Stasera sono a Prato

Oggi sono a Prato a presentare il libro di Enrico Cheli “Percorsi di consapevolezza”. Sarà presente l’autore, a seguire,  presenterà il mio “Dizionario dell’inconscio e della magia”.

L’appuntamento è presso l’Auditorium per l’Arte Contemporanea “Luigi Pecci”, v.le della Repubblica 277  a Prato, ovviamente.

L’ingresso è gratuito.

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Petali sulle ceneri

Eccovi, eccoci, con un’altra meraviglia. Aspetto i vostri petali:
da PETALI SULLE CENERI  di Rabindranath Tagore (1861 – 1941)

Hai colorato i miei pensieri
e i miei sogni,
con gli ultimi riflessi
della tua gloria, Amore,
trasfigurando la mia vita
per la prossima bellezza
della morte.

Porto XXI

A Praga, nei difficili anni Sessanta, il genio di Mozart offrì uno straordinario linguaggio cifrato agli intellettuali che si opponevano al regime, facendo del magico isolotto di Kampa, un tempo abitato dal salisburghese, il simbolo di una resistenza tenace e disperata.

Due grandi poeti, Vladimir Holan e il premio Nobel Jaroslav Seifert comunicarono in «codice mozartiano» la loro angoscia e l’urlo straziato di una libertà costretta all’isolamento.

Si scrissero rondò in forma di parole (la Mozartiana II Holan, Mo­zart a Praga Seifert) come lettere estreme, quasi testamentarie, dall’inevitabile «esilio in patria».

Una terza variante apparve, agli albori degli anni Ottanta, a opera di Sergio Corduas, traduttore italiano di entrambi e allievo di Angelo Maria Ripellino. La suggestiva triangolazione poetica costituisce oggi un eccezionale documento di vita contemporanea e ci ricorda la stoica resistenza d’intellettuali che seppero ritirarsi a lungo dalla scena pubblica, colpiti dalle imposizioni della censura.

Vladimir Holan, autore del ciclo dei Muri, morì il 31 marzo del 1980 ed ebbe in Europa soprattutto gloria postuma, nonostante fosse uno dei massimi poeti cèchi. A un Seifert ormai vecchio e malato andò, nel 1984, il premio Nobel per la letteratura. Ma il poeta, alla vigilia della morte, non potè ritirarlo.

Partire, Morire, Rinascere.

Vi lascio una riflessione di George Simenon vi chiedo: indipendentemente dalla volontà dello scrittore, che cosa vuol dire questa frase? Buona pesca:

“Sono nato nel buio, sotto la pioggia, e me ne sono andato. I crimini che racconto sono i crimini che avrei commesso se non me ne fossi andato. Sono  uno di quelli che hanno avuto fortuna. Cos’altro si può dire di quelli che hanno avuto fortuna se non che se ne sono andati?”

(Da una intervista del New Yorker del 1953)

Non cercare mai di dire il tuo amore.

Ecco per voi questa poesia:

Non cercare mai di dire il tuo amore.

Non cercare mai di dire il tuo amore,
amore che  non può essere mai detto;
il gentile soffio si muove
in silenzio, invisibile.

Dissi il mio amore, già dissi il mio amore,
il cuore le apersi;
tremando, gelando, in orrenda tema,
ah! lei, lei se ne andò.

Appena mi lasciò,
un viandante passò,
in silenzio, invisibile:
gli bastò un sospiro, la prese.

William Blake tradotto da G. Ungaretti.

Porto XVII

Esistono tre stanze «segrete» nel cinquecentesco palazzo dei Corgna a Castiglione del Lago, sul Trasimeno. Sembra che a ispirarne gli affreschi sia stata la bizzarra personalità di Cesare Caporali, membro dell’Accademia degli Insensati di Perugia con il nome di Stemperato.

Caporali, ricordato da Miguel de Cervantes nel poema Viaje del Parnaso pubblicato nel 1614, aveva servito il cardinale Giulio Acquaviva a Roma. Nello stesso periodo e nelle medesime stanze lavorava il genio del Don Quijote che, a sua volta, aveva combattuto al fianco di Ascanio Corgna nella battaglia di Lepanto, nel 1571.

Questo collegamento fra spiriti eccentrici spiegherebbe le singolari stanze «segrete» di Castiglione, abitate da uno straordinario susseguirsi di rebus iconografici.

Vi è rappresentato un Mundus inversus che accosta mito, fiaba, storia e metafore nella raffigurazione di tre temi principali: gli «incauti trasgressori», i «grandi puniti» e il «mondo alla rovescia» nella prima sala nella quale si fronteggiano Tizio, Prometeo, Ganimede, Narciso e Callisto; le Muse nella seconda stanza e le Metamorfosi nella terza.

Adibite probabilmente a salotto letterario tra i più esclusivi, le sale costituivano forse una sorta di rifugio dell’anima, quello che oggi diremmo un luogo di decompressione dalle nevrosi.

E all’anima esse restituivano giustizia e serenità rappresentando un mondo nel quale i topi seviziano i gatti e altre vittime del mondo animate trionfano contro i loro abituali carnefici.

Gli elementi di questo universo irriverente concorrono a testimoniare l’intima intesa tra pittore, poeta e committente e a esaltare il mito di Apollo nei suoi molti travestimenti: Apollo Targello, o il calore che matura i frutti, Apollo Sminteo, o il distruttore dei topi, Apollo Parnopio, o il mangiatore di cavallette, Apollo-tartaruga, o serpente che seduce la ninfa Driope.

Ma altre chiavi soccorrono il visitatore della prima stanza, la più inquietante: la parete della fatica in cui Tizio si contrappone a Prometeo (al centro della parete dirimpettaia), e la vanità di Narciso che controbilancia l’affanno di Ganimede, secondo le leggi intime di un seducente quadrilatero. Sulla volta splende la celeste violazione di Callisto, immortalato nella Costellazione dell’Orsa, detta dai romani septem triones, cioè «sette buoi».

Il Nostro Manifesto.

Invito caramente tutti i Viaggiatori a leggere e meditare questo scritto di Marina.

E’ un Manifesto.

E’ il nostro MANIFESTO.

“Vorrei aggiungere, rivolgendomi a tutti coloro che hanno risposto al post, che questo è evidentemente un luogo speciale e che spero che lo sia realmente.
Il mondo che conosco io e con il quale ho a che fare tutti i giorni è molto diverso da tutti voi: è un mondo inconsapevole, che frigna e che ha paura.
La “diversità mentale” e in particolare i ragazzi border line, credetemi, mettono a dura prova coloro che vengono a contatto con loro…e le miserie e le fragilità escono drammaticamente allo scoperto e a farne le spese sono le famiglie che invece di essere supportate finiscono, se non sanno difendersi, per essere appesantite ulteriormente.

PERCHE’ CHI HA I FIGLI COSIDDETTI NORMALI, DEVE METTERSI IN TESTA CHE NOI AMIAMO I NOSTRI FIGLI COME SE FOSSERO NORMALI, SOLO CHE PER NOI E’ TUTTO PIù DIFFICILE: ANDARE A LAVORARE E’ DIFFICILE AD ESEMPIO, ANCHE ANDARE A SPASSO PUO’ ESSERE DIFFICILE, SPECIALMENTE SE VOI NORMODOTATI PARCHEGGIATE DAVANTI AGLI SCIVOLI O NEI PARCHEGGI PER GLI INVALIDI. MA PER CAPIRE LE COSE BISOGNA VIVERLE GIUSTO?

