Sopra: Hieronymus Bosch, “Il Giardino delle delizie”, 1480-1490 circa (part.)
Cari amici,
pubblico un commento/dono di Anna Ferrara, che ringrazio sentitamente, contenente uno scritto dell’immenso Hermann Hesse:
Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l’albero con riverenza e chiese: “Sei tu l’albero della vita?”. Ma quando, invece dell’albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era tutt’occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita.
E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor chiese: “Sei tu l’albero della vita?”.
Il sole annuì e sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e non sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore cantò la profonda ninna nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del giardino dell’infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e selvaggio, come di resina e di miele, ma anche come di un bacio di donna.
Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l’ignoto, verso il magicamente prefigurato.
Pictor scorse un uccello sull’erba posato e di luminosi colori ammantato, di tutti i colori il bell’uccello sembrava dotato. Al bell’uccello variopinto egli chiese: “Uccello, dove è dunque la felicità?”.
“La felicità?” disse il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, “la felicità, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e nei cristalli”.
Con queste parole l’uccello spensierato scosse le sue piume, allungò il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un’ultima volta e poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si erano trasformate in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l’uccello si era fatta pianta. Pictor vide questo con meraviglia.
E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più radici, scuotendosi un po’ si innalzò lentamente e fu una splendida farfalla, che si cullò nell’aria, senza peso, tutta di luce soffusa, splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.
Ma la nuova farfalla, l’allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erbe e piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che stava svanendo a la tirò a sè. Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento di una piena beatitudine.
All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il serpente gli sibilò nell’orecchio:” La pietra ti trasforma in quello che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!”.
Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacchè più di una volta aveva desiderato essere albero, perché gli alberi gli apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.
Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò verso l’alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della terra e con le sue foglie sventolò alto nell’azzurro. Insetti abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.
L’albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d’albero. Finalmente potè vedere, e divenne triste.
Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sè più d’un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori.
Lui invece, l’albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalla veste azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una scimmia sapiente sorrise al suo passaggio, più di un cespuglio l’accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece cadere al suo passaggio un fiore, unanoce, una mela, senza che lei vi badasse.
Quando l’albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda meditazione, perché era come se il suo stesso sangue gli gridasse :” Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità”. Ed egli ubbidì.
Rammemorò la sua origine, i suoi anni di uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo particolare quell’istante prima che si facesse albero, quell’istante meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si ricordò dell’uccello che allora aveva riso e dell’albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei. Attratta dalla forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l’albero rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario? L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sè ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione. Ohimè, perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in un albero! Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco, davvero allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito, ohimè! E con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna!
Venne volando un uccello, rosso e verde era l’uccello, ardito e bello , mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come sangue, rosso come brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria. Era trasformato. E poichè questa volta aveva raggiunto la vera, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato un tutto, da quell’istante potè continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.
Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e uccello. In ogni forma però era intero, era un “coppia”, aveva in sè luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre, stava come stella doppia in cielo.
Sopra: Hieronymus Bosch, “Uomo-Albero”, 1475 circa
Filed under: Amore, Anima ed eredità psichica, Psiche, Sophia, Umanesimo | Tagged: Albero, Bosch, Hermann Hesse, Hesse, Hieronymus Bosch, natura, Pictor, Rebis |
Ti abbraccio forte, Gabriele caro!
Caro Luigi, un abbraccio forte anche a te!
grazie Anna , è una delle cose più belle e straordinarie che mai abbia letto.Ed arriva anche, per me, in uno dei momenti più giusti. Bellissimo e vero, oltre ogni dire e ogni parola. Una gemma di rubino, che ci trasforma anche noi, lettori di Hesse, in ciò che vogliamo, e forse il paradiso è qua, a portata di mano, nel nostro cuore.Com’è strano che una serie di lettere singole, di virgole e di punti, facciano sentire tutto insieme la virtù dell’insieme rispetto alla singolarità di una lettera.Non c’è vita senza questo continuo dialogo di elementi, che appaiono e scompaiono, non c’è letteratura senza lettere ma una sola lettera non può trasformarsi in un racconto se non vuole, e un lettore che legga non legge veramente se non si trasforma nel racconto.
