L’uomo primitivo era governato dai propri istinti più dei suoi moderni discendenti “razionali”, che hanno imparato a “controllarsi”, piuttosto che ad esprimere. Nel corso di questo processo di civilizzazione abbiamo progressivamente scisso la nostra coscienza dagli strati profondi della psiche umana e infine anche dalla base somatica del fenomeno psichico. L’uomo contemporaneo, a causa di mancanza d’introspezione, è sovente ignaro che, pur con tutta la sua razionalità ed efficienza, è in balìa di “forze non controllabili”. Dei e demoni tengono molti individui in uno stato d’agitazione semplicemente attraverso vaghe apprensioni, o tramite un ingente fardello di nevrosi e di disturbi somatici.
La letteratura recente postula che un’inibizione più o meno forzata e costante del naturale comportamento biopsicomotorio del corpo si traduce in una cronica e sterile microattivazione del sistema nervoso vegetativo, psico-neuro-endocrino ed immunologico. Quest’attivazione produrrebbe le manifestazioni squisitamente cliniche di tale processo: gli attacchi di panico, i disturbi da somatizzazione gastro-intestinale, sessuale o pseudo-neurologica (si pensi ai vari tipi di cefalea), le sindromi algiche e l’ipocondria, per citare la nosografia di maggiore incidenza.
Giova ricordare in quest’ambito, anche se a margine ai fini del presente discorso, la concezione junghiana sul ruolo vitale della funzione compensatrice dei sogni e della loro elaborazione nell’alleviare la strutturazione di tali disturbi.
Analizzeremo ora come esempio la fenomenologia clinica della sindrome da attacchi di panico. Questo disturbo (l’etimologia della parola appare un epifenomeno del modo in cui la regione psichica e archetipica di Pan è arrivata fino a noi dall’antica Grecia) dura generalmente solo alcuni minuti, ma causa una considerevole angoscia. Il coinvolgimento del corpo si manifesta con prepotenti sintomi organici come soffocamento, vertigini, sudorazione profusa, tremore e tachicardia cui si accompagnano spesso una sensazione di morte imminente od il timore di impazzire. Sebbene l’evidenza a favore di fattori neurofisiologici nella genesi di questo corteo sintomatologico sia ineludibile, tali osservazioni sono più persuasive nella spiegazione della patogenesi piuttosto che dell’eziologia del disturbo. Nessun dato neurobiologico è in grado di farci comprendere cosa scateni l’inizio di un attacco di panico, così come di altri disturbi psicosomatici.
Diverse evidenze suggeriscono invece che fattori psicologici possono essere rilevanti. Vari studi hanno dimostrato una maggiore incidenza in questi pazienti di eventi esistenziali stressanti, ed in particolare la perdita di persone significative nei mesi che precedono il disagio. Tutto questo suggerisce che l’eziologia riguardi il significato inconscio e simbolico degli eventi, nella misura in cui ciascuno lo elabora in maniera diversa, o non lo elabora per niente. La paura ha un oggetto, l’angoscia panica n’è priva, o meglio, il vissuto relativo è rimosso: non c’è insight. C’è un consenso quasi unanime nell’attribuire all’alessitimia, concetto centrale della psicosomatica contemporanea, parte della genesi dei processi di somatizzazione. Si tratta dell’incapacità di riconoscere e identificare i propri stati affettivi e le proprie emozioni, della difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguerli dalle sensazioni corporee che si accompagnano all’attivazione emotiva e della difficoltà nel descrivere agli altri tali stati d’animo.
James Hillman postulava che alla base di processi analoghi vi sia il tradizionale approccio occidentale alla paura, ai vissuti che causano sofferenza, considerati non come un qualcosa da accettare, con cui prendere contatto, ma un problema morale da superare ad ogni costo, anche quello della rimozione e della repressione inconsapevole.
Cambiamo punto di vista ed apparentemente cambiamo argomento. Fino a qualche tempo fa lo sfoggio di tatuaggi su braccia, spalle e gambe era considerata la sfida dell’individuo contro le regole convenzionali delle società, un segno di distinzione, in alcuni casi di capacità creativa. Diffusa, inoltre, era la pratica del tatuaggio nel mondo penitenziario che sanciva l’appartenenza a gruppi e/o sottogruppi, esattamente come avviene nelle tribù primitive e quelle più “moderne”. Ad alcune persone tali tendenze inducono sensazioni sgradevoli, eppure tali fenomeni sono divenuti sempre più diffusi, fino ad interessare una certa fascia della società. Tutte le mode passano o si evolvono. Al tatuaggio si sono aggiunte altre forme di “body art”, sicuramente più spettacolari, e per certi versi anche potenzialmente dannose per la salute. Si fa riferimento al piercing, con perforazione di narici, ombelichi, lingua od altre parti del corpo.
