splendido….

Sono convinto che anche nell’ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.
 
Giacomo Leopardi

mai perdere tempo…

Nasciamo una sola volta, due non è concesso; tu, che non sei padrone del tuo domani, rinvii l’occasione di oggi; così la vita se ne va nell’attesa, e ciascuno di noi giunge alla morte senza pace.

Epicuro

…la bellezza della vita

Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti o che non hanno mai inciampato. A loro non si è svelata la bellezza della vita.
Boris Pasternak

Ognuno di noi, convive con i propri “fantasmi”

Quando sono sopraffatto dalle preoccupazioni, ripenso a un uomo che, sul suo letto di morte, disse che tutta la sua vita era stata piena di preoccupazioni, la maggior parte delle quali per cose che mai accaddero.

Winston Churchill

Insostenibile leggerezza dell’apparire

Nel mondo d’oggi siamo tutti condannati a indossare una maschera:
un saggio sui mutamenti del prestigio sociale

di MASSIMILIANO PANARARI
 
Viviamo nella società dello spettacolo, dove l’abito fa decisamente (insieme con vari altri accessori) il monaco. Ce lo ha detto Guy Debord, ma ancor prima è stato, secondo un interessante libro che esce oggi, il filosofo (e vescovo) irlandese George Berkeley, al quale dobbiamo la celebre massima est percipi («essere è venire percepiti»). Nel suo Le apparenze Una filosofia del prestigio (il Mulino, pp. 222, € 20), la storica della filosofia Barbara Carnevali (ricercatrice invitata al parigino Institut d’Études Avancées) prende le mosse proprio dall’immaterialismo berkeleyano, riformulandolo ad hoc per analizzare il peso delle apparenze e dello nelle società occidentali. Ed ecco che il motto del teologo empirista che, appositamente parafrasato «in chiave mondana» diviene in societate esse est percipi aut percipere («in società esistere è essere percepiti o percepiti»), fornisce una chiave interpretativa originale per spiegare le aspirazioni e i bisogni di rappresentazione dell’aristocrazia e della borghesia europea, arrivando sino all’incontenibile e generalizzata smania postmoderna che ci vorrebbe far essere «tutti divi».

«La vanità è alla base di tutto», scriveva Gustave Flaubert, uno che se ne intendeva al punto da avere creato il personaggio di Madame Bovary e diagnosticato il fenomeno del bovarismo, manifestazione patologica del «manierismo snobistico» e perfetta raffigurazione della farsa di una piccola borghesia che si mostra (e vive) al di sopra delle proprie possibilità nel disperato (e sventurato) tentativo di scimmiottare la classe sociale superiore, non avendone, però, i mezzi e le dotazioni materiali. A identificare chiaramente – e severamente – per primo il ruolo della vanity nelle umane esistenze è però, come ci racconta il volume, il sommo Thomas Hobbes, il quale designava con questa parola una malriposta sensazione di superiorità che si dedicava quasi esclusivamente a «bagatelle» e «scemenze», ma possedeva un impatto devastante sul consesso sociale; e ne era a tal punto preoccupato da considerarla tra le cause principali della famigerata «guerra di tutti contro tutti».

La società occidentale prende così a ruotare sempre più vorticosamente intorno alla «fiera delle vanità» (centrifuga irresistibile di prestigio, successo, pettegolezzi, fama, mode, e chi più ne ha più ne metta, a partire dalle invidie) e all’apparire sociale; un combinato disposto che trova una serie di formidabili cronachisti in alcuni, più o meno grandi, letterati, da William M. Thackeray (autore, nel 1848, giustappunto del romanzo Vanity Fair ) a Marcel Proust. La letteratura europea si popola quindi di rampanti e arrivisti, tutti in cerca del loro quarto d’ora di notorietà ante litteram , ma nessuno, più dell’autore della torrenziale Recherche , sublime narratore della «chiccosa» Café Society, saprà tradurre in scrittura il senso e il côté mondano del motto di Berkeley mediante le vicende che fanno perno sull’aristocratica famiglia Guermantes.

