La cittadina si trova esattamente a novantasei chilometri da Parigi. È tutta strade incassate, con improvvise aperture su facciate policrome, che si rincorrono a comporre un mosaico medievale restituito immutato dal tempo. Eppure è come se non esistesse. È come risucchiata dalla cattedrale. Esiste solo e soltanto lei: nelle immagini pubblicitarie, nei libri d’arte e nella memoria delle persone che qui giungono esclusivamente per ammirarla, fotografarla e studiarla. Ed è giusto che sia così. Perché il tempio colpisce con una sua forza interiore. È lì come a dire: «Hai mai visto niente di più assoluto?».
Ci sono mille chiese più grandi, ci sono mille costruzioni più imponenti, ci sono mille vestigia più antiche, ma forse nessuna respira di vita propria come questo edificio, che sembra rimandare ai reconditi significati nascosti tra gli anfratti fisici e psichici di ciò che appare. Sì, c’è l’architettura, ci sono i dipinti, le vetrate, le sculture, ci sono gli archi e le volte. Ma tutto è quasi insignificante rispetto alle sotterranee eloquenze che questa “casa dell’altrove”, come ebbe a dire François Chatelet, sembra proprio emanare da sé.
Le troupe della RAI, a parte Lavoretti, sono disincantate. Hanno visto di tutto, sono andate ovunque. Quindi non sono facilmente emozionabili. Eppure i quattro che erano lì con me rimasero un attimo interdetti di fronte a questo enigma di pietra lanciato attraverso i secoli come un rebus da decifrare. Un attimo, il loro stupore durò solo un attimo, ma bastò per farmi capire che non ero l’unico questa volta a provare strane sensazioni.
Eravamo però soltanto all’inizio.
Avevamo tutti i permessi possibili e immaginabili – la burocrazia è uguale in ogni paese – e quindi iniziammo a girare il nostro documentario.
Eravamo arrivati il 15 giugno e per sei giorni lavorammo senza interruzione. Riprendemmo anche quella che viene definita da tutte le guide del mondo, in tutte le lingue, la più divertente curiosità della costruzione. La famosa “pietra baciata dal sole”.
Infatti all’interno, nella navata laterale ovest del transetto sud, è ben visibile una pietra rettangolare, incastrata di sbieco rispetto a tutte le altre. E bianca, mentre il muro attorno è grigio scuro, ed è incorniciata da un metallo color oro. Tra le 12,45 e le 12,55 del 21 giugno, il sole si affaccia dalla vetrata di saint-Apollinaire e un suo raggio si incunea puntualmente, da quasi novecento anni, attraverso una minuscola apertura quadrata nell’immensa composizione dei vetri e va a colpire proprio quella pietra bianca, che in questo modo diventa un unico, piccolo, punto luminosissimo in tutto l’ambiente in penombra.
Erano appunto le tredici di quel 21 giugno quando mi sentii toccare leggermente la spalla.
Mi voltai. Davanti a me c’era un signore sui cinquant’anni, elegantemente vestito, con un vago sorriso sulle labbra.
«Ha percepito nulla di strano?» mi chiese con aria ammiccante in perfetto italiano. Lo guardai e pensai che fosse un professore del mio paese venuto in gita, magari con i suoi studenti.
Mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo. Ma in quel momento risposi in modo affrettato e ovvio: «Be’, il raggio di sole che illuminino la pietra angolare».
«E non le pare curioso che “qualcuno”, nell’edificare questo serissimo tempio, abbia praticato un foro microscopico in una sacra vetrata e che “qualcun altro” abbia poi collocato un’unica pietra in modo asimmetrico rispetto a tutte le altre e che ancora un ennesimo “qualcuno” l’abbia quindi dipinta di bianco e incorniciata con una striscia d’oro?» «Certamente è una straordinaria curiosità.» Risposi prontamente e, devo dire, anche con una certa petulanza.
Mi guardò con aria assorta. Quindi aggiunse con un filo di voce: «Le pare davvero logico e possibile che nel 1200 chi ha edificato Chartres si lasciasse andare a dei giochini con il solo intento di lasciare ai posteri una curiosità?».
Per la prima volta mi resi conto che la mia spiegazione e quindi quelle, diciamo così, ufficiali, non erano affatto “spiegazioni”.
In effetti, pensai, qual era l’interesse vero di chi aveva predisposto tutto quel complesso meccanismo? E cosa voleva dirci attraverso i secoli?