Prendi la Scuola: Io, sono diventata una iena con la scuola, anzi, parlo poco con i professori, altrimenti, ogni momento mi stressano ed invece di parlare dei problemi con il loro Capo d’Istituto e prendersi le proprie responsabilità, cercano di scaricarmi addosso la loro mancanza di preparazione di professionalità di preparazione umana…come se ci facessero un favore, come se fossimo noi a voler mandare per forza a scuola i nostri ragazzi.

GUARDATE CHE IN ITALIA E’ OBBLIGATORIO MANDARE I DISABILI A SCUOLA E NOI STIAMO FACENDO LE CAVIE PER SODDISFARE UN IDEALE DI UN GRUPPO DI IDEALISTI RIGUARDO L’NTEGRAZIONE: IN REALTA’, NON NE POSSIAMO PIU’ DI SENTIRCI DIRE OGNI ANNO CHE LE FINANZIARIE TAGLIANO SUGLI INSEGANTI DI SOSTEGNO. SCUOLA TUTTA, VI RICORDO CHE I NOSTRI FIGLI SONO AFFIDATI AD UN CONSIGLIO DI CLASSE E NON AD UN INSEGNATE DI SOSTEGNO…MA VOI INSEGANTI DOVETE FARE LA VOSTRA LEZIONCINA E I NOSTRI FIGLI DISTURBANO, ROMPONO. LE LEGGI SONO CAMBIATE NEGLI ANNI OTTANTA, FATEVENE UNA RAGIONE!

E’ naturale che sono responsabile per le mie figlie ma nell’ambito delle mie responsabilità come genitore! E’ triste dover continuamente far notare che io le mie responsabilità me le sono prese tutte nella vita e che voglio essere interpellata solo in merito a quelli che sono i miei doveri e non per tutte le intemperanze delle mie figlie le quali, fra l’altro, se fossero “normali” non avrebbero insegnanti di sostegno e assistenti e pensioni varie e chi più ne ha più ne metta. Io faccio la madre, non posso lavorare perché non trovo un lavoro che mi consenta di tenere unita la mia familgia e sto lottando per non andare a rotoli, io non prendo lo stipendio di chi ha scelto di fare questo mestiere.

Per quanto riguarda il COLLETTIVO, pretendere il dialogo sarebbe allo stato attuale delle cose utopico, ma gli sguardi! Certo, ci sono anche persone carine che ti sorridono quasi affettuosamente per rassicurarti sulla natura del loro sguardo, ma, porco mondo!, non ci fissate con quella curiosità morbosa, con stupore o paura: non siamo bestie rare!
PER FAVORE SMETTETE DI FISSARCI A QUEL MODO: NON NE POSSIAMO PIU’! ANCHE PERCHE’ QUANDO MI ACCORGO CHE STANNO FISSANDO LE RAGAZZE LE PERSONE SI GIRANO E FANNO FINTA DI NIENTE! MA ANDIAMO! BASTA CON QUESTA IGNORANZA DELLA SENSIBILITA’!

E VOI DELLA SCUOLA, SMETTETE DI CHIAMARCI A CASA PER DIRCI CHE I NOSTRI FIGLI HANNO URLATO IN CLASSE O CHE SI SONO MESSI A CORRERE, PERCHE’ NOI LO SAPPIAMO CHE SE SI SONO COMPORTATI COSI’ E’ PERCHE’ VOI NON AVETE TROVATO IL MODO GIUSTO DI COMUNICARE CON LORO: LO SAPPIAMO PERCHE’ CONOSCIAMO NOI STESSI E I NOSTRI FIGLI, LO SAPPIAMO PERCHE’ CI SIAMO PASSATI PRIMA DI VOI A RINCORRERLI E A RESTARE INEBBETITI DALLE LORO REAZIONI, APPARENTEMENTE SENZA RAGIONE! MENTRE NOI LI ARRONZIAMO OGNI MOMENTO PERCHE’ NON ABBIAO PAZIENZA! RISPETTO! SIAMO ANIME! TUTTI! ANCHE I DIVERSI.

NEANCHE IO ERO PREPARATA AD AVERE DUE FIGLIE “DIVERSE”.
PROPRIO PER QUESTO SO CHE E’ DIFFICILE CONFRONTARSI CON QUESTO TIPO DI PROBLEMI E SONO SEMPRE DISPONIBILE AD AIUTARE MA NON A FARMI SCARICARE ADDOSSO RESPONSABILITA’ CHE NON SONO MIE, RIBADISCO.

Ora, se io rubo o uccido mi mettono in galera, giusto?
Perché mi mettono in galera?
Perché sono un membro della collettività, giusto?
Ecco, se, nel male, la collettività si deve far carico della riabilitazione di un soggetto “asociale pericoloso” al fine di reintegrarlo un giorno all’interno di essa, così, nel bene, la collettività si deve far carico della riabilitazione di un soggetto “con difficoltà varie” per consentirne l’integrazione all’interno di essa.

VI DOVETE METTERE IN TESTA CHE LA DISABILITA’ NON E’ UN PROBLEMA DEI FAMILIARI DEL DISABILE…E POI LA DISABILITA’ E’ DIETRO L’ANGOLO PER TUTTI (e non è un anatema, è una raltà sotto gli occhi di tutti)

Sono molto severa con gli addetti ai lavori, pretendo, altrimenti, qua non si cresce. La vita è stata severa con me…e la mia anima ne ha giovato. PRETENDETE DI PIU’ DA VOI STESSI: LAVORATE CON AMORE, COMPORTATEVI CON AMORE, COME COLLETTIVITA’. DOBBIAMO SVILUPPARE UNA COSCIENZA COLLETTIVA.

Marina”

Una Memoria dentro la Memoria.

Mi sembra sia giunto il momento di affrontare il tema dell’Immaginazione.

Noi contemporanei siamo convinti che essa nasca dalla visualizzazione di stimoli esterni, successivamente incamerati nella memoria.

Per gli uomini del Rinascimento, che facevano propria un’antichissima eredità, non era così. L’immaginazione la chiamavano IDOLUM (stessa radice di IDEA) ed era una Memoria NON DIPENDENTE dall’ESPERIENZA.

Una memoria dietro alla memoria, in contatto con il mondo esterno. Questa Memoria “Segreta” è piena di IMMAGINI che non dipendono dall’osservazione empirica. Ma sono potentissime e sono custodite nella memoria “dietro” la memoria.

A che cosa serve questa seconda “Memoria”?

Come attivarla?

Come connetterci con le sue immagini?

Ne parleremo un poco alla volta. Adesso aspetto considerazioni da tutti voi.

Porto XIX

Roma non fu mai propizia a Giacomo Casanova. Durante il suo primo soggiorno nella Città Eterna, nel 1748, abitò a Palazzo di Spagna, sotto la protezione del cardinale Acquaviva, ambasciatore di Spagna e di Napoli.

Qui si rifugiò una notte Barbaruccia Delacqua, una ragazza di cui Casanova era invaghito. Travestita da prete, la giovane era appena sfuggita agli sbirri che l’avevano sorpresa in compagnia di un coetaneo.

La generosità di Casanova salvò Barbaruccia, accolta sotto la protezione del cardinale Acquaviva, ma costò cara al povero Giacomo, che, sospettato pretestuosamente di aver irretito la giovane, fu espulso dalla città dei papi che in realtà lo temeva.

Agguato teso a bella posta o casualità?

Il Vaticano certo mal tollerava il Maestro capace di evadere dall’inespugnabile prigione dei Piombi e nel suo vero o presunto libertinaggio trovava occasione favorevole per un provvidenziale allontanamento.

Dodici anni dopo Casanova tornò a Roma e nuovamente una donna gli fu fatale.

