La mia nuova veste…

https://www.youtube.com/watch?v=6rWElCiMIUk

SUPER EGO, VECCHI E NUOVI GOLEM

Semplici frammenti
di Massimo Lanzaro
Psichiatra, Psicoterapeuta

Secondo la leggenda ebraica, chi viene a conoscenza della kabbalah può fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che può essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti. Il Golem era dotato di una straordinaria forza e resistenza ed eseguiva alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia era incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché era privo di un’anima e nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgliela.

Il Super Ego (originale tedesco Über-Ich), secondo la teoria freudiana, è una delle tre istanze intrapsichiche che compongono il modello strutturale dell’apparato psichico ed è quella che, secondo lo stesso Freud, si originadalla interiorizzazione dei codici di comportamento, divieti, ingiunzioni, schemi di valore (bene/male; giusto/sbagliato; buono/cattivo; gradevole/sgradevole) che il bambino attua all’interno del rapporto con la coppia dei genitori.

Con il termine Super-Ego o Super-Io, si designa pertanto una istanza psichica, una regione, che insieme all’Es e all’Io costituisce la personalità umana.

Il Super-Ego è costituito da un insieme eterogeneo di modelli comportamentali,oltre che di divieti e comandi, e rappresenta un ipotetico ideale verso cui il soggetto tende con il suo comportamento. «È una sorta di censore che giudica gli atti e i desideri dell’uomo».

Attraverso un “sovraccarico” – per così dire – di tale istanza si determina un meccanismo che porta alla frantumazione dell’Io ed alla sua successiva modificazione, in quanto vengono da esso assimilati modelli derivanti da imposizioni altrui. Il Super-Ego, infatti, scaturisce dal bagaglio culturale e formativo acquisito sin dall’infanzia dai genitori ed in seguito da altri eventuali educatori. Se quindi, da una parte, tale sfera riveste una funzione positiva, limitando idesideri e le pulsioni umane, dall’altra, causa invece un senso continuo dioppressione e di non appagamento.

Il dilagare del bisogno di spiritualità, che si traduce nell’enorme diffusione di pratiche religiose e meditative tradizionali e nuove, sette di vario genere, uso di sostanze o di situazioni particolarmente stressanti per ricercare l’accesso a stati di coscienza fuori dall’ordinario, è una caratteristica molto evidente della società contemporanea. Forse risponde all’esigenza di far fronte alla vacuità e mancanza di significato delle relazioni d’uso, promosse in modo violento dal consumismo esasperato e con tutte le sofisticate, talora apertamente perverse, tecniche di propaganda del Mercato e della Tecnologia, i nuovi Golem. Tutto ciò espone gli individui al rischio grave di non saper differenziare l’autenticità del percorso formativo, proposto dalla psicoanalisi e dalle pratiche meditative sostenute da metodi ben collaudati, dalla illusoria ricerca di false realizzazioni in esperienze di esaltazione visionaria, indotta da gruppi e sette, più o meno satanici, o da eccitamenti variamente provocati. A ciò va aggiunto il fatto, spesso sottovalutato, che viviamo, ci piaccia o no, in un mondo condizionato da millenni di religioni, sempre in guerra tra loro, con l’inevitabile conseguenza di non poter discriminare in ciascuna di esse la dimensione dell’autenticità da quella dell’inautenticità, quella della mistica da quella del potere .

Lascio volutamente disgiunti questi frammenti, perchè vorrei che il lettore ne faccia quello che il suo animo ritiene più opportuno.

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E sì…

La conoscenza nasce dallo stupore.

 Socrate

Si può perdere

Si puo’ perdere qualcosa che si ha, non qualcosa che si e’.
(Salvatore Brizzi)

Vedere

Ognun vede quel che tu pari. Pochi sentono quel che tu sei.

Niccolò Machiavelli

L’educazione sentimentale

Se potessi averne le possibilità (e non è detto che non ci riesca in futuro), proporrei una nuova materia scolastica.
Darei vita, all’EDUCAZIONE SENTIMENTALE.

I sentimenti si trasmettono, il Bene si trasmette e si insegna. Si propaga.

Lo farei attraverso la visione di brani tratti da dei film, da passi di letteratura o di poesia, attraverso il racconto di gesti “eroici” e di nobiltà d’animo (presi dalla storia o dalla attualità).
In un perdiodo storico come il nostro, dove il bieco individualismo regna incontrastato come valore cardine, l’educazione sentimentale è indispensabile.

