UN GRANDE AMORE, IL TEMPO E LA GIOVINEZZA.
DUE SCOMPARSE MISTERIOSE
(Parte V)
II conte ne ha visti tanti di volti come quello. Inizialmente tracotanti e progressivamente impauriti, fino al terrore. Con il moltiplicarsi delle stoccate l’angoscia si impadronisce del morituro. Perché si tratta proprio di questo. Della presa di coscienza della morte. E sì che il conte non vorrebbe. Ma gli eventi lo spingono sempre nella stessa direzione. Per proteggere il suo segreto è costretto a uccidere. Anche ora quel Veniero comincia a terrorizzarsi. La sua spada è più lenta. II braccio meno fermo. Lo avrebbe potuto uccidere da molto. E ha sempre fatto così. Per abbreviare le pene dei suoi rivali, normalmente affonda deciso e la vita è subito spenta. Dalla lama. Qualcosa però lo trattiene. Non è per proseguire l’agonia dell’avversario. II conte non ha queste meschinità nell’animo. Diversi pensieri imprigionano la sua mente. Gli anni sono passati setacciando i sentimenti minimi, le meschinità, le tracotanze e hanno lasciato una visione ampia, riposata e tragica. Un destino apparentemente ineluttabile lo imprigiona. Ora come sempre. Da quando ha compiuto quegli studi di alchimia con un maestro imperscrutabile.
Accadde allora. In una Praga senza tempo si fermò ogni cosa. Si ricorda ancora la faccia stupita del grande mago. Per meravigliarsi lui! Il conte aveva trovato la soluzione a una formula impossibile. Un segreto che doveva evidentemente rimanere tale. Averlo svelato gli procurò immediatamente una forza straordinaria e con essa una camicia di Nesso da cui tuttora gli è impossibile liberarsi. Pensare che al momento gli sembrò una benedizione. II sapiente praghese capì invece subito tutto.
«Hai studiato tanti anni,» disse, «e ora che sei giunto alla maturità hai fatto questa scoperta che arresterà tutto. Che la divina armonia ti assista!»
Nello studio il silenzio era totale. La verità è che il conte non capì subito le conseguenze del disvelamento del «grande mistero». In seguito però soffrì come una bestia. Città, amici, amori, affetti, case, carriere. Quante volte ha avuto tutto ciò per essere poi costretto ad abbandonarle? Cinque, dieci? Troppe.
II Veniero crede per un attimo, dato che il conte è assorto nella spirale dei ricordi, di potercela fare e decide di affondare, di osare il tutto per tutto.
Raccoglie ogni stilla di energia, tutti gli empiti dei muscoli e dei tendini.
Gira un attimo a destra come se stesse per perdere l’equilibrio e invita il conte ad affondare. È un trucco. Come l’altro tirerà la stoccata, lui si riprenderà e colpirà diritto sotto il cuore. Inevitabilmente l’altro obbedirà all’istinto e tenterà di chinarsi in avanti di poco, quel tanto che gli farà penetrare il ferro al centro del cuore. Un colpo fatale. Il corpo del Veniero è pronto.
In quell’istante il cielo si apre. La nebbia è spazzata via e Donata dal mare vede lo spasmo del giovane. Intuisce che sta per accadere qualcosa di spaventoso. II torace del suo uomo le appare totalmente scoperto, indifeso, vulnerabile. Intuisce l’irreparabile. La sua bocca vorrebbe gridare, avvertire il pericolo, ma la lingua si rifiuta di obbedire. II suo fisico sta per cedere. E cosi le barriere psicologiche che l’avevano protetta si abbattono e torna alla coscienza quel particolare rimosso della sera precedente, quella dell’offesa.
Quando il Veniero lo ha insultato, il conte ha detto tra le labbra una parola. Ecco, i ricordi si affacciano. Visivamente la scena si ripropone. Come al rallentatore. Dilatata nel tempo. La bocca del suo bene sta pronunciando un nome. Ma quale? Sì, sono poche sillabe.
«Pepo»: ha sussurrato questo nomignolo.
Il cuore sembra fermarsi nel petto ansante di Donata. Un ghiaccio tormentoso l’avviluppa. Quel «Pepo» è il nomignolo del Veniero da piccino. Lei giocava con lui, per questo lo sa. Ma come lo conosceva il conte?