Si trattava di Teresa Rolland, figlia del proprietario dell’albergo Ville de Paris, in piazza di Spagna.

Ma questa volta fu Giovanni Casanova, fratello di Giacomo, a impalmare la bella Teresa, dopo averla sedotta.

La presenza dell’intraprendente fratello autorizza in parte un’audace fantasia sull’esistenza di due Casanova, intenzionalmente sovrapposti nelle vicende narrate da Giacomo nella sua autobiografia, a vantaggio di una maggiore libertà e segretezza in campo magico.

La Grande Madre — Il significato della parola “magia”, ovvero la magia come tramite e come follia

È necessario cercare il vero significato della parola magia, quindi i contenuti di tale disciplina. Perché la frattura tra coloro che la considerano come “la scienza delle scienze” e altri che la reputano quasi un accozzaglia di idee e tecniche derivate dalla superstizione e dall’ignoranza è così enorme da meritare una chiarificazione. È ovvio che cercheremo di vedere quelle fonti che, pur non schierandosi apertamente dalla “parte dei maghi”, hanno studiato il fenomeno senza prevenzioni preconcetti inutili.

Quando si cerca di capire etimologicamente il vocabolo “magia” ci si accorge che è impossibile scinderlo dai contenuti. Giuliano Kremmerz, uno pseudonimo che cela Ciro Formisano, medico omeopatico napoletano della fine del secolo XIX, afferma qualcosa di estremamente esplicativo: «Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltretomba c’è un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo è nello stato intermedio di vita e di morte, che fu detto mag, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana» (G. Kremmerz, Il mondo secreto, in Opera omnia, Editrice Universale, 1951). Quindi per il Kremmerz magia deriva da mag, uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano particolari poteri. Lo storico francese Louis Chochod è d’accordo affermando: «La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalrnente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale è l’oggetto dell’arte magica» (Louis Chochod, Storia della magia, Mursia, 1979). Lo studioso d’oltralpe specifica però che il potere desiderato dai praticanti è quello della forza della natura. Un altro ricercatore, François Ribadeau Dumas, puntualizza che tali energie sono certamente latenti in natura, ma soprattutto nell’uomo (F.R. Dumas, Storia della magia, Mediterranee, 1968). È ovvio che per sapere le leggi del mondo occorre un procedimento di conoscenza; ancora Chochod dice: «Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza». Uno stato che conduce a capire forze sconosciute in natura e all’umanità sembra essere la vera finalità della magia.

Un altro storico, Maurice Bouisson, dice qualcosa di più: «…l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolò anticamente la Media… I magi costituivano la casta sacerdotale. La città di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici» (Maurice Bouisson, La magia, SugarCo, 1962). Ancora Dumas aggiunge qualcosa di importante, affermando che gli esperti in cose magiche guarivano i malati (F.R. Dumas, op. cit.). Sperimentalismo, divinazione, guarigione, sono gli scopi perseguiti dagli iniziati allo “stato di mag.” Eppure alla comprensione della magia manca ancora qualcosa, più propriamente conoscitivo e nel contempo religioso.

I misteri eleusini erano antichissime cerimonie a carattere esoterico e iniziatico. Malgrado la massiccia partecipazione popolare, gli officianti veri e propri erano infatti una esigua minoranza. Quanto hanno scritto Erwin Rohde e Giorgio Colli determina esplicitamente che il fenomeno guarigione era collegato a un’esperienza mistica. Infatti i baccòi, secondo Rohde, scacciavano le malattie proprie e altrui mentre stavano in Eleusi (Erwin Rohde, Psiche, Laterza, 1970). Ma nella stessa cerimonia, secondo le ricerche di Colli, gli stessi raggiungevano una “visione” suprema, indicibile, esemplificabile come conoscenza totale (Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, 1978, Introduzione). Colli è molto specifico al riguardo, infatti scrive del culto misterico eleusino come: «…variegata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico» (ivi, pag. 17). E in seguito il filosofo stabilisce che la divisione, l’interpretazione dei sogni, non erano fini da raggiungere, ma manifestazioni collaterali al sapere conseguito dalla “visione” degli dèi, che suscitava negli iniziati la possibilità di alleviare i mali corporei. Allora, cercando di riassumere il più schematicamente possibile, lo stato di mag, ovvero di chi pratica la magia, è un modo particolare di conoscere, corrispondente a una sorta di estasi, di visione del divino, che dona agli iniziati effetti collaterali singolari, come la divinazione oppure addirittura il potere di sollevare gli infermi dalle proprie afflizioni. Questo è stato desunto dalle ricerche degli storici; abbiamo citato Kremmerz, Chochod, Dumas, Bouisson, Rohde, Colli, che sono appunto ricercatori, ma nessuno di essi (forse con l’eccezione di Kremmerz) ha mai praticato la tecnica magica. Se davvero la magia è una forma di conoscenza, dovremmo reperirne la “riprova” andando a consultare le opere degli addetti ai lavori, ovvero di chi ha messo, o avrebbe messo, in opera la magia.

Tommaso Campanella, uno dei massimi filosofi del tardo Rinascimento, ha praticato la magia naturalis, perché a suo dire tale tecnica gli permetteva una diretta comunicazione con Dio, mediante un rapporto con il mondo. Insomma Campanella raggiunge l’eterno attraverso la conoscenza dell’effimero. Nel proemio alla sua Metafisica scrive: «Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo Sapit (conosce) in quanto fa suo il Sapore della cosa» (Eugenio Garin, Umanesimo italiano, Laterza). L’espressione è meno sibillina di quanto sembri: il filosofo vuole dire che il soggetto per conoscere davvero un oggetto deve compenetrarsi con esso, gustarne l’essenza. Tale gusto, se ben esaminato, corrisponde a una visione quasi estatica. Così intensa che permette al soggetto di superare la finitezza propria e della cosa con cui ha stabilito il rapporto, e di entrare nella sfera divina (Eugenio Garin, op. cit., pag. 249). È insomma la spiegazione filosofica di un antichissimo precetto religioso, secondo cui amando senza egoismi il mondo si ama anche Dio che l’ha creato. Tale esperienza estatica e visionaria è qualitativamente simile a quella dei partecipanti ai misteri di Eleusi che nelle loro visioni si gettavano, annullandosi, nella possessione della divinità che li estasiava (Erwin Rohde, op. cit., pagg.378-9).

L’iniziato, mediante un contatto “speciale” con le cose del mondo (ottenibile con un “gustare” per Campanella, con danze rituali per i misteri eleusini), riesce a “vedere” la divinità, vero e unico scopo della sua azione. Logicamente gli altri esseri umani, i non iniziati, lo avvertono come “diverso”. Elémire Zolla afferma che per ottenere l’estasi visionaria ha dovuto strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue piccole preoccupazioni (Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. IX).

L’aspirante mago ricerca perciò “visioni” che gli permettano un contatto con il divino. Questa è la sapienza desiderata, che corrisponde, lo ripetiamo ancora una volta, a un “vedere” del tutto particolare, una forma d’estasi. Gli studi di Colli hanno chiaramente delineato come tali iniziati vedenti siano giudicati “sacri folli” nel mondo misterico eleusino. È proprio quella “pazzia” speciale a condurli nella dimensione infinita. Non a caso i cosiddetti maghi della tradizione, anche lo stesso Campanella, ogni tanto, parlando di se stessi, giungono a definirsi “pazzi”, ovvero capaci di accedere a quella follia che dona loro le visioni divine. Giordano Bruno è un acceleratore dei tempi iniziatici, infatti crea “immagini” che possono portare subito l’iniziato nella sfera delle idee immortali, quindi con Dio che pensa quelle idee (Giordano Bruno, De Umbris idearum, Atanòr, 1978, pag. 32 e segg.).

