La ghianda racchiude ogni cosa…
Una fiaba in dono (tratta da “Le fiabe per sviluppare l’autostima” di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra edito da Franco Angeli)
L’asino
Il mondo degli animali, si sa, con le sue multiformi e variegate moltitudini di creature, ha sempre ispirato il mondo degli umani i quali hanno attribuito, un po’ a torto un po’ a ragione le loro idiosincrasie, le loro caratteristiche più evidenti, le loro più marcate attitudini, il loro mondo onusto di significati e di significanti ai poveri animali per i quali l’unico significato della loro vita è sempre stato quello di condurre una vita più lunga possibile, in ragione delle infinite insidie, seguendo il corso naturale degli eventi preordinate per loro dall’Armonia dell’Artefice divino.
E così un individuo truffaldino ecco che diviene “furbo come una volpe”, una persona viscida e levantina è associata a un serpente, un uomo robusto è “forte come un toro”, un altro un po’ incosciente è “coraggioso come un leone”, una donna un po’ leggera è ” proprio una gattina”, una altra un po’ ingenua è “un’oca”, un bambino agile e veloce sembra proprio una gazzella, mentre un altro che a scuola fa fatica è “sicuramente un asino”.
L’antica scuola, poi, ha sempre applicato le orecchie d’asino a quei bambini che o perché un po’ tontolini, o perché il dialetto in casa loro era l’unica merce di scambio, non riuscivano a soddisfare il maestro che chiedeva di ripetere a memoria tutta, ma proprio tutta, “La cavallina storna”…che portava colui che non ritorna, così come non è mai ritornata l’autostima del povero malcapitato bambino additato a scuola per anni come l’asino.
Orbene, consapevoli di quanto le vessazioni umane sul mondo animale siano foriere di vessazioni anche sugli stessi umani, dobbiamo sapere che nel piccolo paese contadino di Terrabruciata la vita scorreva tra fatiche negli aridi campi che, avaramente, elargivano i loro frutti e fatiche casalinghe per tutte le incombenze che le folte nidiate di bambini imponevano, prima di divenire esse stesse, le nidiate, parte attiva in quelle fatiche che l’antica vita contadina portava con sé.
La vita e la morte, a Terrabruciata, avevano lo stesso significato : ineluttabile era la morte, ma ineluttabile era anche la vita, con i suoi carichi, le sue piccole e povere gioie, le sue semplici evidenze, le sue proverbiali angosce per un futuro senza speranza di cambiamento dalle miserrime incombenze, ove il freddo dell’inverno patito nei geloni delle dita e il caldo dell’estate subito nei campi riarsi scandivano con semplicità una vita pervasa da una grande religiosità che, tramite la fede, rendeva accettabile, semplicemente e amorevolmente, il decorso della storia individuale e collettiva.
A Terrabruciata le due grandi istituzioni che portavano speranza e alleviavano i pesi quotidiani erano la Chiesa e la Scuola, unici segni di un’organizzazione sociale che cercava di fornire strumenti diversi dal primitivo possesso dei fondamentali della vita.
E per la Scuola e la Chiesa, a Terrabruciata, vi erano grande deferenza e grande riverenza, un’accettazione incondizionata di ogni verbo rivelato dall’una o dall’altra, una genuflessione e uno “scappellamento” che non distinguevano abnegazione da protervia, così come non discernevano tra zelo e malvagità.
Nella Scuola di Terrabruciata insegnava da anni l’anziana maestra Conlabarba che in una cosiddetta “pluriclasse”, accorpava quaranta bambini di tutte le età, dai piccolini di sei anni appena sbocciati dalla porta della stalla ove dormivano al calduccio fino ai ripetenti di quattordici anni che duramente lavoravano nei campi il mattino sino alle otto, quando la campanella della scuola li richiamava ai loro altri doveri.
Conlabarba non era di Terrabruciata : lei arrivava tutte le mattine alle otto con la corriera dalla città e, appena scendeva dal predellino del mezzo, le sue mani subito scrollavano dalla giacca di tweed o dal cappotto grigio pesante l’aria fetida di pollame che stagnava, a suo dire, nella corriera, unico mezzo per i villici per andare in città dal medico, a pagare le tasse, a commerciare i loro semplici averi.
E poi, dopo questo rito inusuale, la liturgia di Conlabarba la faceva dirigersi impettita verso la scuola con il mento all’insù, gli ispidi capelli raccolti a crocchia che si elettrizzavano di recondite ire e i tacchi squadrati delle squadrate scarpe che squadristicamente risuonavano sul selciato come richiamo imperativo per i suoi alunni.
Tra essi ve n’era uno Armando, Armandino per tutti perché era gracile e malaticcio, etereo e femmineo, vulnerabile e assente, indifeso come uno scricciolo, tenero come un passerotto, sensibile come una procellaria, buono come un agnellino, orfano di padre come un vitellino.
Però Conlabarba non lo riteneva, non lo chiamava né scricciolo, né passerotto, né procellaria, né agnellino,né vitellino, ma molto , molto più prosaicamente asino.
Durante l’appello di ogni giorno, Armandino era chiamato asino già dall’inizio e la A di Armando era divenuta la a di asino.