E se Proust, ossessionato dalla memoria, cerca di configurare l’identità dei suoi personaggi sullo sfondo della trama dei loro «giochi di società», c’è chi invece, come Luigi Pirandello, alimenta la dissoluzione dell’io e proclama, malinconicamente e angosciosamente, ma senza negarsi qualche punta di umorismo, l’inaggirabilità della dimensione dell’apparenza. I suoi individui, d’altronde, sono pensati per il teatro, medium di rappresentazione per eccellenza, e il Novecento in cui lo scrittore siciliano giganteggia è secolo mediale per antonomasia, così come mediale si rivela il ruolo delle apparenze, mezzi di comunicazione e di definizione delle relazioni tra le persone, che, per loro tramite, indossano, per la maggior parte del tempo, delle maschere (come insegnano la psicanalisi e lo stesso Pirandello).

Non c’è da stupirsi, allora, se il prestigio nel XX secolo (e all’inizio del XXI) passa in primis attraverso i mass media, e quella loro peculiare (e spesso discutibile) filiazione che è l’industria del gossip – regno e pollaio della discussione collettiva intorno alla reputazione dei cosiddetti vip – che ha visto kingmaker e vittime illustri, da Andy Warhol a Marilyn Monroe.

E qui il cerchio parrebbe (quasi) chiudersi. Le apparenze sembrerebbero infatti dettare incontestabilmente legge e mettere la parola fine alla storia della separazione tra l’ Homo oeconomicus e l’uomo estetico che aveva segnato tanto fortemente la cultura occidentale. Perché la società dello spettacolo, dolorosamente intuita e stigmatizzata dal neo-russoviano e neoromantico Debord, col suo feticismo della merce e l’idolatria del valore simbolico dei beni, getta le premesse per l’affermazione di un capitalismo simbolico che tutto tiene e tutto vince. E, così, all’aristocrazia e all’alta borghesia subentra la «nuova nobiltà» dello star system che rovescia le «strategie di distinzione« di cui parlava Pierre Bourdieu, e vede i «divi» imbevuti della stessa cultura pop e di massa da cui le élite del passato erano impegnate a differenziarsi proprio mediante i gusti estetici.

A questo punto, per la gioia degli apocalittici, dovremmo assistere, ahinoi, al trionfo assoluto dell’alienazione. E rimarrebbero solo gli status symbol, come la limousine superaccessoriata su cui viaggia il protagonista di Cosmopolis di Don De Lillo, intento a contemplare la fine de facto della civiltà capitalistica e, in buona sostanza, dell’Occidente per come lo abbiamo conosciuto.

Ma speriamo che si tratti, per l’appunto, di una mera apparenza…

Pubblicità

L’infelicità al tempo dello spread. Interessante riflessione dell’amico Raffaele La Capria

Bolli, multe, conguagli: il vocabolario molesto della crisi

Si parla di ricchezza e felicità e ci si domanda se la ricchezza rende felici. Felicità è un parola troppo grande, comprende troppe cose, e certamente è incommensurabile con la ricchezza. Tuttavia, anche a rischio di apparire banale, penso che a me basterebbe poco per essere più spensierato. E chi è spensierato è probabile che afferri, se gli si presenta, quel tanto di felicità che la vita può concedere. Ho detto che a me basterebbe poco. Quanto? Beh il quanto è soggettivo, dipende dalla situazione, dalle circostanze. Se uno ha una grave malattia da curare, se uno ha più persone a carico, e così via, tutto questo va messo in conto per stabilire quanto. Ma c’è anche un dato oggettivo, per esempio l’appartenenza a una certa classe sociale, mettiamo il ceto medio, pesantemente tassato in quanto tale, con tutti gli obblighi che impone, obblighi che se non li osservi ti complicano la vita con conseguenze talvolta disastrose. La pensione che ricevi crea anch’essa differenze e spesso delle vere e proprie ingiustizie che ti mettono in uno stato di aperta ribellione contro il sistema che le ha determinate. Quando ho letto il libro La Casta di Stella e Rizzo, mi si sono rizzati i capelli in testa. Se a tutti gli italiani quel libro ha fatto l’effetto che ha fatto a me, direi che saremmo pronti a una rivoluzione simile a quella francese contro la Versailles dei privilegiati che prendono pensioni dieci e venti volte superiori alla mia. Sono sicuro che nessuno di questi privilegiati sia felice in proporzione all’entità della sua pensione, probabilmente sono più felice io, ma certo da un punto di vista pratico, il privilegiato sta meglio di me.