È giunto il tempo di occuparci della magia immaginativa. Non dimenticandoci le conclusioni a cui siamo giunti: la magia dovrebbe portare l’iniziato a una conoscenza estatica, visionaria, contemplante la divinità. I cosiddetti “poteri” sarebbero solo un effetto secondario che si manifesta nell’iniziato. Ma non sono affatto lo scopo principale della tecnica magica. Infatti sia Campanella sia Bruno parlano con disprezzo di chi pratica la magia per divinare, comandare, o anche guarire a scopo di lucro. La ricerca autentica è quella del “vedere” la divinità. La magia immaginativa, appunto. Giordano Bruno usa le tecniche mnemoniche e immaginative per giungere a una concezione della scienza che intrinseca Dio alle cose. Garin ricorda che «anzi, per Bruno, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere e educare». Mosè, «che in tutte le scienze degli egizi uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura: «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà di imitare la natura ne le opere sue, e fare cose meravigliose agli occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti gli onorari ingegni» (Eugenío Garin, op. cit., pag, 232).

Il mondo di Bruno sembra in opposizione a quello religioso perché intende una natura vivente, che torna in se medesima attraverso ciclicità inesorabile. «Nihil sub sole novum» è il suo motto, vergato di suo pugno nel 1587 nell’albo dell’università di Wittenberg («Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum»). Per lui lo spirito divino è l’anima dell’universo, quindi «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia piovenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; corne anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congregazione; la qual dottrina pare esposta nell’Ecclesiaste (ricordato da Eugenio Garin, op. cit., pag. 233. La concezione dell’anima mundi che insoffia la vita nel mondo, traendola dalle idee immortali, è un elemento bruniano tratto da Marsilio Ficino. I pedanti di Oxford si avvalsero di questo per accusarlo di plagio allorché in Inghilterra egli li provocò in’aperta disputa. La Yates riporta molti particolari di questo contrasto nel Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza).

La natura è per Bruno divinizzata, quindi conseguentemente tutti i corpi sono immortali «nella substantia». Questa concezione è molto differente da quella che emerge nelle speculazioni fisiche di Aristotele, che stabilisce una differenza invalicabile tra Dio, sempre irraggiungibile, e la materia. Il carattere di Bruno ha quelle caratteristiche di impeto che già abbiamo potuto osservare più di una volta: eccolo quindi impugnare la penna è partire all’attacco di Aristotele come un cavaliere in un torneo.

Nello Spaccio della bestia trionfante l’ironia, l’invettiva, la dissacrazione del «divo Aristoteles» sono pesantissime, ma psicologicamente spiegabili. Bruno crea un sistema filosofico basato sulla presenza divina nel mondo, principio panteistico in realtà non dimostrabile razionalmente, ma esclusivamente ipotizzabile mediante intuizione. Non avendo perciò armi logiche, Bruno deve attaccare le posizioni opposte attraverso mezzi diversi, cioè la dissacrazione (Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1925-7, vol. II, pagg. 223-224). Però la sua visione estatica è così suggestiva, coraggiosa, entusiastica da creare una sorta di fascinazione continua. L’anima umana stessa è un riflesso dell’anima universale, ma pure non è qualitativamente diversa da quella dei bruti essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quelle delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova animata» (Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Opere italiane, cit., II, pag. 274 e segg.). Concezione che comportava non un abbassamento dell’anima dell’uomo, bensì un innalzamento delle cose naturali al divino.

Bruno concepisce una fissità del tutto naturale ed eterna, priva di creazione, che si riverbera in un rapporto Dio-mondo essenzialmente di derivazione necessaria. Dio non crea liberamente il mondo naturale, perché esso è una sua necessaria manifestazione. La natura è l’infinita apparizione di un Dio infinito, e non può essere altrimenti in quanto la divinità eterna e infinita non può che creare una potenza infinita e perfetta. Altrimenti volontariamente avrebbe creato l’imperfezione, mentre l’essere perfetto non può creare che cosa simile a sé, non potendo volere «il male», a meno che non si ipotizzino in esso gli attributi della «malvagità e dell’invidia», il che escluderebbe le altre prerogative divine. E come dalla infinita potenza divina si discende necessariamente al mondo, così da esso si risale all’unità da cui tutto ha origine.

Poiché la natura è come le acque che esprimono la sorgente, essa manifesta Dio. La sua imperscrutabile unità si esteriorizza tempo a tempo, forma a forma, in mille e mille esseri naturali, che a loro volta, nell’insieme ordinato, ricostruiscono l’unità: «Nella natura è una revoluzione e un circolo», poiché ciò che è in alto discende in basso e viceversa («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), secondo la legge degli eterni ritorni, derivata a Bruno dai Pitagorici, e a questi da Eraclito. Ma la poliedricità delle forme, degli esseri individuali, il tempo, le vicende storiche non sono che apparenze del medesimo essere costituente il tutto. Le forme non devono pertanto temere la morte: la sostanza ultima che le compone è il divino. La cessazione della vita è il termine solo del mutare e sancisce il ricongiungimento con la fonte.

Lo scorrere del tempo e le umane inquietudini non sono che parvenze; occorre riconoscerle per tali e penetrare finché si può l’inaccessibile matrice. La contemplazione dell’unità è perciò liberatrice, conducendo il praticante all’intima unità delle cose, all’universo «uno, infinito, immobile». Contemplare è fissare la quiete fondamentale dell’essere, sfondare la dimensione del tempo con le sue ansie, penetrare la pace abbandonandosi alla realtà primigenia. «Doglia o timore… piacere o speranza» sono lasciati indietro, nel mare delle cose cangianti nel perenne illusorio divenire.

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» capiscono che nella sua essenza l’universo non ha alto o basso, giusto o sbagliato, grande o piccolo, lontano o vicino, bensì un’identità del tutto che ha l’assoluta unità come suo solo attributo. Contemplare e vedere (vedere è qui adoperato come sinonimo di conoscere, in quanto le visioni bruniane devono essere assimilate a forme sapienziali) tale realtà unitaria significa liberarsi dalle pene di questa terra, lasciare i timori del futuro o del destino perché nell’eterna ciclicità cosmica nulla muta, ma tutto cambia volto. L’uomo in contemplazione, con gli occhi fissi alle stelle, si libera da ogni timore, speranza e da altre dispersioni per gioire della «beatitudine» di essere nell’essere.

I tempi concreti della contemplazione sono dati dall’uso dello strumento che è stato da Bruno stesso assimilato alla magia, quasi l’esaurisse in sé; l’arte della memoria. Le immagini del De umbris idearum e del Cantus circaeus hanno solo come secondo fine quello di potenziare la memoria, intendendo altresì come fine primario quello di dilatare la mente dell’adepto, ricorrendo a figure atte a proiettare la sua psiche al contatto diretto con le idee.

Tale opera è realizzabile mediante l’interiorizzazione di immagini, quindi attraverso un “vedere” proiettato all’interno. Questo elemento visionario, unito a una predicata necessità dell’errore (Spaccio della bestia trionfante), congiungono idealmente e praticamente Giordano Bruno all’ambito dei sapienti che adoperavano le visioni estatiche come vera forma di conoscenza, di coloro che Platone chiamava i veri saggi, giudicando se stesso solo un filosofo, dei presocratici legati a Eleusi e a Dioniso. Le immagini bruniane dovevano essere collocate nella interiorità cosciente mediante la vista figurativa. Tale immaginazione comportava un mutamento sapienziale nell’officiante, quindi è legittimo dichiarare l’equipollenza di vedere e conoscere per Giordano Bruno. Tale equivalenza è il cardine su cui si basa la trattazione dei presocratici mirabilmente compiuta da Giorgio Colli (La sapienza greca, voll. I e II, cit., Introduzioni). Ne consegue che la filosofia del nolano si ricollega a una tradizione conoscitiva risalente al culto misterico di Dioniso officiato a Eleusi.

