singolare.
“Il quadro è incantato. Sfrutterò il suo potere per ottenere un abito nuovo” risposi. “Darò il mio vestito all’uomo sul dipinto: egli è nudo e ha bisogno di un abito!”“…”“Gli darò il mio vestito violetto!” ripetei.“Ma allora rimarrai tu senza abito!?” fece l’Arcangelo. “No. Se mi innalzassi ad angelo, non potresti lasciarmi nudo! Un bel vestito bianco sarebbe d’obbligo! I corvi si incarneranno al mio posto e guadagneranno un altro abito per me. A loro il fardello di affrontare una nuova vita. Hanno straziato così tanto quel poveretto che se lo meritano!”L’arcangelo rimase un attimo incerto, ma capii che in fondo era compiaciuto dall’idea. Per un attimo guardò in alto, verso il soffitto, mi sembrò sorridesse.
“E sia!” disse infine. Con uno schiocco delle dita, le mie vesti violette furono tramutate con delle altre bianche e magnifiche, simili alle sue. L’arcangelo si toccò la spada che aveva alla cinta e sparì.Che strana sorte la mia, diventare un angelo per cambiare vestito! Evidentemente non solo gli uomini, ma anche gli spiriti farebbero qualsiasi cosa pur di apparire con l’abito giusto. In quanto ai corvi, venni a sapere che uno di loro si incarnò in un bel giovane che si sposò con mia moglie in una vita successiva. L’uomo dipinto, invece, fu abbigliato con le mie vesti viola che gli donarono molto, anzi, lo resero magnifico (per sua fortuna non era un fantasma!), ed in qualche modo lui e la sua schiera riuscirono a raggiungere il fiume sul dipinto.Da allora tutti celebrarono la bellezza di quel quadro e dell’uomo vestito di viola che aveva raggiunto la sua meta.
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“ABITO
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La sensibilità è l’abito più elegante e prezioso di cui l’intelligenza possa vestirsi
(Osho Rajneesh)”