Non è questo interrogativo a martoriarla. È un altro ricordo a straziarla. Rivede una scena di molti anni prima. Ritrova se stessa bimbetta che rincorre per il suo palazzo romano il «Pepo», appena giunto da Venezia. Lo insegue per androni e stanze, perché le ha rapito una bambola alla quale sta strappando i capelli. Lei piange, si dispera, lo supplica di restituirle il suo tesoro. Lui niente, la deride, si ferma e, come sta per essere raggiunto, scatta in avanti. Crudele già allora. L’inseguimento si protrae e a nulla valgono le sue suppliche di bimba. Finché il ragazzino va a sbattere contro le gambe di un uomo che è appena sopraggiunto.
«Non farla soffrire,» dice il nuovo venuto.
Dio, quella voce. Una sofferenza indicibile entra nella testa di Donata. Ora sa tutto. In piedi sulla gondola è diventata come una statua di dolore. Rivede tutto. Eccola in quel corridoio. Si sente protetta. Qualcuno è intervenuto finalmente in sua difesa contro quel suo perfido compagno di giochi. Alza la testa riconoscente verso quel signore pietoso. Così la bimba vede il volto bellissimo che da allora ha sempre rimosso. Ora lo riconosce. È lui, il conte. Identico a come è adesso. E sono passati più di vent’anni.
La Stati si porta le mani al petto davanti all’isola di Torcello. Sa tutto. Quello che il Veniero ha detto è vero. II suo uomo non invecchia. È eterno. II suo nobiluomo è il conte di Saint-Germain, ed è immortale.
Sempre in quel preciso momento l’uomo che non può invecchiare e che odia se stesso da quando ha scoperto il segreto di Faust vede avanzare la lama del Veniero e decide di non voler più fuggire. Non sopporta di vincere anche questo confronto, né di tornare dalla sua amata e di vederla, anno dopo anno, invecchiare inesorabilmente mentre lui rimane immutato. Giorno dopo giorno fino all’immancabile funerale. Ha visto morire mogli, figli. Ora basta. Implora con tutta la violenza, in completa sincerità di essere sciolto da quella gabbia in cui la sua vanità e la sua arroganza l’hanno rinchiuso da secoli.
Una preghiera sottile, abbandonata, gentile, vera, assoluta sale nello spazio, valica i tempi e raggiunge l’armonia sottesa a tutte le cose. È una supplica sublime che non ha bisogno di parole, per questo è accettata.
La lama del Veniero raggiunge il petto di Saint-Germain. Si apre un varco terribile. Offende la carne e lascia in eredità la morte. La preghiera ha raggiunto le orecchie giuste.
II conte si porta la mani al petto, il sangue sgorga copioso. Indietreggia verso l’attracco delle barche. Si volta a cercare ancora una volta il viso della sua Donata. Lo trova. È sempre bellissimo. È l’ultima cosa che vede prima di cadere in acqua.
Ora sì che la voce può uscire dalla bocca della Stati. È un urlo. Un lamento gridato con tutte le energie. È uno spasmo vocale che attira l’attenzione e la pietà di tutti. Dei padrini, del gondoliere, dello stesso Veniero. Ogni essere si ferma per osservare quello strazio.
Donata vede il suo uomo sprofondare. Lo cerca con lo sguardo sotto i flutti. Un’intelligenza segreta le ha fatto intuire tutto. È la fine. Non resiste più. Un’occulta misericordia la fa svenire e l’accompagna fuori dell’imbarcazione. Nel mare. E la fa sparire.
A nulla valgono le ricerche sia dell’uno che dell’altra. Si dragano le acque per tutto il giorno e la notte. Poi anche durante quelli successivi. Inutilmente.
Gli amanti non saranno più trovati. Qui finisce la leggenda del conte di Saint-Germain che per amore ha sacrificato l’immortalità e della sua compagna Donata Stati, detta «colei che dona».
Questa è la storia che sull’Hermes abbiamo sentito raccontare. Ma soltanto ai naviganti del vascello senza tempo è possibile ascoltare una confidenza di un pescatore di un isolotto perso nel mare. Lontanissimo da Torcello. Narra per la prima volta di vicende senza senso. Di un uomo ferito e di una donna bellissima raccolti dalle acque dove miracolosamente galleggiavano e di come siano rimasti con lui per anni, occupandosi di cose umili, ma in letizia. Felici come nessuna coppia.
E dice ancora di come siano morti nello stesso giorno e del loro riposo in pace nello stesso letto.
Appunto una storia semplice e priva d’interesse. Per tutti. Tranne che per i viaggiatori del veliero che solca i mari dei secoli.