L’estrema poliedricità multicolore delle figure mnemoniche del campano permette anche l’introduzione dell’elemento “follia” come dimensione del sapere, congiungendo ancor più le tematiche del filosofo a quel remoto mondo greco. La connessione sorge soffermandosi su quelle figure che Bruno non trae dalla tradizione, ma che spontaneamente crea per “impressionare” la mente dello studente. Queste sono piene di un simbolismo figurativo, prive di ogni remora rappresentativa, continuamente arricchite da una fantasia senza legami, che nutre se stessa in un continuo sforzo creativo. Tale carattere permette appunto l’uso del termine “follia” per contraddistinguere l’opera figurativo-mnemonica bruniana, conferendo all’attributo “folle” il senso di partecipante a una visione estatica e conoscitiva, caratteristica già attribuita da Giorgio Colli agli iniziati ai riti eleusini.

Porto XVIII

Roma. Palazzo Riario, ora Palazzo Corsini. Il luogo è legato a donna dai misteriosi destini di donne. Vi abitò Caterina Sforza, figlia del signore di Milano e moglie di un Riario. Lasciata Roma, la malcapitata vi tornò prigioniera di Cesare Borgia, che l’aveva incatenata a Forlì, roccqforte del Riario, e la trascinò come preda di guerra in Vaticano. Ma la leggenda narra che il Valentino scelse per lei catene d’oro.

Stesso luogo, altra storia. Quella dell’infelice Cristina di Svezia, fondatrice dell’Accademia da cui doveva nascere l’Arcadia. A Palazzo Riario le morirono misteriosamente due amanti, il Monaldeschi e il cantante fiorentino Alessandro Cecconi, e fu drammaticamente aggredita la sua amica Giorgina (forse Angela Maddalena Voglia). Si dice che l’artefice di tali misfatti fosse l’abate Vaini. Ma quando Cristina accorse alle grida della ragazza, a capo delle guardie, il misterioso aggressore sparì nel nulla.

Nel 1736, i nuovi proprietari dell’augusto edificio, nipoti di papa Clemente XII, acquisirono, insieme all’immobile, i sotterranei abitati da cataste di ossa umane, monito e memoria dei molti delitti consumati in quel luogo nei secoli precedenti.

A Marina e a tutti quelli che non credono nelle differenze.

Andrea Damiani è un professore di maematica, insegna a Roma ed è un mio giovane amico.

E’ un gigante con l’anima…ma lascio giudicare a voi.

Nella sua classe c’è un giovane bord-line. Andrea da un compito di matematica e mi racconta che: “volevo dare una esercitazione di matematica al ragazzo un poco diverso, ma mi sono reso conto che io non avevo il linguaggio per dirglielo. Ma lui, il mio studente, che dovrebbe essere un diverso, si accorge della mia difficoltà e mi dice ‘non fa nulla prof. va bene lo stesso.’ Capisci Gabriele? Aveva trovato il modo di comunicare con me ed io no. Quindi chi era il prof tra noi due?”

nota bene:

Andrea come professore è un fenomeno;  è quella persona che afferma: “La Fisica è il modo logico, per noi, per spiegare i fatti dell’Universo e la Matematica è il modo per racontarlo”.

Ecco, la “sua” matematica lo ha messo in contatto con il suo studente di frontiera.

Ma senza i loro cuori nulla sarebbe accaduto.

Vogliamoci nel Bene.

Solo oggi mi sono accorto che la esortazione “Vogliamoci nel Bene” vuol dire anche “desideriamoci in uno stato di Bontà”.

E quindi “edifichiamoci all’interno della Bellezza”.

Forse l’Amore si assopisce  quando non percepiamo più la Bellezza nel partner?

Porto XV

Annibale Paloscia è caporedattore presso i servizi culturali dell’agenzia ANSA. È uno dei giornalisti più stimati in Italia e ha insegnato a generazioni di reporter come diventare cronisti avveduti, capaci, ma soprattutto onesti.

A otto anni la sua vita è stata salvata dal fratello più grande, morto qualche giorno prima. Non è una battuta simbolica, ma un fatto realmente accaduto.

I genitori di Annibale, durante la guerra, mandano il figlio maggiore in Puglia nel tentativo di «salvarlo» dalle retate dei nazisti. Purtroppo il ragazzo muore per un banale accidente. La notizia arriva a Roma in ritardo di qualche giorno, dato lo stato delle comunicazioni in Italia.

Quando la famiglia l’apprende, lo sconforto è terribile e una zia di Annibale si affaccia alla finestra per chiamarlo. Lui stava giocando con alcuni bambini con un oggetto che ha trovato da poco. Sente le grida e si precipita verso casa. Fa pochi passi e un’esplosione terribile dilania i suoi amici. Annibale rimane illeso. La «cosa» con cui stavano giocando era una bomba a mano.

Così Annibale, per fortuna di tutti coloro che hanno avuto il piacere di conoscerlo e di apprezzarlo è stato tratto in salvo dal fratello. La morte sembra aver avuto pietà: ha preso un Paloscia, ma ne ha lasciato un altro.

A proposito di mutamenti

Il tempo fugge

e non s’arrestan l’ore

Fallo presente all’Amante tuo

chi non fa quando può

tardi si pente

(Poliziano)

(Quindi, Vogliamoci nel Bene)

Siamo il Dio che ci respira dentro.

Ecco Pasqua. La Resurrezione. In chiave simbolica già la religione di Mitra concepiva un uomo-Dio nato nella festa del Sol Invictus (25 dicembre) e risorto.

Senza voler entrare negli ambiti di Fede, da un punto di vista psichico-anima, la Resurrezione avviene non solo quando è l’intera struttura psichica-logica-emotiva a rinnovarsi e a risorgere dalle proprie ceneri, ma anche quando si riesce a mutare una parte minuscola della propria sostanza interiore. Impresa comunque difficilissima.

Perchè prevede il cambiamento di pensieri, sentimenti, emozioni e passioni relativi ad un particolare grumo psichico. Ma Jung afferma che la nostra personale resurrezione è già suffieciente quando “incominciamo” l’opera. Tentare è resurrezione, anche se parziale.

Non servono eroi, ma umili operai della Psiche. Servi di Anima.

E contemporaneamente, Entusiasti del Bene.

Noi siamo il Dio che ci respira dentro (Giuliano, il Grande, IV sec.d.c., seguace di Giamblico e Porfirio. Neoplatonico. Autore de “La Madre degli Dei)

Porto XIV

Salone del libro di Torino del 1990. Hugo Pratt, il celebre autore di Corto Maltese, presenta la sua prima opera narrativa, Il romanzo di Kris Kenton. Mi avvicino a lui per un’intervista (mi sia concessa l’autocitazione, per una volta). Non ci conosciamo personalmente, ma mi dichiaro suo ammiratore. Mi guarda per un istante e nasce immediata una forte corrente di simpatia reciproca. Decide allora di farmi una dedica e immediatamente prende la penna. Poi ci ripensa e crea un bellissimo disegno. È la testa di un indiano irochese che porta al lobo dell’orecchio sinistro un curioso pendaglio, una medaglia con inscritto il segno del doppio triangolo incrociato: la croce di Geova con, all’interno, l’effige di un agnello.