A riguardo, ricordo le parole di una cliente ventiquattrenne: -è bello, mi piace. Inutile dire che lo ho fatto per sentirmi integrata, per essere alla moda, per sfidare il dolore…il piercing è una forma di arte che collega il corpo allo spirito. E’ l’anima che colpisce la propria carne per farla più sua, per sentirsi di più un “tutt’uno”-.
Procedendo in un ipotetico continuum nell’analisi di questo fenomeno, ho immaginato che un successivo gradino fosse individuabile nell’arte estrema contemporanea. A partire dagli anni Settanta le arti cosiddette “canoniche” subiscono un definitivo cambio di rotta approdando ad una privilegiata, inquietante terra di conquista: il corpo. Il lavoro di Ron Athey rileva l’estremizzazione del dolore fisico come manifestazione privilegiata del disagio esistenziale. Le scioccanti “esperienze” di Franko B, artista-performer italobritannico, conducono il discorso della sfida al dolore alle estreme conseguenze. Nelle sue opere arriva a farsi tramortire e torturare, da un lato mimando le limitazioni che il corpo naturalmente manifesta in alcune situazioni e dall’altro mantenendo un controllo assoluto sulla propria fisicità durante tali rituali. Questa forma d’arte ha una valenza peculiare: nasconde, al di là delle dichiarate valenze di critica di parte dell’istituzione sociale, una inversione dei processi di somatizzazione attraverso la produzione attiva d’immagini “estreme”. Franko B ha dichiarato in una intervista di “non aver più paura di mostrare le proprie vergogne”, ovvero di non aver timore nell’esprimere verbalmente ed attraverso immagini d’arte il proprio stato affettivo, ideico ed emotivo, per quanto eccessivo possa risultare al fruitore.
A questo punto riassumo la nota tesi di Hillman espressa nel suo “Il mito dell’analisi”: gli Dei rimossi (non più esperiti, le cui istanze vitali non sono più riconosciute, verbalizzate ed, entro certi limiti, agite) ritornano come nucleo archetipico di complessi sintomatici. Alcuni esempi sono quelli di Dioniso e l’isteria, della relazione tra Crono-Saturno con gli aspetti paranoici della depressione e di Ermes-Mercurio con quello che chiamiamo comportamento schizoide. Si tratta di esplorare la psicopatologia in termini di psicologia archetipica.
Veniamo dunque a Pan. Il mito greco lo pose come dio della natura, dalle molteplici sfaccettature, dimorante in Arcadia, le “oscure caverne” dove lo si poteva incontrare, una località tanto fisica che psichica. Il suo habitat erano grotte, fonti, boschi e luoghi selvaggi (l’inconscio). A ben vedere esso sussume sia l’angoscia panica che si impadronisce del corpo (dall’alessitimia alla genesi del sintomo ad un polo) che gli aspetti erotici connessi alla sua natura satiresca, caprina, fallica e demonica (autoassertività, capacità di contatto ed elaborazione delle proprie emozioni, vissuti, istinti e pulsioni, simbolizzazione consapevole della sofferenza, produzione laconicamente esplicativa delle proprie immagini interiori).
Mi sembra suggestivo osservare ora da una prospettiva olistica le nuove manifestazioni del duplice, antitetico ruolo di Pan nel determinismo di vari aspetti della psiche individuale e collettiva dell’uomo moderno ed ipotizzare il suo potenziale disvelarsi per ciascuno di noi in un punto sito nel percorso che va da un polo all’altro dell’enantiodromia descritta (dalla sofferenza alessitimica all’espressione “spudorata” del dolore del body art performer).
Forse nel passaggio al contatto, alla progressiva capacità di dare forma e parola ai propri vissuti, di esprimere ed agire il bisogno di ascolto della voce del corpo e delle emozioni si concretizza il ruolo spirituale che noi scegliamo per Pan o che Pan sceglie per noi. E durante un percorso analitico il ruolo del terapeuta che incontra una persona con disturbi somatici diviene anche quello di mediare la riscoperta del livello di percezione e di esperienza delle immagini a cui la sua storia ha tentato di impedire l’accesso. In tal modo probabilmente incontreremo il dio che “rende pazzi”, consentendogli di “farci guarire”.
Dr. Massimo Lanzaro
Per ulteriori approfondimenti:
C.G. Jung. L’uomo e i suoi simboli. Tea, 2002.
James Hillman. Saggio su Pan. Adelphi, 2001.
Savoca G. Arte estrema. Castelvecchi,1999.