Educare alla Bellezza e alla gentilezza, dovrebbe essere un “imperativo sensoriale”

Umberto Galimberti. La generazione post ideologica

di Federica Martellini

Prof. Galimberti, lei è stato quest’anno uno degli ospiti del Festival della Filosofia a Modena. Il tema scelto dagli organizzatori in questa edizione è la “comunità”, una dimensione che oggi appare alquanto difficile da poter definire e anche da sperimentare. In una fase storica in cui le identità collettive (e forse le identità tout court) appaiono in crisi, si radicalizzano o si dissolvono, di cosa si parla quando si parla di comunità?

Quando si parla di comunità si parla più o meno delle scelte dell’uomo dal momento che, dal tempo di Aristotele, l’uomo viene qualificato come animale sociale. Oggi questa dimensione sociale, che significa “in relazione all’altro”, è venuta radicalmente meno nel senso che ciascuno ha sviluppato la dimensione individualistica e il momento relazionale ne soffre un po’. In questo io vedo una specie di cascame di un’idea fondamentalmente cristiana, perché il concetto di individuo e il primato dell’individuo l’ha introdotto il cristianesimo. Prima c’era il primato della città. E gli individui erano giusti se si “aggiustavano” nell’armonia della città. Il cristianesimo ha messo in circolazione il concetto di anima e il primato dell’individuo ha conferito allo stato semplicemente il compito di sciogliere gli inconvenienti che impediscono o ostacolano la salvezza dell’anima, che è individuale. Il risultato finale di questo processo è che ciascuno pensa a se stesso, appartato nel suo appartamento. E tutti i legami di solidarietà sono venuti meno. Negli anni Sessanta il futuro era una promessa. Poi divenne, forse, una scelta di campo. C’erano cause che sembrava valesse la pena di abbracciare e non penso solo alle ideologie politiche ma anche a movimenti come il femminismo, l’ecologismo, il pacifismo…

I ventenni di oggi sembrano poco interessati a simili battaglie e appaiono, tutto sommato, molto più conformisti. Cresciuti senza l’ombra dei muri ideologici sembrano tuttavia, come e forse più di ieri, intrappolati da altri “muri” che sono l’incapacità di empatia e di comunicazione. Può essere questa una chiave di lettura del suo libro sul nichilismo e i giovani?

Fondamentalmente ai giovani è stato rubato il futuro. Il futuro ora non si presenta più come una promessa ma come una minaccia o per lo meno si presenta come imprevedibile e scarsamente codificabile. Che cosa succede a questo punto? Che i giovani non possono nemmeno più fare la rivoluzione mentre nel ’68 hanno fatto la rivoluzione delle persone che stavano molto meglio di loro, il cui futuro era sostanzialmente garantito. Ma perché questo? Perché siamo entrati pesantemente nell’epoca della razionalità tecnica, la quale ha disciolto il conflitto delle volontà. Le rivoluzioni, i cambiamenti estremi avvengono per conflitti di volontà, mentre ora queste volontà non sono più in conflitto ma sono tutte e due dalla stessa parte avendo come controparte la razionalità del mercato. E allora con chi te la prendi? Perché il mercato è nessuno, è invisibile: sono operazioni finanziarie, sono sistemi incontrollabili. E infatti interrogando i giovani su come mai accettano lavori precari, di pochi mesi, ti rispondono: “perché altrimenti cosa faccio?”. Ecco questa è l’acquisita impossibilità di reagire perché non c’è una volontà contro cui muoversi. E questi sono gli effetti dell’essere entrati nell’età della tecnica, che è l’età della razionalità strumentale, raggiungere il massimo risultato con il minimo impiego di mezzi.

Lei scrive: «sono crollate le pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte “discreta”, “singolare”, “privata”, “intima” dalla sua esposizione e pubblicizzazione». Oggi in fenomeni come i reality ma non solo – penso anche ad esempio a molte forme di autorappresentazione come alcuni tipi di video su youtube o a quella sorta di diario post-moderno che sono alcuni blog di giovanissimi – il senso del pudore sembra spostarsi di volta in volta un po’ più in là. È caduto un altro muro o si tratta di un altro fenomeno ancora?

Oggi si è sviluppata una sorta di modalità televisiva dove sostanzialmente si “insegnano” i sentimenti. Si insegna come si ama, come si odia, come si reagisce. Si parla a volte di pensiero unico, ecco qui si costruisce una sorta di sentimento unico, un’omologazione dei sentimenti attraverso cui ciascuno espone pubblicamente tutta la sua intimità. E questa dimensione, che a mio parere è spudoratezza, viene scambiata per sincerità, quindi come una virtù. Ma non è virtuoso privarsi della propria interiorità, della propria intimità. È semplicemente spudorato perché il pudore è per lo meno la tutela di ciò che è propriamente mio, di ciò che è intimo, di ciò che è interiore e una volta che la mia interiorità è sotto gli occhi di tutti, io sono come tutti.