«È la simbologia di re Salomone,» mi dice Pratt. «Gli Irochesi l’avevano appresa da un esploratore esperto di filosofia ermetica.»

Finito il disegno, mi consegna il libro, mentre la mia faccia assume probabilmente le sembianze dello stoccafisso. La mia sorpresa infatti è grande. Da dieci anni porto al collo una medaglia con inciso lo stesso simbolo tratteggiato da Hugo. Non ci eravamo mai incontrati, prima. La mia camicia era chiusa e quindi non aveva alcuna possibilità di scorgere il mio portafortuna, dono di un vero e proprio sciamano napoletano che di mestiere fa il direttore di banca e nel tempo «perso» il sensitivo.

A questa «combinazione» hanno assistito l’operatore RAI, Paolo Mattei, redattore dell’«Avanti!» e Alessandro Rosati, programmista presso il DSE.

Gli strali dell’avversa fortuna

Nel momento in cui siamo attoniti di fronte all’ennesima tragedia sismica, spero solo che ci siano risparmiate le invettive reciproche tra opposti schieramenti politici.

Deve rimenerci impressa una frase proferita da una signora, in prima mattina, sola, vicino ai nipoti e senza casa: “Adesso che faccio io? Mi aiutate?”.

In un vero consesso umano, una frase simile non sarebbe mai stata pronunciata.

Questo è il punto.

La cosiddetta società materialista ha reso tutti soli. Ad oltre 900 anni dall’Umanesimo c’è da rimeanere perplessi di fronte alla solitudine di chi subisce “gli strali dell’avversa fortuna”.

Nell’Interiorità di Anima — “Cielo che incontra terra”…

Cielo che incontra terra

Conosci la verità in te, conosci te stesso nella verità: ed ecco! in quel momento, con tua meraviglia, riconoscerai nel tutto e in ogni singolo, proprio nel luogo che ti circonda, la patria a lungo cercata invano e appassionatamente sognata: QUI IL CIELO SI INCONTRA CON LA TERRA.

Arthur Schopenhauer, Manoscritti 1804-1818, 17-1812, in Breviario, a cura di Carla Buttazzi, Milano, Rusconi, 1996, pag. 35

Possibilità

Nella vita ci capita come al viandante: man mano che avanza, gli oggetti per lui assumono una forma diversa da quella che avevano in lontananza, ed è come se al suo avvicinarsi mutassero aspetto. Ciò accade soprattutto coi nostri desideri. Spesso troviamo qualcosa di completamente diverso, migliore di quello che cercavamo; spesso troviamo la cosa cercata, ma per vie completamente diverse da quella invano battuta all’inizio. E dove noi cercavamo piacere, felicità, gioia spesso troviamo illuminazione, consapevolezza, conoscenza – un bene duraturo, autentico, al posto di uno fuggevole e apparente.

Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena vol I – Parerga, 492-1850, in Breviario, a cura di Carla Buttazzi, Milano, Rusconi, 1996, pag. 187 

Porto XIII

Aurelio è l’erede al trono bretone e ha visto una terribile strage compiuta dai feroci Sassoni. Vuole allora erigere un monumento imperituro alle vittime. È il V secolo d.C. e, come al solito, chiede consiglio a Merlino.

«Come posso creare una sepoltura che sfidi i secoli e testimoni per sempre il sacrificio di questi disgraziati?» domanda al mago.

«Manda qualcuno a cercare il Balletto dei Giganti a Killaraus in Irlanda. Lì esistono pietre che potrebbero servire al tuo scopo,» risponde Merlino.

Centinaia di uomini partono per l’Irlanda, trovano il Balletto, ma non riescono a spostare di un solo centimetro le immani rocce che in cerchio delimitano la zona dei Giganti. Tornano da Aurelio che a sua volta chiede ancora aiuto al Gran Sapiente.

Merlino con un incantesimo fa volare le rocce dall’Irlanda fino alla grande piana di Stonehenge.

Questa storia è raccontata nel 1140 da Goffredo di Monmouth nella sua Storia dei re di Bretagna ed è il primo testo in cui si menziona l’anello di pietre che da allora ha appassionato studiosi di tutto il mondo e di tutti i secoli fino a noi.

Finché, nel 1965, Gerald S. Hawkins scopre, dopo interminabili studi combinatori e interdisciplinari, che l’anello di rocce megalitiche di Stonehenge è un immane calendario astronomico e astrologico.

Probabilmente serviva a scopi rituali, ma non è possibile stabilire di quali riti si tratti. Insomma, non si è poi fatta molta strada dal 1620, quando Inigo Jones, architetto della corte di re Giacomo I, annotava: «Si tratta di un tempio, ma i riti che vi si officiavano sono del tutto a noi nascosti».

«La sacralità cerimoniale del rito nasconde se stessa agli occhi dei profani e senza una chiave d’interpretazione non si penetra in essa.» Così scriveva Zum Thurm, alchimista, e le sue parole, com’è evidente nel caso di Stonehenge, sono sempre valide.

Disquisizioni sulla Bimbola (e Bimbolo) 2

Quando vi leggo sul forum, bevo.

Come un viandante l’acqua.

Come un ristoro nei sogni veridici.

ComeAnnachiara quando guardano la loro mamma.

Quando vi leggo fluisco.

(E’ il regno di Bimbolanda)

Disquisizioni sulla Bimbola (e Bimbolo)1

Marina:…la vera speranza è ritrovare il BIMBOLO che è in noi…

Gabriele: E’ una delle ricerche. Per te il Bimbolo-Bimbola che caratteristiche ha? (domanda per tutti: e solo aggettivi)

La Grande Madre — Dove una fanciulla arriva determinata nella città di Chinon…

Giovanna d’Arco e la torre della “sapienza” dei Templari.

Che cosa non sembra splendido a diciassette anni? La città di Chinon, a sudest di Tours, in Francia, è bella in sé, con il suo borgo bianco e i tetti che cangiano in oro sotto il sole. Il castello domina l’abitato con le sue tre torri capaci di resistere a qualsiasi attacco. La più alta misura venticinque metri e guarda imponente per oltre quindici chilometri tutta la contrada. La sommità è larga più della base a testimoniare che quello è un luogo adatto al re. La cima sembra infatti una corona gigantesca che si erge sulle case degli uomini a simbolo del potere.

Una ragazza guarda rapita, non ha mai visto nulla di così eccitante. Trattiene il respiro e quindi si lancia al galoppo. Almeno per quanto è nelle possibilità del suo ronzino. Però a lei sembra un destriero alato, un ippogrifo adatto a mitici cavalieri, a Lancillotto e – perché no? – ad Artù in persona.

Le sembra di volare fino alle porte della città, dove due guardie le sbarrano il passo senza neppure proferire parola. Nessuno che venga dalle campagne può entrare. C’è la guerra con gli inglesi e inoltre numerose bande di tagliagole scorrazzano per la campagna seminando il terrore. Il paese vicino è stato messo a ferro e fuoco nel mese di febbraio e gli abitanti sono stari tutti seviziati, torturati e fatti a pezzi. Si dice che gli assassini siano riusciti a entrare grazie a una ragazza che si era infiltrata nel paese. Di notte sembra che sia riuscita ad aprire le porte per far entrare i suoi compari. Poi la strage.

Ecco perché gli armigeri sono vigili. Con lo sguardo severo chiedono all’esile contadina dove sia diretta. Non è neppure giorno di mercato e quindi non ha nessun motivo per giungere a Chinon.