Mai come oggi in tempo di crisi si parla tanto di soldi. Si dice che parlare di soldi sia volgare: ebbene, oggi viviamo nell’era della volgarità. Non si parla d’altro che di soldi, di spread, di debito pubblico, di finanza e finanziamenti, di default, che poi sarebbe il fallimento, (ma dire default forse attenua l’impatto con la parola), e insomma di farcela o non farcela ad arrivare alla fine del mese. Si parla di tutto questo, ma non si sa bene di che si parla quando se ne parla, resta solo il disagio. Il disagio non è solo quello della nazione ma anche quello del singolo che non sa più a che santo votarsi, non sa quali sono le forze che lo dirigono e che lo portano verso quell’abisso che viene puntualmente evocato come uno spauracchio. Mai come oggi il cittadino comune viene sballottato di qua e di là, mai come oggi il cittadino di classe medio borghese, in cui m’identifico, quello per intenderci che paga le tasse, è stato più indifeso e in balia delle altrui pretese. E non parlo soltanto dell’affitto troppo alto, della luce, del gas, del telefono, della benzina troppo cari (come fai a dire è troppo caro, pagare non posso?), parlo anche del suo essere indifeso di fronte a tutti coloro che fanno parte di una corporazione, che oggi sono potenti come nell’antichità lo erano i sacerdoti o i militari. Parlo dei notai, degli avvocati, dei medici, dei dentisti, dei commercialisti et similia. Di costoro il cittadino medio borghese indifeso ha bisogno, ma anche a loro come può dire: la tua tariffa è troppo alta, non ce la faccio a pagarla? Come fa il cittadino indifeso a controllare se è giusto quel che loro mettono nel conto? Chi può discutere la parcella di un avvocato, la notula di un notaio, la distinta spese di un commercialista? Non puoi, sei nelle loro mani, sei tu che li hai scelti, il mercato è il mercato e li fa lui i prezzi, e così via. Ecco sono queste le forze che sballottano il povero cittadino comune, soprattutto oggi che c’è disperazione economica e mancanza di moneta corrente.

 Si dirà che sto scoprendo l’acqua calda. Lo so, lo so, dico cose ovvie, ma io voglio solo far notare che chissà dove, chissà come, chissà perché, c’è sempre qualcosa di burocratico tra te e i pochi soldi che hai in tasca, sia esso il bollo, la bolletta, la percentuale, l’assicurazione, l’ingiunzione, la multa, il conguaglio, c’è sempre qualcosa che si intromette e cerca di portarteli via fino all’ultimo, e rende per te difficile non dico la felicità, che è chieder troppo, ma quello stato di serenità necessario a ogni uomo per dare il meglio di sé, e soprattutto a un artista o a uno scrittore consente di lavorare senza troppe di queste zanzare che continuamente lo punzecchiano.

L’indifeso cittadino comune, chi lo difenderà da tutte le forze burocratiche o corporative cui accennavo, e persino dallo Stato stesso quando impone tasse o tariffe demenziali? Sua difesa dovrebbe essere una democrazia funzionante che a tutti dovrebbe garantire pari diritti e pari opportunità in cambio di pari doveri. È lui, il cittadino indifeso, che elegge i suoi difensori votando per questo o quel partito, per questo o quel politico da cui si sente rappresentato. La sua vera difesa dovrebbe essere lo Stato di diritto, e dovrebbe essere lo Stato di diritto a garantirgli la possibilità, qualora si presentasse, di essere felice. Dovrebbe. Ma lui non appartiene a nessuna lobby e dunque per lui la cosa è più complicata. Eppure il diritto a perseguire la felicità è essenziale, è uno dei primi articoli della Costituzione americana, dopo il diritto alla vita e quello alla libertà.

Raffaele La Capria

Buona domenica a tutti, amici miei

A quanto possiamo discernere, l’unico scopo dell’esistenza umana è di accendere una luce nell’oscurità del mero essere.
C. GUSTAV JUNG