«Bene» aggiunse il mio interlocutore «vedo che comincia a balenarle qualche dubbio. Adesso penserò io a centuplicarglieli.»
Ciò detto mi prese per un braccio e mi portò all’aperto, nella splendida luce estiva che da queste parti sembra ridipingere ogni cosa ravvivando i colori con un interiore inesprimibile sfavillio. Mi fece segno di sedermi su un gradino e mi si mise a fianco.
«Può dedicarmi cinque minuti?»
«Certamente.»
«Ottimo, mi segua attentamente.»
Appoggiai i gomiti sullo scalino superiore a quello dove mi ero accovacciato e mi predisposi all’ascolto.
«Cerchiamo di dare dei connotati a quei “qualcuno” di cui parlavo prima. Vediamo: il primo, quello che ha praticato il buco, è un vetraio, anzi un maestro vetraio di quel tempo. Appartenente perciò a una corporazione ricca, potente e temutissima nel XIII secolo. Quindi non è una persona qualsiasi. Il secondo, quello che ha messo la pietra, è un lastricatore. Di un tipo particolare, però. Del gruppo ristrettissimo che può lavorare nelle cattedrali. Chi godeva di questo privilegio doveva essere un discendente diretto di una famiglia che, da almeno dieci generazioni, lavorava nelle chiese cristiane. Dunque neppure questo signore è una persona ordinaria. Ma non finisce qui. Infatti tutti e due questi amici hanno agito alle dipendenze di una persona che conosce alla perfezione il movimento dei pianeti. Perché soltanto quest’ultimo sarebbe stato in grado di indicare l’esatto momento in cui il sole si sarebbe incuneato tra i vetri per raggiungere la pietra sul muro interno. Questi deve essere per forza di cose un astronomo. Nel 1200 si dà il caso che i conoscitori del movimento dei pianeti fossero pochissimi e stimati più degli stessi nobili. Considerati al pari degli abati e dei principi. A maggior ragione anche il nostro terzo “qualcuno” non è un uomo di tutti i giorni, anzi.»
Si concesse un attimo per dirmi: «Mi segue fin qui?».
«Perfettamente.»
«Che strano, tre maestri di quel calibro che si mettono insieme e agiscono di concerto per lasciare ai posteri una semplice curiosità. E poi, a ripensarci bene, non sono soltanto tre i nostri misteriosi amici. Occorreva infatti chi sapesse inclinare la pietra bianca in modo così perfetto che non si notasse, se non quando fosse stata raggiunta dal sole, in quegli unici momenti nell’arco dell’anno intero. E sempre costui ha fatto in modo che la parete, in cui ogni millimetro quadrato corrisponde perfettamente a un gioco di spinte e controspinte, non subisse né allora, né mai, il più piccolo danno da quel mancato allineamento. Perciò il quarto della nostra congrega doveva essere un geometra. Ma non basta. Non è affatto finita qui. È impossibile che a quei tempi un capo cantiere, per quanto stimato, non agisse che d’accordo con il suo superiore diretto. Ovvero con l’architetto di tutto l’edificio.
«Insomma i nostri creatori di curiosità erano ben in cinque. Un lastricatore, un vetraio, un astronomo, un geometra e un architetto. Cinque grandi professionalità che si mettono insieme e si accordano per realizzare un gioco. Mai sentita un’idiozia simile.»
Stavo domandandomi come avessi fatto a non pensarci da solo, quando lui riprese a parlare di getto. «Il 21 giugno, la data di oggi, corrisponde all’ingresso dell’estate, alla ritrovata pienezza della natura rigogliosa. In alchimia, la grande scienza dimenticata, corrisponde alla cosiddetta “rubedo”, cioè al recupero, a livello individuale, della piena e vera personalità, ovvero alla conquista dell’armonia. E poi c’è da considerare l’ora. Il raggio che abbiamo visto poco fa è penetrato tra le 12,45 e le 12,55. Questi minuti corrispondevano nel XIII secolo al perfetto mezzogiorno astronomico. Perché dunque i cinque professionisti, evidentemente in sintonia con tutti quelli che lavoravano a Chartres, hanno voluto così macroscopicamente sottolineare proprio le dodici del 21 giugno, o meglio, di tutti i 21 giugno di tutti gli anni a seguire? Non basta il semplice evento dell’ingresso dell’estate o anche la simbolica fase, seppur importante, della raggiunta armonia interiore rappresentata dalla “rubedo”. Ci deve essere qualcos’altro, qualcosa che era considerato da quei signori, e da tutte le centinaia di operai e maestranze, più importante del rinnovamento rituale della natura e dell’uomo. Che cosa sarà mai accaduto, a metà giornata del 21 giugno del 1200, da dover essere immortalato per sempre nella pietra
e nel vetro dai maestri edificatori della cattedrale?»