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Allora, Prof, non è poi così pericoloso arrivare all’orecchio di Dio…
Grazie. Grazie. Grazie.
MArina, grazie, grazie, grazie, grazie.
Del libro, che mi pregio di possedere, questa storia è quella che ho letto tutta di un fiato… Parla di un amore che solca i confini del tempo e che vede i due, in un modo o in un altro, uniti per sempre… Quel famoso Uno in due… che, secondo me, solo un “grande Amore” riesce a far ri-unire…
E mi vengono in mente le parole dei due amanti, Pellèas e Mèlisande (lei, Mèlisande, era sposata con il fratello di Pellèas, Golaud, ma l’Amore vero non sempre è legato al matrimonio…):
Tu mi ami?….Da quando?…Da sempre…dal giorno che ti ho visto!…In che modo lo dici! Come se la tua voce avesse navigato il mare in primavera!… Non ho mai udito la tua voce prima…è come pioggia nel mio cuore! Me lo dici così apertamente, come risponderebbe un angelo! Non posso crederci, Mèlisande, perché dovresti amarmi?… La tua voce! Fresca e chiara come l’acqua, fresca acqua sulle mie labbra…sulle mie mani…Ho cercato ovunque…non sono riuscito a trovare la bellezza! Tu sei così bella! … E’ come se tu morissi! … Anche tu! … Il mio cuore si soffoca… le stelle cadono giù… Anche su me, anche su me!
Sono le ultime parole dei due perché Golaud uccide Pellèas e, da lì a poco, anche Mèlisande morirà (ho appreso, e poi approfondito, di questa storia dal libro “sofferenza e bellezza” di Eva Loewe, sublime!). Questa vicenda mi richiama da vicino un altro racconto, a cui sono particolarmente legata visto che è ambientato nella mia magica Acitrezza, quello di Aci e Galatea…
Sono storie che si impongono con forza, che indicano come l’Amore sopravvive alle avversità della vita e, fortunatamente, ci sono anche situazioni in cui si ha quel tocco divino di riconoscere la propria metà e di viverla. Non credo che capiti a tutti e con tutti. Se gli dei e la provvidenza sono clementi capita una volta nella vita, o al massimo due, ma ne vale la pena! L’Universo, negli occhi della persona amata, si ferma, si è un tutt’Uno … è Psiche, elevata al rango di dea, dopo aver superato le varie prove ed essersi ricongiunta al suo Eros…
A distanza di qualche anno questo racconto mi fa sempre lo stesso effetto.
Ci sono dei tratti del personaggio del conte di Saint-Germain, che, non so perché, forse per la gentilezza, mi hanno fatto sin dall’inizio pensare a te, Gabriele. E forse anche tu lo senti.
Anch’io, come Marina, mi pregio di possedere questo libro e anch’io sono rimasta affascinata da questa storia perchè in fondo ognuno di noi vorrebbe incontrare l’Anima Gemella ma…. non sempre c’è un lieto fine, a volte ci si distrugge a vicenda… Sono d’accordo con Cristina, nel conte ho rivisto il colore degli occhi di Gabriele.
Struggente, affascinante, meravigliosa, intrigante, dolcissima storia d’amore (ho ordinato questo libro che è uno dei pochi tra i suoi che non posseggo, ma la mia libreria di fiducia ancora non me l’ha ricuperato). Va oltre, oltre il tempo, oltre il cuore, oltre l’amore. Ci trasporta nell’umidità dell’aria, nel calore dell’amore, nella magia che io so, in qualche modo è in tutti noi … e che così tante volte io ho nascosto, fingendo che non fosse successo nulla (reminiscenze della mia memoria, forse mi dicono che in realtà siamo già stati qualcun altro … eppure a volte ne ho paura – sebbene “l’opposto della paura è l’Amore” ed è molto bello averne tanto da regalare …. continuando per citazioni è vero pure che “nessun libro ci giunge per caso” e i suoi libri che ho iniziato a conoscere quando per caso (sempre che il “caso” ci sia) ho incontrato la trasmissione anima e sono rimasta affasciata da “ANIMA” ……….. Grazie, infinite grazie per le sue meravigliose PAROLE.
Bimba-Susi, con gli occhi di MALIA…
……Noi siamo gente avvezza alle piccole cose umili e silenzione……..
(…e languide, e dolci, e tenere, e abbandonate, e liquide, e sorridenti, e rilucenti, e…)