I ringraziamenti vanno tutti ad Anna, cara Map/trasmutata! Buona giornata e un abbraccio di rubino
Caro Prof. e cara Map sono commossa della vostra gratitudine, il grande merito è di H. Hesse che ha saputo con questa bellissima favola d’amore far giungere un importantissimo messaggio ai nostri cuori, alle nostre anime.
Un abbraccio affettuoso,
Anna
Brano tratto da Marcello Veneziani
“Vivere non basta. Lettera a Seneca sulla felicità”,
che ho voluto liberamente intitolare “L’impronta della felicità”:
“Caro Seneca, perchè chi parla di felicità ha gli occhi tristi? (…) Guardavo uno ad uno chi decantava la felicità e vi scorgevo un malcelato fondo di tristezza sotto la buccia dell’euforia. Chi più si riempiva la bocca di felicità e s’infervorava al suo nome tradiva con gli occhi, e talvolta col tono, vecchie cicatrici di malinconia, stagionate infelicità; si avvertiva in lui la mancanza di felicità o la sua lontananza. Forse perché chi parla di felicità non la vive dentro ma la invoca da fuori e di lei risale il ricordo perduto. Forse perché l’ha solo sfiorata…. Nominare la felicità diventa un rito di propiziazione.
Mi sono perciò convinto che è da infelici parlare di felicità. La felicità si vive, non si descrive, finchè si è dentro; se si vuole raccontarla si è già fuori. …
La felicità sparisce appena è desiderata, arriva inattesa, è ospite volatile e latitante. (…)
La tristezza nasce dalla perdita, la felicità invece sorge dal perdersi. La tristezza genera tesori quando diventa arte della sconfitta, e rielaborando la perdita raggiunge glorie radiose benché sofferte. (…) La tristezza promette vittorie postume mentre versa perdite presenti, acuite o risarcite dal ricordo del passato. La felicità, invece, è il trionfo di un’altra perdita in corso, la perdita di sé, l’unità dell’essere che si perde nella pienezza breve ma assoluta di vivere quel momento. La felicità è come un tuffarsi nelle acque estive del mare, un abbandonarsi ai suoi flutti, dove il corpo e la mente collimano nel piacere, e la libertà di essere, il piacere di vivere, l’euforia di vedere fanno tutt’uno con l’orizzonte dove il cielo e il mare si sfiorano mentre il sole trionfa sovrano ma senza bruciare. Là, in quel preciso istante, la libertà la vedi con gli occhi, la felicità la bevi con le mani, la leggerezza la tocchi col corpo. Ti perdi nel tutto spumeggiante. Quella felicità di perdersi durerà pochi istanti, poi ti resterà sul corpo e nella mente solo un velo di benessere. Quella è l’impronta che lascia la felicità. (…)
La felicità non è una condizione ma una carezza…si fa vedere solo un attimo, e non si lascia agguantare, semmai ti agguanta; ma appena sei cosciente, svanisce. Non è un programma di vita, ma un fuori programma. La felicità fiorisce selvatica nel giardino della dimenticanza.
Perciò penso, caro Seneca, che mente chi dice: “sono felice”. Perché la felicità è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Chi si dice felice in quel momento in cui lo dice, non lo è, sta solo ricordando o pregustando, o peggio sta solo recitando un ruolo, simula uno stato che ha conosciuto in passato o che aspetta in futuro, professa una speranza e mima la gioia per propiziarne l’avvento.
Quando sei cosciente [la felicità] non è presente, quando è presente non ne sei cosciente. (…)
Hai ragione tu, o Seneca, a dire che i giorni più felici della vita per primi fuggono ai miseri mortali. Perché la felicità è volatile e vola in fretta, l’umanità invece è terrestre e cammina piano.”
Grazie carissima Anna, per questo brano…
come Map anche a me ha dato una piccola quanto grande illuminazione!!!
Un abbraccioneee
Cara Anna,
grazie a te che l’hai raccolta… Un grande abbraccio
Caro Gabriele,
questa è una mia nuova canzone.
Spero possa piacerti e piacere anche agli amici del blog,
nicola
Caro Gabriele,
questa è una mia nuova canzone.