«Vorrei essere portata…» mormora l’adolescente, ma non fa neppure in tempo a finire la frase che viene interrotta bruscamente da un cavaliere che intanto è sopraggiunto dalla sua stessa strada. È armato in modo pesante e accanto a lui sono due scudieri e un sergente. Non portano insegne nobiliari. Quindi sono isolati, sono delle spade in vendita. Di questi tempi per gente come loro non e difficile trovare lavoro. Basta offrire “il giusto” che sguainano l’arma, non importa contro chi, l’essenziale è avere la borsa e la pancia piene.

«Fatti da parte contadina!» urla l’uomo d’arme, inveendo con turpiloqui e bestemmie contro la ragazza. Quindi sbotta in una risata colossale, in coro con i suoi tre compari e le guardie di sentinella al portale. Sghignazzano e guardano quella ragazzetta vestita di stracci, con una ghirlanda di fiordalisi intorno alla testa. Si aspettano che fugga via in lacrime. Per la verità nella testa del sergente sta anche balenando la gustosa idea di prenderla, riversarla sulla sella e usarla per un paio di notti, quando, ormai stanco di bevute, avrà voglia di violentare qualcuno.

E infatti la ragazza si fa subito sentire. Ma il suo non è né un pianto, né una supplica. È un comando tagliente, proferito con voce limpida e implacabile. «In nome di nostro Signore, perché bestemmi? Tu che sei tanto vicino alla morte?» Lo stupore che si stampa sul viso del guerriero è immenso. La guarda attonito. Si volta e scorge che anche gli altri la guardano allibiti. C’è un minuto di silenzio, poi risuona una risata fragorosa, immane, cavernosa, sguaiata. È il blasfemo che sta prorompendo in sghignazzi senza freno. Ride come mai nella sua vita. Una donna ha osato rispondergli e l’ha persino redarguito. Non sa che cosa l’aspetta.

Immerso in quei pensieri non si accorge però che il suo cavallo sta indietreggiando proprio verso il piccolo fiume che costeggia l’abitato e che serve ad alimentare le risorse idriche del castello. Non fa caso quindi alla paura del suo destriero, infastidito forse da quel selvaggio scoppio di ilarità del suo padrone, di cui teme da tempo frusta e staffile. No, non si accorge di nulla quel cavaliere, che perciò non riesce a muovere un dito, quando il suo quadrupede precipita lungo le ripide sponde. Fa in tempo soltanto a pensare “strega maledetta!” allorché le acque si chiudono in un baleno su di lui, appesantito com’è dall’armatura. A morire con l’acqua nei polmoni ci metterà invece qualche orrido minuto. Ma nessuno da sopra ha fatto in tempo a intervenire. Uomo e quadrupede sono spariti in un soffio, come risucchiati da una forza sotto le acque.

Sergente, scudieri e vigilanti pensano tutti la stessa cosa: «È stato preso dalla mano del demonio». Quindi con molta cautela sbirciano la ragazza che li fissa, uno dopo l’altro, con occhi fiammeggianti. È rimasta immobile e non mostra alcuna curiosità per il destino del soldato. Non sarebbe stato necessario, comunque. Infatti un gorgo si delinea nel fiume e la corrente erutta l’uomo e il suo cavallo, cadaveri. Il cavaliere è agganciato dai servitori che lo trascinano a riva. Gli tolgono l’elmo spinti da un’irragionevole speranza. Ma subito si ritraggono inorriditi. Sono bastati pochi minuti e alcuni pesci, solo Dio sa come, si sono infilati tra le grate del cimiero e hanno fatto scempio del volto. È lo stesso sentimento che provano tutti gli altri armati mentre osservano la ragazza immobile che, riprendendo il discorso interrotto dieci minuti prima dal sopraggiungere dei mercenari, dice: «Vorrei essere portata al cospetto del Delfino, da Carlo. Vengo da Domremy e sono diretta, se nostro Signore Gesù Cristo lo vorrà, a Orléans».

Inizia così, il 9 marzo del 1429, la storia di Giovanna. Ragazza di diciassette anni che si reca in abiti da contadina alla dimora del Delfino di Francia, legittimo erede al trono, che non può divenire re perché suo padre Carlo VI è pazzo e lui non può succedergli per l’avversione di nemici implacabili che gli negano un diritto legittimo.

Gli inglesi e i borgognoni sono infatti alleati contro la corona francese e dominano di fatto quasi tutto il Paese. Nessuno può aiutare il giovane Carlo, il Delfino, che con il tempo si è lasciato andare a lascivie e dissolutezze. Ben aiutato in questa strada in discesa dalla madre Isabella di Baviera, la cui condotta è così scandalosa che i suoi contemporanei, quando devono insultare una ragazza dai facili costumi le dicono “sei proprio un’Isabella!”. In simile compagnia di prostitute e sicofanti, il Delfino trascorre i giorni sciupando giovinezza e salute. Per metterlo sul trono occorre soltanto un miracolo. Forse sarà stata una segreta preveggenza, forse una voce interiore, forse curiosità o presentimento. Chissà. Certo è che Carlo accetta di parlare con la giovane. Ma non basta. Dopo pochi giorni le affida quel che rimane dell’esercito francese per consentirle di andare a riconquistare Orléans presidiata da fortissimi contingenti inglesi.

Lei andrà, vincerà e metterà Carlo sul trono.

Tutte le storiografie ufficiali raccontano questa storia. Chiara e nitida.

Eppure a ben guardarla, o meglio, a osservarla tra le pieghe, tra un filo e l’altro del tessuto, si scoprono colori e ricami impensabili.

È la trama simbolica del mistero.

Primo interrogativo. Come è possibile che una piccola contadina diciassettenne riesca a parlare a un re? Il problema, oltre che di accesso alla persona, è anche di linguaggio. Infatti nelle campagne di Francia si parla un idioma completamente diverso da quello di corte. Una sorta di slang pressoché incomprensibile per la nobiltà.

Se Giovanna riesce a farsi capire, vuol dire che qualcuno le ha insegnato come esprimersi e cosa dire. Ma chi?

Domremy, il paese da dove lei proviene, nella prima metà del quattrocento è poco più di un ammasso di casupole. Il contado vive dovunque un’esistenza precaria e qui, se possibile, ancor peggio. Perché c’è una guerra secolare e nei campi sono passate orde di sbandati e di eserciti regolari, che di regolare hanno solo la continuità della propensione al saccheggio. In questo quadro risulta francamente impossibile credere che un mezzadro abbia trovato i denari per istruire la figlia. Poi non è neppure questione di soldi ma di tempo. Le ore della giornata sono poche per chi deve badare a tutto, dalle bestie all’orto. Per una donna le afflizioni si raddoppiano. E allora? La ragazza non ha avuto né ricchezze, né tempo per imparare come sostenere un dialogo con il legittimo erede alla corona.

Ma non è che l’inizio delle incongruità. Ecco subito un secondo interrogativo. Che cosa dire, sul piano della pura logica, di un’adolescente messa a capo di un esercito? Già oggi sarebbe un evento straordinario, cinque secoli fa era addirittura inimmaginabile. Anche perché gli armati erano sempre e comunque comandati da nobili. Matilde di Canossa aveva già diretto le sue truppe, ma era l’erede legittima delle sue terre ed era ben più avanti con gli anni. Tutta la vicenda è illogica, a meno che non venga interpretata con un’altra forma di razionalità per scoprire elementi nascosti nella vicenda e il disegno simbolico che ne traspare.

Per cominciare a svelare la filigrana occorre mettere ordine nelle date.