La mamma di Armandino era una povera vedova da libro Cuore, che viveva di stenti, tisica e malferma, incapace di staccarsi dalla bottiglia che subito comprava non appena qualcuno le dava qualche quattrino.
Armandino accudiva come poteva la mamma, faceva qualche servizietto nelle case dei generosi, ma poveri contadini che gli fornivano di che mangiare per lui e per la madre, togliendo dal poco che avevano un pochino per lui.
I suoi logori vestitini erano gli stessi estate e inverno : per questo motivo Conlabarba, non appena lui le si avvicinava timidamente, ogni volta si turava il naso con le dita e, con voce nasale, imperativamente lo scacciava, stigmatizzandolo invariabilmente con l’epiteto di asino.
E così, tutti, a poco a poco, chiamarono sempre Armandino “asino” : dapprima gli sciocchi compagni di scuola, poi i ragazzi più grandi e infine gli adulti.
Sembrava quasi che il bambino, se chiamato per nome, fosse avulso e in un altro mondo, mentre se chiamato “asino” scattasse come un soldatino di stagno sull’attenti e pronto a essere vilipeso.
Conlabarba la liturgia la rispettava ogni giorno proprio tutta : l’appello con “asino”, l’interrogazione con “asino”, prima e dopo la richiesta di alimentare la stufa al1’ “asino”, il trasporto dei pesanti libri richiesto all’ “asino”, la pulizia dell’aula con scopa, paletta, secchiello e acqua gelata da effettuarsi da parte dell’ “asino”.
Alla fine persino sua madre lo chiamava asino, non appena Armandino “la faceva morire di crepacuore”, come affermava lei, magari perché i contadini in cambio dei suoi piccoli servigi gli davano tre uova anziché l’ambita bottiglia di vino.
Ormai Armandino aveva addosso l’appellativo di Asino e come tale veniva trattato : l’asino è un animale da soma e lui veniva caricato all’inverosimile, l’asino lo si bastona e lui riceveva ogni giorno la sua consueta e costante razione di legnate, l’asino mangia poco e lui quasi non mangiava, l’asino è offeso e vilipeso e lui era lo zimbello di tutti, l’asino è ritenuto ignorante e lui era ritenuto l’asino per antonomasia.
Tra le botte, la malnutrizione, la depressione, la gracilità, l’asino Armandino era destinato a una breve vita : e lui, la sera, sul pagliericcio dentro la stalla, prima di abbandonarsi esausto al sonno, pensava sempre di raggiungere il suo papà, anzi lo sperava, lo voleva, lo chiedeva a Gesù Bambino.
E poi, nel sogno, si vedeva per mano al papà, in una radiosa giornata di sole, mentre andavano a pescare o mentre il papà gli raccontava, la sera, una storia accarezzandogli le guance.
E una notte, in sogno, il suo papà gli disse : “ non ti tormentare Armandino se tutti ti chiamano asino”. “L’asino è l’animale più nobile, forte e buono, sempre pronto ad aiutare gli altri con il suo lavoro, talmente nobile con la sua umiltà che , insieme al bue, Gesù ha voluto accanto a sé nel Presepe!”. “Tu, Armando, sei nobile come l’asino, la nobiltà è nel tuo animo, e come l’asino sarai presto chiamato a grandi compiti, come l’asino riscaldò Gesù Bambino, anche tu sarai chiamato a riscaldare”.
Armando si svegliò di colpo, con una strana sensazione di leggerezza e di incredulità. Il suo adorato papà gli aveva rischiarato la mente ed il cuore : l’asino non era il più infimo e reietto tra gli animali, ma quello che con il suo fiato aveva riscaldato Gesù Bambino e lui Armando, chiamato l’asino, non era l’ultimo dei bambini, il più stupido e da massacrare come lo riteneva Conlabarba, ma era destinato ad un grande compito futuro.
Ma, passato il primo momento di euforia, Armandino si disse che era stato solo un sogno, anche se molto bello, ma solo un sogno.
Però il suo papà non aveva mai tradito la sua fiducia, non gli aveva mai raccontato una bugia! Ma no, non voleva, non poteva credere che lui, l’ultimo di Terrabruciata, l’ultimo degli ultimi, l’asino, potesse vedere la sua vita cambiata ed essere addirittura chiamato a un grande compito.
Ma era stato bello lo stesso, se non altro ora la parola “asino” gli risuonava meno sgradita, meno annichilente.
E arrivò lo zio d’America : Giuseppone, fratello del papà di Armandino, era emigrato in America per sfuggire alla terribile miseria di Terrabruciata e là, in quel Paese lontano, aveva accumulato una vera fortuna.
Lo zio prese Armandino con sé in città, lo curò, lo nutrì, lo fece studiare: Armandino divenne un brillante ingegnere e, come gli aveva detto il papà, che non gli mentiva mai, inventò l’incubatrice, quella macchina che riscalda i bambini usciti troppo presto dal calduccio del ventre materno.
Così, come l’asino riscaldò Gesù Bambino, Armandino riscaldò tutti i bambini del mondo, con quel calore che solo la nobile umiltà riesce a fornire a chi ne ha bisogno.
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