Spero possa piacerti e piacere anche agli amici del blog,
nicola
Caro Nicola,
le tue origini “antiche” s’esprimono in parole che anche se “pesanti” e “potenti” tendi a far diventare leggere e aggraziate. Solo le anime che anelano la luce come te, hanno questo dono. Grazie!
non leggo, da qualche giorno Valeria? solo un saluto… magari si starà gustando il mare
Bellissima risposta alla mia domanda. Siamo “quaggiù” per un errore, per aver voluto o amato troppo una parte sola perdendo la visione e la tensione dell’insieme. L’arte in un’opera arriva a dare alla massima felicità solo se mantiene intera la tensione creativa e mai si abbandona all’unilateralità del caso Se ti abbandoni ad altro che al Dio egli ti abbandona.
Questa volta lasciate che sia felice,
non è successo nulla a nessuno,
non sono da nessuna parte,
succede solo che sono felice
fino all’ultimo profondo angolino del cuore.
Camminando, dormendo o scrivendo,
che posso farci, sono felice.
Sono più sterminato dell’erba nelle praterie,
sento la pelle come un albero raggrinzito,
e l’acqua sotto, gli uccelli in cima,
il mare come un anello intorno alla mia vita,
fatta di pane e pietra la terra
l’aria canta come una chitarra.
Tu al mio fianco sulla sabbia, sei sabbia,
tu canti e sei canto.
Il mondo è oggi la mia anima
canto e sabbia, il mondo oggi è la tua bocca,
lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia
essere felice,
essere felice perché sì,
perché respiro e perché respiri,
essere felice perché tocco il tuo ginocchio
ed è come se toccassi la pelle azzurra del cielo
e la sua freschezza.
Oggi lasciate che sia felice, io e basta,
con o senza tutti, essere felice con l’erba
e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,
essere felice con te, con la tua bocca,
essere felice.
Pablo Neruda
Il giorno in cui fiorì il loto,
ahimè, la mia mente era persa
e io non me ne accorsi.
Il mio cestino rimase vuoto
e il fiore inosservato.
Ogni tanto però
una tristezza mi prendeva
mi svegliavo dal mio sogno
e sentivo nel vento del sud
la presenza dolce di una strana fragranza.
Quella vaga dolcezza
come desiderio tormentava il mio cuiore
sembrava l’alito ardente dell’estate
in cerca di soddisfazione.
Non sapevo allora
che era così vicina
che era già mia
che questa dolcezza perfetta
era fiorita
nel profondo del mio cuore.
Rabindranath Tagore
mi hanno inviato queste “parole” della Montalcini, le volevo condividere con il blog: “Ho perso un pò la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso e sento più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente e il mio cuore. (Rita Levi Montalcini)
abbracci matteo
Caro Gabriele,
mi ha sorpreso leggere nel tuo messaggio un cenno riguardo alle mie “origini antiche”.
Un cenno quasi sfuggito come se conoscessi effettivamente il “non detto” della mia biografia.
Quello che mi porta a scrivere canzoni è la potenza ispirativa del Gargano. Terra che trasforma gente semplice in cantori. E a me piace pensare che la parola “cantore” contenga nel suo etimo tanto di canto e tanto di preghiera. La felice e disperata condizione di chi attende di trasformare la parola in parola viva, in Verbo. Non è a questo che dovrebbe tendere la qualità del canto? La terra (dove anche la tua storia ha avuto origine) in cui la presenza dell’Arcangelo Michele è potente e misteriosa. Ed ancora una volta sono i più umili a farsi portatori di questa fede. I pastori che si tolgono il cappello davanti alle edicole votive e che si segnano il capo con le mani sporche di terra. Ho sempre invidiato quella fede umile che passa direttamente per il cuore senza compromessi.
Terra di Graal e di Templari che hanno lasciato un silenzio carico di significato.
Ti saluto adesso Gabriele.
E nel salutarti ti affido questa mia interpretazione (realizzata su un pianoforte verticale un pò scordato) dell’intermezzo di Brahms op 118 no 2.
Caro Matteo,
parole sante quelle che con-dividi. Le sento, andando avanti con gli anni, sempre più vicine. Il fatto è, caro Matteo, che non mi sento vecchio per niente. Non ci penso proprio
Cara Melusina,
ci delizi con Neruda e Tagore! Grazie, stupende!