Il 9 marzo Giovanna si reca davanti al suo re, dopo aver assistito alla morte del mercenario blasfemo. Il problema è appunto di ordine temporale. Lei è già stata a Chinon, ma il giorno prima, esattamente l’8 marzo. È stata rinchiusa come una povera pazza nella torre più alta del castello. È stato Angelo Quattrocchi, autore di un fortunato libro sulle città misteriose in Europa, a ipotizzare per primo lo sfalsamento delle date. Il problema non è secondario, sebbene possa sembrare ininfluente che Giovanna sia stata a Chinon l’8 o il 9 marzo. E invece cambia tutto. Perché la ragazza riesce a farsi capire soltanto “dopo” essere stata rinchiusa nella fortezza. Passa presumibilmente la notte al buio e al chiuso, quindi viene cacciata. Subito dopo si ripresenta e, l’abbiamo visto nel precedente racconto volutamente romanzato, non è più la piccola invasata di appena poche ore prima. È determinata e ha il potere di preveggenza e di discernimento. Tanto è vero che quando è portata davanti alla corte si rivolge direttamente a Carlo, che si era travestito come un nobile qualsiasi e aveva fatto mettere un altro cavaliere al suo posto vestito con tutte le insegne reali. Eppure Giovanna non esita un solo istante e si mette direttamente di fronte al Delfino. Poi inizia a parlare nel silenzio generale e chiede un’armata da mettere al suo comando. E qui le fonti concordano tutte: nessuno ride. Incredibile! È come se ai nostri tempi una bambinetta davanti al Congresso chiedesse di essere messa a capo dell’esercito statunitense. Ammettiamo pure che riuscisse a formulare la richiesta, vi immaginate gli sberleffi? E invece a Chinon la corte, composta di nobili rotti a tutto, rimane muta. Non è poi così astruso supporre che da quella donna emanasse un fascino assoluto. Eppure fino a un giorno prima era una contadina qualsiasi che viveva serena nei campi. È evidente che le è accaduto qualcosa di incomprensibile alla mente razionale. La risposta più immediata è: un miracolo. Ma questa parola vuol dire, tra l’altro, “degno di essere mostrato”. Ma qui invece tutto è celato e nascosto ermeticamente.

Vediamo di porre ordine. Fino a ventiquattr’ore prima Giovanna è una ragazza comune, altrimenti gli storiografi avrebbero parlato di eventi eccezionali già in periodi antecedenti a Chinon. E da “normale” si reca alla città del re. Parla una lingua “popolare” e quando chiede di vedere l’erede al trono viene rinchiusa nella torre, come capitava a tutti i “folli” dell’epoca. Non tanto per vessarli, quanto per renderli un poco mansueti. Poche ore ed ecco che parla addirittura l’idioma dei monarchi, riconosce Carlo in mezzo a mille e diventa capo dell’esercito.

Cosa è accaduto tra il prima, Giovanna contadina, e il dopo, Giovanna sapiente? In mezzo c’è soltanto una cosa, grande e grossa come una casa, anzi più di una casa.

È la torre.

All’interno di questa costruzione deve essersi verificato un evento eccezionale. Una trasformazione da un modo di essere a un altro modo di essere. Una morte simbolica per una rinascita altrettanto simbolica. Una sorta di rituale presente in ogni forma di religione misterica, la morte a se stessi e la rinascita a un altro sé. Morte e resurrezione.

Ma torniamo alla torre di venticinque metri. Chiunque si rechi a visitarla, e io ci sono stato su consiglio dello stesso Quattrocchi che ho già citato, può vedere la cella dove è stata rinchiusa Giovanna. Il punto è esattamente questo. Nello stesso ambiente, nel 1308, sono stati rinchiusi alcuni Cavalieri Templari accusati di stregoneria e di magia. Sulle pareti sono incise cifre graffite di senso oscuro e forse il nome del loro maestro, De Molay. Qui la giovane ha subìto la metamorfosi. Come e perché non è dato sapere. Ma certo la contadina si trasmuta nella donna “di sapere”.

Dopo quella notte ottiene tutto e mantiene tutto quello che promette, o meglio, che “vede”. Con truppe esigue prende Orléans e vince gli inglesi, poi rimette il legittimo pretendente sul trono e fa della Francia una nazione libera. Un tradimento mefistofelico la fa cadere in mano dei borgognoni che poi la “vendono” agli inglesi che la mandano al rogo. Come “strega”. La stessa accusa che portò i Templari a essere arsi vivi.

La stoffa sul telaio lascia intravedere il suo ricamo. La torre ha custodito i segni dei Cavalieri Templari, la torre ha donato la sapienza a una contadina. La torre ha agito forse come forno alchemico, come momento di trasmutazione, di ri-creazione.

Ecco il simbolo che si cercava, il forno magico.

Forse tutta la vicenda vuole condurre al riconoscimento di questa valenza ermetica. Ma rimane ancora qualcosa da dire.

Quando Giovanna va diritta davanti al re, un cavaliere si stacca dagli altri cortigiani e si mette al suo fianco. Da quel momento starà sempre con lei, fino alla sua cattura. Poi si ritirerà nelle sue proprietà dove sarà prelevato nove anni dopo dalle guardie del clero. Sarà arso vivo, anche lui con la medesima accusa dei Templari e di Giovanna: stregoneria. Quel cavaliere era Gilles de Rais, letterato e artista, meglio conosciuto come Gilles il mago.

Ecco un altro disegno che è apparso sulla tela: un mago che si mette al servizio di una donna. Che le riconosce autorità e potere. Quindi era un mago che si sottometteva al Femminile. È un altro elemento di questo disegno che sembra una normale vicenda miracolistica e che invece possiede molti caratteri ermetici che gradatamente sono emersi allo sguardo sottile. E non è ancora tutto.

Lo storico anglosassone Geoffrey de Monmouth afferma che il mago Merlino un giorno profetizzò: «Una stupenda pulzella verrà da Nemus Cenetum per salvare le nazioni». Ebbene, sapete come si chiamava il bosco che circondava Domremy, il paese di Giovanna? Nemus Cenetum.

Il telaio ha rivelato un’altra trama, oltre quella manifesta.

Mi sono soltanto permesso di evidenziarla, e così farò anche in seguito.

 

 

Bibliografia consigliata

 

Su Giovanna d’Arco e il rapporto con la cosiddetta torre dei Templari vedi Elizabeth Pepper  John Wilcock, Terre e città di magia in Europa, Vallardi, 1991.

Porto XII

Il mito di Dioniso e il suo culto è uno dei più profondi e in assoluto insondabili che l’uomo abbia mai creato. Il dio, originario della Tracia e poi portato in Grecia, è contemporaneamente un giovane bellissimo, un fanciullo radioso e il Minotauro che tutti sbrana.

Un misto, dunque, di assoluto bene e assoluto male. Il «più» e il «meno» coesistono. Quando Jung parla di «ombra» che ogni uomo deve riconoscere in sé, non fa altro che riproporre a livello umano quanto era stato affermato a livello divino nel culto di Dioniso.

II significato è comunque lo stesso: il dio è Luce e Tenebra e cosi anche, su scala minore, l’uomo che è il suo derivato. Noi siamo, insomma, anche la nostra ombra. Non riconoscerlo, significa castrare una parte di noi stessi ed essere per sempre uomini a metà. Ne consegue che bisogna diffidare di tutti coloro i quali pretendono di portare esclusivamente alla luce assoluta o alle tenebre totali. Vogliono condurre al dimezzato, alla disarmonia, all”incompiutezza, cioè alla metà della forza, perché è molto più facile dominare persone realizzate a metà.