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Come sempre, se avete delle domande, il dottor Massimo Lanzaro sarà disponibile nel fornirvi ogni chiarimento. Serena notte a Tutti. Gabriele
dr. lazzaro buongiorno.
grazie per le chiare e circostanziate spiegazioni che ci dona. per me che amo la materia, anzi e’ una vera passione questp genere di letture e conversazioni, leggere i suoi post e’ molto interessante.
un caro saluto….
…mi scusi…per errore ho sbagliato a scrivere il suo nome!!!
serena giornata, caro prof.!!
Anche a te, carrissima 🙂
Caro dottor Lanzaro,
leggendo l’elenco dei sintomi non ho potuto fare altro che confermare: ce l’ho… non più… ce l’ho… ce l’ho… non più… non più… ce l’ho…
Ma ho sognato di andare a trovare in ospedale mia madre (deceduta da poco), e di averle chiesto perchè compare nei sogni dei nipoti e non è ancora venuta a visitare i miei…
Non ho visto mia madre davanti a me, ma ho sentito un forte calore per tutta la schiena e una mano che da dietro mi accarezzava il volto… La sua voce alle mie spalle: – ora mi senti? – Soffro di dolori alla schiena… Ogni tanto si spostano… Per Giano!
Cordialmente.
Grazie di cuore Beatrice per i suoi gentili commenti. Ricambio i saluti e le auguro una serena giornata.
Massimo Lanzaro
Cara Valeria, accade di frequente di fare quel genere di sogni. Come ho riportato vari studi hanno dimostrato una maggiore incidenza di sintomi di ansia parossistica e somatizzazione in particolare dopo la perdita di persone significative. I meccanismi psicologici e neuropatologici del perchè questo accada, almeno nella letteratura “ufficiale”, sono tuttavia ancora poco chiari.
Non c’è differenza di sintomi riferiti a seguito di perdita di persone significative per morte violenta, per malattia o per allontanamento volontario? Grazie.
Buon Giorno dottor Lanzaro,
mi scusi se sono provocatorie, ma sono solo due domande che penso non avranno risposte…..:
1- cosa si intende per primitivi, quando in effetti la storia ci sta effettivamente riesumando civiltà assai antiche (risalenti a 20.000, 300.000, 700.000, 1.000.000 anni fa) che di sicuro avevano raggiunto una veggenza, un grado evolutivo, sia morale che tecnologico assai maggiore di quello raggiunto oggi?
2- perché i meccanismi psicologici e neuropatologici del perchè questo accada, almeno nella letteratura “ufficiale”, sono tuttavia ancora poco chiari quando esiste una millenaria orientale tradizione che parla proprio di queste cose?
Cara Valeria,
Esatto: per quanto ne sappiamo, se si inserisce un trauma nel percorso evolutivo dell’individuo, in mancanza di un’elaborazione adeguata (con l’aiuto di un professionista), gli esiti psicologici sono quasi imprevedibili. Le osservazioni cliniche hanno mostrato che esistono delle persone che presentano chiaramente sintomatologie post-traumatiche pur non essendo stati esposti ad eventi oggettivamente estremi. Ciò ha generato la caduta dell’assunto secondo il quale “è una situazione grave che produce una reazione estrema”, anche grazie all’osservazione di opposti casi di individui esposti a stress apicali senza la manifestazione di segni di trauma psichico.
In tal modo, il criterio principale che permette di circoscrivere le condizioni in grado di generare traumi psicologici è stato rivisitato e collegato a fattori soggettivi, piuttosto che alle caratteristiche oggettive degli eventi affrontati.
E’ vero Raffaele, grazie per le sue osservazioni. L’appellativo di “primitivo” è antropologicamente relativo.
Invece la millenaria orientale tradizione di cui lei parla non fa purtroppo riferimenti (che io sappia, altrimenti, la prego, ci illumini) a neurotrasmettitori, neuropeptidi, neuromodulatori etc., che è il genere di cose, per intenderci, che oggi si tende a definire “neuroscienze”. E che si reputa sia la base organica o almeno una concausa importante per comprendere vari tipi di sofferenza psicologica. Orbene la modalità tipica con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile non è ancora stata in grado di chiarire appieno i suddetti meccanismi. In campo evidence-based c’è ancora molto lavoro da fare a quanto pare.
Il pensiero va a chi è nato ed ha vissuto in contesti di perenne conflitto e disagio: in ambito familiare, sociale e nazionale, le macerie che la pace rimuove e colloca all’ombra della memoria, sono invece il paesaggio a cui la guerra abitua, giorno dopo giorno, come ad un “riflesso condizionato”, come all’aria nei polmoni.
Immagino, inoltre, che un certo carattere congiunto all’addestramento a certi dolori e valori faccia la differenza nel caso si perda un compagno di viaggio: la reciproca assistenza e lo scambio di umori e di ossa… ha un certo peso rispetto all’affetto per un parente lontano. Grazie ancora, dottor Lanzaro.