Rimasi con il fiato sospeso, perché lui si era improvvisamente interrotto.
«Lei lo sa?» chiesi precipitosamente.
«Credo di sì.»
Allora mi alzai e lo guardai come per la prima volta. Mi ero ingannato. Non era un professore. E forse non era neppure italiano, a dispetto della padronanza della lingua.
«Adesso non si chieda chi sono» disse quasi leggendomi nel pensiero, «licenzi per oggi la sua troupe e mi dedichi ancora del tempo, perché devo farle un bel racconto, come una favola vagheggiata da un vecchio…»
Si interruppe ancora un secondo, e facendosi una bella risata, insospettabile come slancio e forza, continuò gioiosamente: «…che poi non è tanto vecchio, o sì. Che ne dice?».
«Non saprei, prima mi sembrava un uomo di… di… diciamo così, mezza età. Ma ora non so davvero.»
«Già, lei credeva magari che fossi, che so, un insegnante. Vero?» e si interruppe ancora scoppiando in una risata improvvisa. Aveva capito bene il mio sconcerto. Sia per il racconto, sia per il fatto che per la terza volta sembrava indovinare le mie mute considerazioni. Ma non mi lasciò tregua. Come se avessi accettato mi prese ancora sottobraccio, obbligandomi ad alzarmi, e mi fece camminare lungo il viale che conduceva al centro del paese.
Passeggiammo per circa un’ora. Poi mi condusse dietro il grande edificio della cattedrale. Proprio davanti a un pozzo chiuso da una grande grata di ferro.
«Si dice» prese a raccontarmi «che fosse caro alle sacerdotesse druide. Che pochi sanno essere state per i celti molto più importanti dei loro colleghi uomini. Pensi, ogni anno vengono centinaia di migliaia di turisti per vedere la cripta, per la verità non così bella, e quasi nessuno si sofferma qui davanti. E pensare che di questo pozzo narrano molte leggende. E considerato un luogo di miracoli e nessuno ci viene mai. Strano, no? A meno che non si dia retta a quel detto che vuole le anime brute e ignoranti cieche e incapaci di cogliere ciò che di meraviglioso si cela nei posti particolarmente carichi di energie positive. Non si spiega che in questo modo la disaffezione dei turisti anche per il labirinto raffigurato sul pavimento del tempio e che pochissimi degnano appena di uno sguardo. Lei lo ha visto questo dedalo?»
Eccome se l’avevo visto. Era quello disegnato sul foglio datomi dalla Colombina veneziana e, mentre stavo per raccontargli l’inspiegabile episodio che già vi ho descritto, lui mi interruppe ancora. Ma senza parole. Mi fece segno con il dito indice di tacere. Rimasi interdetto. Ma mi sorrise in un modo talmente rassicurante e dolce che, pure senza comprendere i motivi per quella richiesta di silenzio, battei le palpebre in cenno di assenso. Allora mi invitò a sedermi sulla bocca coperta del pozzo druidico e, una volta assicuratosi che stavo ben comodo, iniziò a parlare.
Questo è il resoconto di quanto mi sentii dire all’inizio di quell’estate francese piena di incanti e segreti.
Bibliografia consigliata
Sulla cattedrale di Chartres e su i suoi segreti è utile Louis Charpentier, I misteri della cattedrale di Chartres, Arcana, 1972.
Sulle cattedrali gotiche è impossibile prescindere da Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee, 1972 e Le dimore filosofali, stesse edizioni, 1973.
Su Fulcanelli è intrigante la lettura di Louis Pauwels e Jacques Bergier, Il mattino dei maghi, Mondadori, 1965, pagg.122-125.
Sul rapporto tempio-magia è da ricordare sempre di Louis Pauwels e Jacques Bergier, L’uomo eterno, la storia umana alla luce della ragione fantastica, Mondadori, 1972 e precisamente il capitolo: “La musica del battello dei giganti”.
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