Oggi che la piazza è fuori moda, la scuola è in crisi, molte delle reti sociali di un tempo sembrano aver perso di significato, che tipo di spazio è quello dei social network? Che ruolo ha? È un ammortizzatore o un moltiplicatore di quella che lei ha definito una solitudine di massa?

La comunicazione per via informatica è radicalmente differente dalla comunicazione vis a vis. In fondo tutte le cose che non abbiamo il coraggio di dire in faccia le scriviamo tramite messaggini telefonici. È una forma di mancanza di coraggio, una comunicazione coperta, secretata, dove quello che dico lo posso negare e in ogni caso posso configurarmi come altro rispetto a quello che sono. È un gioco falsificante.

Il suo giudizio sulla scuola non è tenero. A suo avviso la scuola è un luogo dove non si sanno riconoscere i talenti e la soggettività, che non è in grado di contribuire alla costruzione di identità. Sembra quasi di leggere don Milani. Non è cambiato niente da allora?

No. La situazione è molto peggiorata semmai. Nel senso che oggi la scuola, quando riesce, al massimo istruisce ma non educa. Perché l’educazione passa attraverso il coinvolgimento emotivo. Penso che tutti noi abbiamo studiato e ci siamo applicati nelle materie di cui i professori ci affascinavano, mentre abbiamo trascurato quelle di cui i professori ci erano antipatici perché dominati, come accade nell’adolescenza, dalla dimensione emotiva piuttosto che da quella intellettuale. Si tenga conto poi che in generale l’educazione passa per via erotica e cioè attraverso il coinvolgimento delle emozioni e dei sentimenti, attraverso la fascinazione. Io non ho difficoltà ad utilizzare anche la parola plagio: si impara per imitazione, per fascinazione. Ora, siccome molti insegnanti non sono per niente affascinanti, vengono selezionati sulla base delle loro competenze culturali e a prescindere dalle loro capacità di comunicazione e di fascinazione ed ecco che la scuola diventa un luogo deputato al massimo all’istruzione ma non certo all’educazione e tanto meno all’educazione ai sentimenti. Il fenomeno del bullismo, ad esempio, è il sintomo di contesti in cui ormai si è capaci solo di gesti, come risposta ad un impulso. Ma ad un livello superiore all’impulso dovrebbe esserci l’emozione e i ragazzi neanche quella provano perché per provare emozione devono – come dicono – calarsi l’ecstasi. Ma neanche l’emozione basta, bisognerebbe avere i sentimenti. E dove si imparano i sentimenti, che sono la forma più evoluta del sentire? Si imparano attraverso la letteratura che ci dà il paradigma del dolore, della noia, della gioia, dell’amore, della passione, della tragedia, dello spleen. Ecco se tutte queste cose non accadono, allora il sentimento resta atrofico e l’emozione resta stentata. Interrogati sul proprio disagio emotivo i ragazzi non sanno cosa rispondere perché non hanno neanche i nomi per nominare i luoghi della loro mente. E questo è un bel disastro.

Alcuni ricorderanno una sua intervista televisiva di qualche tempo fa durante la quale si confrontava con Fabri Fibra. Ne uscì un incontro piuttosto interessante, nel quale alla fine sembravate paradossalmente essere d’accordo su tutto. Un personaggio che, a detta di molti, interpreta molto bene il nostro tempo come Roberto Saviano ha detto di Fabri Fibra che è avanti di vent’anni rispetto alla letteratura. Fra vent’anni forse leggeremo le rime di Fibra come i versi di Ungaretti? E cosa ci sapranno dire sul nostro tempo e sui giovani di oggi?

Non so se fra vent’anni leggeremo Fabri Fibra ma c’era un punto molto iportante che mi pare Fibra avesse sottolineato e sul quale eravamo completamente d’accordo: è necessario cominciare a vedere i mali dei giovani non solo come disastri ma come rimedio ad angosce ben più profonde. Se uno si ubriaca o si droga è perché non vuole essere in un mondo che neppure lo convoca, neppure lo chiama per nome, che lo vede come un problema invece che come una risorsa. Ecco credo che si debba leggere il male dei giovani non come il male ma come il rimedio a un male peggiore.